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Il marchio di fatto: verso una valorizzazione dell'istituto?

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Academic year: 2021

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INDICE

INTRODUZIONE……… 4

CAPITOLO PRIMO LE ORIGINI DELLA FATTISPECIE 1.1 Il marchio: definizione e funzioni……….. 7

1.2 Le funzioni del marchio nella giurisprudenza comunitaria……11

1.3 Le fonti………... 13

1.3.1 Il diritto interno……….13

1.3.2 Gli accordi internazionali………. 13

1.3.3 Il diritto europeo………... 14

1.4 I tipi di marchio……….. 15

1.5 Il marchio di fatto……….…..……… 18

1.6 I profili economici del marchio di fatto………... 19

1.7 L’evoluzione storica dell’istituto………... 22

1.7.1 Il marchio all’indomani dell’Unità d’Italia……….. 22

1.7.2 L’evoluzione normativa nella prima metà del XX secolo…23 1.7.3 Gli anni ’40: il codice civile e la legge marchi……… 25

1.7.4 Le riforme tra la fine del XX e l’inizio del XXI secolo……26

1.8 Il marchio di fatto nell’Unione Europea……… 30

1.8.1 Il marchio notoriamente conosciuto ex art. 6 bis Convenzione di Parigi……… 30

1.8.2 Il marchio di fatto nelle diverse legislazioni nazionali…….33

1.8.3 La protezione del marchio di fatto nei confronti di un marchio comunitario successivo ai sensi dell’art. 8, paragrafo 4 EUTMR……… 35

1.8.4 Prospettive future………. 38

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CAPITOLO SECONDO

IL MARCHIO DI FATTO: PROFILI GENETICI E DINAMICI

2.1 I requisiti del marchio di fatto……… 42

2.1.1 La novità………. 44

2.1.2 L’idoneità distintiva……… 45

2.1.3 La liceità………. ……... 47

2.2 Titolarità del diritto……… 48

2.3 La fattispecie costitutiva……… 50

2.4 L’uso……….. 51

2.4.1 Caratteristiche dell’uso……….. 53

2.4.2 L’uso materiale del marchio sul prodotto o in connessione al servizio………. 55

2.4.3 Il c.d. uso pubblicitario……….. 57

2.4.4 Ulteriori profili dell’uso………. 59

2.5 La notorietà……… 61

2.5.1 Il profilo quantitativo………. 62

2.5.2 Il profilo territoriale………... 66

2.5.3 La forza espansiva del marchio……….. 70

2.6 L’estinzione……… 72

2.6.1 Profili differenziali………. 75

2.6.2 Modificazioni del marchio e fattispecie estintiva………….. 77

2.6.3 L’estinzione del marchio quale conseguenza di vicende che attengono al suo titolare………... 77

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CAPITOLO TERZO

I RAPPORTI TRA MARCHIO DI FATTO E MARCHIO REGISTRATO

3.1 Il contrasto tra marchio di fatto e marchio registrato…………. 79 3.2 La convalidazione……….. 80 3.2.1 L’ambito di applicazione………... 81 3.2.2 I presupposti della convalida: caratteristiche dell’uso……... 84 3.2.3 Il termine quinquennale………. 85 3.2.4 L’assenza di malafede……… 87 3.2.5 La conoscenza dell’uso……….. 90 3.2.6 Gli effetti della convalidazione sul titolare del marchio di fatto anteriore………... 92 3.2.7 Gli effetti della convalidazione sul titolare del marchio registrato posteriore……….. 93 3.2.8 Il profilo territoriale e merceologico della convalidazione…94 3.2.9 Convalidazione e correttezza………. 95 3.2.10 La decorrenza del quinquennio……… 97 3.2.11 La prova della fattispecie costitutiva e la legittimazione ad agire……….. 98 3.3 La cristallizzazione………... 100 3.4 Profili processuali……….. 103 3.4.1 I recenti rilievi della Cassazione in merito alla tutela processuale del marchio di fatto……….. 105

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INTRODUZIONE

Il presente elaborato si prefigge di fornire al lettore una panoramica della disciplina inerente il marchio di fatto, ossia il diritto all’uso esclusivo del segno che sorge non dalla registrazione, ma per effetto del semplice utilizzo da parte del suo inventore, un istituto giuridico, attualmente disciplinato dal Codice della proprietà industriale, che ha conosciuto negli ultimi decenni una profonda rivalutazione.

