• Non ci sono risultati.

Verso un modello di collaborazione tra le reti di famiglie affidatarie e

Dopo l'affermarsi nel nostro paese di una cultura dell'affidamento familiare, quale principale strumento che rende effettivo ed esigibile il diritto di bambini e ragazzi a crescere in una famiglia, sarebbe opportuno promuovere la relazione e l’integrazione di due elementi complementari: i servizi sociali, garanti di un progetto di protezione e cura sui minori; la famiglia affidataria che, mettendo in gioco il proprio progetto di vita familiare, offre quella dimensione affettivo-educativa indispensabile alla crescita di un bambino.

La famiglia affidataria non ha un compito facile.

Talvolta, possono presentarsi cambiamenti legati a comportamenti imprevedibili del bambino, di alcuni o di tutti i membri della famiglia di origine, oppure cambiamenti delle condizioni generali di vita o di salute di qualcuno degli attori del progetto. Ed è proprio per questo motivo che la condivisione delle situazioni e il suo sostegno diventa l’azione fondamentale che i Servizi Sociali si prefissano di attuare. Ciò permette agli operatori di aiutare la famiglia affidataria a riconoscere le difficoltà e a comprendere meglio lo sviluppo del minore.

76 Come sostiene l’Anfaa: “Per gli operatori realizzare un affido non significa soltanto mettere insieme la domanda e l’offerta ovvero, la disponibilità di una famiglia col bisogno di un bambino. Significa piuttosto seguire e portare avanti in tutta la sua complessità l’intero progetto dell’affido”.

Non mancano tuttavia criticità. Non solo si lavora su un palcoscenico con molti attori, ma ciascuno di essi possiede diverse rappresentazioni di sé, degli altri e della situazione103. Del resto la complessità dell’affido coinvolge tutto il sistema sociale, poiché si snoda in vari frangenti: complessità nelle relazioni, nelle azioni di diversi soggetti che pur appartenendo a contesti diversi devono convogliarsi in un’unica direzione.

Il rapporto tra famiglie e servizi è stato definito controverso da Garelli104, che ha raccolto le difficoltà delle famiglie affidatarie di rapportarsi con i servizi: da una parte emerge un bisogno costante di confronto con gli operatori durante l’iter dell’affido, dall’altra, le famiglie affidatarie fanno una gran fatica a trovare adeguate risposte ai propri bisogni di sostegno e percepiscono scarso coordinamento tra le varie figure professionali105.

In altri contributi emerge un rapporto famiglie-servizi connotato da ambiguità, sia per la complessità dei rapporti tra i diversi operatori, tribunali, servizi sociali e operatori sanitari, sia per il compito delicato degli operatori sociali di doversi occupare dei bisogni dei minori e delle famiglie implicate.

In una ricerca riportata nel volume di Greco106, gli operatori stessi percepiscono una

discrepanza circa la rappresentazione della loro funzione nell’affido: quella di supervisore appartiene infatti più al mondo ideale, mentre nella realtà la questione si presenta più complessa, tanto da far percepire gli operatori talvolta come estranei rispetto al progetto di affido, talvolta invece coinvolti in quanto mediatori dei conflitti tra i vari protagonisti107.

Dunque pur occupandosi della stessa realtà e pur parlando entrambi di cura, “risulta evidente come il modo di affrontare l’affido di questi due soggetti sia molto differente

103

Comelli I., Iafrate R., L’affido familiare: una rassegna ragionata delle pubblicazioni nazionali, “Rassegna bibliografica. Infanzia e Adolescenza”, n. 3, luglio-settembre, 2012, pp. 5-34.

104 Garelli F., L’affidamento, le esperienze delle famiglie e dei servizi, Carocci, Roma 2000. 105 Comelli I., Iafrate R.

106 Greco O., Il lavoro clinico con le famiglie complesse. Il test “La doppia luna nella ricerca e nella

terapia”, Franco Angeli, Milano, 2006.

77 nelle motivazioni, nei ruoli, nei tempi, nelle responsabilità, nei rischi, … con la possibilità che si creino incomprensioni e contrasti che portano ad un forte disagio di tutti ed in particolare dei bambini per cui è attivato l’affido”108.

Com’è possibile allora, su questi presupposti che contemplano investimenti emotivi e rappresentazioni personali differenti, costruire un progetto davvero condiviso e funzionale?

