CAPITOLO I: I MINORI DETENUTI: ASPETTI E PROBLEMI DEL
1.7. Il “trattamento penitenziario”
Per aver chiare quali sono le norme che regolano il trattamento intra moenia del minore è necessario spostare la nostra indagine sulla legge 354/1975, concernente “Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà”, e sul recente D.P.R. 230/2000, contenente il “Regolamento recante norme sull'ordinamento penitenziario e sulle misure privative e limitative della libertà” col quale è stato abrogato il Regolamento 431/1976.
Queste norme, talvolta corrette nella prassi o attenuate di rigore dalle circolari ministeriali, in particolare la 5391/2006 sull’ organizzazione e gestione tecnica degli Istituti Penali per minorenni e dagli interventi della Consulta, sono ad oggi la base normativa a cui fare riferimento per le modalità di trattamento del minore all’interno di un istituto penale.
La legge 354/75 riveste un’ importanza fondamentale nel panorama legislativo in materia, in quanto, per la prima volta, gli aspetti applicativi delle misure penali vengono ad essere regolati tramite legge del Parlamento. I principi ispiratori del trattamento penitenziario adottato nel nostro paese traggono origine da una vasta elaborazione dottrinale e scientifica tendente a saldare le acquisizioni della scienza criminologica, l’evoluzione del pensiero filosofico e le statuizioni della nostra Carta costituzionale66.
L’impegno di attuazione della Carta costituzionale trova nell’art. 1 ord. pen. la sua sede privilegiata: “Il trattamento penitenziario deve essere conforme ad umanità e deve assicurare il rispetto delle dignità della
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Tale intervento è auspicato anche dal Gruppo CRC nel 4° rapporto di aggiornamento sul monitoraggio della Convenzione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza in Italia 2007-2008. La preoccupante innovazione era già stata denunciata dal gruppo CRC anche nei due rapporti precedenti. www.gruppocrc.net.
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persona. Il trattamento è improntato ad assoluta imparzialità, senza discriminazioni in ordine a nazionalità, razza e condizioni economiche e sociali, a opinioni politiche e a credenze religiose. Negli istituti devono essere mantenuti l'ordine e la disciplina. Non possono essere adottate restrizioni non giustificabili con le esigenze predette o, nei confronti degli imputati, non indispensabili a fini giudiziari. I detenuti e gli internati sono chiamati o indicati con il loro nome.
Il trattamento degli imputati deve essere rigorosamente informato al principio che essi non sono considerati colpevoli sino alla condanna definitiva. Nei confronti dei condannati e degli internati deve essere attuato un trattamento rieducativo che tenda, anche attraverso i contatti con l'ambiente esterno, al reinserimento sociale degli stessi. Il trattamento è attuato secondo un criterio di individualizzazione in rapporto alle specifiche condizioni dei soggetti”.
Capiamo quindi come il concetto di trattamento penitenziario a cui già faceva cenno l’art. 27 della Costituzione, viene, con tale legge, valorizzato e dettagliatamente regolamentato. La persona del detenuto è messa al centro del sistema penitenziario, gli viene riconosciuto il diritto ad un certo tipo di trattamento, in armonia con le regole di umanità e nel rispetto della sua dignità.
Il trattamento sarà fornito nell’assoluto rispetto del diritto d’eguaglianza inteso come imparzialità amministrativa per assicurare, così, parità di condizioni, senza consentire ad alcuno l’acquisizione di una posizione di preminenza sugli altri (art. 32/3)67.
Tali caratteri delineati dalle prime righe dell’art. 1 sono valevoli sia per gli imputati che per i condannati, ma, al quarto comma, vi è una netta distinzione, sempre nella prospettiva del rispetto dei principi costituzionali,
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Cfr. Elvio Fassone, La pena detentiva in Italia dall’800 alla riforma penitenziaria, Il Mulino, Bologna, 1980.
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tra gli uni e gli altri sottolineando così già all’inizio della legge la differenza di significato che il trattamento assume per tali categorie di destinatari.
Con riferimento al principio della presunzione di innocenza (art. 27/2 Cost.), il legislatore ha espressamente escluso un intervento di tipo rieducativo nei confronti dei soggetti in attesa di giudizio e a tale postulato si uniforma l’art. 1 del Regolamento di esecuzione che definisce il trattamento degli imputati come “un’offerta di interventi diretti a sostenere i loro interessi umani, culturali e professionali” in una prospettiva che mira ad evitare gli effetti de-socializzante della carcerazione più che a rieducare. Il trattamento penitenziario è definito, quindi, come un’offerta di interventi caratterizzato dall’assenza di qualunque carattere impositivo, presupponendo un’adesione volontaria da parte dei soggetti68.
