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Il valore ante-predicativo del “concetto generale” di esistenza Per una possibile convergenza tra la via a priori e la via a posteriori

Il progetto originario di una “metafisica del mondo sensibile”.

2. Il valore ante-predicativo del “concetto generale” di esistenza Per una possibile convergenza tra la via a priori e la via a posteriori

“Quale che sia il valore dell’argomento kantiano, va comunquue rilevato che in esso viene a chiarezza l’unità fontale di ogni discorso metafisico, un’unità che si traduce appunto nella convergenza o nell’intreccio delle due linee cognitive: la linea che muove dal dato del possibile e che dunque approda a posteriori sino all’asserto dell’ultima necessità e quella che viceversa interroga il dato muovendo dall’imperativo della non contraddizione.”192

All’interno del testo della Nova Dilucidatio il ricorso all’istanza metafisica del divino intelletto per l’emendazione dell’influsso fisico tra le sostanze corporee lascia emergere l’originario progetto kantiano di approntare una “metafisica del mondo sensibile”, che sia capace di dare una spiegazione di carattere puramente razionale sull’origine e la natura dei fenomeni del mondo naturale – nel caso più specifico, della realtà del mutuo commercio tra le sostanze contingenti – attraverso il congiungimento delle leggi più generali della conoscenza metafisica con le regole proprie delle scienze di stampo fisico-matematico. In quella sede, come già accennato, la postulazione da parte di Kant di un necessario principio di ordine metafisico a spiegazione o, meglio, fondamento della “durevole co-esistenza” delle sostanze contingenti (corporee) non aveva, però, implicato alcun ritorno alla dottrina leibniziana dell’armonia prestabilita, ma aveva piuttosto chiamato in causa l’idea di una particolare forma di “armonia universale delle cose” che, sebbene prodotta secondo uno schema193 attuabile dall’intelletto divino, pure mantiene un

carattere essenzialmente contingente.

Conciliare, facendo ricorso ad un procedimento di natura puramente razionale, il valore necessario di un principio comune di esistenza, con il carattere contingente del mondo in cui operano attivamente le sostanze è un compito che il filosofo di Königsberg si propone di affrontare in maniera più diretta e specifica all’interno del Beweisgrund. Nell’opera data ufficialmente alle stampe nel 1763, infatti, i risultati ottenuti nell’ambito dell’indagine analitica sui principi primi della conoscenza – mi riferisco, più precisamente, al restringimento della validità del rinnovato principio di ragion determinante

192 V. Melchiorre, La via Analogica, Vita e Pensiero, Milano 1996, p. 20.

193 “Lo schema dell’intelletto divino (…) è un atto durevole (detto “conservazione”): ora se

alcune sostanze sono state concepite in esso da Dio isolatamente e senza relazione di determinazioni, non sorgerà tra queste legame alcuno e alcuna relazione reciproca. Qualora siano invece concepite nell’intelligenza divina in relazione, nel protrarsi dell’esistenza in conformità a questa idea le determinazioni rimangono in seguito in relazione tra loro ossia agiscono e reagiscono”; AA I, 414; tr. it. pp. 49-50.

ai soli enti contingenti194 ed alla parallela individuazione della componente

materiale del possibile (rappresentabile), come controparte necessaria di tutto il logicamente pensabile –, insieme alla ormai compiuta formulazione della ormai nota tesi kantiana sull’esistenza, restituiscono infatti buona parte di “quel materiale faticosamente raccolto”195 dal filosofo nel corso di questi

anni, da cui risulta ora possibile approntare un’argomentazione di carattere puramente razionale (a priori) sull’esistenza e la natura dell’ente sommo, che sia al contempo capace di intercettare, in termini coerenti con le leggi della fisica, il piano reale della contingenza mondana.

Già nella Nova Dilucidatio Kant aveva espresso la propria insoddisfazione nei confronti di quella sedicente “prova” riguardante l’esistenza e la natura di Dio, che trovava i propri natali nell’argomento a priori di stampo cartesiano, individuando nella critica radicale al concetto di “causa sui” il legittimo spazio teorico per una possibile confutazione di tale argomento. In quella sede, Kant aveva infatti pronunciato il suo esplicito dissenso nei confronti di quell’assurdo “ritornello” che, a suo dir,e ha costantemente accompagnato i tentativi dei cosiddetti “filosofi moderni”196 di fornire una prova che fosse

capace di dimostrare del tutto a priori l’esistenza di Dio; ritornello, secondo cui quest’ultimo, in qualità di ente perfettissimo, pure “avrebbe in se stesso (in se ipso) la ragione della sua esistenza (Exsistentiä suä rationem)”197.

