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Le teorie morali deontologiche: confronto tra etica della giustizia ed etica della cura.

della cura.

3.2. Le teorie morali deontologiche: confronto tra etica della giustizia ed etica della cura.

A questo punto, voglio cercare di analizzare i principi guida di un'altra teoria che vuole presentarsi come normativa e che possiamo definire deontologica.

Le teorie deontologiche sono quelle teorie che, a differenza delle teorie consequenzialistiche, ritengono che la moralità dell’azione sia determinata da principi interni all’azione stessa e non alle sue conseguenze.

I mezzi e i fini sono così strettamente interconnessi ed inconcepibili l’uno senza l’altro

quando si tratta di valutare la moralità di un comportamento.

Una teoria etica di questo tipo sarà dunque molto diversa da quella utilitaristica ma ho deciso di affrontarle insieme perché condividono l’importanza che viene data alle regole

o ai diritti che rappresentano i rigidi principi guida per le azioni.

Tra le etiche deontologiche voglio soffermarmi sulla teoria della giustizia di Rawls,ma questo non prima di aver fatto una precisazione: la teoria della giustizia presentata da Rawls non si pone l’obbiettivo di descrivere quale dovrebbe essere il comportamento

eticamente corretto di un individuo, ma quale dovrebbe essere il comportamento corretto di un individuo all’interno di una società politica democraticamente e

correttamente organizzata.67 Rawls, infatti, non vuole analizzare l’individuo in quanto essere morale ma in quanto essere politico. A questo punto, si potrebbe percepire questa breve analisi della teoria rawlsiana come inappropriata all’interno di un lavoro che

vuole proporre come punto di vista fondamentale quello che è lo sguardo morale. Non è così.

In effetti, la teoria della giustizia ha avuto grande impatto nell’ambiente della filosofia

morale a partire dal Novecento e questo perché offre molteplici spunti per la comprensione e per l’elaborazione di un certo genere di giudizi morali.

94 Rawls nell’elaborazione della sua teoria intravede due principi fondamentali per la giustizia che sono la libertà e l’uguaglianza ( la giustizia di Rawls è infatti concepita in

termini di equità e di giusta distribuzione delle risorse). Questi due principi sono entrambi fondativi di una concezione della giustizia e di un armonioso vivere civile ed entrambi devono essere inseguiti in maniera continuativa. Rawls è però consapevole della possibilità che essi possano trovarsi in conflitto tra di loro ed in questo caso propone un loro ordinamento lessicale che considera la libertà prioritaria all’uguaglianza.

Libertà ed uguaglianza sono il risultato della razionalità degli individui che, in una situazione ideale, li sceglierebbero come principi fondamentali per l’organizzazione della società. Questa sorta di contratto che fa sì, inoltre, che la posizione di Rawls venga definita anche come neocontrattualismo, nasce dalla convinzione del nostro Autore, che in una situazione iniziale ipotetica di disordine organizzativo, qualunque individuo razionale sceglierebbe la libertà e l’uguaglianza come criteri normativi.

Questa situazione iniziale è definita da Rawls come posizione originaria.

La posizione originaria prevede individui razionalmente capaci e dotati di consapevolezza su ciò che è bene, ma privi di qualsiasi informazione circa la loro classe di appartenenza o le loro doti naturali, come ad esempio, l’intelligenza.

In questa posizione originaria è possibile, dunque, che emergano dei principi come quelli sulla giustizia e questo significa che le norme prescritte siano il risultato di un procedimento della ragione pratica che le fa emergere nell’individuo in maniera oggettiva. E’ per questo che i principi normativi di Rawls possono presentarsi come

universali e quindi comprensibili, condivisibili ed attuabili da ogni soggetto razionale.68

68 Per precisione, i due principi di giustizia proposti da Rawls sono:

1. “Ogni persona ha lo stesso titolo indefettibile a uno schema pienamente adeguato di uguali libertà di base compatibile con un identico schema di libertà per tutti gli altri.

2. Le diseguaglianze sociali ed economiche devono soddisfare due condizioni: primo, devono essere associate a cariche e posizioni aperte a tutti in condizioni di equa eguaglianza delle

95 La formulazione di giudizi che possano presentarsi come ordinatori è possibile anche seguendo un preciso procedimento razionale che non è riscontrabile esclusivamente nella posizione originaria.

