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Scegliere un protocollo di trattamento adeguato nei cani con IMHA rappresenta una notevole sfida nella pratica veterinaria e la malattia è tuttora associata ad un tasso di mortalità del 50-70%4,6–8,39,79. Anche se i segni clinici alla presentazione sono legati all’anemia, è ormai chiaro che altri processi fisiopatologici concomitanti, come la malattia tromboembolica e la CID, contribuiscono notevolmente all’elevata mortalità10,11,93 e sono difficilmente prevedibili nel singolo paziente. Ancora oggi c’è una grande incertezza riguardo al regime immunosoppressivo ottimale che dovrebbe essere attuato quando ad un animale viene diagnosticata l’IMHA. Negli ultimi due decenni sono stati impiegati numerosi farmaci immunosoppressori e sono state sperimentate anche varie terapie di supporto nel tentativo di ridurre l'incidenza del tromboembolismo. Nonostante questo, le scelte cliniche sono ancora in gran parte aneddotiche e guidate dall’esperienza e da personali preferenze, piuttosto che da evidenze oggettive190. Inizialmente, soprattutto se la malattia si presenta in forma acuta, la maggior parte dei cani richiede l’ospedalizzazione, che consente l’accurato trattamento e monitoraggio dell’emolisi e la somministrazione di trasfusioni e di terapie di supporto. L'obiettivo del trattamento è la stabilizzazione dell’ematocrito e la risoluzione dei segni clinici di anemia. Nonostante queste raccomandazioni, apparentemente semplici, il successo del trattamento varia dal 40 al 70%, con frequenti recidive. I pazienti raramente muoiono per le complicazioni dell’anemia, ma muoiono per lo stato di ipercoagulabilità che li predispone alla CID e al tromboembolismo5,7,8,11,39,93.

Quindi, al momento di pianificare la gestione di un cane con IMHA, le finalità terapeutiche dovrebbero comprendere il controllo dell’emolisi, la riduzione dei danni d’organo causati dall’anemia (e quindi dall’ipossia tissutale) e la prevenzione del tromboembolismo, oltre ad una adeguata terapia di supporto2.

7.1 – CONTROLLO DELL’EMOLISI

L’immunosoppressione indotta da farmaci è un tentativo di controllare la risposta immunitaria aberrante contro gli autoantigeni ma questa immunosoppressione, a sua volta,

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può determinare sepsi o altri effetti collaterali inaccettabili. Se si considera la fisiopatologia della malattia autoimmune, la risposta immunitaria può essere suddivisa in più componenti e si può tentare di trattare selettivamente e separatamente ciascun componente. I componenti della risposta immunitaria che possono essere manipolati dalla terapia includono gli anticorpi, le cellule effettrici, il sistema dei fagociti mononucleati e le manifestazioni cliniche della malattia. Nella vera risposta autoimmune, come ad esempio nell’IMHA primaria, la causa scatenante del danno immunologico è rappresentata dagli autoanticorpi (anticorpi con attività rivolta verso gli autoantigeni). Come già più volte sottolineato, questi autoanticorpi possono indurre un’emolisi intravascolare tramite lisi indotta dal complemento oppure, più frequentemente, possono determinare danni a carico della membrana mediante ADCC (citotossicità cellulo-mediata anticorpo-dipendente) e successiva fagocitosi da parte del sistema reticoloendoteliale di fegato e milza. Il trattamento immunomodulante, quindi, deve mirare a sopprimere questi specifici meccanismi della risposta immunitaria. Per il momento, la maggior parte dei clinici utilizza un approccio immunosoppressivo non selettivo, che però presenta diversi aspetti negativi. Infatti, poiché la terapia convenzionale sopprime sia la risposta immunitaria distruttiva sia quella protettiva, l'organismo è predisposto allo sviluppo di malattie infettive anche gravi, che possono portare a morte l’animale. Inoltre, i farmaci immunosoppressori attualmente utilizzati possiedono diversi effetti collaterali: i glucocorticoidi inducono spesso un iperadrenocorticismo iatrogeno e sembrano predisporre al tromboembolismo polmonare; gli agenti citotossici possono indurre una significativa soppressione del midollo osseo e disturbi gastroenterici. Pertanto, l’immunosoppressione non selettiva è un approccio approssimativo e le attuali strategie terapeutiche dovrebbero essere migliorate191. Di seguito sono presentati sia gli agenti immunosoppressivi convenzionali, di uso comune, sia alcuni nuovi agenti che non ancora fruibili per uso veterinario, ma che sono in corso di valutazione per la potenziale applicazione nel trattamento delle malattie autoimmuni canine.

