Di particolare rilevo è la sentenza del 5 aprile 2016 della Grande Sezione della Corte di Giustizia dell'Unione europea (C. giust. UE, 5 aprile 2016, C-404/15 e C-659/15, Aranyosi e Caldararu), che ha affrontato la questione pregiudiziale, sottopostale in relazione a consegne alle autorità giudiziarie romene ed ungheresi richieste con mandato di arresto europeo (nella specie, rispettivamente, di tipo «esecutivo» e «processuale»), concernente la possibilità di introdurre un motivo di non esecuzione non previsto espressamente dal legislatore dell'Unione europea: ovvero la presenza di «gravi indizi» sulla violazione dei diritti fondamentali dell'interessato e dei principi giuridici generali sanciti dall'articolo 6 TUE da parte dello Stato di emissione in relazione alle condizioni di detenzione.
L'interpretazione fornita dalla Corte di giustizia pone in evidenza due aspetti nodali: da un lato che il meccanismo di consegna delineato dalla decisione quadro del 2002, fondato sul principio di fiducia reciproca tra gli Stati membri, che presuppone che tutti rispettino il diritto dell'Unione e, più in particolare, i diritti fondamentali riconosciuti da quest'ultimo, non può prescindere dalla constatazione dell'effettivo e concreto grave malfunzionamento del sistema penitenziario dello Stato membro emittente, dall'altro che proprio i principi fondanti l'Unione europea obblighino ogni Stato membro al rispetto dei diritti fondamentali sanciti dalla CEDU, come rammenta il considerando 10 della decisione quadro, in base al quale l'attuazione del mandato d'arresto europeo può essere sospesa in caso di grave e persistente violazione da parte di uno Stato membro dei principi sanciti all'articolo 6, paragrafo 1, UE.
Pertanto, la Corte di giustizia ha affermato che, se lo Stato membro di esecuzione è tenuto ad accertare concretamente in relazione alla persona richiesta in consegna l'esistenza di un rischio collegato al divieto di pene o di trattamenti inumani o degradanti, contenuto nell'art. 4
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della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea e nell'art. 3 CEDU, va al contempo salvaguardata la possibilità della realizzazione della consegna stessa, consentendo «entro un tempo ragionevole» allo Stato membro di emissione di rimuovere le condizioni ostative connesse a tale rischio.
Una volta verificata l'esistenza di un rischio concreto di trattamento contrario all'art. 3 CEDU ad opera di uno Stato membro, spetta infatti a quest'ultimo provvedere a rimuoverlo.
La Corte di giustizia ha quindi delineato la procedura che gli Stati membri devono seguire allorquando l'autorità giudiziaria dello Stato membro di esecuzione disponga di elementi che attestino «un rischio concreto» di trattamento inumano o degradante dei detenuti nello Stato membro di emissione.
In primo luogo, detta autorità deve valutare se tale rischio sussista, basandosi su «elementi oggettivi, attendibili, precisi e opportunamente aggiornati» sulle condizioni di detenzione vigenti nello Stato membro emittente e comprovanti la presenza di carenze sia sistemiche o comunque generalizzate, sia limitate ad alcuni gruppi di persone o a determinati centri di detenzione.
A tal fine, la Corte ha indicato quali fonti conoscitive qualificate le decisioni giudiziarie internazionali, in particolare le sentenze della Corte EDU, le decisioni giudiziarie dello Stato membro emittente, nonché da decisioni, relazioni e altri documenti predisposti dagli organi del Consiglio d'Europa o appartenenti al sistema delle Nazioni Unite.
Una volta accertata la sussistenza di un rischio concreto di trattamento inumano o degradante, dovuto alle condizioni generali di detenzione nello Stato membro emittente, l'autorità giudiziaria di esecuzione deve svolgere un'indagine «mirata», volta cioè a stabilire se, nel caso concreto, l'interessato alla consegna sarà sottoposto ad un trattamento inumano o degradante.
In altri termini, deve essere effettuato un supplemento di istruttoria, a norma dell'art. 15, par. 2 della decisione quadro del 2002, per richiedere con urgenza all'autorità giudiziaria dello Stato membro emittente «qualsiasi informazione complementare necessaria» in ordine alle condizioni di detenzione previste per la persona di cui è stata chiesta la consegna e all'esistenza di «procedimenti e meccanismi nazionali o internazionali di controllo delle condizioni di detenzione» che consentano di valutare lo stato effettivo delle condizioni di detenzione in predetti istituti.