Infatti, al pari di altri istituti non titolati in materia di proprietà industriale, il cui numero è significativamente incrementato nel corso del tempo, il marchio di fatto, è stato certamente oggetto di maggior attenzione, e conseguente valorizzazione, sia a livello nazionale che comunitario, come dimostrano sia la Corte di Giustizia UE che le Corti interne, “che hanno espresso un sempre maggior interesse nella

direzione di un controllo sulle controversie in materia di uso del marchio, non più semplicemente formale, bensì sostanziale, avendo cioè riguardo al concreto atteggiarsi degli interessi in gioco1”.

E un’analoga considerazione può essere fatta anche per il legislatore interno il quale, all’art. 2 del summenzionato Codice, ha elencato nel novero dei diritti di proprietà industriale, tra gli altri, i segni distintivi diversi dal marchio registrato, e, così facendo ha esteso, seppur con le dovute differenze, la normativa del marchio registrato anche a quello di fatto.

Come accennato, però, si tratta di un’assimilazione soltanto tendenziale, posto che il Codice, in linea con la tradizione precedente, continua a guardare alla registrazione con un certo favore; non si deve dimenticare, infatti, che il marchio, in quanto rappresentazione esterna dell’impresa,

1 RINALDI, Marchio di fatto e marchio registrato: una nuova prospettiva nella

tutela dei consumatori, in La nuova giurisprudenza civile commentata, fasc. 2, pt.

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è un mezzo di comunicazione tra quest’ultima e il consumatore, due soggetti espressione di interessi diversi, talora concorrenti, talaltra divergenti.

E, dal momento che la registrazione consente al consumatore di risalire con maggior facilità all’impresa che produce il bene su cui il marchio è apposto, è giocoforza che il legislatore dimostri di preferire il marchio registrato.

Ma non è soltanto un’esigenza di tutela del consumatore, in quanto parte debole della relazione economica, che giustifica il favor registrationis riscontrabile nel Codice; garantire al marchio di fatto il medesimo trattamento riconosciuto al marchio registrato significherebbe disincentivare la registrazione, posto che si tratta di un procedimento dispendioso, dal momento che gravano sul registrante non soltanto le tasse di registrazione ma anche ulteriori costi, come l’onorario spettante all’esperto, che viene assoldato dall’imprenditore in ragione dell’elevata complessità degli adempimenti richiesti dalla legge, nonché quelli derivanti dallo svolgimento di ricerche preventive al fine di escludere la presenza di marchi anteriori eguali o simili facenti capo a terzi.

In proposito è stato detto, infatti, che: “sarebbe curioso che soltanto nel

nostro Paese si desse viceversa un incentivo ad astenersi dalla registrazione, dando gratuitamente la medesima tutela che da questa deriva a chi appunto ne fa a meno2”.

Ciò nonostante resta un dato incontrovertibile che l’introduzione del Codice abbia decretato un più ampio riconoscimento normativo del marchio di fatto e, con esso, degli altri segni distintivi di fatto, come si avrà modo di leggere nelle pagine che seguono.

Venendo alla struttura dell’opera, dopo una breve dissertazione circa la natura e le funzioni del marchio in genere, nel primo capitolo viene introdotta la fattispecie in esame e indagate le origini storiche

2VANZETTI, Osservazioni sulla tutela dei segni distintivi nel codice della

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dell’istituto, per poi concludere con un rapido cenno al marchio di fatto nel diritto europeo nonché nelle legislazioni dei singoli Stati membri. Col secondo capitolo si entra, invece, nel vivo della trattazione attraverso l’analisi dei requisiti che devono connotare il marchio di fatto e uno studio dettagliato delle vicende relative alla sua costituzione, circolazione ed estinzione.