Rawls, intravede nell’individuo razionale, delle caratteristiche che lo accomunano a tutti

gli altri. In questo contesto, ammette l’Autore, i giudizi che vengono elaborati dall’individuo sono in parte il risultato di intuizioni del senso comune. Ciò significa che

tutti gli individui possono formulare delle valutazioni basandosi esclusivamente su quello che la propria ragione pratica fa emergere.

Questi giudizi non sono tutti uguali tra loro. Anche ad un’analisi superficiale ci

rendiamo conto che alcuni di loro sono dotati di una moralità ed appropriatezza maggiore. Questi sono detti da Rawls “giudizi ponderati”.

Questi giudizi però, dovranno essere messi in relazione a quelli che sono i criteri che regolano teorie più generali sulla giustizia. Dall’equilibrio di giudizi ponderati e teorie

sulla giustizia emergono i principi che diventano regolatori della nostra azione.69

Ora, la novità e la grandezza di Rawls sta nell’aver immaginato un sistema, che pur essendo normativo, presenta la possibilità di vari aggiustamenti nei giudizi ponderati o nelle teorie morali per far in modo che i principi che ne emergano siano sempre più appropriati ai diversi contesti di riferimento.

“Andando avanti e indietro fra i due [giudizi ponderati e principi], a volte alterando le condizioni delle circostanze contrattuali, a volte modificando i nostri giudizi e adeguandoli a un principio, assumo che potremo infine trovare una descrizione della

situazione iniziale in grado sia di esprimere condizioni ragionevoli sia di generare principi in accordo con i nostri giudizi ponderati, opportunamente emendati e

modificati.”70

opportunità; secondo, devono dare il massimo beneficio ai membri meno avvantaggiati della società (principio di differenza).”

Questi due principi sono ordinati lessicalmente. (da Giustizia come equità. Una riformulazione. Feltrinelli, Milano, 2002, p.49).

69 R.MORDACCI, op.cit. 136 70 J.RAWLS, op.cit. p. 35

96 Questo procedimento potrebbe essere considerato del tutto in linea con la costituzione di etiche che si propongono come meno rigide e normative. Ad esempio, l’etica della

cura.

In effetti già Virginia Held, come abbiamo visto, aveva visto qualcosa di positivo nell’equilibrio riflessivo perché evidenziava la possibilità di sfruttare l’esperienza nel determinare i nostri giudizi morali. In particolare però, il contenuto dell’equilibrio

riflessivo rawlsiano non lascia spazio a considerazioni, che abbiano a che fare con l’empatia o con l’emotività in generale, che potrebbero spingere un individuo a

modificare le proprie convinzioni.

Questi aspetti non sono concepiti come determinanti nell’azione morale neanche da Rawls, così come accadeva per gli utilitaristi per i quali l’emotività aveva un peso solo ed esclusivamente nella determinazione dei desideri, ma non nel loro stesso raggiungimento.

Se ci poniamo però la domanda sulla possibilità della costituzione di un sistema di indagine che ci permetta di comporre l’imprescindibilità dei giudizi con le disposizioni proprie dell’aver cura come il rispetto, la relazionalità e la responsabilità, il modello offerto da Rawls nella costituzione dell’equilibrio riflessivo, sebbene modificato

contenutisticamente, potrebbe essere di aiuto.

Questo tipo di teorie descritto Rawls e da tanti altri autori,71 che si propongono di individuare un insieme di norme utili per guidare l’azione e per garantire un discreto

vivere civile, va inevitabilmente incontro ad una serie di critiche.

71 Uno tra gli autori che si propone di delineare una serie di criteri fondamentali per regolare l’azione

morale e politica è Robert Nozick. Secondo Nozick l’umanità deve godere di alcuni diritti fondamentali e compito dello stato deve essere quello di non interferire e di garantire a tutti i cittadini tutto ciò che è necessario per il rispetto di tali diritti. Tra questi diritti, insieme alla libertà vi è, ad esempio, il diritto alla proprietà sul proprio corpo e sui propri beni sul cui esercizio né lo stato, né l’individuo singolo deve interferire. In questo si nota una contrapposizione tra Nozick e Rawls. Il primo, rimprovera infatti a Rawls il sistema dell’equa distribuzione e ridistribuzione delle risorse. Questo sistema deve essere considerato illegittimo secondo Nozick perché viola uno dei diritti fondamentali del singolo che è quello sulla proprietà.( La teoria di Nozick che è chiamata libertarismo viene sviluppata a partire da Anarchy, State and Utopia, Blackwell, Oxford, 1974).

