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Capitolo 3. Dentro il cuore del caso italiano: un’analisi delle criticità

3.3 Tre fattori del ritardo

Dopo l’analisi del caso italiano valutato in relazione agli altri Paesi, contenuta nel secondo capitolo, e l’individuazione di due variabili importanti per capire il divario di performance tra le regioni, come il peso della dimensione finanziaria e il ritardo accumulato nel precedente ciclo esaminate nella prima sezione del presente capitolo, è il momento di scendere nel cuore della gestione italiana. A questo punto la nostra indagine si sofferma sulle cause del ritardo che possono essere rinvenute in un’analisi più dettagliata della dimensione nazionale e sub-nazionale. In accordo con gli approcci affiorati nella letteratura più recente sul tema del mancato utilizzo dei Fondi in Italia (Viesti 2014), sulla base dell’indagine empirica effettuata sul campo presso la Commissione Europea e presso le Autorità di Gestione dei Programmi Operativi FESR 2007-2013 e in seguito ad un esame meticoloso dei documenti istituzionali aventi per oggetto la valutazione

dell’attuazione, come i resoconti dei Comitati di Sorveglianza e i Rapporti Annuali di Esecuzione dei PO, è possibile individuare tre ampie tipologie di fattori che hanno inciso sul ritardo italiano: “finanziari”, “politici”, “amministrativi”. Queste tre grandi aree sono strettamente correlate tra loro e insieme hanno interagito nel rallentare l’uso delle risorse comunitarie. Molti fattori, come la riduzione delle risorse nazionali o il ruolo delle Autorità di Gestione, non possono essere attribuiti ad una specifica “area”, e questo per la natura stessa di molti fenomeni che sarebbe inadeguato relegare ad una dimensione esclusivamente politica o finanziaria o amministrativa. Tale triplice ripartizione prende le mosse dall’esigenza di un’analisi che riesca ad abbracciare l’ampia gamma di cause il cui mix ha prodotto l’esigua spesa di cui tratta nel presente lavoro. Per questo motivo la ripartizione non rappresenta una classificazione rigida a compartimenti stagni, ma un tentativo di proporre un quadro di ragionamento organico sulle numerose variabili che hanno inciso sul mancato utilizzo dei Fondi. Per ciascuna di queste dimensioni sarà interessante esaminare l’effettivo peso che hanno avuto sulla capacità di spesa. Se per le ragioni di tipo “finanziario” non è possibile rinvenire un set di indicatori quantitativi, per le cause appartenenti alle sfere politiche e amministrative saranno proposti alcuni indicatori, in virtù dei quali misurare il rendimento delle regioni.

3.3.1 Le cause di tipo “finanziario”

Alla dimensione “finanziaria” possiamo attribuire le cause connesse alle questioni di “cassa”, ossia al trasferimento delle risorse dalle Amministrazioni titolari di Programmi ai beneficiari connesse alla realizzazione degli interventi cofinanziati dai Fondi Strutturali ma anche alle caratteristiche del complessivo sistema di funzionamento finanziario dei Fondi. Per prima cosa, si ponga l’attenzione al panorama finanziario nazionale ed europeo nel quale si è svolto il ciclo di programmazione 2007-2013, che è stato caratterizzato da misure di austerità adottate per rispettare il Patto Europeo di Stabilità e Crescita, che ha colpito soprattutto le regioni più deboli del Sud-Italia, le quali hanno assistito ad un taglio drastico degli investimenti pubblici. Le risorse provenienti dai fondi strutturali sono diventate nella sostanza la più importante fonte di investimento nello sviluppo regionale. La riduzione progressiva delle risorse nazionale che componevano il QSN 2007-2013 (Fondo di Sviluppo e Coesione), partita già dal 2009 (cfr. infra) ha ridotto l’investimento pubblico per il Sud soprattutto nelle regioni Convergenza indebolendo le potenzialità

dell’impatto della politica di sviluppo regionale95. Il Country Report 2011 prodotto