La Corte di giustizia, a tal riguardo, ha rammentato l'opportunità che venga fissato un termine massimo per la ricezione delle informazioni complementari, che tenga conto dei termini fissati dall'art. 17 della decisione quadro, ma che sia al contempo adeguato ai tempi necessari allo Stato di emissione per raccogliere le informazioni richieste, se necessario ricorrendo a tal fine all'assistenza dell'autorità centrale.
La stessa Corte ha quindi precisato che la consegna sarà disposta, se l'autorità giudiziaria di esecuzione escluda, sulla base delle informazioni «individualizzate» ricevute, un rischio concreto di trattamento inumano o degradante, rispetto alla persona oggetto del mandato d'arresto europeo.
La Corte di giustizia ha volutamente evitato di prevedere eventuali garanzie sul rispetto delle condizioni di detenzione da parte dello Stato di esecuzione, così come prospettato dal giudice del rinvio.
Nella cooperazione tra autorità giudiziarie sulla base del meccanismo del mandato di arresto europeo, fuori dalla dimensione politica tipica dell'estradizione, vengono in considerazione esclusivamente le informazioni che portino ad escludere la sussistenza del rischio.
Informazioni delle quali lo Stato di esecuzione, in conformità con i principi del mutuo riconoscimento, deve prendere atto.
Nel diverso caso in cui, sulla base delle informazioni fornite, non venga escluso il rischio concreto di trattamento inumano o degradante, la Corte di giustizia ha stabilito che l'esecuzione del mandato «deve essere rinviata, ma non può essere abbandonata» e ne va informato Eurojust.
In buona sostanza, l'autorità giudiziaria di esecuzione deve rinviare la propria decisione sulla consegna, fintanto non ottenga - purché entro un termine ragionevole - informazioni complementari che le consentano di escludere la sussistenza di un siffatto rischio.
Successivamente, la Corte di giustizia (Prima Sezione, 25 luglio 2018, ML, C-220/18) ha precisato la portata applicativa dei principi affermati nella sua precedente pronuncia relativa al caso Aranyosi e Căldăraru (nel nostro ordinamento v., in adesione al quadro di principi al
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riguardo stabiliti dai giudici lussemburghesi, Sez. 6, n. 23277 del 01/06/2016, Barbu; Sez. 6, n.
47891 del 11/10/2017, Enache, Rv. 271513), rispondendo ad una domanda pregiudiziale formulata dal Tribunale superiore del Land, Brema (Germania), che nutriva dubbi, alla luce delle condizioni di detenzione esistenti in Ungheria, in merito alla possibilità di consegnare alle autorità ungheresi un loro cittadino, ivi condannato in contumacia ad una pena privativa della libertà di un anno e otto mesi per reati di percosse e lesioni, danneggiamento, truffa semplice e furto con scasso. Le autorità di esecuzione, infatti, ritenevano di disporre di elementi comprovanti l’esistenza di carenze sistemiche o generalizzate nell’ordinamento penitenziario ungherese, ravvisando un rischio reale, per la persona ricercata, di subire un trattamento inumano o degradante ai sensi dell’art. 4 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.
Sulla scorta della su citata sentenza della Corte di giustizia nelle cause Aranyosi e Căldăraru, l’autorità giudiziaria tedesca ha ritenuto necessario acquisire informazioni supplementari in merito alle effettive condizioni nelle quali il consegnando avrebbe potuto essere detenuto in Ungheria e, in tale contesto, ha richiesto alla Corte di Lussemburgo ulteriori precisazioni in merito agli atti da compiere.
