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1. Ambito di applicazione: il criterio oggettivo

1.1. Il tipo contrattuale

Il primo criterio si fonda sulla concorrenza di due elementi eterogenei: in primo luogo, quanto al tipo contrattuale, si deve trattare di contratti di vendita o, poiché ad essa equiparati dalla norma, di permuta, somministrazione, appalto, contratto d’opera, o deve ricorrere una causa negoziale generica di scambio, alla quale fa riferimento la formula di chiusura dell’art. 128, comma 1, contemplando “tutti gli altri contratti comunque finalizzati alla fornitura di beni di consumo da fabbricare e produrre”; in secondo luogo il contratto deve avere, per l’appunto, come oggetto un “bene di consumo”.

In relazione alla tipologia contrattuale va osservato che la disciplina della vendita di beni consumo può inquadrarsi tra le c.d. discipline transtipiche, applicabili a diversi tipi negoziali.

In tale ipotesi si verifica la rilevanza concomitante di una causa generica (che caratterizza la disciplina transtipica) e delle diverse cause specifiche relative al tipo contrattuale in cui la disciplina transtipica si innesta.

Nel caso della vendita di beni di consumo può individuarsi la causa generica nella funzione traslativa di beni di consumo da fabbricare o produrre da parte di un fornitore professionale e diretti ad un consumatore: la presenza di tale causa generica è condizione essenziale per l’applicabilità degli artt. 128 ss. del Codice del consumo.

Alla causa generica si affianca la causa specifica del negozio concretamente stipulato, tipico o atipico, che determina l’applicazione delle relative disposizioni.

In merito alle fattispecie contrattuali che rientrano nell’ambito di applicazione della disciplina, la direttiva 1999/44/CE non si limita ad indicare la vendita ma, come accennato, equipara ad essa anche i «contratti di fornitura di beni di consumo da fabbricare o produrre»97.

In ambito comunitario, naturalmente, non è rinvenibile una definizione unitaria della vendita e, alla luce della equiparazione agli altri contratti comunque finalizzati alla fornitura di beni di consumo, nei primi commenti alla nuova disciplina si propendeva per l’applicabilità della stessa a tutti i negozi di scambio nei quali una parte si obbliga a fornire all'altra un bene di consumo verso la prestazione di un corrispettivo.

E’ stato sostenuto, inoltre, che tale disciplina dovesse operare indipendentemente da ulteriori variabili, quali il fatto che nell'obbligazione assunta dal venditore prevalga la componente del dare ovvero del facere; che il bene debba essere fabbricato o prodotto in proprio dal venditore (sia esso un bene da produrre in serie o «individualizzato»); che a procurare i materiali necessari per la produzione del bene di consumo sia il venditore, la sua controparte, ovvero un terzo98 e, infine,

che la controprestazione del consumatore abbia ad oggetto una quantità di cose fungibili diverse dal denaro.

Nel dare attuazione alla direttiva il legislatore ha reso esplicito quanto la dottrina aveva già ricavato in via interpretativa dal testo comunitario, e, pertanto, l’art. 128, comma 1, del Codice del consumo, con formulazione più ampia di quella contenuta nella corrispondente norma della direttiva, ha espressamente equiparato ai contratti di vendita «i contratti di permuta e di somministrazione nonché quelli di appalto, di

97 La Convenzione di Vienna, invece, a differenza della direttiva 1999/44/CE, esclude espressamente dal

proprio ambito di applicazione i contratti nei quali la parte preponderante delle obbligazioni consiste nella fornitura di mano d'opera o di altri servizi (art. 3, comma 2).

98 La direttiva non riproduce, infatti, la previsione presente nell'art. 3, comma 1, della Convenzione di

Vienna, secondo cui il contratto non può essere considerato una vendita «se la parte che commissiona i beni si impegni a fornire una parte sostanziale dei materiali necessari per tale fabbricazione o produzione».

opera e tutti gli altri contratti finalizzati alla fornitura di beni di consumo da fabbricare o produrre»99.

Anche la formulazione adottata dal legislatore italiano suscita però numerosi problemi interpretativi.

E’ stato rilevato100, infatti, che un’interpretazione formalistica dell’art. 128, comma 1, “determinerebbe l’esclusione dall’ambito di applicazione della nuova disciplina di tutti i contratti che non vi risultano espressamente menzionati ed abbiano ad oggetto l’acquisto di beni presenti, a meno che tali beni non siano oggetto di una fornitura periodica o continuativa”101.

Tale lettura peraltro appare contraria allo spirito della direttiva che “intende considerare in una prospettiva unificata la fornitura di beni presenti e la fornitura di beni da fabbricare e produrre, se la stessa è procurata da un fornitore professionale ad un consumatore e determina l’acquisto dei beni in capo a quest’ultimo”102.

