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La presenza della comunità albanese a Venezia, risultò strettamente legata alla guerra contro i Turchi ed alle perdite territoriali subite dalla Serenissima nel Quattrocento, preludio infausto delle vicende cinquecentesche.

Negli anni Ottanta del Trecento la Repubblica intervenne in aiuto dei despoti dei piccoli regni albanesi nell’arginare gli attacchi turchi ai loro territori. Gli esiti positivi, uniti ad esigenze di tipo economico-mercantile permisero la creazione di una rete di avamposti commerciali lungo il litorale albanese, che nel primo quarto del XV secolo si estendeva da Antivari fino alle Bocche di Cattaro (Figg.

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3a/b). Al contempo, l’azione di evangelizzazione degli ordini mendicanti, in particolare i francescani, ma anche benedettini e domenicani ebbe una profonda incidenza, che condusse all’edificazione di monasteri, chiese e conventi ed introdusse in Albania una profonda devozione mariana, eleggendo in particolare Scutari e Drivasto (sede vescovile) a baluardo cattolico per eccellenza durante il conflitto.

Sebbene i flussi migratori più intensi si siano verificati in corrispondenza di nefasti eventi, quali la caduta di Costantinopoli nel 1453 e gli assedi di Scutari del 1474 e del 1479, già alla fine del secolo precedente si registrò un flusso migratorio che dalle coste dell’Albania approdò in Italia37. Eventi quali la caduta dell’Impero

d’Oriente, produssero conseguenze di vasta portata anche dal punto di vista culturale costringendo molti dotti orientali di cultura greca a rifugiarsi in Occidente per l’incombere della minaccia turca, portando con sé la propria cultura, la propria lingua ed i propri manoscritti, come nel rinomato caso del Cardinale Bessarione (cfr. cap. 2).

Quella che si può definire la vera e propria “emergenza albanese” tuttavia, esplose negli anni Settanta del Quattrocento, raggiungendo l’apice nel 1478-79 in seguito al secondo assedio alla città di Scutari, che ne comportò la perdita definitiva.

Il primo assedio di Shkodër non ebbe l’esito sperato ed i Turchi furono costretti a ritirarsi, grazie all’eroico contributo di Antonio Loredan, diventato poi leggendario. Durante l’assedio del 1479, invece, il principale protagonista fu il Capitano Antonio Da Lezze, che si distinse tuttavia in negativo, terminando i suoi giorni in esilio a Capodistria. Una volta prese in considerazione le testimonianze di alcuni Scutarini infatti, si apprese come il Da Lezze avesse falsificato i resoconti

37In seguito alla guerra di Chioggia ed alla peste, infatti, la popolazione di Venezia risultò

decimata, mentre l’instabilità politica dei Balcani condusse in Italia numerosi mercanti albanesi, impiegati dalla Repubblica quali marinai, ma soprattutto utilizzati quali mercenari stradioti, che giunsero ad essere un élite di prestigio del mondo militare quattro e cinquecentesco.

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bellici che era tenuto ad inviare al governo veneziano, dipingendo un quadro generale più preoccupante di quando non fosse in realtà, convincendo la Repubblica a cedere la città per salvaguardare i propri trafeghi. Nonostante ci fosse la possibilità di continuare a resistere, secondo i testimoni oculari, nel gennaio del 1479 fu stipulata la pace, la cui proclamazione in Piazza San Marco, avvenne emblematicamente il 25 aprile.

Con l’avanzata turca molti abitanti si rifugiarono nelle zone montane, ma dopo la presa di Scutari il governo veneziano aprì ufficialmente le porte a tutti quanti non volessero sottostare all’autorità dei conquistatori. Il Senato Veneziano infatti, sollecitò il Da Lezze affinché invitasse i cittadini a scegliere se rimanere oppure partire alla volta di Venezia, che li avrebbe accolti sotto la sua protezione.

Il Governo attuò dei piani per fronteggiare il conseguente esodo albanese, attraverso la redazione di censimenti e l’elezione di Cinque Savi, preposti alla risoluzione del problema. La città di Scutari si caratterizzava per un’organizzazione di tipo comunale, entro la quale tuttavia si andarono ad insinuare differenze di classe, in cui il patriziato era composto dalle antiche e prestigiose famiglie detentrici delle cariche illustri, mentre il popolo poteva partecipare all’assemblea dei liberi cittadini. I provvedimenti della Repubblica privilegiarono gli appartenenti all’elite della società scutarina, tra cui figuravano anche i piccoli feudatari delle zone di campagna, i proniari, nonché i religiosi. Secondo la formula Singula convenientia singulis, le mansioni e gli incarichi venivano assegnati in base a condizione sociale, meriti e competenze per ciò che concerne gli uomini, con la loro conseguente dispersione nel territorio, in base alla disponibilità di cariche vacanti.