7.1.1 – Glucocorticoidi

I glucocorticoidi (corticosteroidi con attività glucocorticoidea primaria) rappresentano il caposaldo terapeutico della maggior parte delle malattie immunomediate, data la loro efficacia, la loro rapidità di azione e il loro costo contenuto192. I glucocorticoidi (GC) agiscono

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legandosi inizialmente ad uno specifico recettore citosolico (GR), il quale poi trasloca al nucleo e si lega a specifiche sequenze di DNA (elementi responsivi ai glucocorticoidi), aumentando o inibendo la trascrizione dei geni corrispondenti193. Gli effetti più rapidi dei glucocorticoidi sono mediati dai GR, influenzando la trasmissione dei segnali intracellulari, le interazioni non specifiche con le membrane cellulari e le interazioni specifiche con i recettori di membrana194.

Gli effetti anti-infiammatori dei glucocorticoidi sono correlati alla stabilizzazione delle membrane cellulari dei granulociti, dei mastociti e dei monociti-macrofagi, all’inibizione della fosfolipasi A2, con risultante inibizione delle vie della ciclossigenasi e lipossigenasi e alla riduzione del rilascio delle citochine pro-infiammatorie IL-1 e IL-6. Inoltre, grazie agli effetti esercitati sul complemento e alla rapida down-regulation dell’espressione del recettore Fc da parte dei macrofagi, i glucocorticoidi riducono la fagocitosi dei globuli rossi opsonizzati, giustificando la loro precoce efficacia nel trattamento dell’IMHA195. Gli effetti immunosoppressivi dei glucocorticoidi nei cani sono meno chiari, ma possono includere la riduzione della processazione e della presentazione dell'antigene da parte di macrofagi e cellule dendritiche, la soppressione diretta della funzione dei linfociti T e la riduzione dell'affinità degli anticorpi agli epitopi della membrana cellulare195. Si ritiene, quindi, che i primi effetti dei glucocorticoidi siano da attribuire prevalentemente ad una rapida riduzione dell’attività fagocitaria dei macrofagi splenici ed epatici, e che quelli a lungo termine derivino dalla soppressione dell’attività cellulo-mediata. Gli effetti sui linfociti B sono dovuti, verosimilmente, alla soppressione delle cellule T helper necessarie per una completa risposta anticorpale alla stimolazione antigenica192. Riassumendo, i meccanismi di azione dei glucocorticoidi che ne giustificano l’impiego nel trattamento delle malattie immunomediate nel cane sono i seguenti:

- l’inibizione dei macrofagi e della chemiotassi dei neutrofili; - la riduzione della emarginazione e della migrazione dei neutrofili; - la riduzione della proliferazione linfocitaria;

- la riduzione del numero di linfociti circolanti;

- la riduzione della produzione di citochine da parte dei linfociti T; - la riduzione della risposta cellulare ai mediatori della flogosi; - l’inibizione della cascata del complemento;

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- la riduzione della sintesi di prostaglandine e leucotrieni;

- l’alterazione dell’espressione di marcatori fenotipici sui linfociti; - l’induzione dell’apoptosi linfocitaria (in vitro)192.

La distribuzione capillare dei GR e l’elevato numero di geni a cui questi si legano, spiega la gravità e la vasta gamma degli effetti collaterali causati dalla somministrazione sistemica di glucocorticoidi196. Gli effetti collaterali derivanti dal trattamento a lungo termine con dosi elevate di glucocorticoidi includono gravi alterazioni endocrine:

- la diminuzione della produzione di insulina da parte delle cellule beta e la resistenza all'insulina possono portare allo sviluppo di diabete mellito;

- la soppressione prolungata della produzione di ACTH porta all’atrofia della corteccia surrenalica e all’insufficienza surrenalica secondaria;

- la somministrazione cronica di glucocorticoidi determina, in tutti i pazienti, lo sviluppo di un iperadrenocorticismo iatrogeno197.

