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Costanzo M. Turchi
Investimenti in attrezzature, impianti, edi-fici, terreni ed altri, cosi chiamati, « beni capi-tali » rappresentano sempre decisioni fra le più impegnative per l'alta direzione aziendale.
È quindi comprensibile che tanto sia stato scritto su questo argomento e tante -siano le applicazioni di vecchi e « nuovi » criteri.
Lo scopo di questo articolo è quello di esporre i fondamentali criteri di valutazione della redditività di tali investimenti e di rias-sumerne le più importanti applicazioni pratiche in un mondo — come quello aziendale -— cosi soggetto a rapidi e sostanziali mutamenti.
Mi auguro che codesto sforzo valga a ren-dere la scelta di un criterio più razionale ed allo stesso tempo meno laboriosa e diffìcile. E infatti mia profonda convinzione che ricer-catori ed analisti finanziari — sia in campo accademico che aziendale — tendano, e ciò è del t u t t o naturale, a rivestire lo stesso agnello di diversi manti appartenenti ai più « coloriti » rappresentanti del mondo animale. Ciò, natu-ralmente, aiuta sia il consulente ed il funzio-nario aziendale, che il professore universitario a far carriera per lo meno nella breve scadenza; ma d'altra parte il dirigente responsabile di tali investimenti si trova sempre più a disagio e spesso perde di vista l'obbiettivo finale.
Il pericolo è reale in molte aziende. Il dr. B. Goetz, del Massachusetts Institute of Technology, riassume il problema in modo egregio (1):
« Problemi immaginari vengono spesso inventati, problemi reali, mutilati e ciò allo scopo di fornire munizioni agli analisti. Molti dirigenti aziendali vengono scoraggiati dal-l'enorme produzione letteraria e si rendono sempre più conto che i teorici sono interessati ad esibire i loro virtuosismi matematico-sta-tistici piuttosto che aiutare gli operatori ad analizzare e risolvere i veri problemi aziendali ».
Il risultato è sempre più chiaro: l'analista scrive esclusivamente allo scopo di essere letto ed apprezzato da altri analisti e non dagli operatori aziendali e le pubblicazioni
specializ-zate in scienze organizzative sono sempre più cariche di argomenti che appaiono irrilevanti agli operatori aziendali, tanto che questi ultimi tendono sempre più ad ignorarle.
Una delle maggiori difficoltà è costituita dalla naturale tendenza del teorico ad evitare le disordinate manifestazioni di taluni problemi reali ed i loro aspetti più imbarazzanti e cosi poco « scientifici » e talora a fissare postulati troppo semplicistici.
Per dirla col dr. Goetz, molto spesso gli analisti « rifiutano di analizzare direttamente le complesse malattie del bambino e preferiscono sottoporre l'acqua sporca del bagno, nella quale lo stesso bambino è stato lavato, ad appro-fondite analisi chimiche ».
In questo articolo riassumerò i criteri più efficaci per l'analisi finanziaria dei progetti d'investimento in beni capitali, accentuando soprattutto le pratiche difficoltà ed i vantaggi relativi alla loro applicazione nel mondo azien-dale. La decisione d'investimento è infatti funzione di innumerevoli fattori quantitativi e qualitativi, aziendali ed extra-aziendali e lo strumento d'analisi deve poter riflettere tali complesse situazioni se vuole essere efficace. La funzione del dirigente preposto al finan-ziamento è quella si di considerare i risultati delle analisi quantitative, ma soprattutto quella di integrarli con le sue valutazioni qualitative. Pertanto nella mia presentazione mi sof-fermerò unicamente su criteri che hanno dimo-strato di possedere possibilità di applicazione pratica nel senso suindicato.
Iniziamo col chiarire taluni concetti che spesso sono stati oggetto di interpretazioni irrealistiche anche se teoricamente accettabili.
Durata dell'investimento.