Le donne, in particolare le vedove di nobili e “primi cittadini” albanesi, goderono di particolare considerazione e, tramite presentazione di lettere di garanzia sulla

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propria identità, poterono beneficiare di una sovvenzione mensile della durata di vent’anni (successivamente convertita a vita)38

.

In seguito a Scutari, Venezia subì altre importanti perdite che condussero alla pesantissima disfatta di Lepanto e comportarono un notevole ridimensionamento dei possedimenti della Dominante, ma anche successive ondate migratorie. Ad esempio, nel 1501 cadde Durazzo ed in questo frangente la lista delle donne redatta vent’anni prima necessitò di una revisione, a causa delle numerose richieste di non aventi diritto alla rendita mensile, problematica che si verificò anche con i religiosi giunti dall’Albania.

La provvigione che veniva elargita alle donne aumentava se queste avevano figli e poteva comprendere anche le doti per le figlie femmine. Riguardo alla loro sistemazione, invece, molte nobili Scutarine poterono risiedere presso i palazzi di illustri patrizi e persino nella casa del Doge Agostino Barbarigo. I percorsi delle donne di appartenenza umile sono più difficili da tracciare: alcune divennero inservienti a Nazaret vecchio39

oppure impiegate come balie, ma per la maggior parte si dispersero nell’entroterra.

Nel corso di tali ondate migratorie giunse a Venezia il fiore della società albanese, tra cui ricordiamo umanisti del calibro di Marino Baccichemo e Marino Barlezio40

, provenienti entrambi da Scutari e grandi sostenitori del ruolo dell’Albania nella lotta agli invasori turchi.

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Per una completa analisi della questione albanese a Venezia tra fine Quattrocento e metà Cinquecento si rimanda al saggio di L. NADIN, Migrazioni e Integrazione. Il caso degli Albanesi a

Venezia (1479-1552), 2008, Roma, Bulzoni Editore.

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Dal 1436, come stabilito da Eugenio IV, il convento di Santa Maria di Nazaret divenne un ospizio per viaggiatori provenienti dall’Oriente, evidenziandone già un’affluenza tale da richiedere un luogo deputato alla loro accoglienza.

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Marin Barleti nacque a Scutari nel 1450 ed emigrò a Venezia in seguito all’ultimo assedio della città nel 1479. Egli fu un sacerdote ed umanista e pubblicò nel 1504 De Obsidione Scodrensi, in cui narrò da testimone oculare le due occupazioni della città, oltre all’Historia de vita et gestis

Scanderbegi epirotarum principis, panegirico di grande importanza sulle vicende di Giorgio

Castriota, l’eroe nazionale albanese caduto nella lotta contro il turco nel 1468 dopo aver riportato numerose vittorie sul nemico.

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Un gruppo molto nutrito proveniente dalle zone interessate dall’invasione turca lo si identifica negli appartenenti al clero, già marcatamente presenti in laguna dalla prima metà del Quattrocento, in seguito alla dedicazione di Drivasto e Dulcigno a Venezia (rispettivamente nel 1420 e nel 1423) ed a quella di Antivari nel 1443. Un secondo picco del flusso migratorio di religiosi si registrò negli anni Settanta come conseguenza agli assedi di Scutari. Vista la pregnanza della religione cattolica nei territori dell’Albania veneta, i religiosi godettero di grande considerazione anche da parte del Governo ed una volta attraversato l’Adriatico, furono ricollocati sia in città, sia nell’entroterra come avveniva per le cariche civili, arrivando a distribuirsi anche nelle Marche ed in Umbria. Secondo quanto riportato da Marin Sanudo, tuttavia, negli assedi di Scutari, ma anche di Durazzo, gli uomini di chiesa furono gli ultimi ad abbandonare le città, peraltro carichi di suppellettili liturgiche, beni ecclesiastici e reliquie da portare in salvo dalla furia turca41

. Gli unici a resistere furono i francescani, che si insinueranno profondamente nel tessuto socio-culturale albanese, tanto da resistere anche nel secolo successivo, nonostante la progressiva tendenza all’eliminazione del proselitismo religioso. Scutari e Drivasto costituirono il polo religioso albanese per eccellenza, strettamente legato a Roma, visto anche il ruolo di difesa della cristianità e lo stesso Pontefice Paolo II, al secolo Cardinale Pietro Barbo svolse un ruolo fondamentale nella protezione e nel sostegno delle comunità provenienti dall’est, coadiuvato dall’Arcivescovo di Durazzo Paolo Angeli e dall’abate di Antivari Giorgio Pellino.

Come avvenne per i civili, anche fra i religiosi si verificarono tentativi di falsificazione dei propri dati per poter accedere a privilegi e benefici riservati ai provenienti da Scutari/Drivasto. Ad ogni modo, entro gli anni Ottanta del Quattrocento, l’emergenza albanese poté dirsi rientrata, mentre gli immigrati,

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almeno quelli illustri di cui si fa menzione nei documenti, risultarono convenientemente sistemati.