Per quanto concerne i condannati, invece, il quinto comma dell’art.1 ord. pen. si ricollega palesemente all’art. 27/3 Cost., sancendo l’esigenza di un trattamento rieducativo che tenda al reinserimento sociale sulla base di un criterio di individualizzazione, in rapporto alle specifiche condizione dei soggetti. In questa prospettiva si incardina anche il secondo comma dell’art.1 del Regolamento d’esecuzione nel quale si precisa che lo scopo del trattamento per i condannati è di “promuovere un processo di modificazione delle condizioni e degli atteggiamenti personali, nonché delle relazioni familiari e sociali che sono di ostacolo a una costruttiva partecipazione sociale”.
Quindi sono prospettati due tipi di trattamento molto differenti e con presupposti totalmente opposti: il trattamento penitenziario, inteso come quel complesso di norme e di attività che regolano ed assistono la privazione della libertà valevoli anche per l’imputato, e il trattamento rieducativo, che si inserisce nel quadro di gestione delle modalità detentive ma con una finalità ben precisa a cui corrisponde il dovere statale di attuare
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l’esecuzione penale in modo tale da tendere la rieducazione del soggetto condannato69.
La legge del ’75 permette ai detenuti, al fine della rieducazione e del conseguente reinserimento sociale, di avvalersi principalmente del lavoro, dell’istruzione, della religione, delle attività ricreative e sportive, agevolando opportuni contatti con il mondo esterno ed i rapporti con i familiari. Sono questi gli elementi del trattamento con i quali la riforma mirava a superare la chiusura e l’isolamento del mondo carcerario.
L’ordinamento penitenziario è stato oggetto di una corposa modifica con la legge 663/1986 conosciuta come “Legge Gozzini”. Il merito di questa legge è stato quello di ampliare e approfondire le questioni lasciate aperte dalla riforma, permettendo un’apertura maggiore tra carcere e mondo esterno, favorendo, soprattutto, l’ampliamento delle possibilità per i condannati di usufruire di misure alternative alla detenzione.
In più è stato introdotto l’istituto del permesso premio all’art. 30 ter in vista dell’attuazione di interessi di natura affettiva, culturale e lavorativa. La durata dei permessi premio, come ricordato sopra, è una delle poche previsioni all’interno dell’ordinamento penitenziario che si differenzia in relazione ai condannati minorenni: è previsto, infatti, al comma secondo del suddetto articolo che fermo restando l’accertamento relativo alla regolare condotta, la durata del permesso per i minorenni non può essere superiore a venti giorni (a fronte del limite di quindici giorni previsto per gli adulti) per una durata complessiva, in ciascun anno di espiazione della pena, non eccedente i sessanta giorni (rispetto ai quarantacinque negli altri casi).
Altro momento importante nell’evoluzione della materia penitenziaria del nostro paese, come già ricordato, è stato l’introduzione con D.P.R. 230/2000 del nuovo Regolamento d’esecuzione. Esso si ispira espressamente alle già ricordate “Regole minime per il trattamento dei
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Cfr. Carlo Brunetti, Marcello Ziccone, Manuale di diritto penitenziario, La Tribuna, Piacenza, 2004.
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detenuti” adottate dall’ONU nel 1955 e alle “Regole penitenziarie europee” del Consiglio d’Europa del 1987. La finalità del provvedimento è proprio quella di ribadire la necessità, nonché il dovere, di umanizzare la vita dei detenuti70. A tale proposito si inserisce l’art. 1 sopra ricordato e tale spirito aleggia in tutte le norme del provvedimento. L’istituto penitenziario deve assicurare l’esistenza di luoghi di pernottamento e di locali comuni per le attività da svolgersi durante il giorno, le singole camere devono essere dotate di finestre che consentano il passaggio dell’aria e della luce, di acqua calda. Massima attenzione, inoltre, è riservata all’alimentazione, poiché si deve tener conto anche delle diverse usanze culturali e delle prescrizioni religiose a causa della eterogenea popolazione detenuta.
Viene successivamente ribadito che il programma di trattamento deve essere riferito al singolo individuo, cioè deve essere idoneo a fornire linee guida per il recupero sociale del singolo condannato71. Ai detenuti stranieri, poi, fenomeno di minime dimensioni al tempo del primo Regolamento, sono dedicate delle disposizioni apposite72. In particolare si è ritenuta necessaria l’introduzione di mediatori culturali per garantire una migliore comprensione tra amministrazione penitenziaria e reclusi di altre nazionalità.
