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La canzone 143 consiste in un componimento di impianto allegorico e vede nell’opposizione tra Carità e Ambizione il proprio argomento principale. La prima si fa incarnazione femminile della virtù e le sono riservate solo aggettivazioni positive; la seconda, invece, è incarnazione del vizio corrosivo della società del proprio tempo53 e, soprattutto, Molin ne ribadisce in più

occasioni l’intrinseca falsità. Quella che superficialmente potrebbe sembrare una qualità, nel tempo, rivela invece la propria natura perfida, superba e spregiudicata verso gli altri perché mossa solo dalla brama di affermarsi. Il concetto è ribadito in più loci testuali: infida (v. 5), falso velo (v. 6), bugiardo (v. 7), mentita faccia (v. 17), che ver tiranna (v. 70), falso (v. 72), inganna (v. 73), falsa maga (v. 77) e cangia sé cangiando fede (v. 80).

50 Riporto il passo: «spiegar potess’io l’ale / in sogno almeno e riconoscer dove, / quando da noi si move, / sen’ vada l’alma e in qual forma viva / di queste membra priva» (MOLIN Rime 246, 33-37). Questi ultimi versi mi pare debbano essere messi in relazione con DELLA CASA Rime 63, 9-14 e soprattutto con MAGNO Rime 43, 53-55 «Deh l’ali avessi anch’io, / qual tu, da girne a volo / librando in aria il mio terrestre peso».

51 Per la datazione e una panoramica della tradizione testuale cfr. cap. VII La canzone contesa, pp. 425-430. 52 Per la questione cfr. cap. VII, pp. 425-430 a cui rimando anche per le ragioni alla base della datazione del testo.

53 L’ambizione, intesa come la tendenza ad alterare a proprio vantaggio la ripartizione delle opportunità, costituì un motivo ricorrente nel panorama letterario del Cinquecento. Per risvolti politico-religiosi affini alla canzone di Molin, merita di essere segnalato il capitolo di Machiavelli Dell’Ambizione, edito per la prima volta nel 1549 (per un commento e per la tradizione manoscritta rimando a MACHIAVELLI Capitoli, pp. 143-153).

Il vizio, còlto nella sua superba falsità, è al centro anche di un sonetto poco noto di Pietro Massolo, che è forse di qualche interesse ricordare in quanto elaborato nel medesimo contesto cronologico e culturale del nostro:54

L’ambitïone è fonte d’ogni male, perché scaccia da sé la veritate,

et rende il commun viver brutto et frale, et nasce da superbia et crudeltate; l’ambitïon sormonta con l’etate, mentre s’estingue in noi l’amor carnale, e ogn’hor si spoglia de l’alma honestate ché honesto è quel che a tutti si fa uguale;

l’ambitïone adultera si dice,

perché si dona a ogn’un per farsi grande, et lascia quel che sol fa l’huom felice; l’ambitïone in vano il tempo spande, mentre si pasce di questi honor vani, che lor seguaci fan vani e inhumani.

Il testo, fortemente moralistico, riflette con efficacia il gusto artificioso della scrittura di Massolo qui reso dall’insistenza sulla ripetizione di intere espressioni in isometria – e che conferiscono al sonetto un tono quasi di predica spirituale –, di parole chiave nonché di giochi fonici.55 Ai fini delle nostre considerazioni preme dare enfasi soprattutto alla prima quartina,

laddove l’ambizione è detta scacciare da sé ogni verità e pare concentrare in sé stessa i peggiori vizi cristiani (il male, la superbia, la crudeltà, l’infedeltà dell’adultera).56

Ritornando a Molin, la natura falsa della donna-Ambizione è metaforicamente rimarcata anche dal dettaglio del velo che le copre il capo e con il quale cela le proprie sembianze. Proposito dell’autore, al contrario, è proprio svelarne la vera natura: «Tu la lingua e l’ingegno / snoda e m’avviva sì ch’io nulla taccia / per disvelar la sua mentita faccia» (canz. 143, 15-17). Il disvelamento, morale quanto fisico, si traduce in un ritratto fortemente impietoso e che avvicina la donna quasi a creature infernali di memoria dantesca per il comune espressionismo linguistico:57

54 MASSOLO Sonetti morali, p. 51. La trascrizione è interpretativa: ho modificato i due punti a conclusione di ogni partizione del sonetto, sostituendoli con il punto e virgola e ho provveduto a intervenire sulla punteggiatura. Miei i corsivi.