dall’Expert Evaluation Network per la Dg Regio identifica nel taglio delle risorse nazionali una delle principali cause del ritardo italiano, avendo esso colpito il diretto cofinanziamento dei programmi cofinanziati dai Fondi comunitari oltre che dei progetti relativi alle politiche di sviluppo nazionale, il cui indebolimento ha pregiudicato la possibilità di utilizzare progetti simili nei Programmi Operativi (EEN, 2011). Inoltre, la crisi ha colpito l’attuazione del FESR non solo dalla parte degli attori pubblici ma dal lato delle imprese. In questo periodo di recessione, si è diffusa una certa riluttanza degli imprenditori ad investire e delle banche a prestare finanziamenti (Leonardi, 2013). Nelle regioni del Centro-Nord, i cui Programmi Operativi sono soprattutto concentrati sul settore dell’innovazione e della ricerca, ciò è particolarmente evidente. A titolo di esempio, citiamo il caso del PO FESR Piemonte, che nonostante abbia uno stati di avanzamento superiore alla media, ha registrato la difficoltà delle imprese a rispettare le scadenze dei bandi e la loro tendenza, dovuta agli effetti della crisi economica, a “prediligere, per necessità e non per scelta, investimenti indirizzati alla spesa corrente anche in considerazione dei problemi di liquidità e di accesso al credito che ne rallentano le spese di investimento, in primis le spese di innovazione e ricerca”96. Il Comitato di Sorveglianza

nota che “prima dell’esplosione della crisi economica l’andamento registrato nell’ambito del Programma evidenziava un indice di fallimento dei progetti intorno al 4%, mentre nell’ultimo periodo si registra mediamente un fallimento, che in alcuni casi è intorno al 20% se non addirittura superiore” (ibid.).

Se dei tagli delle risorse nazionali tratteremo nella parte dedicata alle responsabilità della politica, in questa sezione riportiamo le principali criticità legate alla dimensione del sistema finanziario. Dalla nostra analisi sul campo emergono alcune principali criticità “di sistema”: la frammentazione delle fonti di finanziamento, le difficoltà di cofinanziamento, il patto di stabilità.

Innanzitutto, si noti la frammentazione delle fonti di finanziamento a livello di progetto e la difficoltà nel reperimento delle risorse. Una tendenza registrata spesso nell’attuazione dei Fondi e nella realizzazione degli interventi è stata l’esistenza di lotti differenti di finanziamento. E’ così che una parte di progetto può essere finanziato da un Programma Operativo Nazionale e un altro pezzo dell’intervento da un POR, come nel caso - per                                                                                                                

95 Il taglio dei fondi nazionali, inoltre, ha riguardato anche il sistema di premialità legato agli Obiettivi di

Servizio per le regioni del Mezzogiorno e così facendo ha indebolito la credibilità del meccanismo di raggiungimento dei target (EEN Italia 2012).

esempio – del progetto di raddoppio ferroviario a Palermo97, finanziato metà dal PON

Reti e Mobilità e metà dal POR FESR Sicilia. Nel periodo 2007-2013 si sono verificate alcune importanti aree di sovrapposizione tra programmi di questo genere. Il fenomeno si è acceso soprattutto nelle infrastrutture, per le quali esiste una pletora di fonti di finanziamento, che vanno dal livello comunale a quello nazionale, passando per le casse regionali fino all’ex FAS, adesso FSC98. Tale frammentazione è la manifestazione della

difficoltà di copertura degli investimenti e dell’incapacità di reperire risorse certe. La mancanza di chiarezza delle fonti rende difficile alla stessa Commissione l’identificazione della fonte nazionale di cofinanziamento e della sua relativa quota. L’investimento, sia esso infrastrutturale o produttivo, viene coperto di volta in volta con la fonte che in quel momento risulta disponibile per liquidità di cassa. A ciò è dovuta la frammentazione, che a sua volta comporta spesso un ritardo nell’esecuzione dei lavori, poiché se non c’è una disponibilità di cassa per liquidare lo stato di avanzamento, i cantieri si bloccano. Il venir meno della certezza delle fonti determina un ritardo strutturale in particolar modo nella realizzazione delle infrastrutture. La frammentazione denota l’assenza di una vera e propria strategia nella scelta delle fonti di finanziamento. Si tratta di un deficit strutturale finanziario. Cruciale è dunque quella la mancanza di “chiare e strutturate politiche in molti ambiti essenziali”, che determina l’impossibilità di un raccordo tra i Fondi europei e una coerente politica nazionale, denunciata da Viesti (2014). In sintesi, l’assenza di una strategia, oltre alla scarsità di risorse, determina l’incapacità di reperire fondi di volta in volta, che si traduce in una complessa frammentazione delle fonti di finanziamento e in ritardi nell’attuazione dei progetti, siano essi infrastrutturali che costituiti da incentivi alle imprese.