La previsione della « Vita economica » di un investimento, rappresenta uno degli aspetti più delicati di ogni analisi di redditività. Molti
(1) Cfr. Perplexing Problems in Decisimi Theory, pag. 129;
sono i criteri diffusamente impiegati per defi-nire la « vita » di un bene d'investimento e fra questi ricordiamo:
1) il criterio della sua vita «fisica»; 2) quello della vita « tecnologica »; 3) e quello della vita « commerciale ».
1 . V I T A F I S I C A .
Quando si ragiona, ad esempio, sulla vita presunta di una macchina, si nota spesso una certa tendenza a considerarne innanzi tutto, la vita « fisica »: cioè a dire, il numero di anni in cui si pensa la macchina sarà fisicamente atta ad eseguire le operazioni tecniche per cui essa è stata acquistata. Tale concetto viene spesso impiegato per il calcolo degli ammor-tamenti a scopi contabili e fiscali però è evidente che esso non possa venir accettato in decisioni di scelta economica di investimenti.
Purtroppo le informazioni contabili vengono spesso utilizzate senza la necessaria revisione critica dei criteri informatori sulla base dei quali essi sono stati raccolti ed elaborati.
2 . V I T A T E C N O L O G I C A .
È quella parte della vita fisica di una mac-china che precede l'introduzione di una nuova macchina la quale sia in grado di rendere « ob-soleta » la vecchia macchina, e quindi « econo-mica » una sua sostituzione.
E certo che continuamente vengono appor-tati miglioramenti e modifiche sostanziali alle macchine esistenti, ma « quali » macchine si renderanno obsolete e « quando » ? Sono questi gli interrogativi ai quali molte volte è difficile rispondere. A meno che non risultino disponi-bili accurate informazioni al riguardo, le risposte a tali domande non possono essere altro che congetture.
3 . V I T A C O M M E R C I A L E .
Sebbene la macchina sia talvolta in perfette condizioni di funzionamento e non abbia con-correnti sul mercato, la sua «vita commerciale» può essere finita qualora l'azienda che l'impiega non riesca più a trovare acquirenti per i pro-dotti che la macchina stessa contribuisce a creare.
Si dirà quindi che la vita commerciale di quella macchina è giunta al termine in quanto le particolari operazioni da essa eseguite sono divenute superflue ed inutili. La causa più ovvia è che si sia verificato un mutamento del gusto dei consumatori o delle loro prefe-renze.
La vita « economica » che deve sempre venir considerata in una realistica analisi di conve-nienza di un investimento, e ovviamente la minore delle tre vite suconsiderate (vedasi grafico).
Determinazione della vita economica.
Vediamo per prima cosa, come viene deter-minata la « vita economica » di un investimento. Uno dei criteri più ovvi e più comunemente impiegati, è quello di basarsi sull'esperienza del passato in analoghi investimenti.
Molte ditte tengono registrazioni dettagliate relative a variazioni di costo e ricavo intervenute in diretto rapporto a gruppi omogenei di inve-stimenti od a inveinve-stimenti individuali qualora il controllo sia economicamente giustificabile. Oltre a tali fonti « interne » d'informazione ve ne sono altre « esterne » fornite, ad esempio, dalle ditte produttrici di macchinari ed attrez-zature industriali al cliente reale o potenziale.
Ma è facile pensare ai pericoli derivanti dall'utilizzazione di tali ultime fonti d'infor-mazione; e d'altra parte le fonti da noi definite
VITA VITA VITA COMMERCIALE TECNOLOGICA FISICA
« interne » mancano spesso d'indicare gli effetti dei futuri mutamenti tecnologici o commer-ciali.
Ma il problema veramente fondamentale, a mio parere, relativo alla utilizzazione di dati « interni » e « storici », è costituito dal fatto che essi possono semplicemente rispecchiare vecchi errori di politica aziendale.
Basti pensare ad esempio alla scelta dei criteri di distribuzione delle spese generali, di quelli d'ammortamento, ecc.