55 Per esempio non sfugga l’andamento alternato di perché (v. 2) – mentre (v. 6) – perché (v. 10) – mentre (v. 13); parimenti si noti il gioco semantico intorno al termine vano/i nell’ultima terzina. Di qualche interesse è anche l’insolito schema metrico del sonetto – ABAB.BABA.CDC.DEE.

56 Tuttavia non si dimentichi che il tema dell’ambizione, intesa come un vizio colpevole di generare una passione smodata ed eccessiva, è ricorrente anche nella lirica di Alessandro Piccolomini (Cento sonetti XC, XCIX e C). A rappresentanza, ricordo l’incipit di PICCOLOMINI Cento sonetti XC, 1-4: «O sfrenato, immortal pronto desio, / che per te sol, senza ch’io punga o sproni, / sempre dal corso più lungi ’l termine poni, / contra ’l volger dal fren fatto restio», riferito all’ambizione.

Or tra quei più dolenti e tristi spirti qui la vegg’ io dipinta,

nuda, d’ogni altro più dolente e trista, squallida e torta in vista,

d’un angue che la rode intorno cinta, co’ crin negletti e irti,

mirar il ciel con guardo oscuro e bieco,

come che guerra un dì pensi far seco. (vv. 113-119)58

Nuda, dolente, squallidamente contrita, con lo sguardo corrucciato, la donna è accerchiata da un serpente che la stringe e, al contempo, la rappresenta simbolicamente. Il verso 114, «qui la veggi’io dipinta», lascia intendere un procedimento ecfrastico da parte dell’autore, ipotesi che insinua il dubbio dell’esistenza di un preciso modello figurativo. Non vi sono, in realtà, altri elementi per stabilire con sicurezza se una simile descriptio sia riducibile ad una sola invenzione letteraria d’autore oppure se, alla base della rappresentazione, vi sia una specifica opera artistica di cui si è però persa consapevolezza. A prescindere da un possibile riscontro figurativo, non ci si può esimere dall’osservarne lo scarto rispetto ai consueti ritratti simbolico-allegorici cinquecenteschi dell’Ambizione. Differisce, ad esempio, dall’iconografia proposta nell’Iconologia di Cesare Ripa, il più importante repertorio cinquecentesco di immagini simboliche, pubblicato per la prima volta a Roma nel 1593. Come anticipato, il ritratto è sensibilmente differente:59

Donna, giovane vestita di verde, con fregi di hellera, in atto di salire una asprissima Rupe, la quale in cima habbia alcuni Scettri, e corone di più sorte, e in sua compagnia vi sia un Leone con la testa alta. […] Il leone con la testa alta dimostra che l’Ambizione non è mai senza superbia. Da Cristofero Landino è posto il Leone per l’Ambizione, percioché non fa empito contro chi non gli resiste, così l’ambizioso cerca d’esser superiore, et accetta chi cede.

Eppure, per il nostro discorso è di qualche importanza il fatto che Ripa scelga di concludere la descrizione della personificazione del vizio riportando un sonetto di Marcantonio Cataldi,60

dedicato sempre all’Ambizione e la cui data di composizione è ignota. In ogni caso, non sfugge un protagonismo infernale analogo a quello di Molin:

O’ di discordia e risse altrice vera, rapina di virtù, ladra d’honori, che di fasti, di pompe e di splendori sovra il corso mortal ti pregi altera:

58 Da affiancare anche a: «Or de le larve tue scoperta il volto / torna sfacciata giù ne l’altro abisso / regno a te proprio affisso, / ivi a quel fin, ch’a te più piace, aspira, / ch’assai ’l mondo per te misero è visso» (MOLIN Rime 143, 154-158).