I sintomi più comunemente presentati dai cani in trattamento prolungato con glucocorticoidi sono quindi la polidipsia, la poliuria con basso peso specifico delle urine, l'atrofia di epidermide e derma, i disturbi nella cicatrizzazione e nella guarigione delle ferite (dovuta alla ridotta sintesi di fibroblasti), l’atrofia muscolare (per l’effetto catabolico sulle proteine muscolari scheletriche) e la letargia197,198, ma anche la polifagia, il respiro affannoso, la predisposizione alle infezioni e le emorragie gastrointestinali158,192. Il profilo emato- biochimico di questi pazienti evidenzia spesso elevati livelli di fosfatasi alcalina (ALP), di alanina aminotransferasi (ALT) e di aspartato transaminasi (AST), ipercolesterolemia, ipertrigliceridemia e iperglicemia. In uno studio, il tempo medio per ottenere la remissione completa degli effetti collaterali dei glucocorticoidi è stato di circa 12 settimane198.

Ogni paziente possiede una diversa tolleranza alla terapia con glucocorticoidi: i cani di grossa taglia, ad esempio, mostrano spesso una maggiore sensibilità192. Gli effetti avversi della terapia glucocorticoidea a lungo termine possono essere debilitanti per il paziente ed inaccettabili per il proprietario. Le strategie per minimizzare gli effetti avversi della terapia includono l’uso del più basso dosaggio possibile, la somministrazione di farmaci a breve/intermedia durata d’azione e l’impiego di un regime a giorni alterni. Per aumentare la probabilità che la terapia abbia un esito favorevole è necessario utilizzare inizialmente dosaggi elevati, che poi possono essere gradualmente ridotti in base alla risposta del soggetto (la riduzione non deve superare il 50% al mese). La remissione della sintomatologia

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può essere molto più ardua da ottenere una seconda volta, nel caso in cui si presenti una recidiva che è stata favorita da una riduzione troppo precoce del dosaggio. Se gli effetti collaterali dei glucocorticoidi non sono tollerabili, è necessario aggiungere altre sostanze immunosoppressive al protocollo terapeutico, affinché il dosaggio dei glucocorticoidi possa essere ridotto più rapidamente, fino all’eventuale interruzione192.

Attualmente, il prednisolone (o il prednisone), il metilprednisolone e il desametasone sono i glucocorticoidi più utilizzati per via sistemica. Il prednisolone ha una potenza antinfiammatoria simile a quella dell’idrocortisone, mentre il metilprednisolone e il desametasone sono circa 5 e 30 volte più potenti, rispettivamente. Il prednisolone e il metilprednisolone possiedono una durata d'azione intermedia, mentre il desametasone ha una durata d'azione lunga rispetto all’idrocortisone. Dosi di prednisone/prednisolone inferiori o uguali a 0,5 mg/kg due volte al giorno sono considerate dosi antinfiammatorie, mentre dosi superiori sono considerate immunosoppressive. In realtà questa distinzione è piuttosto arbitraria, in quanto vi è probabilmente una continuità dell’effetto, dato il gran numero di processi cellulari influenzati dai glucocorticoidi. I protocolli immunosoppressivi implicano una graduale riduzione della dose del glucocorticoide fino allo zero (o comunque fino al più basso dosaggio possibile in grado di tenere sotto controllo la malattia), per diverse settimane o mesi. I glucocorticoidi non dovrebbero mai essere bruscamente interrotti, a causa del tempo necessario per la risoluzione della soppressione iatrogena dell'asse ipotalamo-ipofisi-surrene195. Nella maggior parte dei pazienti con patologie immunomediate, la via di somministrazione ideale è quella orale, ma negli animali con vomito o con problematiche che interferiscono con la deglutizione o con l’assorbimento intestinale può essere necessario ricorrere alla somministrazione endovenosa (di prednisolone o di desametasone). A prescindere dalla diversa potenza, non esiste alcuna evidenza che suggerisca una maggiore efficacia del desametasone rispetto al prednisone o al prednisolone nel trattamento delle patologie immunomediate192.