Infine il terzo, e ultimo, capitolo è dedicato all’esame dei contrasti che possono insorgere tra il marchio di fatto e un identico marchio registrato posteriore, con particolare riferimento all’istituto della convalidazione, e termina con una ricognizione della tutela processuale riconosciuta al marchio non registrato, alla luce dei recenti rilievi formulati dalla Corte di Cassazione, sezione I, con ordinanza 13 luglio 2018, n. 18725.

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CAPITOLO PRIMO

LE ORIGINI DELLA FATTISPECIE

Sommario: 1.1 Il marchio: definizione e funzioni. – 1.2 Le funzioni del marchio nella giurisprudenza comunitaria. – 1.3 Le fonti. – 1.3.1 Il diritto interno. – 1.3.2 Gli accordi internazionali. – 1.3.3 Il diritto europeo. – 1.4 I tipi di marchio. – 1.5 Il marchio di fatto. – 1.6 I profili economici alla base del marchio di fatto. – 1.7 L’evoluzione storica dell’istituto. – 1.7.1 Il marchio all’indomani dell’unità d’Italia. – 1.7.2 L’evoluzione normativa nella prima metà del XX secolo. – 1.7.3 Gli anni ’40: il codice civile e la legge marchi. – 1.7.4 Le riforme tra la fine del XX e l’inizio del XXI secolo. – 1.8 Il marchio di fatto nell’Unione Europea. – 1.8.1 Il marchio notoriamente conosciuto ex art. 6 bis Convenzione di Parigi. – 1.8.2 Il marchio di fatto nelle diverse legislazioni nazionali. – 1.8.3 La protezione del marchio di fatto nei confronti di un marchio comunitario successivo ai sensi dell’art. 8, paragrafo 4 EUTMR. – 1.8.4 Prospettive future. – 1.9 Gli altri istituti di fatto della proprietà industriale.

1.1 Il marchio: definizione e funzioni

Prima ancora di trattare del marchio di fatto, e dei suoi complessi rapporti con il marchio registrato, occorre fare un passo indietro e svolgere una breve premessa sulla natura e sulle funzioni del marchio, così da fornire le coordinate essenziali per orientarsi nella disciplina dei diritti di proprietà industriale.

Tra i segni distintivi tradizionali il marchio occupa senza dubbio una posizione preminente, in quanto, da un lato, è il segno che meglio degli altri è in grado di creare nella mente del consumatore il collegamento ideale tra il prodotto su cui è apposto e l’imprenditore che lo ha realizzato, dall’altro, è soggetto a limiti meno pressanti di quelli che contraddistinguono la disciplina propria della ditta e dell’insegna. L’art. 7 del Codice della Proprietà Industriale, d.lgs. 10/2/2005, n. 30, fornisce una definizione espressa di marchio, laddove prevede che:

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“Possono costituire oggetto di registrazione come marchio d'impresa

tutti i segni suscettibili di essere rappresentati graficamente, in particolare le parole, compresi i nomi di persone, i disegni, le lettere, le cifre, i suoni, la forma del prodotto o della confezione di esso, le combinazioni o le tonalità cromatiche, purché siano atti a distinguere i prodotti o i servizi di un'impresa da quelli di altre imprese”.

Una formulazione simile si rinviene anche nella direttiva 2008/95/CE, il cui art. 2 recita:

“Possono costituire marchi di impresa tutti i segni che possono essere

riprodotti graficamente…a condizione che tali segni siano adatti a distinguere i prodotti o i servizi di un’impresa da quelli di altre imprese”.