Emerge la necessità di un lavoro di rete, il quale ha una doppia funzione:

 di sostenere le difficoltà e la solitudine degli operatori sociali per una condivisione delle responsabilità, attraverso il lavoro in équipe multidisciplinari, integrando la visione di ognuno così da lavorare alla luce di una realtà il più possibile chiara e condivisa;

 di creare spazi di confronto tra le famiglie affidatarie e gli operatori sociali, per permettere la co-costruzione di una visione comune della realtà dell’affido, la comprensione dei reciproci punti di vista, delle differenti attese e dei diversi bisogni.

Rispetto alle opportunità offerte dall’utilizzo delle risorse gruppali e comunitarie, Zappa109 ci invita a riflettere sulla necessità, anche per gli operatori, di «ri-fare comunità»: in questo modo sembra possibile davvero farsi carico dei minori e delle loro famiglie in difficoltà, ma anche farsi carico di chi aiuta, affinché le risorse del lavoro in rete possano fungere da ancoraggio di fronte alle difficoltà e spesso alla solitudine del lavoro degli operatori nei servizi110.

Nel gruppo si portano i problemi concreti che si incontrano nella relazione educativa quotidiana con il minore e l’esperienza della singola famiglia viene messa in comune con quella delle altre famiglie affidatarie. “Il minore diventa quindi il beneficiario del lavoro di gruppo, ma anche gli affidatari si arricchiscono, divenendo parte di un processo positivo”111.

Attraverso la creazione di spazi di confronto in piccolo gruppo, anche l’operatore (psicologo e/o assistente sociale che conduce) trae i suo vantaggi, infatti riesce ad avere una visione sistemica del progetto di affido e degli attori coinvolti.

108

QUADERNO N. 12, Reti di famiglie affidatarie nel sistema di servizi per minori, a cura di AA.VV., Mantova, novembre 2011, p. 8.

109

Zappa M., Rifare comunità. Aprirsi a responsabilità condivise per chiudere davvero gli istituti, Milano, Franco Angeli, 2008.

110 Comelli I., Iafrate R.

78 In conclusione, la rete di servizi costituita da figure multiprofessionali, deve supportare la rete di famiglie affidatarie predisponendo un progetto chiaro e condiviso che veda la partecipazione di tutti gli attori coinvolti, nell’ottica di una visione sistemica e integrativa del sapere e del saper fare.

79

INTERVISTA

Dove svolge la sua professione?

Svolgo la mia professione ai Servizi Sociali presso il comune di Viareggio nell’area della tutela minorile.

Perché il minore viene collocato in affido? Cosa ci si aspetta dall’affido?

Il minore viene collocato in affido per garantirgli un luogo di vita adeguato ai suoi bisogni, alle sue necessità e permettergli di svilupparsi nel modo più sereno possibile. È chiaro che parallelamente si lavora con l’intero nucleo familiare in modo che i genitori possano poi riavere il proprio figlio.

Di norma propongo un affido etero familiare dopo tanti anni, durante i quali ho attivato per la famiglia in carico una serie di interventi di aiuto e sostegno psicologico, domiciliare ed economico, ma che sono stati insufficienti nel tutelare adeguatamente il minore. Questo ci fa capire che la situazione di precarietà della famiglia naturale è tale che implica un percorso lungo di affido, prima di poter rientrare. L'affidamento familiare ha quindi la funzione di allontanare il minore da tale contesto e permettere al genitore di recuperare le funzioni genitoriali. Si tratta di situazioni di forte pregiudizio dove la recuperabilità genitoriale è molto carente. Ci sono casi in cui il bambino vive in un ambiente inaffidabile in cui non c’è una gestione attenta dei rapporti interpersonali, casi in cui è costretto ad assistere a scene di violenza tra i genitori. Ci sono poi casi in cui i bambini soffrono di trascuratezze fisiche, quindi si tratta di genitori che non curano adeguatamente la salute dei propri figli, può succedere che vengano messi a rischio per la condotta negativa dei genitori che abusano di sostanze stupefacenti.