Nella maggior parte delle malattie immunomediate il trattamento di scelta prevede l’impiego di un glucocorticoide a durata d’azione intermedia (come il prednisone, il prednisolone o il metilprednisolone), in quanto il passaggio ad un regime a giorni alterni riduce gli effetti avversi. Il prednisone e il prednisolone sono da sempre stati equiparati dal punto di vista clinico, tranne in corso di insufficienza epatica, in quanto il prednisone necessita di essere convertito a prednisolone a livello del fegato. Nel cane sano, la

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biodisponibilità del prednisone è pari al 65% di quella del prednisolone, perciò nel cane è consigliato l’uso del prednisolone piuttosto che quello del prednisone192.

Nell’uomo, la resistenza ai glucocorticoidi è una delle principali cause di insuccesso della terapia (si verifica in circa il 30% dei pazienti trattati per una malattia infiammatoria)199. Un piccolo studio pilota condotto su sette cani sani ha identificato un individuo resistente ai glucocorticoidi all'interno del gruppo, ma la reale incidenza della resistenza ai glucocorticoidi nei cani è sconosciuta195. La ridotta disponibilità dovuta ad uno scarso assorbimento intestinale oppure l’utilizzo del prednisone al posto del prednisolone potrebbero mimare una resistenza ai glucocorticoidi192.

Per quanto riguarda l’IMHA canina, i glucocorticoidi ad elevato dosaggio rappresentano la prima opzione terapeutica per il controllo dell’emolisi2. Per molti pazienti, la terapia glucocorticoidea con un singolo principio attivo è l'unico trattamento necessario158. Nei cani che tollerano bene la somministrazione orale, il prednisolone o il prednisone al dosaggio di 2 mg/kg per os ogni 12-24 ore rappresentano i glucocorticoidi di scelta per la maggior parte degli Autori2,8,158,190. In alternativa può essere utilizzato il desametasone, soprattutto negli animali che non possono assumere il farmaco per via orale. Data la maggiore potenza, il dosaggio del desametasone deve essere ridotto di circa 8 volte rispetto a quello del prednisolone158,192. La maggior parte dei pazienti che risponde al prednisone/prednisolone mostra segni di miglioramento entro i primi 7 giorni di terapia, ma il pieno effetto terapeutico si può manifestare anche dopo 2-4 settimane dall’inizio della terapia. Segni che suggeriscono la risoluzione dell’emolisi sono la stabilizzazione e poi l’aumento dell’ematocrito, la negativizzazione del test di Coombs, la risoluzione dell’autoagglutinazione e della sferocitosi, la normalizzazione della conta dei reticolociti e la risoluzione del leucogramma infiammatorio. Quando l’ematocrito sale al di sopra del 30%, il dosaggio del prednisone/prednisolone può essere ridotto ad 1 mg/kg ogni 12 ore2. Una volta che la remissione è stata mantenuta per 1-2 settimane, la dose può essere ridotta al massimo del 25-50% ogni 2-4 settimane158,200, nel corso di 3-6 mesi, in base all’ematocrito e alla gravità degli effetti collaterali. Se dopo 6 mesi il dosaggio è stato ridotto fino a 0,25-0,5 mg/kg a giorni alterni e la malattia è chiaramente in remissione, si può provare ad interrompere la terapia2,158. Prima e 2 settimane dopo qualsiasi variazione della terapia immunosoppressiva, è necessario eseguire un CBC e una conta reticolocitaria2. I pazienti che vanno incontro ad una ricaduta in risposta alla riduzione del dosaggio, probabilmente necessitano che un certo

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grado di terapia immunosoppressiva sia mantenuto per periodi prolungati o, in rari casi, anche per tutta la vita158.