Dunque, il marchio è anzitutto un segno che ha come funzione primaria, insita nella sua appartenenza alla categoria dei segni distintivi, quella di “distinguere la sottoclasse dei beni contrassegnati nell’ambito della

classe costituita da tutti i beni dello stesso genere”3.

Ma accanto alla tradizionale funzione distintiva del marchio, attorno alla quale già ruotava la disciplina nella Legge marchi, r. d.1942 n. 929, nonché unica funzione ancora oggi esplicitamente richiamata nel testo normativo, è possibile individuare funzioni ulteriori4, a seconda che si

considerino gli interessi degli imprenditori, del pubblico o del mercato.

3 RICOLFI, I segni distintivi d’impresa. Marchio, ditta e insegna, in AA.VV.,

Diritto industriale, Proprietà intellettuale e concorrenza, Torino, 2001, cit. p. 61.

4 Sul tema si veda VANZETTI, Funzione e natura giuridica del marchio, in “Rivista di diritto commerciale”, I, n. 16, 1961.

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Non bisogna infatti dimenticare che la disciplina dei marchi d’impresa ha anche dei risvolti pubblicistici5.

Certamente, la normativa è finalizzata a tutelare l’interesse individuale dell’operatore professionale a distinguersi dai concorrenti sul mercato, e non solo a distinguere se stesso, in quanto persona o ente che professionalmente produce beni o servizi, ma soprattutto a rendere riconoscibili i propri prodotti o servizi perché la clientela possa preferirli.

A questo interesse si affianca quello di avvalersi del marchio per rendere preferibili i prodotti o i servizi in quanto marcati.

Lo scopo è dunque non solo di rendere i propri prodotti identificabili, ma anche, e soprattutto, preferibili.

Emerge quindi un’altra funzione del marchio, quella attrattiva, o pubblicitaria, che giunge a riconoscere al marchio un valore basato esclusivamente sulla sua capacità di attirare l’attenzione del pubblico. Ma, come accennato, la disciplina dei marchi è posta non soltanto a tutela di interessi meramente individuali ma anche collettivi.

Infatti, come correttamente sostenuto da più autori, essa sarebbe strumentale “rispetto ai processi di autoregolazione dei quali il mercato

sarebbe, secondo la visuale liberistica delle istituzioni economiche, capace”6.

Attraverso il marchio il pubblico di riferimento è infatti in grado di identificare i prodotti o servizi offerti e può selezionare gli operatori, premiando i migliori ed emarginando quelli inefficienti, realizzando così l’allocazione ottimale delle risorse teorizzata da Smith (il cd “principio della mano invisibile”).

5 In tal senso BOTTERO N. e TRAVOSTINO M. (a cura di), I marchi d’impresa.

Inquadramento dell’istituto, in Il diritto dei marchi d’impresa. Profili sostanziali, processuali e contabili, Utet, Torino, 2009.

6 SPADA P., Introduzione in AA.VV., Diritto industriale. Proprietà e

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Se, al contrario, non fosse possibile distinguere gli imprenditori operanti sul mercato, l’unica discriminante sarebbe costituita dal prezzo e gli operatori non avrebbero alcun interesse a incrementare la qualità del prodotto, preferendo anzi abbattere i costi di produzione a discapito proprio della qualità7.

Sempre di interessi collettivi si parla a proposito di un’altra funzione tipica del marchio, quella di garanzia qualitativa8.

Infatti, quando il marchio si accredita sul mercato, ossia il segno entra nella mente del consumatore tanto da rendere immediato il collegamento ideale tra il grafismo e il produttore di riferimento, ciò stimola l’imprenditore a mantenere il livello qualitativo del prodotto che il consumatore presume dalla presenza del segno.

L’accreditamento del segno infatti è sempre frutto dell’accreditamento del prodotto stesso, ma per vari motivi si tende a ricordare più il segno apposto sul prodotto che non il prodotto vero e proprio.