97 Se ci soffermiamo sulla costituzione della posizione originaria ci rendiamo immediatamente conto che i soggetti che scelgono i principi a cui far riferimento sono dei soggetti neutrali. L’unica loro caratteristica è la razionalità.

In questa ottica viene a mancare tutto un corredo di caratteri che sono invece fondativi dell’individuo e che ne descrivono la storia. Prima di tutto immaginiamo che tale

individuo viene pensato come isolato e quindi manchevole della percezione dell’alterità. L’altro non viene percepito come esistente e quindi degno di considerazione e non viene dato peso a tutto l’insieme dei vantaggi e degli svantaggi che la relazionalità comporta. Inoltre, l’individuo della posizione originaria, come abbiamo visto, viene immaginato

come del tutto estrapolato dal suo ruolo o dalla sua classe sociale.

Un individuo che è inconsapevole di tali aspetti della sua esistenza, delle sue attitudini, del rapporto con gli altri, dei suoi bisogni è inevitabilmente un individuo artefatto che non corrisponde fedelmente all’immagine che ognuno ha del proprio essere.

Questo può essere considerato un primo, importante limite della teoria della giustizia qui illustrata ossia l’aver fatto, ancora una volta, dell’individuo oggetto dell’analisi

morale e politica, un individuo “neutro”.

Un secondo limite che mi appare rilevante è che teorie che propongono solo pochi principi come norme regolatrici del vivere in società possano essere vere solo ed esclusivamente entro un confine socio politico che condivide un determinato orizzonte di pensiero.

In particolare, le teorie che pongono l’uguaglianza e la libertà come gli unici veri principi imprescindibili assumono validità nella misura in cui la società di riferimento assume una prospettiva politica di stampo liberale.72 In questo senso però, l’universalità che tali teorie paventano ha dei limiti abbastanza netti: per quanto l’importanza di

principi come la libertà è difficilmente messa in discussione, tali teorie corrono il

98 rischio di presupporre prospettive troppo vincolanti e che possono tranquillamente essere criticate dalla riflessione di un qualsiasi altro agente razionale.

La neutralità e la rigidità delle norme erano alcune delle critiche più frequenti delle teoriche femministe rispetto alle teorie tradizionali e quindi possiamo trasferire tutte le considerazioni che sono state fatte nella prima parte di questo lavoro, a questa dimensione.

Al contempo, le critiche delle teorie liberali e non solo nei confronti di quelle teorie che presentano come centrale la prospettiva della cura sono proprio riscontrabili nello scarso valore che viene dato ai principi a favore di disposizioni di carattere differente.

Tali disposizioni però, a mio parere, possono essere immaginate all’interno di una rete di norme e criteri definiti ed essere modificate a seconda delle diverse categorie a cui una situazione può appartenere.

Se è vero che quando riflettiamo sul come comportarci non possiamo prescindere dalla praticità implicita nell’azione e quindi dalle varianti che cambiano di volta in volta, è anche vero che la condotta di ognuno di noi che ci definisce come esseri morali, segue sempre una certa direzione e questa direzione esiste perché, probabilmente, esistono dei criteri morali di riferimento.

Utilitarismo e teorie della giustizia, sebbene soggette alle limitazioni che abbiamo cercato di dimostrare, presentano quindi degli spunti da non sottovalutare se si vuole cercare di dotare l’etica della cura della normatività di cui ha probabilmente bisogno.

99 3.3.

Etica delle virtù e Comunitarismo: confronto con l’etica della cura.

Nel dibattito della moralità contemporanea non sono solo le etiche consequenzialiste e deontologiche a partecipare. Infatti un peso importante bisogna attribuirlo alle etiche delle virtù che negli ultimi decenni, sebbene con importanti trasformazioni, sono ritornate ad essere motivo di discussione da parte di filosofi e studiosi della moralità. In realtà, i sostenitori di quest’etica si pongono su una posizione diametralmente opposta rispetto all’utilitarismo e al liberalismo, ponendo l’attenzione né sui fini dell’azione né sull’azione stessa ma sulla natura del soggetto agente: sulle sue

motivazioni, sulla sua storia, sul suo carattere. Presupposto dell’azione morale diventa quindi, non il semplice rispettare i parametri del giusto, ma rispettare la natura di un soggetto che deve essere orientata al bene.