L’aggiunta di ulteriori agenti immunosoppressori è giustificata quando i glucocorticoidi non riescono ad indurre la remissione, causano effetti collaterali inaccettabili o devono essere somministrati a dosaggi persistentemente elevati per tenere sotto controllo la malattia. Inoltre, altri farmaci dovrebbero essere considerati in quei pazienti che recidivano quando i glucocorticoidi vengono gradualmente diminuiti o interrotti158. La combinazione di un farmaco citotossico con un glucocorticoide è comune nella terapia dell’IMHA. La logica alla base di questa combinazione è evidente se si pensa ai vari aspetti della risposta immunitaria che vengono soppressi da ciascun farmaco. L'aggiunta di un farmaco citotossico, di solito, permette la riduzione del dosaggio dei glucocorticoidi (o comunque una loro riduzione più rapida)8,191. Tuttavia questo non è ancora stato dimostrato scientificamente, dal momento che alcuni Autori hanno mostrato risultati discutibili4,190. Anche se non esistono parametri definitivi su cui basare la scelta di aggiungere un altro farmaco immunosoppressore, la mancanza di risposta alla terapia steroidea, l’emolisi intravascolare o la continua agglutinazione possono essere indicazioni ragionevoli201.

Inoltre, è un comune dilemma clinico la scelta di trattare o meno tutti i pazienti con IMHA, già all’inizio della terapia, con un farmaco citotossico associato al glucocorticoide, senza attendere la risposta clinica alla terapia glucocorticoidea singola2. La terapia citotossica aggiuntiva dovrebbe essere inclusa nel protocollo di trattamento iniziale nei pazienti con autoagglutinazione, emolisi intravascolare o IMHA non rigenerativa e nei pazienti che sono dipendenti dalle trasfusioni. Poiché molti casi di IMHA presentano uno o più tra questi criteri, alcuni clinici impiegano una terapia aggressiva precoce in tutti i pazienti14,158. Gli agenti citotossici più comunemente utilizzati nei pazienti con IMHA sono l’azatioprina e la ciclosporina2,158. In uno studio retrospettivo che confrontava un gruppo di cani trattati con prednisolone e azatioprina e un gruppo di cani trattati con solo prednisolone, non sono stati osservati benefici dall’associazione dei due farmaci9. Dovrebbero, tuttavia, essere condotti ulteriori studi volti ad esaminare gli effetti del regime di trattamento e della combinazione di più farmaci sull’esito, utilizzando un numero di cani più consistente, protocolli di trattamento più standardizzati e criteri di inclusione ed esclusione più uniformi.

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7.1.2 – Azatioprina

L’azatioprina è un imidazolo sintetico citotossico derivato dalla 6-mercaptopurina (6MP). Entrambe sono tiopurine, che interferiscono con la sintesi delle purine e causano la produzione di falsi nucleotidi, con conseguente inibizione della sintesi di DNA ed RNA ed interruzione della mitosi e del metabolismo cellulare195. Due studi hanno riscontrato che l'azatioprina non riduce le concentrazioni di immunoglobuline nel siero202,203, e uno di questi due studi ha anche riferito che non vi è alcuna riduzione dei linfociti circolanti (o di loro specifici sottotipi)202. Tuttavia, ciò è stato osservato solo a 14 giorni dall'inizio della terapia, ed è comunemente riconosciuto che l’effetto clinico dell'azatioprina compare dopo almeno 11 giorni di trattamento195. I principali effetti di questo farmaco si pensa siano a carico dell’immunità cellulo-mediata, con una riduzione del numero dei linfociti e della sintesi anticorpale dipendente dai linfociti T191,204. La letteratura veterinaria non fornisce informazioni univoche riguardo alla velocità di insorgenza dell’immunosoppressione indotta dalla sola azatioprina: uno studio ha documentato una riduzione della risposta blastogenica dei linfociti T ai mitogeni dopo 7 giorni di trattamento, benché la concentrazione sierica delle immunoglobuline fosse rimasta invariata203, mentre un altro ha suggerito un periodo di latenza di 3-5 settimane204. L’esperienza clinica suggerisce che gli effetti della terapia con azatioprina non si manifestano prima delle 4-8 settimane di trattamento192.