La vista del segno da parte del consumatore fa dunque scattare una presunzione di qualità che spinge a sua volta l’imprenditore a rispettare gli standards qualitativi previgenti per non incorrere nel rischio di

7 A proposito della riduzione di qualità del prodotto da parte dell’imprenditore,

emblematico è il caso del mercato dei lemons (in americano “bidoni”), teorizzato da George Akerlof nel 1970, che descrive gli effetti dell’asimmetria informativa sul mercato. L’assenza di informazioni sulla qualità del prodotto, nel caso di specie un’automobile usata, fa sì che l’acquirente sia disposto a pagare il prezzo richiesto per un’auto di qualità media, inducendo il venditore ad abbassare la qualità delle automobili da lui commerciate. Alla fine resteranno sul mercato solo le auto di qualità molto bassa, i lemons appunto, che nessuno sarà disposto a comprare. L’asimmetria informativa impedisce il realizzarsi di transazioni mutuamente vantaggiose: il prezzo non dà alcun segnale ed il mercato, di fatto, si auto-distrugge!

8 Osserva tuttavia Spada nell’opera sopracitata che “risulta percettibile non tanto

un interesse collettivo alla costanza qualitativa dei beni o dei servizi marcati (ed una corrispondente funzione di garanzia del marchio), quanto un interesse collettivo ad una scelta consapevole (cioè non deformata da false rappresentazioni della realtà) tra i prodotti o i servizi offerti (ed una corrispondente esigenza di verità del marchio)”.

Di funzione di garanzia invece si parlerebbe, sempre secondo l’Autore, circa i segni che attestano la provenienza geografica del prodotto ossia le indicazioni geografiche, le denominazioni d’origine e i marchi collettivi, che identificano una classe di prodotti in ragione di caratteristiche qualitative inferite dalla provenienza territoriale od accertate da un verificatore professionale.

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apporre il segno accreditato sul mercato su prodotti di minor valore, di fatto inquinandolo.

Si tratta di una funzione ambivalente del marchio che consente al consumatore di continuare a ottenere offerte qualitativamente meritevoli da parte dello stesso imprenditore e all’imprenditore di “investire in

reputazione”.

1.2 Le funzioni del marchio nella giurisprudenza comunitaria

Un’interpretazione storico-evolutiva della funzione del marchio emerge anche dall’analisi della giurisprudenza comunitaria: se è vero che in origine al marchio era riconosciuta una funzione esclusivamente distintiva9, va però ricordato anche che, nel corso degli anni, la Corte ha

ripensato alla natura del marchio e alle funzioni che esso assolve, alla luce dell’aumento delle dimensioni del mercato, della modifica del ruolo dei consumatori, dell’invasività dei media e della diffusione delle nuove tecniche di comunicazione10.

A un simile esito si è pervenuti anche grazie al ruolo di primo piano svolto dagli Avvocati Generali nei loro pareri: l’Avvocato Generale Ruiz-Jarabo Colomer, nel caso Arsenal (conclusioni del 19 gennaio 2006, causa C-259/04, definita con sentenza Corte di giustizia CE, 30 marzo 2006, Emanuel, punti 41-45) aveva ritenuto “...riduttivo e

semplicistico limitare la funzione del marchio all’indicazione della provenienza imprenditoriale”, sottolineando che “l’esperienza insegna che, nella maggior parte dei casi, l’utilizzatore ignora l’identità del

9 “La funzione essenziale del marchio consiste nel garantire al consumatore o

all’utilizzatore finale l’identità di origine del prodotto o del servizio che costituisce l’oggetto del marchio, consentendo loro di distinguere senza confusione possibile questo prodotto o questo servizio da quelli di provenienza diversa”. Corte di giustizia CE, 29 settembre 1998, causa C-39/97, Canon, punto

28.