A tale riguardo la Corte europea ha affermato che compete all’autorità giudiziaria dello Stato di esecuzione, qualora disponga di elementi comprovanti l’esistenza di carenze sistemiche o generalizzate nelle condizioni di detenzione all’interno degli istituti penitenziari dello Stato membro emittente, tenere conto di tutti i dati aggiornati disponibili ed espletare le pertinenti verifiche sulla base dei parametri di seguito precisati: 1) non può escludere l’esistenza di un rischio reale che la persona interessata da un mandato d’arresto europeo emesso ai fini dell’esecuzione di una pena privativa della libertà sia oggetto di un trattamento inumano o degradante, ai sensi dell’articolo 4 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, per il solo motivo che tale persona disponga, nello Stato membro emittente, di un mezzo di ricorso che le permette di contestare le sue condizioni di detenzione, sebbene l’esistenza di un simile mezzo di ricorso possa essere presa in considerazione da parte della medesima autorità al fine di adottare una decisione sulla consegna della persona interessata; 2) è tenuta unicamente ad esaminare le condizioni di detenzione negli istituti penitenziari nei quali è probabile, secondo le informazioni a sua disposizione, che la suddetta persona sarà detenuta, anche in via temporanea o transitoria; 3) deve verificare, a tal fine, solo le condizioni di detenzione concrete e precise della persona interessata che siano rilevanti al fine di stabilire se essa correrà un rischio reale di trattamento inumano o degradante ai sensi dell’articolo 4 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea; 4) può prendere in considerazione talune informazioni fornite da autorità dello Stato membro emittente diverse dall’autorità giudiziaria emittente, quali, in particolare, la garanzia che la persona interessata non sarà sottoposta a un trattamento inumano o degradante ai sensi dell’articolo 4 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.
Nel caso di specie, conclusivamente, la Corte ha ritenuto che la consegna della persona ricercata alle autorità ungheresi sembrava consentita nel rispetto del suo diritto fondamentale di non essere sottoposta ad un trattamento inumano o degradante, ma ha rimesso la concreta verifica di tale circostanza alla competenza dell’autorità di esecuzione.
In definitiva, da tale pronunzia possono trarsi le seguenti affermazioni di principio: a) l’eventuale esame delle condizioni di detenzione nello Stato membro emittente deve limitarsi agli istituti penitenziari nei quali sia concretamente previsto che la persona interessata sarà detenuta; b) la possibilità per la persona interessata di contestare le condizioni di detenzione nello Stato membro emittente non è sufficiente ad escludere l’esistenza di un rischio reale di trattamento inumano o degradante.
Analoghe considerazioni sono state espresse dalla Corte UE in un altro caso (25 luglio 2018, C-220/18 PPU, ML c. Generalstaatsanwaltschaft), ove si è stabilito che: a) l’eventuale esame, prima dell’esecuzione di un mandato d’arresto europeo, delle condizioni di detenzione nello Stato membro emittente deve limitarsi agli istituti penitenziari nei quali sia concretamente previsto che la persona interessata sarà detenuta; b) la possibilità per la persona interessata di contestare le condizioni di detenzione nello Stato membro emittente non è sufficiente a escludere l’esistenza di un rischio reale di trattamento inumano.
Nella motivazione la Corte ha precisato:
1) anche se lo Stato membro emittente prevede, come l’Ungheria a partire dall’inizio del 2017 , mezzi di ricorso volti a verificare la legittimità delle condizioni di detenzione alla luce dei diritti fondamentali, le autorità giudiziarie di esecuzione restano obbligate a procedere ad un esame individuale della situazione di ciascuna persona interessata, al fine di assicurarsi che la
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loro decisione sulla consegna di tale persona non esporrà quest’ultima ad un rischio reale di subire un trattamento inumano o degradante a causa delle predette condizioni.
2) le autorità giudiziarie dell’esecuzione sono tenute unicamente ad esaminare le condizioni di detenzione negli istituti penitenziari nei quali, secondo le informazioni a loro disposizione, sia concretamente previsto che la persona interessata sarà detenuta, anche in via temporanea o transitoria. La conformità, alla luce dei diritti fondamentali, delle condizioni di detenzione negli altri istituti penitenziari dove detta persona potrebbe eventualmente essere incarcerata in seguito rientra nella sola competenza degli organi giurisdizionali dello Stato membro emittente.
3) l’autorità giudiziaria dell’esecuzione deve verificare solo le condizioni di detenzione concrete e precise della persona interessata che siano rilevanti ai fini di stabilire se essa correrà un rischio reale di trattamento inumano o degradante. In tal senso, la pratica di un culto, la possibilità di fumare, le modalità di lavaggio dei vestiti nonché l’installazione di sbarre o di persiane alle finestre delle celle sono, in linea di principio, aspetti della detenzione privi di rilevanza evidente.
4) l’autorità giudiziaria dell’esecuzione che reputi necessario chiedere all’autorità giudiziaria emittente di fornire con urgenza informazioni complementari relativamente alle condizioni di detenzione deve assicurarsi che le sue richieste, per numero e portata, non finiscano col paralizzare il funzionamento del mandato d’arresto europeo, il quale è volto proprio ad accelerare e a facilitare le consegne nello spazio comune di libertà, di sicurezza e di giustizia.