Insomma tali dati devono essere utilizzati con estrema cautela ed, in ogni caso, la determi-nazione della vita economica di un bene d'inve-stimento deve in gran parte dipendere dal giu-dizio personale del dirigente aziendale, respon-sabile.
I valori che il dirigente attribuisce ai vari progetti d'investimento fra i quali egli deve operare una scelta, rispecchiano quindi le sue valutazioni « obiettive » corrette (o ponderate) sulla base di apprezzamenti « soggettivi » rela-tivi alla « vita economica » presunta dei beni di investimento ed a tutti gli altri elementi di costo e ricavo presunti.
In altri termini egli deve poter decidere sulla base di una scala di valori corretti da una certa distribuzione di probabilità. Ciò significa, ad esempio, che il valore « più proba-bile », cioè la cosiddetta « moda » (2), può spesso non coincidere col valore più corretto (leggasi: probabile).
Vediamo di illustrare tale concetto sulla base di un esempio pratico.
Nella Tabella riportiamo i dati relativi al calcolo della vita economica di un determinato
DATI PER LA STIMA DELLA VITA ECONOMICA PIÙ PROBABILE DELL'INVESTIMENTO ASS-211
A N N I D I S T R I B . D E L I E FREQUENZE RELATIVE DI PROBABILITÀ P R O D O T T I : ( 1 ) x ( 2 ) (1) ( 2 ) (3) 1 0 . 3 0 0 . 3 0 2 0 . 2 0 0 . 4 0 3 0 . 2 0 0 . 6 0 4 0 . 2 0 0 . 8 0 5 0 . 0 5 0 . 2 5 6 0 . 0 5 0 . 3 0 £ = 1 . 0 0 MAP = 2 . 6 5 (Media Aritmetica Ponderata)
bene d'investimento il cui progetto venga ana-lizzato dai dirigenti di una azienda (3).
La determinazione di una distribuzione completa di probabilità presenta sempre pro-blemi notevolissimi per tutti i motivi più sopra esposti, comunque riteniamo sia difficile poter prescindere da un tale sforzo senza compro-mettere i risultati delle analisi.
Troppo spesso infatti la « moda » viene accet-tata come il valore « più probabile ».
Neil' esempio della Tabella notiamo un'enor-me differenza fra il valore « modale » e quello della « media aritmetica ponderata »: oltre 1 anno e 7 mesi.
Dall'esempio appare evidente che il concetto di media ponderata sulla base della distribuzione probabilistica consente una valutazione più com-pleta e scientificamente più soddisfacente del criterio « modale ».
Problemi relativi alla determinazione dei costi e dei ricavi.
La determinazione delle variazioni positive e negative del reddito netto aziendale, conse-guente ad un determinato investimento in attività fìsse, è spesso assai difficile. È infatti sempre arduo decidere quali variazioni abbiano « diretta rilevanza » rispetto alla decisione d'in-vestimento. Inoltre, ovviamente, trattandosi di variazioni « f u t u r e » sono necessarie previsioni. Sono « rilevanti » quei costi e ricavi che dif-feriscono, a parità di tutti gli altri elementi e condizioni, nelle due ipotesi fondamentali di attuazione e non attuazione del progetto d'in-vestimento.
Concentreremo la nostra attenzione su ta-lune voci che presentano problemi particolar-mente difficili, iniziando dall'ammortamento.
Le conseguenze più vistose di un investi-mento in beni capitali riguardano il capitale
fisso ammortizzabile, naturalmente, ma anche
spesso Vavviamento, che può essere considerato un'attività fissa di natura intangibile, variazioni degli «stock» di magazzino: materie prime e prodotti semilavorati (questi ultimi come noto, rappresentano attività correnti o capitale cir-colante e non capitale fìsso).
Tale distinzione è importante ma spesso non viene sufficientemente riconosciuta nelle più comuni applicazioni degli strumenti di analisi di redditività.