10 Come osserva acutamente SANDRI S., in L'evoluzione della funzione del

marchio nella giurisprudenza nazionale e comunitaria, in Il Diritto industriale,

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produttore dei beni consumati”, mentre il marchio “acquista vita propria, esprime (...) la qualità, la reputazione ed anche, in certi casi, un modus vivendi”. Tenuto conto del “funzionamento attuale del mercato [e del] comportamento del consumatore medio”, (punto 38)

“non ravvis[ava] alcun motivo per cui queste altre funzioni del marchio

non debbano anch’esse godere di tutela accanto alla funzione che indica l’origine imprenditoriale dei prodotti e dei servizi”.

Ma, a fronte di una posizione così netta, la Corte ha adottato un atteggiamento più prudente, concedendo da principio timide aperture alla possibilità che esistessero funzioni ulteriori rispetto a quella tradizionale, di indicazione d’origine del prodotto11.

La sentenza l’Oreal12 ha però per la prima volta statuito che l’esercizio

del diritto di marchio “deve essere pertanto riservato ai casi in cui l’uso

del segno da parte di un terzo pregiudichi o possa pregiudicare le funzioni del marchio” tra le quali “è da annoverare non solo la funzione essenziale del marchio consistente nel garantire al consumatore l’identità di origine del prodotto o del servizio, ma anche le altre funzioni del marchio, segnatamente quella di garantire la qualità del prodotto o del servizio di cui si tratti, o quelle di comunicazione, investimento o pubblicità”.

L’evoluzione giurisprudenziale ha perciò sancito definitivamente l’esistenza, accanto alla funzione tradizionale del marchio, di funzioni diverse, meritevoli di tutela da parte dell’ordinamento, ma resta da capire in quale posizione si collocheranno, rispetto a quella tradizionale, nel quadro normativo.

11 Si legga a riguardo la stessa sentenza Arsenal nonché Corte di giustizia CE, 16 novembre 2004, causa C-245/02, Anheuser-Busch, punto 59, e 25 gennaio 2007, causa C-48/05, Adam Opel, punto 21.

12 Sentenza Corte di giustizia CE, 18 giugno 2009, L’Oréal SA, Lancôme parfums

et beauté, CieLaboratoires Garnier & Cie,/Bellure NV, Malaika Investments Ltd, Starion International Ltd.

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1.3 Le fonti

La disciplina dei marchi è contenuta oggi in tre ordini di fonti: nazionali, comunitarie e internazionali.

1.3.1 Il diritto interno

Le fonti nazionali sono costituite dagli artt. 2569-2574 del Codice civile nonché dal Codice dei diritti di proprietà industriale, modificato con d.lgs. n. 131 del 13 agosto 2010.

1.3.2 Gli accordi internazionali

Quanto alle fonti internazionali, la prima è la Convenzione di Parigi per la protezione della proprietà industriale del 20 marzo 1883, che ha istituito un’unione tra i paesi aderenti al fine di tutelare i diritti di proprietà industriale.

Di poco successivo è l’Accordo di Madrid del 1891 per la registrazione internazionale dei marchi che, a differenza della precedente Convenzione, sostituisce al sistema delle domande plurime, in base al quale devono essere presentate domande in tanti Stati quanti sono quelli in cui si desidera ottenere tutela, una procedura di registrazione centralizzata, da svolgersi presso l’Ufficio dell’Organizzazione Mondiale per la Proprietà Intellettuale con sede a Ginevra.

L’Arrangement di Madrid è stato poi completato dal relativo Protocollo, in vigore dall’aprile 1996, che ha consentito di estenderne notevolmente l’ambito geografico di applicazione.

E ancora: l’Accordo di Nizza sulla classificazione internazionale dei prodotti e dei servizi ai fini della registrazione dei marchi del 15 giugno 1957, nonché il Trattato sul diritto dei marchi di Ginevra del 1994.

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Va infine menzionato, ultimo ma non per importanza, l’Accordo sugli aspetti dei diritti di proprietà intellettuale attinenti al commercio (TRIPs13), firmato il 15 aprile 1994 e promosso dall’Organizzazione

mondiale del commercio allo scopo di uniformare la disciplina e consentire di colmare il divario di tutela esistente, specie tra paesi sviluppati e paesi in via di sviluppo.