Altro momento fondamentale è quello dell’ingresso in Istituto, in cui viene predisposto l’accertamento di eventuali maltrattamenti,facendo carico alla direzione penitenziaria di segnalare all’autorità giudiziaria competente le condizioni fisiche del nuovo arrivato che, dopo il suo ingresso in Istituto, deve essere esaminato da un esperto dell’osservazione del trattamento.
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Cfr. Luca Bresciani, Francesca Ferradini, Mutamenti normativi, in Stefano Anastasia, Patrizio Gonnella (a cura di), Inchiesta sulle carceri italiane, Carocci, Roma, 2002, pp. 99-108.
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Viene data, inoltre, molta rilevanza agli incontri con i familiari, previsti in appositi locali o all’aperto. In generale, dunque, si ampliano, seppur parzialmente e non per tutti, i colloqui e le comunicazioni telefoniche con i congiunti.
In tema di collaborazione tra carcere e società esterna si dispone, all’art. 4, D.P.R. 230/2000, che: “alle attività di trattamento svolte negli istituti e dai centri di servizio sociale partecipano tutti gli operatori penitenziari, secondo le rispettive competenze. Gli interventi di ciascun operatore professionale o volontario devono contribuire alla realizzazione di una positiva atmosfera di relazioni umane e svolgersi in una prospettiva di integrazione e collaborazione.
A tal fine, gli istituti penitenziari e i centri di servizio sociale, dislocati in ciascun ambito regionale, costituiscono un complesso operativo unitario, i cui programmi sono organizzati e svolti con riferimento alle risorse della comunità locale; i direttori degli istituti e dei centri di servizio sociale indicono apposite e periodiche conferenze di servizio. Il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria ed i provveditori regionali adottano le opportune iniziative per promuovere il coordinamento operativo rispettivamente a livello nazionale e regionale”.
Ampio spazio viene inoltre dato al volontariato: l’art. 120 autorizza all’ingresso tutti coloro che dimostrano interesse e sensibilità per la condizione umana dei sottoposti a misure privative della libertà, e che danno prova di concrete capacità nell’assistenza a persone in stato di bisogno.
Il quadro normativo di riferimento per l’esecuzione dei provvedimenti giudiziari in ambito minorile è completato dalla Circolare dell’Ufficio Centrale per la Giustizia Minorile n. 5391 del 17 febbraio 2006 “Organizzazione e gestione tecnica degli IPM”. Con questo importante strumento operativo si è voluto colmare alcune inevitabili lacune
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dell’ordinamento penitenziario in ragione della specificità dell’utenza degli istituti penali per minorenni aggiornando così la Circolare n. 60080/1995.
Le finalità istituzionali dell’Istituto penale per minorenni indicate dalla circolare riguardano l’esecuzione dei provvedimenti dell’autorità giudiziaria, nella garanzia dei diritti soggettivi dei minori evitando di interrompere i processi educativi in atto, rispettando il loro diritto alla salute ed alla crescita armonica sia fisica che psicologica, all’istruzione e al lavoro.
Osservazione e trattamento che seguono le innumerevoli modificazione di una personalità in divenire e adeguano, quindi, gli interventi al caso specifico. L’osservazione viene effettuata dall’équipe composta dal Direttore dell’istituto, dall’educatore, dall’assistente sociale e poi integrata da altre figure, quali lo psicologo, a cui è stata affidata dalla circolare la funzione di valutare la compatibilità del soggetto con il regime detentivo, nonché il medico, un rappresentante della polizia penitenziaria, l’insegnate, l’animatore e il mediatore culturale. Per il minore si ritiene, inoltre, necessaria la presenza di coloro che a vario titolo entrano in contatto con il detenuto e collaborano al trattamento siano essi operatori o rappresentati del territorio e del privato sociale.
Il provvedimento amministrativo precisa come il gruppo di osservazione “dovrà condividere una strategia di intervento atta a promuovere esperienze relazionali finalizzate a fornire un nuovo contesto di esperienze profondamente diverso da quello sperimentato nella storia del ragazzo”.
In questo contesto gli operatori, integrandosi sul piano della multidisciplinarietà, devono rappresentare un riferimento autorevole e significativo per promuovere un cambiamento non soltanto in termini comportamentali ma anche in termini di personalità.