In secondo luogo, può essere riscontrata una difficoltà strutturale delle regioni più deboli di far fronte all’anticipo per il cofinanziamento nazionale dei Programmi operativi. Le regioni hanno dei vincoli di bilancio in termini di spese in conto capitale annuali. Mediamente una regione spende per il suo bilancio tra il 70% e l’80% in spese legate alla sanità (DG Regio, 2014). Con le restanti risorse le regioni devono far fronte alla spesa corrente per la parte amministrativa e a quella in conto capitale per gli investimenti, oltre alla quota per anticipare la parte nazionale per il cofinanziamento dei programmi                                                                                                                

97 Si veda il Position Paper 2012, pag. 29.

98 Tra il 2008 e 2009 il FSC è stato utilizzato anche per alimentare tre Fondi nazionali per interventi su

Infrastrutture, Sostegno all’occupazione e Sostegno alla competitività del Paese, non previsti nella programmazione originaria tra gli strumenti di attuazione nel QSN 2007-2013.

comunitari, inizialmente fissata al 50% del totale dei costi eleggibili. Dato questo vincolo di bilancio, c’è un problema di capacità delle regioni ad anticipare queste risorse, ingenti nel caso delle infrastrutture. Il risultato è che le regioni più forti sono anche quelle che presentano meno difficoltà nell’anticipazione. La crisi di liquidità delle regioni ha rallentato il cofinanziamento. Essa deriva non solo dalle politiche di risanamento fiscale99 ma anche

dalla struttura del bilancio regionale (si veda la Sicilia) e dalla dispersione di un grosso ammontare di risorse per l’occupazione del settore pubblico, il quale rappresenta un moloch intoccabile della struttura economica delle regione del Sud, sia in termini economici che occupazionali (EEN – Italia, 2013).

Si deve porre l’accento, però, anche sul fatto che alla mancanza di liquidità delle regioni non corrisponda una mancanza di liquidità del sistema finanziario, bensì un problema di gestione del bilancio da parte delle regioni. Infatti, il Fondo di Rotazione100, che olia il

sistema di trasferimento dei Fondi comunitari e del cofinanziamento nazionale, possiede la liquidità necessaria101, ma molte regioni hanno avuto difficoltà a realizzare spese

ammissibili e dunque rendicontare ai fini del rimborso. Il risultato è che il Fondo di Rotazione ha un problema di fondi non erogati, proprio a causa della mancata spesa delle regioni.

A questa incapacità regionale di spendere, che come vedremo può essere imputata a diverse cause, compresa anche l’incapacità di selezionare progetti “cantierabili”, in alcune regioni della zona Convergenza si somma un altro ostacolo generatore di problemi di liquidità: gli errori e le irregolarità per cui la Commissione blocca i pagamenti. Se l’Audit mostra che un certo Programma Operativo non sta rispettando le regole in modo sistemico, la Commissione commina una sanzione in attesa del miglioramento del Sistema Gestione e Controllo e congela il pagamento: ecco che il programma non riceve liquidità. L’esempio lampante è il POR FESR Calabria, i cui pagamenti sono stati a lungo bloccati dall’intervento della Commissione. Ciò ha comportato la necessità della regione di                                                                                                                

99 L’instabilità finanziaria internazionale è stata particolarmente incisiva nel Sud poiché ha indebolito i

consumi, gli investimenti e il credito, appesantendo la già forte dipendenza dai trasferimenti del settore pubblico.

100 Il Fondo di Rotazione (legge 183/1987) consiste in risorse nazionali vincolate all’esclusiva attuazione dei

programmi comunitari. In genere esso rappresenta l’unico strumento che hanno le regioni o i Programmi Operativi Nazionali per assicurare le fonti di finanziamento rispetto alla quota comunitaria. Quello del Fondo di Rotazione è un ingranaggio-chiave per capire la difficoltà di spesa. Il fondo funziona “a rimborso”. Le Regioni spendono in anticipo per il finanziamento dei progetti approvati in attuazione dei POR e ricevono successivamente, a titolo di rimborso, le stesse risorse dal Fondo di Rotazione. Esso, attraverso due conti, da una parte accoglie le risorse del cofinanziamento nazionale degli interventi, provenienti dal bilancio dello Stato e da altre fonti residue; dall’altra le risorse provenienti dal bilancio comunitario.