L'ammortamento di attività fisse richiede l'accantonamento di fondi per il loro rinnovo e recupero. Terreni, « stock » di magazzino e spesso l'avviamento, invece, non vengono
arn-ia) La « moda » è definita come quel valore che, in una serie di variabili, è il più frequente.
(3) Cfr. C . M. T U R C H I : La vita economica di un investimento in condizioni d'incertezza, pag. 349. Il Dirigente
mortizzati, tuttavia in molte analisi di redditi-vità d'investimento tutte queste voci vengono accumulate ed ammortizzate sulla base di un unico criterio d'ammortamento relativo alla durata prevista («vita economica») del pro-getto d'investimento.
Assorbimento delle spese generali.
Di solito la distribuzione di quelle spese che sono comuni a diverse funzioni od attività aziendali, non presenta problemi particolari ai fini dell'analisi finanziaria della produttività di un investimento. Tali spese « generali », infatti, non saranno sostanzialmente diverse nei due casi in cui il progetto d'investimento venga accettato o respinto.
Lo stipendio del direttore di stabilimento, ad esempio, non varierà in seguito all'investi-mento in una nuova macchina. Se d'altra parte l'acquisto di una nuova macchina rende dispo-nibile risorse, quali ad esempio una certa me-tratura di « spazio utile » nello stabilimento, allora la nostra analisi di redditività può dive-nire assai complicata.
Tutto naturalmente dipenderà dalle possi-bilità di utilizzare quelle risorse resesi dispo-nibili (ad esempio quel certo spazio utile).
Facciamo il caso d'una nuova macchina destinata a sostituire una molto più ingom-brante e che lo spazio utile resosi disponibile sia di 200 mq. Supponiamo inoltre che il fitto (reale o figurativo) ammonti a L. 1.000 al metro quadrato. Nel nostro computo di convenienza dovremo considerare le L. 200.000 (L. 1.000 x
X 200 mq) corrispondenti al fìtto corrisposto per lo spazio non utilizzato ?
Evidentemente non saremo in grado di rispondere a tale domanda finché non sapremo come disporre di tale spazio utile. Supponiamo di poter considerare le seguenti 3 ipotesi:
la ipotesi: se la ditta può ridurre il canone
corrispondentemente, allora quelle L. 200.000 diventano rilevanti ai fini della decisione d'in-vestimento;
2& ipotesi: in caso contrario e qualora
non sia possibile trovare un qualche impiego produttivo a quei 200 mq, allora quella somma di L. 200.000 non avrà alcuna rilevanza ai fini della decisione d'investimento;
3a ipotesi: se infine quello spazio utile
consente all'azienda di poter attuare un secondo investimento (ad esempio l'acquisto di un'altra macchina) il quale a sua volta origina una nuova catena di variazioni positive e negative del reddito netto aziendale, allora la risposta non sarà più cosi ovvia come nei casi precedenti.
Tutto naturalmente dipenderà dal grado di dipendenza degli investimenti « derivati » da quello « originale ».
Interessi.
La remunerazione delle varie fonti di finan-ziamento (interessi bancari ed obbligazionari, dividendi agli azionisti, interessi e sconti con-cessi dai fornitori, ecc.) presenta sempre pro-blemi particolari in ogni tipo di analisi di con-venienza economica di progetti d'investimento. Il problema sorge dalla necessità di associare una o più fonti di finanziamento ad un parti-colare progetto d'investimento. Ad esempio se un finanziamento bancario ha il preciso scopo di approvvigionare una nuova macchina, è logico considerare il pagamento degli interessi relativi come parte integrante del flusso di costi creato da quell'investimento.
L'identificazione della fonte di finanziamento con l'impiego dei fondi risulta assai difficile particolarmente in quelle aziende che possono avvalersi di svariate fonti di finanziamento, quali debiti bancari o relativi ad altre fonti a breve scadenza — fornitori, clienti per anti-cipi, ecc. — obbligazioni e mutui, azioni ordi-narie e privilegiate.