Per il filosofo prussiano, che poco prima aveva sottolineato in termini piuttosto espliciti l’esigenza teoretica di distinguere tra le ragioni “antecedentemente” determinanti e quelle ragioni che, di contro, lo sono solo “conseguentemente” – individuando nelle prime le uniche capaci di indicare a priori le ragioni per cui (cur) qualcosa è piuttosto che non –, nulla risulterebbe essere “più disforme alla sana ragione”198 ed alle sue leggi, che

pensare che ci possa essere un ente, che abbia in sé la ragione della sua stessa esistenza; un ente, cioè, nel quale la nozione di causa verrebbe a coincidere in tutto e per tutto con quella della sua conseguenza, ovvero, del causato.

È assurdo che qualcosa abbia in sé la ragione della sua esistenza. Ciò infatti che ha in sé la ragione dell’esistenza (rationem exsistentiä) di una cosa, è la causa della medesima. Supponendo pertanto l’esistenza di un ente che avesse in sé la ragione della sua esistenza, questo ente dovrebbe essere la causa di sé medesimo. Poiché però la nozione di causa antecede per sua natura la nozione di causato, mentre

194 “Il principio di ragion sufficiente vale come principio cosmologico, applicabile, cioè, agli

enti contingenti che popolano il mondo, ma non può valere come principio ontologico, perché, non riguardando la costituzione dell’essere dell’ens necessarium, non può rappresentare una regola estendibile a tutti gli enti in generale (…)”; A. Cicatello, Ontologia

critica, p. 54.

195 AA II, 66; tr. it. p. 106.

196 Chiara allusione a Descartes ed ai cartesiani. Tra questi ultimi Kant sembrerebbe tuttavia

annoverare persino quei razionalisti che, a suo dire, si sarebbero rifatti alle logiche cartesiane per la produzione di argomenti a favore dell’esistenza di Dio, ovvero, ancora una volta Leibniz, Wolff e Baumgarten.

197 AA I, 394; tr. it. p. 18.

198 “Disforme”, nel caso specifico, perché contrastante con la “forma” necessariamente

adottata dai giudizi del nostro intelletto, ovvero, quella definita dai principi formali della identità e della contraddizione. Pensare ad un essere che sia al contempo causa e causato restituisce infatti per Kant un pensiero del tutto contraddittorio dal punto di vista logico- formale.

quest’ultima è posteriore, la stessa cosa sarebbe simultaneamente anteriore e posteriore a sé medesima: il che è assurdo.199

Veicolata dal respingimento dell’ipotesi a favore dell’autocausalità divina, l’obiezione avanzata dal filosofo di Königsberg nel ’55 contro la prova di stampo cartesiano finiva però col chiamare direttamente in causa quelle determinazioni di carattere temporale – come ad esempio la “simultaneità” e la “successione” –, che rivelano al contempo la struttura “fisico-cosmologica” della dimensione teorica entro la quale verrebbe scandita la sua stessa logica. La critica kantiana all’argomento cartesiano nella Nova Dilucidatio finisce, infatti, col ricadere all’interno di quello stesso ordine di natura contingente, da cui Descartes aveva metodicamente inteso fare astrazione, tramite il ricorso ad una accezione puramente formale200 del concetto di causa sui;

accezione che, nei fatti, ne restituiva un significato molto più vicino a quello associato da Kant alla ratio logica, piuttosto che a quello di una vera e propria causa efficiente. L’argomentazione cartesiana, infatti, attestava il proprio valore di prova “a priori” facendo appello ad una concezione puramente logica della causalità propria dell’ens necessarium, nel quale la coincidenza classica tra l’esse e l’essentia201, che era stata in precedenza sostenuta dalla

metafisica di stampo tomista, finiva nei fatti col lasciare progressivamente il posto ad un rapporto di vera e propria “implicazione” del primo dal secondo, di modo che il concetto della causa sui in riferimento all’ente divino – ma solo ed esclusivamente ad esso – veniva ad identificarsi in tutto e per tutto con la causalità formale espressa dal suo stesso concetto.

Posta in tali termini, la logica della prova cartesiana non veniva quindi per nulla intaccata dalla critica al concetto dell’auto-causalità avanzata da Kant nel testo della Nova Dilucidatio, che da parte sua chiamava in causa la concettualità propria di quell’ordine temporale (contingente), entro il quale muove una causalità di tipo solo “efficiente”.

