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Capitolo 3 Postcoloniale fuori e dentro l’Italia: subalternità tra storia, memoria e narrazione

3.8 La voce della subalterna

Le autrici considerate seguono un percorso che va dalla caduta delle certezze, alla presa di coscienza della propria diversità e, infine, all’accettazione e all’orgoglio ad essa connessi, portando a rispondere affermativamente all’interrogativo di Spivak Can the Subaltern Speak?.494 In accordo con Makaping, non solo le tante voci subalterne posso farsi ascoltare, ma possono offrire soprattutto una prospettiva diversa sulla realtà multietnica e multiculturale in cui si collocano.495 Infatti, la loro scrittura acquisisce delle valenze molto particolari: quella terapeutica che aiuta a guarire da traumi subiti496 (primo fra tutti l’esperienza del distacco), e quella che innesca una decostruzione dell’identità che, sulla base di variegate esperienze, conduce all’affermazione della pluralità delle identità nere che riassumono anche un’eterogeneità di esperienze.497 Infatti, dalla letteratura postcoloniale emerge anche il concetto di violenza, che proviene sia dall’atto coloniale in sé, sia dalla transculturalità che pone il subalterno di fronte a conflitti psicologici, identitari, di ambivalenza, non-appartenenza e ibridità (Ragusa), ma anche di fronte a conflitti culturali legati

491 C. Romeo, op. cit., 2005, p. 14. 492 D. Comberiati, op. cit., 2009, p. 11. 493

E. Giunta, Writing with an Accent. Contemporary Italian American Women Authors, cit., p. 120.

494 G.C. Spivak, op. cit., 1988, pp. 231-321. 495 R. Derobertis, op. cit., 2010, pp.141-142 496 L. DeSalvo, op. cit.

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all’integrazione e assimilazione sociale, religiosa o geografica (Scego).498

Nel contesto propriamente letterario, quindi, la violenza è più che altro astratta e psicologica e mediata dalla tematica identitaria che si accompagna alla rielaborazione del passato e alla discussione critica dell’aspetto traumatico del loro vissuto. Nei loro testi, la subalternità diviene motivo di reazione contro la loro condizione: la scrittura, sia per loro stesse, sia per la collettività tutta, si fa strumento di analisi di questioni sociali che investono ogni idea di “categoria” di appartenenza. Afferma infatti Makaping:

[…] sebbene l’esperienza del singolo non possa […] avere validità scientifica, tuttavia è possibile mettere insieme le storie di vita, le molte esperienze, i vari viaggi – simili ma anche diversi, fatti in tempi e spazi differenti – e, ad una loro lettura comparata e non gerarchizzata, vi è una fortissima probabilità di scoprire che sono diagonalmente attraversate dalle stesse costanti e dalle stesse variabili. Allora queste vite, queste esperienze, queste persone e le loro storie assumono un’importanza così interessante che ad esse possono attingere discipline di carattere scientifico, come la sociologia, l’antropologia, la storia.499

La studiosa, quindi, introduce uno spazio, quello della scrittura, in cui l’oggetto passivo delle rappresentazioni coloniali si trasforma in soggetto attivo capace di auto-narrarsi, così da raccontare la propria versione della storia, nonché cancellare i tradizionali binomi colonizzato/colonizzatore, centro/periferia, soprattutto perché, come ha giustamente precisato Mohanty: “It is not the centre that determines the periphery, but the periphery that, in its boundedness, determines the centre.”500

Da questa prospettiva, la scrittura della migrazione offre proprio quello sguardo dal margine501 che osserva il centro. Gli “altri”, coloro che non hanno avuto voce, ripristinano il proprio punto di vista e, al contempo, determinano la comparsa di nuove figurazioni riferite a soggettività femminili che, come ha sottolineato Sonia Sabelli, nella loro definizione, contengono delle metafore spaziali: soggetti eccentrici, nomadi, al margine, di frontiera, che portano con sé saperi situati, proprio a sottolineare un percorso che, a partire dalla consapevolezza della propria posizione, si apre al movimento, alla trasformazione e alla dislocazione.502

498 D. Reichardt, op. cit., p. 19. 499

G. Makaping, Traiettorie di sguardi. E se gli altri foste voi?, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2001, p. 48.

500 C.T. Mohanty, “Under Western Eyes. Feminist Scholarship and Colonial Discourse”, Feminist Review, 30, Autumn

1988, pp. 61-88, p. 82.

501 B. Hooks, Feminist Theory. From Margin to Center, South End Press, Boston, 1984, oppure B. Hooks, Elogio del margine. Razza, sesso e mercato culturale, Feltrinelli, Milano, 1998.

502 S. Sabelli, “Quando la subalterna parla. Le Traiettorie di sguardi di Geneviève Makaping”, in R. Derobertis (ed.), op. cit., 2010, pp. 131-149, p. 137; per un approfondimento sulle nuove soggettività si vedano: T. De Lauretis, Soggetti eccentrici, Feltrinelli, Milano, 1999; R. Braidotti, Soggetto nomade. Femminismo e crisi della modernità, Donzelli,

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Grazie alle loro opere, queste autrici propongono un writing e talking back dalla periferia503 e, come è stato in precedenza precisato in relazione alle considerazioni di Deleuze e Guattari, una narrazione periferica e minore non è per questo irrilevante; piuttosto, è proprio grazie al suo carattere ibrido e deterritorializzato che essa propone approcci alternativi e innovativi o addirittura rivoluzionari.504 Questo non vuol dire che opere prodotte in questo contesto debbano necessariamente trattare tematiche unicamente riferite alle migrazioni e subalternità, ma si tratta esattamente di racconti capaci di sconfinare, arrivando così a toccare questioni che vanno oltre l’esperienza immediatamente migratoria. In tal senso, la letteratura subalterna si configura come un input capace di innescare riflessioni legate alla crisi e ricerca di identità, non solo in chi nasce e vive in condizioni di confine e marginalità.505

[…] c’e bisogno di far sentire la mia voce, dal momento che io posso parlare di me meglio di quanto nessun altro possa fare. C’e bisogno che si senta la mia voce. Non racconto solo del mio dolore. Voglio farvi sapere la mia storia, la quale non deve essere narrata da chi ritengo possa essere altro o, peggio ancora, il mio colonizzatore […]. Non devo essere celebrata da chi pensa di dire la mia storia meglio di quanto possa fare io stessa. […] “Voglio dire io come mi chiamo”.506

Terre di confine. La frontiera, P. Zaccaria (ed.), Palomar, Bari, 2000; D.J. Haraway, “Saperi situati: la questione della

scienza nel femminismo e il privilegio di una posizione parziale”, in D.J. Haraway, Manifesto Cyborg. Donne,

tecnologie e biopolitiche del corpo, Feltrinelli, Milano, 1995. 503 D. Reichardt, op. cit., p. 23.

504 G. Deleuze, F. Guattari, op. cit., 1975, p. 29. 505 J. Burns, L. Polezzi, op. cit., 2003, p. 16. 506

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