80 Qual è il ruolo dell’assistente sociale nel progetto di affido?

Il mio ruolo in questo progetto è quello di tutelare il minore supportando la famiglia d’origine. È molto importante riconoscere e valorizzare la genitorialità se può essere recuperata in maniera congrua agli interessi del bambino. Quello che in teoria ci proponiamo di fare è di aiutare madre e padri nei momenti di crisi a riconoscere e recuperare le competenze per svolgere in modo adeguato le loro funzioni genitoriali. Purtroppo sono davvero rari i casi in cui questo succede, soprattutto quando si ha a che fare con genitori che da anni sono affetti da dipendenze di sostanze o da patologie psichiche. Sono famiglie in carico al servizio da diversi anni per cui non si è riusciti a risollevarli da una situazione problematica e disagiata.

Il servizio sociale fa parte dell'equipe multiprofessionale territoriale che è formata dallo Psicologo adulti, dal Neuropsichiatra e dall’ Educatore. Questa rete di servizi ha in carico il nucleo familiare, sia gli adulti sia i minori. Insieme, in una relazione sistemica, lavoriamo per sostenere il minore, la famiglia d’origine e la famiglia affidataria. Svolgiamo azioni di continuo controllo e monitoraggio della situazione per non perdere di vista la tutela e il benessere del bambino attraverso incontri periodici, colloqui o con visite domiciliari. L'equipe propone l'affidamento eterofamiliare quando sussistono le condizione dette in precedenza e successivamente continua a lavorare sui membri del nucleo familiare ognuno per la propria competenza. Collaboro anche con l'equipe del Centro Affidi, partecipando alle verifiche programmate tra equipe e famiglia affidataria, mirate a monitorare l’andamento del progetto.

Quali difficoltà può riscontrare l’assistente sociale che si occupa del progetto? Una prima area di difficoltà riguarda le famiglie. Non di rado infatti molte famiglie rimangono ancorate ad atteggiamenti di chiusura o di negazione per quanto riguarda il riconoscimento delle proprie carenze genitoriali e all’effettivo disagio che vive il proprio figlio. Frequentemente mi capitano affidamenti in cui la condivisione del progetto da parte della famiglia di origine è completamente assente. Questo sicuramente influisce negativamente sul bambino e in generale nel contesto in cui lavoriamo, in quanto il dialogo diventa molto difficoltoso. Altre difficoltà potrebbero riguardare direttamente il bambino. Può succedere e sono tanti, i casi in cui inizialmente non vuole

81 accettare il nuovo contesto familiare. C’è tutto un lavoro di supporto, di dialogo e di ascolto. Inoltre spesso il Tribunale per i Minorenni nell’emettere un provvedimento in cui dispone l’affido al Servizio Sociale dei minori e il collocamento degli stessi in famiglia affidataria, ci mette molto in difficoltà. Se da un lato questa decisione ci permette di avere più controllo e potere decisionale in merito al progetto di affido, dall’altro limita molto l’autonomia degli affidatari anche rispetto alle questioni burocratiche.

L’affido è per definizione una misura temporanea, attivata per permettere ai genitori di recuperare le capacità genitoriali. Quali osservazioni le affiorano in merito a tale definizione?

Le faccio presente che, nonostante per definizione l'affido sia una misura temporanea, in molte occasioni ci si avvale di tale istituto per lungo tempo, quando non sono presenti i presupposti per dichiarare lo stato di adottabilità del minore ed è al contempo presente una valutazione di irrecuperabilità delle capacità genitoriali. Spesso l’affido tende a protrarsi nel tempo trasformandosi in un affido di lungo periodo perché il percorso legato al recupero delle capacità genitoriali non ha prodotto i risultati ambiti. Come le dicevo prima non è affatto facile che la famiglia riesca a lavorare in modo tale da poter poi riaccogliere il proprio figlio, anche perché quando decidiamo di affidarlo ad un’altra famiglia, la situazione è molto complessa, molto problematica, nel senso che veramente il benessere del bambino è minacciato. A questo proposito mi vengono in mente delle famiglie che ci chiedono: “Cosa devo fare?” O ancora: “Il mio bambino non ha bisogno di essere certificato” dopo ripetuti richiami dalla scuola che riferiva delle problematiche e delle difficoltà del figlio e da noi servizio sociale. Spesso c’è proprio una povertà anche di capire cosa c’è bisogno per essere genitori, poche volte si fermano a dire: forse hanno bisogno di un genitore che non consumi droghe in casa, o di genitori che quando litigano non spaccano le porte, o di genitori che stiano attenti all’alimentazione, alla pulizia.

Sicuramente il mancato rispetto della temporaneità è molto destabilizzante per il minore, che si trova in una situazione di incertezza tra le due famiglie.

