CAPITOLO II: I MINORI AUTORI DI REATO
2.2. Le teorie sociologiche
2.2.1. Teorie della subcultura: i diversi approcci e le critiche
Negli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento le teorie criminologiche hanno analizzato in modo specifico la “delinquenza giovanile”. Molti studiosi hanno concentrato il loro interesse su quelle che sembravano essere le forme più diffuse di delinquenza, ovvero le bande giovanili, analizzandone l’origine e il contesto. Si elaborò così il concetto sociologico di “subcultura”, inteso come un insieme di “modelli di norme, credenze, atteggiamenti, valori e altri elementi culturali condivisi all’interno di gruppi particolari o segmenti della società, ma che normalmente non caratterizzano la società nel suo complesso156”. Uno specifico contributo in materia è rappresentato dagli studi di Cohen, che, nel 1955 con il libro
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Cfr. Gaetano De Leo, La devianza minorile , cit., p. 78.
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Delinquent Boys157, tentò per primo di risolvere la questione della genesi della “subcultura delinquenziale” con riferimento alle bande giovanili.
Scrive Cohen: “Quando parliamo di una subcultura delinquente, ci riferiamo ad una forma di vita che in qualche modo è divenuta tradizionale in certi gruppi della società americana. Questi gruppi sono le bande di ragazzi che prosperano nella forma più vistosa nei quartieri della malavita dei nostri maggiori centri urbani. Col passare degli anni alcuni membri di queste bande divengono normali cittadini attenentisi alla legge, altri divengono criminali professionali e adulti, ma la tradizione delinquente è mantenuta dalle generazioni successive158”.
Secondo l’autore la “subcultura deviante” è il frutto di una contrapposizione fra classi basse e classi medie. I giovani provenienti da famiglie proletarie, una volta entrati in contatto con i valori della classe media attraverso la scuola, li interiorizzano. Tali valori, pur non condivisi da questi ragazzi, operano sugli stessi in forma repressa e interiorizzata generando ansia. La sofferenza nasce dal vedersi negare l’accesso alle mete accettate e dal senso di umiliazione vissuto dal confronto con i coetanei. Il giovane è quindi valutato con i parametri della classe media e può reagire a tale pressione aderendo a una controcultura delinquenziale che offre criteri alternativi di status a cui il giovane può adeguarsi. Gli attributi che la società valuta negativi si trasformano in qualità positive, con un ripudio esplicito dei valori della classe media. Perché possa generarsi la sottocultura è necessario un processo interattivo tra i giovani che vivono il medesimo disagio. La reazione alla condizione strutturale ha, quindi, per Cohen carattere collettivo. Ciò risponderebbe al problema fondamentale dell’individuo che è quello, di poter essere parte di una comunità, di un
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Cfr. Albert K. Cohen, Delinquent boys, the culture of the gang, The Free Press, New York, 1955; trad. it., Ragazzi delinquenti, Feltrinelli, Milano, 1963.
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gruppo, e di occupare un posto all’interno di questo per essere riconosciuto e rispettato.
I giovani non solo rifiutano il sistema dominante, ma lo rovesciano: esaltano il contrario, assumono atteggiamenti cinici, negativi, per dimostrare non solo a se stessi, ma anche agli altri il disprezzo per il gioco che hanno rifiutato.
Le teorie di Cohen hanno permesso di comprendere alcuni fenomeni come, ad esempio, il vandalismo. Il contenuto negativo all’interno di tali comportamenti è però considerato, con l’evoluzione delle scienze criminologiche, una parte del messaggio che il giovane vuole comunicare. Atti devianti sono interpretati come esternazione di bisogni legati all’identità, alle relazioni e alle domande sociali in relazione alle politiche del tempo libero e dell’occupazione159. E’ quindi necessario cogliere adeguatamente i messaggi conflittuali e partecipativi di questi giovani, piuttosto che fermarsi al loro aspetto negativo, in modo da rispondere adeguatamente ed elaborare politiche altrettanto utili.