59 Per il testo, e un commento, rimando a RIPA Iconologia, pp. 28-30 (per il successivo sonetto di Cataldi si vedano le pp. 28-29).

60 In assenza di informazioni più precise sull’autore, sulla datazione del testo e sulla sua circolazione, ci si astiene da riconoscere legami più significativi con il testo di Molin. Paolo Procaccioli segnala l’attestazione del sonetto in questione in un manoscritto adespoto del fondo Boncompagni della Biblioteca Apostolica Vaticana (Bomcomp. K15, c. 129v), contenente quattro componimenti morali (All’Ambitione, Alla Detrattione, Alla Superbia, All’Adulazione); per l’osservazione di Procaccioli cfr. RIPA Iconologia, p. 628 n. 7.

tu sei di glorie altrui nemica fiera, madre d’Hipocresia fonte d’errori, tu gl’animi avveleni e infetti i cori via più di Tisifon, più di Megera.

Tu festi un nuovo Dio stimarsi Annone, d’Etna Empedocle esporsi al foco eterno, o di morte ministra Ambizione.

tu dunque a l’onde Stigie, al lago Averno torna, che senza te langue Plutone, l’alme non senton duol, nulla è l’Inferno.

Nonostante Molin si serva del termine ‘ambizione’ – voce non petrarchesca e solitamente avvicinata a ‘superbia, avarizia’ – il reale significato semantico desumibile dal testo ricorda, piuttosto, il concetto odierno di spregiudicato arrivismo, inteso come brama di potere, gloria e ricchezza.61 L’autore riconosce in questo atteggiamento il male logorante della propria epoca,

la ragione morale alla base della decadenza politica coeva. Nella canzone confluiscono infatti pure riferimenti storico-religiosi che, oltre a ribadire gli interessi civili di cui Molin dà prova anche nella sezione “in materia di stato” e nella sezione spirituale, tradiscono l’irrinunciabile connessione tra morale e politica. In più, fin dal verso di apertura della canzone 143, il poeta si rivolge a Cristo elogiato per il proprio sacrificio (che ha mostrato all’umanità un cammino morale esemplare) e per aver lasciato ai fedeli sulla Terra una donna, la Carità, nella veste di guida spirituale. Sempre a Cristo l’autore si appella anche ai vv. 15-17, con fare quasi proemiale, affinché lo aiuti nel sostenere la propria impresa letteraria e ne agevoli la riuscita finale. Diversamente dai componimenti inclusi nella sezione spirituale, le suppliche del poeta non riguardano la salvezza della propria anima, ma mirano a risanare i costumi sociali del proprio tempo e sembrano volti alla salvaguardia del bene della comunità. In particolare, nella sesta stanza, Molin ricorda dapprima il tredicesimo capitolo della Prima lettera ai Corinzi di San Paolo, dove viene esaltata la virtù teologale della carità cristiana come atteggiamento interiore ideale, e successivamente immagina come l’apostolo si sarebbe pronunciato in un ipotetico sermone contro l’Ambizione, e di cui la canzone vorrebbe – un po’ temerariamente – essere effettiva realizzazione. A partire dall’ottava strofa i toni si accendono ulteriormente e l’argomento morale scivola nell’attualità politico-religiosa del tempo. Il poeta denuncia a gran voce la corruzione di Roma, epicentro di ogni vizio morale coevo, città dalla quale si sarebbe poi sprigionata la dissolutezza che innervava tutto il resto dell’Europa, dell’Italia e di Venezia:

Quand’ella qui fra noi da prima venne, salì del mondo a la più nobil parte, e la città di Marte,

fatta dal vero Dio più ch’altra nota, per seggio elesse; ivi usò studio e arte, che pian pian crebbe e molti gradi ottenne e famosa divenne;

61 In questi termini è presentata «l’accesa nostra ambitione insana» (v. 4) anche nel sonetto Se ’l breve corso de la vita humana di Bernardo Cappello: «direi che ’l mendicar gemme et thesori / e ’l procacciar scettri, corone et fama» (CAPPELLO Rime 20, 9-10).