In sede di Beweisgrund è invece la tesi kantiana sull’esistenza che, insieme alla rivalutazione della dimensione “reale” di tutto il logicamente possibile, fornisce al filosofo di Königsberg uno strumento teoreticamente più adeguato a confutare il genere di auto-causalità cui faceva originariamente appello la prova a priori di stampo cartesiano.

199 AA I, 394; tr. it. p. 18.

200 Descartes distingue infatti tra la spiegazione causale, chiamante in causa l’effetto di una

causa esterna, e la ragione formale interna, il che gli consente di sostenere che è possibile concepire che Dio sia causa di se stesso, senza incappare nelle difficoltà dell’autocausazione: “Tutti quelli, infatti, che seguono solamente la guida della luce naturale formano subito in sé, in questa occasione, un certo concetto che partecipa della causa efficiente e della formale, e che è comune all’una e all’altra: cioè, che quel che è per opera d’altro, lo è come per causa efficiente; e che ciò che è per sé, lo è come per causa formale, e cioè perché ha uuna natura tale da non aver bisogno di causa efficiente”; (Descartes 1986, Opere, vol. I, Laterza, Roma- Bari, Risposte alle quarte obiezioni, p. 408). Su tale argomento cfr. S. Di Bella, Note

sull’argomento ontologico nell’età moderna, in “Teoria”, 15 (1995), 1, p. 76; cfr. anche E.

Scribano, L’esistenza di Dio. Storia della prova ontologica da Descartes a Kant, Roma, Laterza, 1994.

201 Nella Summa Theologica Tommaso sosteneva infatti che in Dio, diversamente che negli

enti contingenti, essenza ed esistenza sono del tutto coincidenti: “Sua igitur essentia est suum

Prendendo le mosse dalla tesi, secondo la quale l’esistenza non è affatto un “predicato” o una qualche determinazione appartenente alle cose che, come tale, può essere aggiunta o meno a completamento della loro essenza (pensabilità), ma piuttosto la “positio” assoluta delle stesse che, in quanto tale, va presupposta ad ogni loro possibile determinazione predicativa e non dedotta da essa, Kant intende ora mostrare quella che per lui è la radicale inconsistenza del presunto valore “onto-logico”202 della prova di stampo

cartesiana.

Abbiamo nondimeno una celebre prova (…), cioè la così detta prova cartesiana. Si immagina, prima di tutto, un concetto di una cosa possibile, nella quale ci si rappresenta congiunta ogni vera perfezione (Vollkommenheit). Ora si ammette che l’esistenza sia anche una perfezione delle cose, e si conchiude quindi alla possibilità di un Essere perfettissimo alla sua esistenza. In tal modo si potrebbe dal concetto di ogni cosa, purché rappresentata anche come la più perfetta della sua specie, concludere alla sua esistenza: per esempio, concludere alla esistenza di un mondo perfettissimo, già per il solo fatto che può essere pensato. Ma, senza impegnarmi in una dettagliata confutazione di questa prova, confutazione già fatta da altri, io mi riporto soltanto a quanto è stato dimostrato a principio di quest’opera, che cioè l’esistenza non è un predicato.203

Nella prova cartesiana il principio per la dimostrazione dell’esistenza di Dio è rappresentato dal concetto (logicamente possibile) di un “Essere perfettissimo”; concetto, rispetto al quale la mancanza di esistenza, in qualità di sua determinazione positiva, finirebbe con l’esitare una vera e propria contraddizione sul piano logico-formale.

In termini che, per Kant, risulteranno poi essere perfettamente coerenti con i presupposti ontologici del razionalismo metafisico di matrice wolffiana, l’argomento a priori avanzato in origine da Descartes pretende infatti di “dedurre” l’esistenza di ciò che noi pensiamo attraverso la nozione di un ente divino (Dio), muovendo dall’essenza incontraddittoria del concetto di un ens

perfectissimum, ovvero, prendendo le mosse dal concetto di un ente che per

sua stessa “definizione” non può non possedere il predicato dell’esistenza, pena la negazione – sul piano logico – del sua stessa nozione204.

Affermare che Dio non esiste, secondo una tale prospettiva, equivarrebbe infatti ad ammettere che ciò che viene propriamente designato come quell’ente sommamente perfetto, pure risulta essere manchevole di una qualche determinazione che, in aggiunta alle altre, ne definisce appunto la perfezione.