In tal caso è spesso impossibile stabilire l'esatta provenienza dei fondi destinati all'ac-quisto di una determinata macchina.
Il concetto di " Costo dei capitali di finan-ziamento ".
Nel caso precedentemente ipotizzato, in cui l'identificazione fra fonti ed impieghi risulta impossibile e, potremmo aggiungere, in tutti i casi in cui l'azienda sia in grado di eserci-tare una scelta fra varie fonti di finanziamento, si dovrà ricorrere ad un criterio più ampio che definiamo del « costo dei capitali ».
Tale criterio presuppone l'analisi di tutte le alternative possibili ed è assimilabile al « costo-opportunità » che così sovente ricorre nei t r a t t a t i di economia aziendale.
La scelta di una fonte « più costosa » può riflettere, cioè, l'incapacità della direzione finan-ziaria di considerare adeguatamente le scelte — o le « opportunità » — che le si offrono sul mercato finanziario (all'esterno dell'azienda) od anche all'interno (autofinanziamento).
Ora è evidente che tale « costo-opportunità » è condizionato da fattori di redditività interna e di politica aziendale per quanto riguarda il rapporto fra fonti ed impieghi esterni ed interni a breve ed a lunga scadenza. I due gruppi di fattori sono strettamente legati gli uni agli altri ed una loro analisi risulta spesso estrema-mente difficile, senza ricorrere ad astrattezze
che solo apparentemente, rivestono un carat-tere accademico.
In condizioni teoriche di massima intercam-biabilità fra le varie fonti ed i vari impieghi di fondi, il tasso di redditività generale (-t) deve poter rappresentare uno dei limiti del-l'intervallo entro il quale il « eosto dei capitali » deve poter esser determinato.
Un secondo limite potrà, ad esempio, venir fissato dal tasso di redditività dell'investimento — od investimenti — più produttivi in settori comparabili a quello in cui il nuovo investi-mento dovrà essere inserito.
Il primo limite — legato al concetto di tasso di redditività generale — è in sostanza un cri-terio marginale e conservativo: in genere esso costituisce il limite inferiore.
È evidente quindi che l'applicazione del concetto di « costo dei capitali » può presentare notevoli problemi d'ordine pratico.
Innanzi t u t t o consideriamo, ad esempio, un investimento che riveli un'altissima redditività (diciamo il 25%). L'analista che deve stimare la redditività presenta di un secondo progetto d'investimento vincolando fonti interne di fi-nanziamento a lunga scadenza (ad esempio parte del « Fondo rinnovamento impianti ») il cui « costo » è legato all'accezionale redditività del primo investimento, potrà trovare enormi difficoltà nella ricerca di motivi che possano giustificare il secondo progetto d'investimento.
In altri termini, in situazioni analoghe e peraltro assai frequenti, il costo del finanzia-mento tende ad essere fissato su livelli troppo alti ed assai irrealistici.
Analogamente può manifestarsi il problema opposto in quelle ditte in cui le più vantaggiose opportunità non si siano ancora presentate in modo chiaro ed inequivocabile.
Un terzo gruppo di problemi — ed a mio parere certo il più significativo — si presenta soprattutto in quelle aziende i cui reparti (o divisioni) siano caratterizzate da diversi risul-tati produttivistici.
L'osservazione di molte aziende di questo tipo mi induce a concludere che quei reparti caratterizzati da altissimi indici di rendimento, tendono a provocare reazioni a catena nei re-parti meno produttivi. Cioè a dire un progetto d'investimento a basso indice di redditività, generato da questi ultimi reparti, tende ad essere accettato più facilmente che non in altre aziende più « bilanciate ».
In taluni casi tale tendenza ha costituito il fattore principale di criticissimi deterioramenti della struttura finanziaria di ditte peraltro assai vitali e robuste in t u t t i gli altri settori organiz-zativi.
(4) Tale tasso rappresenta il rapporto percentuale fra utile netto d'esercizio ed attività totali.