poi trascorsa l’Europa, ove devota gente a Dio serve, e vota

non là lasciando del suo tristo seme, volse ad Italia l’orme

e tutta la spruzzò di rio veneno. Ma più l’ondoso seno

nostro cosperse, onde virtute or dorme, né più svegliarsi ha speme;

quinci, lasciando i luoghi infermi a tergo,

pronta a Roma tornò, suo primo albergo. (vv. 120-136)

La canzone trova, infine, conclusione in un appello al Padre affinché risani «il mondo e più la patria nostra» (v. 170), a partire innanzitutto dai lavori del concilio vaticano che, secondo Molin, si fregia inadeguatamente di dare terrena rappresentanza a Dio.

V

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3

L

A

S

EZIONE

IN MATERIA DI STATO

A partire dai ventiquattro anni, come ogni altro rampollo del patriziato veneziano dell’epoca, Girolamo Molin intraprese un cursus honorum che lo portò a svolgere svariati incarichi pubblici, per quanto sempre di secondaria importanza.1 Pur prediligendo puntualmente l’otium letterario

ad una carriera politica, non mancò di coltivare un sincero interesse per le questioni politico- religiose coeve, attenzione di cui la sezione “in materia di stato” è principale, ma non unica, espressione.

L’impegno civile appartiene a gran parte dei canzonieri cinquecenteschi e si può a tutti gli effetti intendere come una delle sfumature usuali del petrarchismo lirico del XVI secolo,2

debitorio per lo più degli scritti politici petrarcheschi confluiti nei Rerum vulgarium fragmenta e della loro ricezione a partire dal XV secolo.3 Nel corpus in materia di stato, di undici

componimenti, Molin affronta i principali eventi storico-politici verificatosi tra la metà degli anni Trenta e la metà degli anni Sessanta, nel contesto italiano e mediterraneo. Al contempo, la sezione assume ad oggetto anzitutto i due temi principali della lirica politica cinquecentesca ovvero la decadenza italiana in opposizione alle pressioni straniere e (soprattutto) la guerra contro l’infedele, entrambi spunti già attestati in Petrarca. Sarebbe, però, improprio ridurre la scrittura civile di Molin alla sola riproposizione di un ventaglio tematico autorizzato dall’exemplum petrarchesco e di ampia fortuna cinquecentesca. In esso trova, piuttosto, un modello da cui attingere per commentare il proprio presente politico, attribuendo alla scrittura un compito soprattutto esortativo e celebrativo. Quasi tutti imperniati sulla minaccia musulmana, i componimenti di Molin non trascurano di soffermarsi sul ruolo e sulle responsabilità di Carlo V, di Francesco I di Francia e del papato, colpevoli di violenti conflitti europei che lacerano l’auspicata unità contro il nemico comune. La sezione politica, dunque, è all’insegna di un’estrema attualità e non è forse un caso che, secondo Franco Tomasi, «è soprattutto la [sua] poesia civile e morale a esprimere forme e modi che allargano il discorso lirico oltre le misure più consuete del petrarchismo cinquecentesco».4 In aggiunta alla memoria

di Petrarca, a cui si avrà modo di accennare più avanti, le sue rime di argomento civile presentano punti di contatto soprattutto con gli scritti politici dell’amico e parente Bernardo Cappello, con il quale condivise innanzitutto l’orizzonte ideologico.

Nella raccolta «i sonetti si segnalano per un certo vigore di linguaggio, del resto normale nel genere, e di immagini rapidamente delineate. Comincia a prender forma, ma ancora in embrione, quella sensibilità per le risorse pittoriche insite nei soggetti bellici, che sarà così matura nel Tasso».5 Le tre canzoni, ancora più solenni e impegnate, anticipano invece la

scrittura di argomento lepantino degli anni Settanta. Particolarmente apprezzate da Taddeo, in queste lo studioso osserva che «il suo moralismo genuino, la sua passione politica sanno 1 Per una ricostruzione biografica su base documentaria cfr. cap. I Per la biografia: uno studio documentario, pp. 13-27.