202 Con tale espressione si intende qui fare riferimento a quella divaricazione interna al

dispositivo ontologico delle dimostrazioni metafisiche, che la critica kantiana al concetto di esistenza porterà in luce. Muovendo dalla tesi secondo la quale l’esistenza non è un predicato appartenente alle cose o una determinazione loro assegnabile al pari di ogni altro genere di determinazione di natura predicativa, Kant finisce infatti col mettere seriamente in questione la possibilità di avere un accesso diretto, tramite principi puramente razionali, all’esistente, palesando l’irriducibilità del piano su cui verte l’ente su quello logico della predicazione.

203 AA II 156; tr. it. p. 202.

204 Secondo il razionalismo wolffiano, lo ricordiamo, notio e definitio tendono il più delle

L’obiezione kantiana a questo argomento, come è noto, muove dall’analisi del “concetto generale”205 di esistenza, escludendo perentoriamente che essa

possa essere annoverata tra i possibili predicati appartenenti al soggetto, tra le sue determinazioni positive.

Prendete, a vostro piacimento, un soggetto, per esempio, Giulio Cesare. Raccogliete in esso tutti gli immaginabili suoi predicati, non esclusi quelli di tempo e di luogo, e subito vedrete che esso può, o non, esistere con tutte queste determinazioni (…). Chi può negare che milioni di cose, che in realtà non esistono, siano semplicemente possibili con tutti i predicati che esse conterrebbero, se esistessero; che nella rappresentazione, che di esse il sommo Essere ha, non manchi neppure una determinazione, sebbene non vi sia tra i predicati l’esistenza, poiché egli le riconosce soltanto come cose possibili?206

Sebbene nel parlar comune207 si faccia spesso riferimento all’esistenza come

ad un predicato che può essere associato o meno ad un soggetto di natura grammaticale, da un punto di vista espressamente “filosofico” – sottolinea Kant – essa non può affatto essere intesa come una determinazione di carattere positivo, annoverabile tra le note caratteristiche del concetto del soggetto: in quest’ultimo, ammette infatti il filosofo, è possibile rintracciare “soltanto i predicati della possibilità”208, dai quali l’esistenza non è per nulla

un qualcosa di semplicemente deducibile. Il filosofo di Königsberg, detto altrimenti, nega espressamente che l’esistenza possa essere identificata con quel concetto che, aggiungendosi alle determinazioni positive del concetto di un soggetto, è capace di restituire la “determinazione completa” di un qualche cosa di logicamente possibile – tesi, questa, che era stata avanzata da Baumgarten – o, ancora, che essa possa coincidere con quella sua particolare determinazione spazio-temporale, come aveva invece sostenuto Crusius209.

Nell’ottica kantiana, come già accennato, lo spazio ed il tempo restituiscono infatti delle determinazioni attribuibili anche a dei meri possibili e, sebbene tutto ciò che esiste realmente risulta essere del tutto determinato, questa sua “completa determinazione” non ha, di fatto, nulla a che vedere con l’esistenza effettiva delle cose.

205 Con ciò Kant fa qui riferimento al modo di procedere in ambito filosofico, diverso da

quello matematico. Quest’ultimo, “nelle sue soluzioni, dimostrazioni e deduzioni considera il generale sotto il segno in concreto (das Allgemeine unter den Zeichen in concreto)”; AA II, 278; tr. it. p. 221. Nella riflessione filosofica, al contrario, “occorre avere innanzi agli occhi l’oggetto stesso, e perciò si è costretti a rappresentare il generale in abstracto, senza avere la possibilità di ricorrere alla grande facilitazione di sostituire singoli segni ai concetti generali delle cose stesse”; AA II, 279; tr. it. p. 222.

206 AA II 72; tr. It. 113.

207 Nella Deutlichkeit, come vedremo in seguito, è propriamente il “linguaggio” a restituire

il punto di partenza per l’analisi metafisica, i cui “segni” sono appunto le “parole”. Il parallelismo con il linguaggio comune, in Kant, non si limiterà a suggerire una banale affinità tra la Logica generale e la grammatica: “Poiché la forma della lingua e la forma del pensiero sono parallele e simili l’una all’altra, poiché noi pensiamo in parole e comunichiamo i nostri pensieri ad altri per mezzo del linguaggio, allora c’è anche una grammatica del pensiero” –

Enzykl., [31]; trad. mia. Detto in altri termini, la logica generale è la grammatica generale per

mezzo di cui l’intelletto deve pensare.

208 AA II 73; Tr. It. 114

209 Ci riferiamo qui alla tesi crusiana, secondo la quale tutto ciò che esiste è “irgenwo und irgendwann”, ovvero, un qualcosa posto in un determinato spazio-tempo.