101 Gli ultimi dati dell’IGRUE, organismo della Ragioneria generale dello Stato, preposto alla gestione del

anticipare le risorse per finanziare gli interventi. Sintetizzando, non si tratta dunque di un problema di liquidità del sistema, bensì di liquidità dei Programmi, talvolta per irregolarità e abusi. A proposito della difficoltà di cofinanziare i progetti da parte delle regioni, il sistema prevede prefinanziamenti e finanziamenti a rimborso. Si noti che i primi avvengono nella parte iniziale del Programma, sono molto consistenti e con essi le regioni possono iniziare a spendere senza rendicontare102. In via di principio, dunque, le regioni

avrebbero in mano un volàno che permetterebbe loro di spendere, rendicontare e ricevere il rimborso. Il meccanismo si inceppa, però, nel momento in cui non spendono: le regioni spesso ricevono il prefinanziamento ma lo tengono in cassa e pagano altre spese differenti dai progetti cofinanziati dall’UE. Questa ulteriore puntualizzazione va a sostegno del fatto che non sia un problema di liquidità di sistema, ma delle regioni incapaci stare all’interno di un circuito virtuoso di ricezione delle risorse-spesa-rendicontazione-ricezione del rimborso.

Oltre alla scarsità di risorse, il Patto di Stabilità Interno, che traduce a livello nazionale il Patto Europeo di Stabilità e Crescita, vincola ulteriormente le Regioni e i Comuni nell’eventuale maggiorazione delle spese rispetto alle entrate. Durante il periodo 2007- 2013 le Regioni, così come i Comuni - che rappresentano una pedina fondamentale del ciclo di utilizzazione dei Fondi - si sono talvolta trovati impossibilitati a spendere le risorse. Pur avendo disponibilità finanziaria, il Patto di Stabilità Interno impediva le amministrazioni locali, ponendo dei vincoli il cui inadempimento è variamente sanzionato103. In questo caso il ritardo nell’effettuazione degli interventi nonostante una

disponibilità di cassa è dovuto ad una norma nazionale che regolamenta i flussi finanziari per rispettare i parametri comunitari. Di fatto questi due fattori concatenati, scarsità di risorse e patto di stabilità interno, hanno costituito un elemento di impedimento strutturale della spesa delle regioni (Barca 2011). Tecnicamente, dunque, i bilanci delle regioni Convergenza sembrerebbero non avere una “struttura” adeguata per spendere in progetti cofinanziati dall’UE, soprattutto in opere infrastrutturali. La soluzione potrebbe essere tagliare la spesa corrente per non incappare nei vincoli del patto di stabilità interno.

                                                                                                               

102 La rendicontazione avviene solo alla fine con il saldo finale.

103 La Circolare n.5 del 2013 dell’Ispettorato Generale per la Finanza delle Pubbliche Amministrazioni

prevede le seguenti sanzioni per il mancato rispetto del patto di stabilità interno: a) riduzione del fondo sperimentale di riequilibrio, b) limiti gli impegni per spese correnti; c) divieto di ricorrere all'indebitamento; d) divieto di procedere ad assunzioni di personale; e) riduzione delle indennità di funzione e dei gettoni di presenza.

Ma il risultato sarebbe paradossale: un ulteriore indebolimento delle regioni in ritardo, che si vedrebbero costrette a tagliare i trasferimenti.

C’è stata così una doppia pressione, quasi “schizofrenica”, o meglio un trade off tra assorbimento finanziario e stabilità: da una parte si tende a chiedere alle regioni di spendere per stare al passo dei target di spesa della programmazione comunitaria, dall’altra il MEF spinge a rispettare i vincoli di bilancio del patto di stabilità interno, pena le sanzioni. Il problema della capacità della spesa, in Italia, ha dunque una certa connotazione finanziaria di tipo strutturale, di “sistema”. Ciò premesso, però, non deve si deve cadere nel malinteso che tali vincoli abbiano rappresentato la causa principale del mancato utilizzo dei Fondi, argomento spesso utilizzato dalle Amministrazioni regionali del Sud per coprire altre responsabilità. Pur non esistendo dati oggettivi capaci di fornire una fotografia delle difficoltà indotte dai vincoli del Patto, se non attraverso una meticolosa analisi post-attuazione per ciascun programma operativo, possiamo addurre una serie di elementi a sostegno della limitata responsabilità di tali vincoli nel produrre la scarsa performance di spesa.