Altro apporto fondamentale in tema di “delinquenza minorile” è stato dato da Cloward e Ohlin, che si sono occupati delle “subculture criminali”, sviluppando la teoria anomica di Merton e proponendo il concetto chiave di “opportunità differenziali”. Per questi autori, i soggetti si trovano ad agire in contesti di opportunità differenziate che condizionano le loro scelte e i loro comportamenti. Le opportunità sono variamente distribuite tra le classi sociali e influenzate da vari fattori, quali l’appartenenza etnica, la regione di provenienza, il ceto sociale. Gli autori affermano l’esistenza di più modi per realizzare le aspirazioni: non esistono solo mezzi legittimi, ma anche mezzi illegittimi. Nelle aree urbane abitate dalle classi inferiori, dove le opportunità legittime sono poche, se ne possono trovare altre. La posizione sociale e la subcultura di appartenenza determinano, quindi, la capacità di
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utilizzare sia canali legittimi che canali illegittimi verso il successo. Sono tre le principali subculture individuate dagli autori:
1. le subculture criminali tipiche delle zone dove prevale la criminalità organizzata;
2. le subculture conflittuali in cui la violenza e il vandalismo sono le opportunità più frequenti;
3. le subculture astensionistiche, che si caratterizzano per una fuga dalla società e per il rifiuto della cultura che li rappresenta, tipica, ad esempio, dei soggetti tossicodipendenti. La teoria delle opportunità differenziali richiama il ruolo assunto dal contesto territoriale nei processi di apprendimento e di crescita del minore. E’ interessante confrontare le teorie sulla subcultura con ciò che caratterizza il nostro paese nelle regioni del sud. Le subculture criminali, come la mafia o la camorra, si configurano come vere e proprie pedagogie e strategie educative parallele a quelle legali e sono un modello culturale forte che viene prospettato ai giovani. Esse offrono opportunità alternative ai bisogni di realizzazione, di identificazione e di sviluppo del minore160.
L’analisi del territorio e delle influenze culturali che possono incidere sull’iter formativo del minore sono, nel contesto italiano, molto interessanti anche per trovare risposte ai problemi minorili e per indagare sulle risorse da offrire ai giovani. Nei contesti a rischio, l’intervento della scuola, dei servizi dell’ente locale, del volontariato, sono essenziali per offrire un riferimento alternativo significativo.
Le teorie della subcultura, offrono un apporto fondamentale allo studio della “devianza giovanile”, ma presentano alcune criticità che sono state evidenziate da autori successivi. E’ stata, ad esempio, criticata e smentita l’idea che le condotte devianti siano una caratteristica delle classi meno agiate. Il primo a mettere in luce ciò è stato Sutherland. Egli elaborò
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la teoria delle associazioni differenziali, secondo cui la criminalità e la devianza vengono apprese in associazione diretta o indiretta con gli altri. Esse sarebbero quindi il risultato di un processo di apprendimento attraverso la comunicazione e l’interazione con individui o gruppi favorevoli al crimine, che attribuiscono significati positivi ad azioni criminali. Inoltre, Sutherland, sottolinea che, quanto più l’ambiente criminogeno è ristretto, tanto più i legami sono forti e quindi tanto più il modello criminale viene più significativamente interiorizzato161.
Sutherland, partendo da tali premesse, svolse una ricerca sui cosiddetti “crimini dei colletti bianchi”, commessi da soggetti della classe media nel corso delle loro occupazioni. Dimostrò, quindi, quanto le condotte devianti fossero presenti, se pur in forma differente, anche nei ceti più agiati della società statunitense. Egli criticò decisamente il tradizionale paradigma sociologico e, in particolare, la relazione di tipo deterministico tra povertà, patologia sociale, disorganizzazione sociale e criminalità162.
In linea con i contributi di Sutherland, tendenti a svelare la criminalità sommersa e a rompere il legame tra povertà e crimine, sono da segnalare gli studi di Chapman. Questi ha sottolineato come la dimensione conosciuta della criminalità sia collegata più che all’effettiva commissione dei reati al fenomeno “dell’immunità differenziale”, che opera discriminando i soggetti in rapporto alla loro classe sociale, all’appartenenza istituzionale e alla loro visibilità pubblica distorcendo, così, le statistiche giudiziarie mostrando una maggior tendenza al crimine delle classi svantaggiate.
Il fenomeno della “cifra oscura”, della “criminalità nascosta”, è molto importante per lo studio della “devianza minorile”, è questo un campo in cui vi è molta discrasia tra i reati noti e fenomeni sommersi. Nonostante ciò, le ricerche su questo tema sono molto recenti e condotte
161 Ibid. 162
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attraverso lo strumento dell’autoconfessione e della vittimizzazione. I risultati hanno reso evidente un dato fondamentale: quasi nessun ragazzo vive esperienze completamente esenti da comportamenti devianti, che sono previsti dalla legge come reato o come indice di disadattamento grave. Soprattutto i furti sono molto diffusi in età evolutiva, in tutte le classi sociali e in ogni ceto163.
Nel campo della “devianza minorile” è, inoltre, molto noto il problema delle “immunità differenziali”. Scoprire un giovane dei ceti più alti a commettere un reato è molto più complesso, perché questo non sarà oggetto dello stesso controllo che subisce di solito ragazzo che, ad esempio, sia mal vestito. In più, se il reato viene scoperto, la risposta e la reazione sociale sarà differente: per il ragazzo del ceto più alto si farà probabilmente riferimento alla famiglia, mentre sembrerà logico chiamare la polizia per un ragazzo straniero o per un ragazzo appartenente ai ceti più bassi.