“Tutto ciò che esiste (Alles, was existirt)”, leggiamo infatti in una riflessione manoscritta risalente alla prima metà degli anni settanta, ma che pure esprime un punto di vista che Kant aveva già fatto proprio nella prima metà degli anni sessanta, “è totalmente determinato (durchgängig determinirt). E tuttavia, questa completa determinazione non esprime il concetto di esistenza”, perché un tale “concetto” – se così lo si vuol chiamare – denota piuttosto che “una cosa è posta assolutamente e non solo in proporzione al suo concetto (daß ein

Ding absolut und nicht blos in Verhaltnis auf seinen Begrif gesetzt ist)”210.

L’esistenza, leggiamo ancora nella Reflexion 5255:

(…) non è un predicato costitutivo (determinatio) e non può pertanto essere trovata analizzando il concetto di una cosa come appartenente al suo contenuto. Dunque non può essere dimostrata obiettivamente muovendo dai concetti (kann es aus Begriffen nicht obiectiv bewiesen

werden), ma può essere considerata in relazione a tutti gli altri presi

insieme come un sostrato necessario (wie ein nothwendiges

substratum).211

Ad essere qui sotto accusa, come di recente evidenziato dagli autori della

Kant-Forschung, è proprio la tesi di Baumgarten sull’esistenza212, secondo la

quale quest’ultima risulterebbe identificabile con quella determinazione di carattere positivo di una cosa semplicemente possibile (raepresentabile), che è di per sé in grado di completare la di lei nozione, aggiungendo quelle

affectiones compossibili che, sebbene non rientrino nella sfera dei suoi essentialia, pure trovano in essa la loro autentica ragion d’essere.

210 AA XVIII 332, R. 5710. Ed anche R. 5230: “alles, was existirt, ist durchgangig determinirt, denn es wird objectiv, d.i. absolut gesetzt; aber es ist darum nicht durch seinen Begrif[f] determinirt. Umgekehrt: was durch seinen Begrif[f] durchgängig determinirt ist, ist darum nicht existirend, eben darum, weil es nur respectiv auf den Begrif[f] gesetzt wird“;

(AA XVIII 126).

211 AA XVIII 133, R. 5255. L’utilizzo kantiano del termine “substratum” per far riferimento

all’esistente sembrerebbe qui voler richiamare il concetto classico del soggetto come traduzione del termine “υποκείµενον”. Quest’ultimo veniva infatti definito da Aristotele come “ciò di cui si può dire ogni cosa ma che a sua volta non può essere detto di nulla”; (Aristotele, Metafisica, VII, 3, 1028 b 36). Tale termine, in epoca medievale, veniva anche definito con il termine “substantia”, concetto che designava quell’ente che per sua stessa natura è capace di substare o per se subsistere, di avere cioè un’esistenza del tutto indipendente. In questo modo, i termini “subjectum” e “substantia” finivano talvolta col sovrapporsi. Kant, nel contesto generale della sua critica al concetto di esistenza, sembra tuttavia allontanarsi dal significato scolastico del soggetto come sostanza, e fare piuttosto progressivamente riferimento ad esso in termini logico-funzionali: l’esistenza, per lui, restituisce la posizione assoluta di un ente che, come tale, non può che figurare come soggetto

logico di una proposizione di valore ipotetico, in cui i predicati che venivano originariamente

pensati come sue note essenziali, vengono ricomprese come possibili determinazioni di un ipotetico esistente.

212 È adottando una prospettiva diametralmente opposta a quella proposta da Baumgarten in

merito al concetto di esistenza – l’esistenza non è predicabile, ma quanto rende anzitutto possibie ogni determinazione – che Kant finirà di fatto col questionare la logica di base della conoscenza ontologica e, con essa, la “notio” stessa del suo oggetto. Più in generale sull’influenza esercitata dal pensiero di A.G. Baumgarten sulle posizioni metafisiche del giovane Kant si veda il recente: Baumgarten and Kant on Metaphysics, Edito da C.D. Fugate, J. Hymers, Oxford 2018.

L’esistenza, nell’ottica della filosofia baumgarteniana, rappresentava infatti “il complesso delle affezioni compossibili in qualcosa (complexus

affectionum in aliquo compossibili)”, restituendosi come il completamento

dell’essenza o, ancora, della possibilità interna di una cosa, nella misura in cui quest’ultima veniva considerata come un “complesso di determinazioni (complexus determinationum)”213. L’analisi kantiana, dal suo canto, ha però

mostrato che l’esistenza non può affatto essere annoverata tra le