In prima battuta, è senza dubbio veritiero che il patto di stabilità metta pressione alle regioni perché le induce a scegliere delle priorità, ma l’introduzione del Fondo di Compensazione (cfr. supra) che consente di escludere dal patto il cofinanziamento nazionale speso dalle regioni (1 mld nel 2012, 1,8 mld nel 2013 e 1 mld 2014)104 ha fornito

uno strumento per arginare tale problema. Nonostante un massiccio utilizzo della flessibilità di cassa (Viesti, 2014), alcune regioni non hanno utilizzato interamente la quota assegnata105. Questa circostanza porterebbe a rivalutare l’effettiva consistenza del fattore

finanziario del patto di stabilità come principale determinante del ritardo maturato. E’ vero che, come segnalato dalle regioni, si tratta di un vincolo oggettivo, perché impone la scelta di priorità da finanziare in presenza di risorse limitate, ed inoltre ha avuto un effetto sui soggetti pubblici (Regioni e Comuni106) che hanno rilevato l’impossibilità a garantire la

                                                                                                               

104 Il Fondo di compensazione viene utilizzato dal Tesoro per dare margine di spesa alle regioni, le quali in

termini di indebitamento netto possono non considerare le spese di cofinanziamento nazionale degli interventi UE fino all’importo della quota che viene a loro attribuita nel riparto del Fondo. Siccome l’indebitamente netto è una differenza tra entrate e spese, per effetto del Fondo di compensazione, non si considera nella parte delle spese il cofinanziamento nazionale. Le regioni possono dunque sforare il tetto del patto di quell’importo perché viene compensato dal Fondo.

105 Per fare un esempio, la regione Campania, che è la regione più indietro nella spesa, ha lasciato 100 milioni

inutilizzati, mentre la Puglia è stata l’unica regione che è incorsa in sanzione avendo sforato il Patto e lamentando a fine 2013 di non aver potuto utilizzare più margine.

106 Alcune regioni (Sicilia, Campania, Calabria, Friuli Venezia Giulia, Lazio, Liguria, Marche Toscana,

Umbria, Veneto) hanno inserito nei Programmi Operativi la disposizione che i Comuni debbano cofinanziare gli interventi, esponendo gli stessi alla soglia del patto di stabilità e a un ulteriore ostacolo alla

propria quota di cofinanziamento per gli interventi da realizzare - talvolta di importanti dimensioni finanziarie - ma esso viene spesso utilizzato per giustificare la gravità del ritardo di attuazione che dipende da più profonde criticità.

Un ulteriore elemento a supporto della limitata capacità esplicativa del patto di stabilità, viene fornito dall’evidenza che se i POR FESR sono soggetti ai vincoli del patto, ciò non accade per i PON, che non hanno alcun vincolo di patto di stabilità perché conteggiato “a monte”: è il Fondo di Rotazione a pagare i Ministeri che spendono per i PON ed esso ha un tetto elevato che non comporta effettive restrizioni. Nel periodo 2007-2013 non è possibile contare alcun caso in cui il Fondo di rotazione non abbia potuto pagare per via dei vincoli del patto di stabilità. Dunque a livello di programmi nazionali, il Fondo di rotazione non è stato responsabile del rallentamento dei pagamenti. Nonostante ciò, alcuni PON si trovano in una condizione di criticità di attuazione. I motivi esulano dai vincoli del patto. La stessa cosa vale per gli strumenti di ingegneria finanziaria, che nonostante siano esenti dal patto, presentano i livelli di utilizzazione più scarsi d’Europa (EEN, 2014; EEN b, 2011). Sebbene l’effettiva responsabilità del patto vada verificata programma per programma, questo fatto costituisce un’indiscutibile “prova” che il patto di stabilità abbia avuto un ruolo importante ma non decisivo, di secondo piano rispetto a ben più profonde cause, insite nella dimensione politica e amministrativa delle regioni del Mezzogiorno 107 . Nelle regioni Competitività, invece, dove le criticità di tipo

amministrativo e politico sono più attenuate, il patto di stabilità ha senz’altro inciso, soprattutto in alcuni settori. Per esempio, Molise, Abruzzo, Sardegna e Lombardia, nei rispettivi Rapporti Annuali di Esecuzione 2012, segnalano un tasso di implementazione pari quasi a zero nel settore dell’ambiente ed energia, dovuto all’impossibilità di cofinanziare delle amministrazioni locali per effetto dei limiti del patto e lo stesso è avvenuto laddove il settore dei trasporti, generalmente meno importante nelle regioni Competitività, ha avuto un ammontare di risorse cospicuo.

                                                                                                               

107 Se da una parte le regioni affermano di essere con “le mani legate” per effetto del patto di stabilità e che

gli ordini di pagamento sono pronti ma che non si possono pagare a fronte del patto di stabilità, dall’altra la Commissione (Piazzi 2014) fa notare di non avere mai ricevuto richieste formali da parte delle regioni che