2 Per un recente inquadramento sulla lirica politica nel XVI secolo cfr. FORNI 2018; NATOLI 2017 e FEDI 2012.

3 Sull’importanza della scrittura civile di Petrarca rinvio a Petrarca politico. Atti del Convegno (Roma- Arezzo, 19-20 marzo 2004), a cura di Comitato Nazionale VII centenario della nascita di Francesco Petrarca, Roma, nella sede dell’Istituto, 2006. Sulla ricezione del Petrarca politico nella lirica quattrocentesca rimando al pregevole saggio di BALDASSARI 2010.

4 Cit. da TOMASI 2011, p. 362. 5 Cit. da TADDEO 1974, p. 83.

trovare, senza infrangere un linguaggio e una forma che sono pur sempre quelli della tradizione, una voce propria. Sale di livello e di intensità il lessico, l’espressione si fa rapida e tagliente, si addensa negli aforismi, oppure si estende in perorazioni eloquenti».6 Per collocare

adeguatamente la scrittura civile di Molin all’interno della polifonia lirico-politica del tempo, incominciamo a ripercorrere i componimenti della sezione incrociando una loro accurata contestualizzazione storica con la narrazione poetica proposta da Molin e i suoi sodali.

V. 3. 1

I fatti storici e la loro ricezione letteraria

• La spedizione di Tunisi (1535)

I sonetti 144-146 affrontano la prima e vittoriosa impresa africana dell’imperatore Carlo V: la conquista di Tunisi del 1535, tappa cruciale nella costruzione della sua immagine imperiale ed eroica.7 Lo scontro costituì uno dei principali episodi delle guerre ottomano-

asburgiche8 e vide la propria causa profonda nelle tensioni tra l’imperatore e il Barbarossa,

Kahyr ed-Din, responsabile di continue azioni di pirateria – favorite dalla connivenza dei Francesi – finalizzate a danneggiare l’economia andalusa e siciliana. L’avvenuta occupazione musulmana di Tunisi nel 1534, unita ad un inasprito astio religioso contro gli infedeli, convinse Carlo V ad organizzare un’imponente spedizione militare africana chiamando a raccolta tutti i propri alleati italiani (tranne Venezia che non rispose all’appello). La missione si risolse con la trionfale riconquista cristiana di Tunisi,9

interpretata fin da subito dai contemporanei come una riproposizione moderna del successo di Scipione sul nemico africano e – soprattutto – come una vittoriosa crociata santa, motivo per cui Carlo V fu presto promosso a difensore indiscusso della cristianità. Al successo africano l’imperatore fece seguire in Italia, tra il 1535 e 1536, una fastosa marcia di memoria antico-romana, narrata dettagliatamente da tutte le principali cronache encomiastiche del tempo.10 Questa consacrazione politica si accompagnò ad una parallela

mitizzazione letteraria dell’impresa e del suo protagonista. Le biografie a lui dedicate non trascurarono di soffermarsi ampiamente sull’episodio, raccontandolo in termini epici e 6 Cit. da TADDEO 1974, p. 85.

7 La propaganda politica a favore di Carlo V, a partire dall’impresa di Tunisi, conobbe anche un’espressione artistica (come il ciclo di arazzi, su disegni di Jan Vermeyen, dedicati ad alcune fasi dello scontro e oggi conservati presso il Palazzo Reale di Madrid); per uno studio generale sulla rappresentazione figurativa della missione di Tunisi cfr. DESWARTE-ROSA 1998.

8 Prodromi del conflitto africano furono senz’altro i tentativi di conquista ottomana sul fronte balcanico- ungherese, promossi da Solimano il Magnifico (1520 – 1566) contro la casa d’Amburgo. Oggetto di contesa, tra il 1526 e 1551, furono soprattutto Budapest e Vienna, posta più volte sotto assedio dai Turchi senza mai riuscire ad espugnarla. All’eccidio dell’esercito ungherese nella battaglia di Mohács (1526) Pietro Bembo dedicò il sonetto La nostra e di Giesù nemica gente (BEMBO Rime 109), mentre Molza compose per l’occasione ben cinque sonetti (MOLZA Rime, vol. I, nn. 37, 53-54, 148-149).