Tutte queste dinamiche mi fanno riflettere che è necessaria molta chiarezza sia con la famiglia d’origine, affidataria che con il minore.

82 Sono più frequenti gli affidi che terminano con il ritorno del minore nella famiglia d’origine o gli affidi che si prolungano per un lasso di tempo superiore a quanto stabilito inizialmente nel progetto ? Come spiegherebbe tale fatto?

In parte le ho già risposto precedentemente per quanto riguarda i motivi per cui gli affidi si prolungano per tanto tempo rispetto alla temporaneità stabilita dalla legge. Sono sicuramente più frequenti gli affidi di medio-lungo termine. Degli affidi che seguo, i minori che penso rientreranno in famiglia sono davvero pochi. Nella maggior parte dei casi i genitori non riescono a modificarsi radicalmente così da poter riaccogliere il figlio. Tant’è che il minore durante questo lungo percorso ha creato relazioni tipicamente parentali e significative con i genitori affidatari.

A proposito di questi affidi che si presume durino ad oltranza, l’operatore sociale è consapevole che il minore probabilmente non rientrerà in famiglia. C’è un modus operandi differente in questi casi?

Non c’è in realtà un modus operandi, perché varia in funzione dell'obiettivo del progetto di vita del minore, il quale non è più il rientro dello stesso in famiglia, ma di accompagnarlo ad acquisire una consapevolezza del suo mancato rientro nella famiglia d'origine e di continuare a garantirgli un contesto di vita adeguato all'interno della famiglia affidataria.

Se in un primo periodo c’è un forte investimento rispetto alla famiglia naturale, con il tempo se vediamo che non c’è nessuna adesione, nessun movimento, nessun desiderio di cambiamento, ci proiettiamo nell’ottica di riduzione del danno, fissando obbiettivi minimi, che hanno effetti positivi sul minore.

Oggi con la legge 173/2015 si parla di “continuità affettiva”. Cosa ne pensa?

Non posso che essere favorevole alla possibilità per il minore di continuare a mantenere dei legami affettivi con la famiglia affidataria che si è presa cura di lui per tantissimi

83 anni. Ad oggi dobbiamo necessariamente affrontare il nodo della continuità affettiva anche alla luce di una realtà che vede numerosissimi casi nei quali il periodo dell'affidamento si prolunga oltre il limite stabilito.

La continuità affettiva è un diritto del minore, quando ovviamente corrisponde al suo interesse. Tutti, a parte dai servizi sociali, istituzioni, associazioni, famiglie, dobbiamo rafforzare questa possibilità di non lacerare ulteriormente i legami affettivi che il minore ha creato durante gli anni di permanenza fuori la propria famiglia, anni che per alcuni non sono stati affatto facili inizialmente, ma che poi si sono rivelati positivi per la propria crescita.

84

CONCLUSIONE

Al fine di far emergere gli aspetti più complessi nell’attuare il provvedimento di affido, ho ritenuto opportuno interrogare il mondo della professione, e in particolar modo l’ambito del servizio sociale.

A questo proposito è stata definita la traccia di un’intervista, composta da una serie di domande aperte finalizzate a sondare alcuni aspetti che sono di interesse per quanto detto fino adesso. L’intervista è rivolta in particolare ad un’assistente sociale del Comune di Viareggio che si occupa di tutela minorile.

La tutela minorile rientra nell’ambito dei servizi sociali ed è uno strumento utile per garantire al minore un ambiente familiare che sia adatto al suo sviluppo psico-fisico. L’assistente sociale la attiva in due diversi modi: tramite domanda spontanea da parte della famiglia, in genere per un aiuto economico o tramite una segnalazione da parte di terzi, che portano a conoscenza il servizio sociale di una situazione di disagio che vive il minore. In questa seconda ipotesi lavora a stretto contatto con il Tribunale per i Minorenni.

L’assistente sociale guarda al bambino inserito all’interno della propria famiglia con la consapevolezza della necessità di metterlo al riparo da eventuali danni in caso questo si renda necessario, ma con la prevalente direzione verso il sostegno e aiuto alla famiglia d’origine, attraverso la valorizzazione delle risorse che possa permettere loro di affrontare e superare il malessere o le problematiche che sono all’origine dell’apertura della tutela.