Vista la capillarità della loro diffusione nell’entroterra veneto e la formazione di prestigiose accolite culturali di origine albanese in città quali Treviso e Padova, la loro integrazione sociale e culturale risultò compiuta già nel secolo successivo42

. Il reperimento di cariche vacanti da attribuire agli immigrati, civili o religiose che fossero, coinvolse la totalità dei territori di dominio della Serenissima, pertanto non furono solo i grandi centri a essere interessati dalla presenza albanese, ma anche realtà cittadine più contenute. A ciò si aggiunga la cessione di terre alle famiglie più influenti, che sicuramente corroborò la loro progressiva insinuazione nel tessuto sociale veneto.

Un particolare esempio è costituito da Luigi Grecolco, guardiano del convento francescano di Scutari, che fu parroco dal 1479 al 1522 della Chiesa di Santa Maria Annunziata di Moniego, in cui promosse anche alcune opere artistiche. All’interno trova spazio una pietra tombale della Famiglia Sorgato ed un’appartenente a tale famiglia risultò aver commissionato una pala con San Giovanni Battista (Fig. 4) per la Chiesa dei Santi Felice e Fortunato di Noale, nei pressi della precedente. L’artista in questione era Carpaccio e la commissione di Maria Sorgato dovette arrivare nel periodo in cui egli aveva ultimato il ciclo della Vergine per la Scuola degli Albanesi e si apprestava a realizzare la decorazione per quella di Santo Stefano. Il maestro era quindi già affermato interprete delle comunità straniere di Venezia ed è molto probabile che i rapporti con i confratelli delle varie istituzioni possano avergli procurato questo tipo di commissioni extraurbane. L’attribuzione di tale pala fu spesso dibattuta, soprattutto dopo le opinioni negative di Cavalcaselle o l’attribuzione di Fiocco al ben meno rilevante Lattanzio Da Rimini, che avrebbe ripreso la composizione di Cima da Conegliano

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del San Giovanni Battista tra due Santi, alla Madonna dell’Orto43

. Recentemente, tuttavia, la paternità del Carpaccio è stata confermata44

, a riprova del particolare apprezzamento di cui godeva il pittore presso numerosi appartenenti alle comunità orientali, sia in Venezia, sia nell’entroterra.

L’aprirsi di una stagione di relativa calma sul confine orientale fu celebrata a Venezia attraverso manifestazioni artistiche e letterarie autocelebrative per la Repubblica, per i singoli protagonisti, patrizi che furono in prima linea nella lotta all’infedele, nonché per gli Albanesi, a cui fu riconosciuto l’importanza del proprio ruolo di barriera contro i Turchi e di protezione per tutto l’Occidente cattolico, anche grazie alla risonanza delle gesta compiute da Scanderbeg. Egli fu celebrato quale simbolo dell’identità albanese ancora nel Novecento, ma la prima manifestazione artistica in suo onore e probabilmente l’unica realizzata quando egli era ancora in vita, fu un monumento nella chiesa dell’Addolorata di Mel in provincia di Belluno45

(Fig.5), che porta la data del 1465, sintomo della diffusione rapida del suo mito, già oltre i confini albanesi, ma anche della presenza albanese anche in queste zone ben prima delle ingenti migrazioni degli anni Settanta46

. I maggiori onori furono tributati a quelle famiglie distintesi per il loro impegno in questa guerra alla fine del Quattrocento, tra cui i Loredan ed i Barbarigo e quindi di riflesso anche all’autorità dogale47

, in un intreccio di istanze artistico-letterarie e politico-celebrative con svariati interessi privati (Fig. 5a). Approfittò di questo clima anche la comunità albanese insediatasi a Venezia, che volle dare un nuovo volto al proprio luogo di riunione, ovvero la Scuola degli Albanesi, eleggendo Carpaccio quale artista capace di integrare la tradizionale pittura delle istorie con

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G. FIOCCO, 1922, p. 370

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Cfr. L. BARUZZO, 2007

45 Cfr. L. NADIN, Un monumento a Giorgio Castriota Scanderbeg nel 1465: l’edicola-ciborio di Mel.

Ipotesi di lettura, in Archivio storico di Belluno, Feltre e Cadore, LXXXIII, n. 349, 2012.

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L’opera è infatti da ascrivere a Giorgio di Novomonte, sacerdote albanese che resse la parocchia di Mel dal 1460 al 1505.

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Mentre il mandato di Marco Barbarigo durò solo un anno nel 1485, l’anno seguente gli subentrò Agostino Barbarigo, in carica fino al 1501. Leonardo Loredan fu eletto nel 1501 tra i Cinque Savi preposti ad occuparsi dell’emergenza albanese e ricoprì l’incarico fino al 1522.

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le istanze dell’orgoglio nazionale albanese, nonostante la commissione di soggetto prettamente devozionale e la narrazione degli eventi in composizioni non troppo affollate, seppur cariche di simbologia e pregne di significato. (cap. 4)

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CAPITOLO 2. Cultura ed Arte a Venezia: tradizione ed