Le etiche della virtù hanno una storia lunga che parte da Aristotele.

In questo paragrafo cercherò di tracciare brevemente le caratteristiche dell’etica delle virtù per Aristotele e poi in Hume, che pur avendo trasformato molti dei concetti di natura aristotelica, condivide con lui l’attenzione riposta sulle virtù e sull’agente che

vuole presentarsi come morale.

In Aristotele73 la felicità è il più alto dei beni raggiungibili, ma non come per gli

utilitaristi in cui la felicità si presentava come la semplice conseguenza da perseguire, bensì in quanto essa è lo scopo stesso della vita dell’uomo: l’unico scopo che è scelto

per sé e non in vista di altro. Il fine di un ente è ciò che realizza pienamente la sua natura, quindi il fine dell’uomo è quello di adempiere alle funzioni della parte razionale dell’anima.

In sintesi, la felicità per l’uomo si realizza quando l’uomo esercita in maniera perfetta quella che è la sua natura di essere razionale. L’uomo virtuoso sarà colui che riuscirà in

73 Aristotele affronta la sua concezione dell’etica nell’ enorme trattazione che è l’ Etica Nicomachea.(

100 questo compito e condurrà la sua vita prefissandosi un ideale di vita buona da non trascurare in nessun momento. Infatti, per Aristotele, la virtù non è il singolo esercizio di una buona azione, ma una piena disposizione dell’animo. Non si può essere virtuosi in un momento e viziosi in un altro. O si è virtuosi sempre o non lo si è mai.

Inoltre per essere virtuosi bisogna eccellere nella realizzazione delle attività razionali ossia realizzarle pienamente.

L’attività dell’uomo virtuoso deve essere un’ attività costruita sul modello dell’uomo saggio, che ha la capacità di delineare il giusto mezzo tra gli eccessi opposti di un determinato comportamento.

La virtù rappresenta dunque un elemento fondamentale della vita dell’uomo, perché è solo mediante l’esercizio completo e continuativo della virtù che l’uomo riuscirà a realizzare il proprio fine. L’esercizio della virtù, quindi, pervade ed impegna totalmente la vita dell’uomo.

Aristotele compie una divisione tra le virtù classificandole in virtù etiche e virtù dianoetiche.

Le virtù dianoetiche sono quelle che si riferiscono totalmente alla parte razionale dell’anima e hanno quindi carattere conoscitivo e discorsivo.

Le virtù etiche invece riguardano il comportamento e in senso specifico, l’attività pratica della ragione.

A questo punto è necessaria una precisazione che sarà fondamentale anche per intuire la differenza tra Aristotele e Hume.

In Aristotele l’anima è divisa in anima razionale ed anima irrazionale.

L’anima irrazionale si divide a sua volta in anima vegetativa ed anima desiderativa. L’anima vegetativa ha a che fare con l’adempimento delle funzioni vitali come il nutrimento e l’accrescimento.

101 L’anima desiderativa, invece, è intimamente collegata con le cose del mondo con le

quali stabilisce un rapporto mediante le inclinazioni, gli appetiti e i desideri. Essa è di fondamentale importanza in quanto causa quelli che potremmo definire gli impulsi del comportamento ed è quindi strettamente collegata con la parte razionale dell’anima a

cui deve sottostare.

Se è vero che è la parte razionale a guidare, nel senso di intensificare o appianare certi impulsi, è anche vero che la parte desiderativa ha un ruolo determinante nella percezione di questi ultimi. Le virtù etiche come la temperanza, il pudore e il coraggio sono le virtù della parte desiderativa dell’anima.

Le virtù dianoetiche come ad esempio l’intelligenza e la sapienza, corrisponderanno

invece alla parte razionale.

In Aristotele quindi, è sia la razionalità che l’irrazionalità, sia la ragione che il desiderio

ad essere fondamentali per il comportamento virtuoso.

L’uomo virtuoso, per essere tale, dovrà confrontarsi con tutte queste virtù ed eccellere nel loro esercizio.