5) qualora l’autorità giudiziaria emittente garantisca che la persona interessata non sarà sottoposta ad un trattamento inumano o degradante a causa delle sue concrete e precise condizioni di detenzione a prescindere dall’istituto penitenziario in cui sarà incarcerata, l’autorità giudiziaria dell’esecuzione, tenuto conto della fiducia reciproca che deve sussistere tra le autorità giudiziarie degli Stati membri, e sulla quale si fonda il sistema del mandato d’arresto europeo, deve fidarsi di tale garanzia, perlomeno in assenza di qualsivoglia elemento preciso che permetta di ritenere che le condizioni di detenzione esistenti all’interno di un determinato istituto penitenziario siano contrarie al divieto di trattamenti inumani o degradanti.
6) qualora siffatta garanzia non promani da un’autorità giudiziaria, come nel caso di specie, l’affidabilità di una simile garanzia deve essere determinata procedendo ad una valutazione globale dell’insieme degli elementi a disposizione dell’autorità giudiziaria dell’esecuzione.
Nella fattispecie, la Corte ha ritenuto che la consegna di ML alle autorità ungheresi sembrava consentita nel rispetto del suo diritto fondamentale di non essere sottoposto a un trattamento inumano o degradante, ma ha rimesso la verifica di tale circostanza alla competenza dell’OLG Bremen.
Ulteriori delimitazioni di tali principii possono evincersi dalla messa a punto che la Corte di giustizia ha operato al riguardo nella successiva elaborazione giurisprudenziale (Grande Sezione, 15 ottobre 2019, C-128/18, Dorobantu), ove si è affermato che l’autorità giudiziaria dell’esecuzione deve, al fine di valutare se esistano seri e comprovati motivi di ritenere che la persona richiesta in consegna dallo Stato di emissione correrà un rischio reale di essere sottoposta ad un trattamento inumano o degradante, tener conto dell’insieme degli aspetti materiali delle condizioni di detenzione nell’istituto penitenziario nel quale è concretamente previsto che tale persona verrà reclusa, quali lo spazio personale disponibile per detenuto in una cella, le condizioni sanitarie, nonché l’ampiezza della sua libertà di movimento nell’ambito di detto istituto.
Con la decisione in esame, la Corte ha stabilito che l’art. 1, par. 3, della decisione quadro 2002/584/GAI, letto in combinato disposto con l’art. 4 della Carta dei diritti fondamentali, deve essere interpretato nel senso che l’autorità giudiziaria dell’esecuzione, ove disponga di elementi oggettivi, attendibili, precisi e debitamente aggiornati, attestanti l’esistenza di carenze sistemiche o generalizzate delle condizioni di detenzione negli istituti penitenziari dello Stato membro emittente, deve, al fine di valutare se esistano seri e comprovati motivi di ritenere che, a seguito della sua consegna al suddetto Stato membro, la persona oggetto di un m.a.e. correrà un rischio reale di essere sottoposta ad un trattamento inumano o degradante, tener conto dell’insieme dei pertinenti aspetti materiali delle condizioni di detenzione nell’istituto penitenziario nel quale è concretamente previsto che tale persona verrà reclusa, quali lo spazio personale disponibile per detenuto in una cella di tale istituto, le condizioni sanitarie, nonché l’ampiezza della sua libertà di movimento nell’ambito di detto istituto. Per quanto riguarda, in particolare, lo spazio personale disponibile per detenuto, l’autorità giudiziaria dell’esecuzione deve, in assenza, allo stato attuale, di regole minime in materia nel diritto
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dell’Unione, tener conto dei requisiti minimi risultanti dall’art. 3 della CEDU. Se, per il calcolo di questo spazio disponibile, non si deve tener conto dello spazio occupato dalle infrastrutture sanitarie, tale calcolo deve però includere lo spazio occupato dal mobilio. I detenuti devono tuttavia conservare la possibilità di muoversi normalmente nella cella.
Inoltre, l’autorità giudiziaria dell’esecuzione non può escludere l’esistenza di un rischio reale di trattamento inumano o degradante per il solo fatto che la persona interessata disponga, nello Stato membro emittente, di un mezzo di ricorso che le permetta di contestare le condizioni della propria detenzione, o per il solo fatto che esistano, in tale Stato membro, misure legislative o strutturali destinate a rafforzare il controllo delle condizioni di detenzione.