In particolare il TRIPs estende anche a Paesi diversi dai contraenti originari la Convenzione sull’unione di Parigi che, come accennato poco sopra, detta regole standard su aspetti centrali della disciplina dei marchi.

1.3.3 Il diritto europeo

Circa le fonti comunitarie occorre menzionare anzitutto le direttive, che seguono principalmente due indirizzi: il riavvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di marchi d’impresa e il rafforzamento delle prerogative del titolare del marchio.

Un cenno merita la direttiva 2008/95/CE che ha interamente sostituito la precedente direttiva 89/104/CEE, da ultimo confluita a sua volta nella direttiva n. 2015/2436.

Oltre alle direttive succitate si segnala anche il Regolamento CE 20-12-1993,n. 40, che ha istituito il marchio EU, poi confluito nel reg. n. 207/2009, a sua volta modificato dal reg. n. 2015/2424.

Il marchio europeo può, in seguito a un’unica procedura di registrazione, essere fatto valere in tutti gli Stati membri e il Regolamento stabilisce che possa coesistere con i marchi nazionali, così da rimettere agli imprenditori la scelta sul modello di registrazione preferibile in base alle loro esigenze commerciali.

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1.4 I tipi di marchio

È possibile individuare diversi tipi di marchi a seconda del criterio che si sceglie di adottare.

Una prima distinzione è quella tra marchio di fabbrica e marchio di commercio; il marchio di fabbrica distingue il prodotto come proveniente da un determinato produttore mentre il marchio di commercio consente di risalire al commerciante che ne cura la distribuzione e commercializzazione.

Infatti all’art. 20, III co del Codice della proprietà industriale si legge che “il commerciante può apporre il proprio marchio alle merci che

mette in vendita ma non può sopprimere il marchio del produttore o del commerciante da cui abbia ricevuto i prodotti o le merci”.

La norma quindi riconosce al commerciante la facoltà di contraddistinguere i prodotti con il proprio marchio, a patto che non sopprima il marchio del produttore.

Si suole poi distinguere tra marchi generali, che individuano tutti i prodotti genericamente realizzati dall’imprenditore, e marchi speciali, che si riferiscono a singoli prodotti o linee di prodotti14.

Una simile classificazione, che a una lettura frettolosa può sembrare meramente descrittiva, ha un certo rilievo pratico: “il marchio generale

svolge la sua funzione pubblicitaria valorizzando presso il pubblico dei consumatori la continuità dell’organizzazione imprenditoriale e della conseguente esperienza e tradizione produttiva mentre il marchio speciale tende piuttosto a valorizzare la continuità delle caratteristiche qualitative del prodotto”15.

14 Quest’ultima è una pratica ricorrente nel settore merceologico delle automobili.

15 SARTI, Capacità distintiva e confondibilità: marchi generali e marchi

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Accanto al marchio di prodotto vi è anche il marchio di servizio, dal momento che l’attività d’impresa non si esaurisce nella realizzazione di prodotti ma comprende anche l’erogazione di servizi.

Generalmente questi marchi sono però apposti sui mezzi che l’impresa utilizza per eseguire il servizio (veicoli, divise, brochure etc.), essendo l’oggetto, che il segno si ripropone di contraddistinguere, immateriale. E ancora i marchi possono essere distinti in denominativi, costituiti esclusivamente da parole o lettere, cifre, altri caratteri tipografici standard o da una loro combinazione, figurativi, composti da disegni o altri accorgimenti grafici, o misti, in parte denominativi e in parte figurativi.

Infine, meritano un cenno i marchi non convenzionali ossia marchi che, a differenza dei marchi tradizionali, denominativi o figurativi che siano, non possono essere percepiti visivamente perché costituiti da un suono, un gusto, un odore etc.