Diversa è la concezione della virtù per Hume.74

Hume sostiene che qualsiasi scelta o comportamento è il frutto di percezioni e la ragione non ha nessun ruolo in questo. La ragione, secondo il filosofo, ha il compito esclusivo di scoprire la verità o la falsità di un oggetto e siccome le nostre passioni o percezioni non sono sottoponibili ad un tale criterio di valutazione ne consegue che la ragione non ha nessun ruolo nel costituire la moralità. Quest’ultima ha un ruolo fondamentale nella costituzione dell’agire a differenza della ragione che presentandosi

come la semplice constatazione del vero non può adempiere a questo compito.

Questo non significa che la ragione è assolutamente inutile, ma semplicemente che non ha un ruolo determinante. Infatti la ragione può essere di aiuto nella constatazione di

74 L’analisi della natura della virtù è affrontata da Hume nel Trattato sulla natura umana (Bompiani,

102 connessioni tra le cause e gli effetti di un comportamento, nella scelta dei mezzi per uno scopo, ma non nella determinazione dello scopo stesso o nella decisione tra due scopi contrastanti. Il discernimento è frutto dell’azione della passione.

Virtù e vizio sono determinati esclusivamente dai sentimenti che sono l’unica causa dell’agire morale. Un’azione virtuosa è un azione che provoca una certa soddisfazione e l’uomo saggio è colui che sa riconoscere il piacere dato dalla virtù.

Da questa interpretazione della virtù emerge una sorta di sua naturalità in quanto la virtù è giudicata a partire dai sentimenti, che scaturiscono naturalmente in relazione ad un determinato comportamento.

Una concezione del genere potrebbe sembrare all’apparenza soggettivistica o comunque

relativistica, ma Hume immagina che questi sentimenti siano naturali e quindi in una misura considerevole presenti in tutti gli uomini. Questo ci permette di considerare e valutare i vizi e le virtù in maniera abbastanza univoca.

Anche in Hume vi è una classificazione delle virtù: virtù naturali e virtù artificiali. Le virtù naturali sono quelle che derivano dal fatto che l’impressione che esse generano sono percepite naturalmente come gradevoli. Ne sono un esempio i sentimenti che proviamo di fronte alla benevolenza.

Le virtù artificiali, al contrario, sono costruite dalla decisione degli uomini. Un esempio di virtù artificiale è la giustizia in quanto essa è il risultato della percezione del vantaggio avvertito dalla comunità nello stabilire un insieme di norme che regolino il vivere in società. Tali virtù dipendono quindi dal contesto e da una serie di motivazioni ed esigenze che hanno comunque la loro radice nella naturalità dei sentimenti umani. A questo punto possiamo fare un confronto tra le due prospettive. Entrambe, quella aristotelica e quella humiana, attribuiscono grande valore al carattere dell’individuo. Questa è la prima grande differenza rispetto alle teorie utilitaristiche o deontologiche. Infatti mentre queste ultime ritrovavano l’essenza del comportamento morale in regole e

103 principi che guidavano l’azione, le etiche delle virtù riconducono la moralità al soggetto agente, alla scelta di un determinato comportamento di vita, che è il risultato di ciò che il soggetto percepisce come ideale di vita buona.

Rispetto a questo aspetto però, se Aristotele cerca di mantenere una certa influenza della ragione e quindi una certa universalità che miri a gestire le affezioni contrastanti della parte irrazionale dell’anima, in Hume questo tipo di universalità sembra mancare. D’altra parte però non possiamo semplicisticamente definire la morale humiana una

morale particolaristica perché in Hume, un criterio che vada a tutelare ciò che è l’universale esiste. Infatti abbiamo visto come in Hume, i sentimenti non sono del tutto

mutevoli da individuo ad individuo, al contrario, esiste una “natura umana” che ha radici comuni e che quindi intravede nel provare un sentimento piuttosto che un altro qualcosa che possa essere esteso alla moltitudine dell’umanità e non al singolo soggetto. L’arbitrarietà sembra essere sconfitta da Hume in questo modo.

Un’altra differenza tra Aristotele e Hume, risiede nel concetto di uomo virtuoso.

Mentre per Aristotele essere virtuosi significa, come abbiamo visto, realizzare mediante