L’azatioprina viene ampiamente utilizzata come farmaco di seconda scelta nel trattamento di varie malattie immunomediate del cane, dato il suo costo relativamente basso e la sua buona tollerabilità. È utilizzata soprattutto in associazione ai glucocorticoidi, nei confronti dei quali sembra possedere un effetto sinergico, consentendo una più rapida riduzione del loro dosaggio195.

I principali effetti avversi dell’azatioprina, sebbene poco comuni, sono la mielosoppressione, la pancreatite acuta, l’epatotossicità e i disturbi gastroenterici204–207. Una piccola percentuale di cani sottoposti a trattamento con azatioprina va incontro ad una mielosoppressione potenzialmente fatale. La soppressione midollare si manifesta, di solito, tra il primo e il quarto mese dall’inizio della terapia ed è tipicamente reversibile entro 7-14 giorni dall’interruzione della terapia. Proprio a causa del rischio di mielosoppressione ed epatotossicità, nei cani che assumono azatioprina è necessario controllare il CBC e gli enzimi

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epatici ogni 1-2 settimane per il primo mese di terapia, dopodiché ogni 1-3 mesi. Nei cani che mostrano segni di mielosoppressione al tipico dosaggio di attacco di 2 mg/kg/die, è possibile somministrare un dosaggio di 1 mg/kg/die192.

La sicurezza e l'efficacia della terapia con azatioprina nel cane potrebbero essere perfezionati considerando il metabolismo del farmaco in modo più approfondito. L’azatioprina, infatti, viene inizialmente convertita nel fegato e in altri tessuti a 6MP. La tiopurina metiltransferasi (TPMT) è un enzima importante nel metabolismo della 6MP e può essere misurata negli eritrociti canini. La variazione dell’attività della TPMT si correla con gli esiti clinici nei pazienti umani trattati con azatioprina: una elevata attività della TPMT è associata ad una ridotta efficacia e una bassa attività della TMTP è associata ad aumentato rischio di tossicità midollare. Nel cane sono state documentate significative variazioni dell’attività della TMTP legate alla razza: l'attività della TMTP è molto più bassa nello Schnauzer gigante e molto più elevata nell’Alaskan Malamute che in altre razze207. Sono stati scoperti sei polimorfismi a singolo nucleotide, che possono in buona parte spiegare la variazione dell’attività della TMTP nella popolazione canina208.

Nel cane, la terapia con azatioprina viene di norma intrapresa in associazione al prednisone/prednisolone a dosaggi immunosoppressivi. Se questa terapia combinata produce risultati positivi, il dosaggio del glucocorticoide deve essere progressivamente ridotto nell’arco di 2-4 mesi, periodo durante il quale la somministrazione di azatioprina deve essere mantenuta al medesimo dosaggio (se non si manifestano effetti avversi). Se alla completa sospensione del prednisone/prednisolone non seguono segni di recidiva, allora anche il dosaggio dell’azatioprina può essere progressivamente ridotto, passando prima ad una somministrazione a giorni alterni e poi ad una somministrazione ogni tre giorni, ed infine la terapia può essere completamente sospesa. Nei pazienti in cui in precedenza si è già verificata una recidiva di una malattia immunomediata, il clinico può decidere di adottare una terapia con azatioprina a basso dosaggio (2 mg/kg a giorni alterni) per un tempo indefinito. Dal momento che la mielosoppressione è stata registrata anche dopo 12 mesi dall’inizio della terapia, CBC ed enzimi epatici devono essere monitorati per l’intera durata del trattamento192.

Negli ultimi anni, l’azatioprina è diventato il principale farmaco utilizzato nella terapia aggiuntiva dei pazienti con IMHA. Diversi studi hanno riportato una buona risposta al trattamento o un miglioramento della prognosi nei pazienti trattati con azatioprina4,5,7,73,76.

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Le modalità con le quali si decide di attuare un’immunosoppressione con un farmaco da aggiungere ai glucocorticoidi variano tra i clinici. La somministrazione di azatioprina può essere messa in atto precocemente nei cani che non rispondono alla terapia con

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