Dalle prime domande inerenti l’affidamento familiare, l’attenzione ricade sull’importanza di trovare consenso e collaborazione da parte della famiglia d’origine nel progetto. Ciò che emerge però è la difficoltà da parte di alcune famiglie, ad accettare gli interventi di aiuto proposti dai servizi e riconoscere che con i loro comportamenti oggettivamente pregiudizievoli compromettono la crescita equilibrata e serena dei figli. Trattandosi di famiglie multiproblematiche, è più semplice negare l’esistenza di un problema, nasconderlo per paura di un provvedimento di allontanamento o addirittura

85 minimizzare situazioni che mettono gravemente a rischio il minore. In questa cornice complessa si situa l’intervento dell’assistente sociale, che di fronte a queste reazioni, risponde in molti modi e con approcci diversi: l’obiettivo da raggiungere è la conoscenza e la comprensione profonda della famiglia nei suoi aspetti di difficoltà nonché di risorse in grado di attivare un suo cambiamento e miglioramento. Quando l’assistente sociale si rende conto dell’impossibilità di recuperare la famiglia d’origine, l’obiettivo del progetto cambia, concentrandosi come sostiene l’A.S sulla “riduzione del danno” e l’attivazione di interventi minimi sul minore. La famiglia va sempre e comunque coinvolta.

Ne consegue che nella maggior parte dei casi, gli assistenti sociali difficilmente riescono a recuperare le competenze genitoriali che permettono il rientro in casa del minore. Per tali motivi l’istituto dell’affidamento familiare perde la sua caratteristica di temporaneità, e si protrae per lungo tempo.

Sono emerse criticità relative al rapporto tra i servizi sociali e l’Autorità Giudiziaria. Più precisamente nei decreti di affidamento al servizio sociale di minori collocati presso la famiglia affidataria. Spesso succede che il giudice non esplica chiaramente gli ambiti di limitazione della potestà genitoriale e i poteri del servizio. Questa condizione di scarsa trasparenza si riversa soprattutto nella relazione tra l’assistente sociale e i genitori che, in particolar modo nell’ambito dell’affidamento familiare, è per sua natura caratterizzata da elevata conflittualità e da atteggiamenti rivendicativi.

Per lavorare in un contesto propositivo e partecipativo, appare dunque necessario instaurare una collaborazione basata sulla fiducia e sulla chiarezza di quali sono i rispettivi ruoli.

Un tema ricorrente in tutto l’elaborato ed emerso anche in sede d’intervista è l’importanza di tutelare i legami affettivi. Prima di tutto con la famiglia d’origine, in quanto non si può pensare di favorire il processo di sviluppo del bambino operando una frattura tra il prima e il dopo. E poi con la famiglia affidataria, nei casi di rientro o di dichiarazione di adottabilità.

Attraverso questo lavoro si è cercato di evidenziare come con la legge 173/2015 si cerca di salvaguardare la continuità di un legame affettivo forte e duraturo come quello che si crea tra il bambino e gli affidatari, e si valorizza l'istituto dell'affido, grande espressione

86 di solidarietà e generosità che da risposta ai bisogni affettivi ed educativi di figli di famiglie in difficoltà.

È fondamentale che l’assistente sociale favorisca la partecipazione, la condivisione, l’interazione, la stimolazione e l’attivazione di tutti gli attori impegnati nel progetto di affido. Per far questo i servizi devono avere a disposizione tempo, risorse, preparazione adeguata e spazi appropriati di riflessione e confronto.

È dunque importante il lavoro di rete, intesa come circolarità di persone, organizzazioni e risorse, che non coinvolge solo i professionisti ma tutti i soggetti protagonisti di questo percorso.

87

Legislazione

L. 4 maggio 1983, n. 184, “Diritto del minore ad una famiglia”.

L. 28 marzo 2001, n. 149, Modifiche alla legge 4 maggio 1983, n. 184,

recante "Disciplina dell'adozione e dell'affidamento dei minori", nonché al

titolo VIII del libro primo del codice civile".

Art. 44 della legge n. 184/83 così come sostituito dalla legge n. 149/2001

Convenzione sui Diritti dell’Infanzia, art. 9

Art. 403 c.c. - Intervento della pubblica autorità a favore dei minori.

L. 19 ottobre 2015, n. 173, Modifiche alla legge 4 maggio 1983, n. 184,

sul diritto alla continuità affettiva dei bambini e delle bambine in affido