9 La storia di Tunisi conobbe continue oscillazioni nel dominio: espugnata dagli Ottomani nel 1569, passò di nuovo sotto il controllo cristiano nel 1571 in seguito alla vittoria di Lepanto. Nel 1574, tuttavia, l’impero ottomano riconquistò il controllo della città a scapito dell’impero spagnolo che non riuscì più a rivendicarne un controllo.

10 Per alcuni studi dedicati alla ricostruzione storica dei fatti e alla coeva letteratura encomiastica cfr. SALETTA 1981 e ZAGGIA 2003 (in particolare il cap. Il viaggio trionfale di Carlo V attraverso la Sicilia nel 1535 e la letteratura encomiastica coeva, pp. 59-80).

solenni e dipingendo Carlo V come un condottiero eroico e valoroso, sempre pronto a combattere a fianco dei propri soldati.11 La vittoria africana aveva ispirato quasi

immediatamente anche una ricca tradizione poetica. All’interno della tradizione canterina12

e in ottava rima, il poemetto di Lodovico Dolce, le Stanze composte nella vittoria Africana havuta dal Sacrissimo Imperatore (1535), è probabilmente il caso più noto. In questa sede è adeguato ricordarne almeno due ottave:13

Io canto l’arme e l’honorate insegne, mosse in favor di Christo e de la fede, l’alte ruine e di memoria degne, che sopra a Mori il novo Carlo diede, le genti, sì gran tempo afflitte e indegne de giogo rio de l’Africana sede, tolte da servitù d’aspro tormento e chi già l’opprimea scacciato e spento. (ott. 1, c. aiiir)

Voi, che le vane in tante rime sparte, fole e bugie per così largo rivo diero le favolose antiche carte, che ’l vulgo allettan di giudicio privo, porger calhor solere orechia imparte, udite quel che del gran Carlo io scrivo e dilettivi il vero hoggi fra noi

sol per virtù de i santi gesti suoi. (ott. 7, c. aiiiv)

Modellato sul precedente del Furioso ariostesco – che era stato ripubblicato nella sua forma definitiva solo qualche anno prima – Dolce richiamava «i lettori delle favole cavalleresche, di una lettura che oggi diremmo evasiva, a ritemprarsi nella realtà, nella storia e epopea contemporanea».14 A quest’orizzonte di attesa si allinearono, l’anno dopo, anche l’Affricano

di Pompeo Bilintano15 (Napoli 1536) e la Notte d’Aphrica di Sigismondo Pauluzio (Messina

1536).

La vittoria africana incontrò l’interesse anche di Veronica Gambara (Rime 44-48), Anton Francesco Ranieri (Rime 2) e di Antonio Minturno. Quest’ultimo fu autore di due canzoni, confluite poi nelle sue Rime (1559), rivolte a «Carlo V vincitore e trionfante dell’Affrica», presentato anche in questo caso come nuovo eroe della propria epoca, pronto a rinnovare un conflitto epico-storico secolare. Nonostante i toni e i motivi, quasi rapsodici, assomiglino alla mitizzazione dello scontro proposta nel ciclo lirico moliniano, si riconoscono alcune differenze rilevanti, in primo luogo metriche. Molin raccontò l’impresa solo tramite sonetti, mentre Minturno sperimentò l’ode pindarica.16 Anche dal 11 Si pensi alla fortunata Vita dell’invitissimo imperator Carlo quinto di Alfonso Ulloa (Venezia, Valgrisi, 1560), in contesa alla quale, l’anno dopo, fu pubblicata la Vita di Carlo V di Lodovico Dolce (Venezia, Giolito, 1561).

12 Mi riferisco per esempio alle venticinque ottave di Alessandro Verini dal titolo La gran rotta che ha dato la Cesarea Maestà a Barbarossa et la presa di Tunisi (Firenze, Balone, 1535) e l’adespota Il crudelissimo pianto e

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