99 E. CORSO, Vendita di beni di consumo, Bologna, 2005, 11 ss., osserva che, nel testo della direttiva

comunitaria, la clausola di chiusura che equipara ai contratti di vendita tutti gli altri contratti comunque finalizzati alla fornitura di beni di consumo «anche da fabbricare o produrre» poteva essere interpretata nel senso di far rientrare nel campo di applicazione della nuova normativa anche i contratti d'opera e di appalto. Poiché, invece, tali figure contrattuali sono state già espressamente contemplate nell'art. 128 (ex art. 1519 bis, comma 1, prima parte, c.c.), rimane oscuro a quali altri istituti la norma di chiusura recepita dal legislatore nazionale debba riferirsi.

Sembra potersi dire, ad ogni modo, che quando un contratto di vendita preveda prestazioni aggiuntive di

facere, oltre al mero trasferimento del bene, e queste siano in alcuni casi prevalenti rispetto all'elemento

traslativo stesso, ciò non impedisce di inserirlo all'interno della disciplina della vendita dei beni di consumo. Tuttavia, la distinzione tra il trasferimento di un bene mobile materiale, come risultato dell'opera svolta dal venditore, e la fornitura di un semplice servizio non sempre è di facile individuazione. Nel caso di fornitura del materiale da parte del compratore — osserva l'autrice — la disciplina sulle garanzie nella vendita dei beni di consumo si applica solo qualora al consumatore sia trasferito un bene che in sé racchiude una propria valenza economica; in caso contrario, si versa nella diversa fattispecie di prestazione di servizi.

100 Cfr. F. RICCI, Commento all’art. 128, comma 1, codice del consumo, in “La vendita di beni di consumo”, a cura di C.M. Bianca, 2006, 6 ss..

101 La formula di chiusura fa infatti esclusivo riferimento “ai beni da fabbricare e da produrre”, che certamente sono beni futuri, con la conseguenza che, in base ad un’interpretazione letterale della norma, con riferimento ai beni presenti, la nuova disciplina sarebbe applicabile solo ai tipi nominati della vendita, della permuta e della somministrazione.

1.1.2. Applicabilità al contratto di leasing

Si è posto poi il problema dell’applicabilità della disciplina della vendita di beni consumo al contratto di leasing.

Secondo una prima impostazione nel silenzio della legge il leasing non potrebbe includersi fra i contratti soggetti alla disciplina dei beni di consumo, attesa la mera eventualità, in tale schema contrattuale, di un definitivo trasferimento di proprietà del bene in capo al lessee, nonché la difficoltà di equiparare il lessor ad un venditore103.

Sul punto appare però decisiva l’analisi della sussistenza, nell’operazione concretamente posta in essere dalle parti tramite lo strumento del leasing, della causa negoziale generica che determina l’applicazione della disciplina in esame, consistente nella funzione traslativa di beni di consumo da un fornitore professionale a un consumatore.

Aderendo alla posizione dottrinale preferibile, infatti, nell’ipotesi di leasing bisognerà distinguere tra un leasing traslativo, da ricomprendersi nell’ambito applicativo della normativa speciale, ed uno di mero godimento, estraneo pertanto al campo d’azione della disciplina consumeristica104.

Pertanto, l’applicabilità della disciplina di cui agli ex art. 1519 bis e ss. andrebbe esclusa con riferimento al solo leasing di godimento, in quanto pattuito con funzione di finanziamento, rispetto a beni non idonei a conservare un apprezzabile valore residuale alla scadenza del rapporto e dietro pagamento di canoni che configurano esclusivamente un corrispettivo per l'uso.

Il leasing traslativo, invece, essendo pattuito con riferimento a beni atti a conservare un valore residuo alla scadenza e dietro il pagamento di canoni che scontano anche una quota del prezzo, può considerarsi effettivamente finalizzato all'acquisto della proprietà, piuttosto che al mero godimento. Soprattutto quando il prezzo finale di opzione sia praticamente nullo, infatti, i canoni versati

103 In tal senso cfr. G. ALPA, G. DE NOVA e altri, “L’acquisto di beni di consumo”, 2002, 17.

104 Cfr. V. MANNINO, commento all'art. 1519-bis, comma 1, c.c., in Commentario alla disciplina della vendita dei beni

periodicamente dal lessee finiscono per presentare una funzione economica che appare diretta prevalentemente ad assolvere la natura di corrispettivo del valore capitale del bene.

Potendosi tracciare, sulla base di tali premesse, una sostanziale convergenza fra il leasing traslativo e la vendita con riserva di proprietà, e ritenendo che la figura del lessor sia, in tal caso, effettivamente equiparabile a quella del venditore, si deve concludere che, nonostante la mancanza di una espressa previsione in tal senso, la normativa sui beni di consumo possa comunque applicarsi alla fattispecie in questione.