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Le attività proposte nella circolare, fanno riferimento ad una serie di opportunità di tipo scolastico, professionale, sportivo, di animazione e socializzazione.
L’elemento fondante del trattamento, fondamentale per soggetti in età evolutiva, è sicuramente, all’interno del carcere minorile, l’istruzione. L’art. 19 ord. pen. incentiva all’organizzazione di corsi della scuola dell’obbligo e di scuole secondarie e in particolare al secondo comma ricorda l’importanza che la formazione culturale e professionale ha per i soggetti infra venticinquenni. Questo timido accenno, peraltro orientato più al trattamento dei giovani adulti e di carattere programmatico, non aiuta a superare gli ostacoli che vi sono in concreto per il funzionamento delle attività didattiche all’interno degli IPM. Non sono sicuramente sufficienti le indicazioni fornite dalla norma in esame che stabilisce la necessaria conformità dei corsi della scuola dell’obbligo con gli ordinamenti vigenti e “con l’ausilio di metodi adeguati alla condizione dei soggetti”. La direttiva amministrativa, in tal senso risulta scarna in quanto tace circa l’istituzione di corsi di scuola secondaria superiore, si limita a prevedere la necessità, in considerazione dei numerosi detenuti stranieri, di creare corsi di lingua italiana.
La circolare richiede agli operatori di porre in essere continuamente un’opera di mediazione e di coinvolgimento, promuovendo la partecipazione, lo sviluppo della potenzialità del minore, anche avvalendosi di collaboratori esterni. A tale scopo è stata ribadita l’importanza che le figure di culto ricoprono nell’intervento rieducativo aggiungendo un elemento interessante circa la possibilità che dette figure possano sensibilizzare le rispettive comunità di culto soprattutto nel momento delle dimissioni, affinché svolgano una funzione di accoglienza e sostegno, al minorenne ed alla famiglia, nel reperimento di risorse utili al reinserimento sociale del detenuto.
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Importanza fondamentale negli Istituti penali per minorenni assumono i contatti con il mondo esterno. Questo incontro, come avremo modo di analizzare meglio, dovrebbe avere una duplice direzione: da un lato, la comunità esterna entra nel carcere, dall’altro, il recluso lascia temporaneamente l’istituto attraverso gli strumenti premiali previsti dalla legge. Il primo profilo è regolato dall’art. 17 ord. pen. che prevede “la partecipazione di privati o di istituzioni o associazioni pubbliche o private all’azione educativa".
L’azione dei privati si concretizza in singole iniziative tese a sorreggere attività dell’istituto soprattutto culturali, ricreative e sportive. Tali attività, importanti per uno sviluppo e per la crescita del detenuto dovrebbero trovare massima espressione all’interno del carcere minorile ed è la circolare stessa a promuovere un’ intensificazione, ampliamento e valorizzazione di iniziative che coinvolgono in mondo esterno.
Il contatto con la comunità esterna è assicurato, inoltre, dai colloqui con i familiari, dalla corrispondenza e dall’accesso ai mezzi di informazione. L’incontro con la famiglia, senza dubbio, è un elemento privilegiato per il trattamento rieducativo. Nel contesto minorile l’incontro con i familiari è poi necessario per una crescita armonica e per il graduale reinserimento nel contesto sociale del detenuto.
La circolare del 2006 si occupa, infatti, in maniera estesa dei rapporti con i familiari stabilendo che “dovranno essere favorite le occasioni di incontro con questi e con le altre persone particolarmente significative, valutando la possibilità di individuare spazi e aree verdi interne ove trascorre parte della giornata, effettuare i colloqui, consumare insieme i pasti e programmare iniziative”.
Anche in questa dimensione la mancanza di una legge a misura di minore fa sì che l’accesso ai colloqui con i familiari e con terze persone, per il condannato, sia subordinato all’autorizzazione del Direttore dell’istituto rendendo quindi incerta la collocazione di tale strumento tra i diritti
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soggettivi riconosciuti al detenuto e affievolendone la connotazione rieducativa73. Analoghe osservazioni vanno fatte per i colloqui telefonici, nel contesto minorile ad alta densità straniera questo limite è ancora più grave essendo il mezzo più immediato e in molti casi l’unico per comunicare con i familiari.
L’applicazione della circolare nei vari istituti italiani viene controllata anche grazie alle relazioni che periodicamente vengono trasmesse dal gruppo programmazione e verifica al Dipartimento della Giustizia Minorile.