Originariamente, l’art. 2 della direttiva 2008/95/CE, sul ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di marchi d’impresa, prevedeva infatti che potessero costituire marchi tutti i segni suscettibili di essere riprodotti graficamente e, nel caso Siekmann16, la Corte di

Giustizia dell’Unione Europea aveva specificato che anche i segni che di per sé non erano percepibili visivamente potevano costituire marchi, a condizione che potessero essere oggetto di rappresentazione grafica. Una melodia, ad esempio, avrebbe potuto essere validamente registrata come marchio tramite la sua trascrizione su un pentagramma17, mentre

16 Siekmann v Deutsche Patent und Markenamt, sentenza del 12 dicembre 2002 nel procedimento C-273/00.

17 Questo è quanto affermato dalla C. Giust. CE, 27-11-2003, in causa 283-01,

Shield Mark BV c.Joost Kist h.o.d.n. Memex, caso Per Elisa “riguardo a un segno sonoro [i] requisiti [relativi alla rappresentabilità grafica]… sono soddisfatti quando il segno venga rappresentato mediante un pentagramma diviso in battute in cui figurano, in particolare, una chiave, note musicali e pause la cui forma indica il valore relativo e eventualmente alterazioni”.

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maggiori difficoltà sarebbero sorte qualora i marchi fossero costituiti da altri tipi di suoni18.

Molto recentemente però il regolamento UE 2015/2424 del Parlamento Europeo e del Consiglio, modificativo del regolamento CE n. 207/2009, ha abrogato il requisito della rappresentazione grafica.

Si legge infatti all’art. 4 del regolamento 2017/1001, sul marchio dell’Unione Europea, che:

“Possono costituire marchi UE tutti i segni, come le parole, compresi i

nomi di persone o i disegni, le lettere, le cifre, i colori, la forma dei prodotti o del loro imballaggio e i suoni, a condizione che tali segni siano adatti a: a) distinguere i prodotti o servizi di un’impresa da quelli di altre imprese; e b) essere rappresentati nel registro dei marchi dell’Unione europea (“registro”) in modo da consentire alle autorità̀ competenti e al pubblico di determinare in modo chiaro e preciso l’oggetto della protezione garantita al loro titolare”.

La rimozione del requisito della rappresentazione grafica, che costituiva il principale ostacolo al riconoscimento dei marchi non convenzionali, ha permesso dunque di ricomprendere nella definizione di marchio alcuni segni, in passato di difficile registrazione, a patto che rispettino alcune condizioni.

In proposito l’art. 3 del regolamento di esecuzione 1431/2017 dispone che il marchio possa essere rappresentato in qualsiasi forma idonea che utilizzi una tecnologia generalmente disponibile, purché possa essere riprodotto nel registro in modo chiaro, preciso, autonomo, facilmente accessibile, intelligibile, durevole e obiettivo.

18 Emblematico è il caso del ruggito del leone della Metro Goldwyn Meyer, la cui richiesta di registrazione è stata rigettata dalla Commissione di ricorso dell’UAMI per incompletezza dello spettrogramma sonoro che non riportava un’indicazione chiara e precisa del tempo e della frequenza del suono (29 settembre 2003,

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Da ultimo, con l’emanazione del d.lgs. 20 febbraio 2019 n.1519, il

legislatore nazionale ha recepito l’eliminazione del requisito della rappresentazione grafica ai fini della registrabilità del marchio, ammettendo così anche in Italia la tutela di nuovi tipi di marchi. Rientrano nella categoria dei marchi non convenzionali:

- Marchi sonori - Marchi olfattivi - Marchi di colore - Marchi di posizione - Marchi di movimento - Marchi a motivi ripetuti - Marchi olografici - Marchi multimediali

Residuano tuttavia ancora dubbi su alcune categorie di marchi, come i marchi tattili e i marchi gustativi, a oggi non ammessi dal regolamento.

1.5 Il marchio di fatto

Al termine di questa, seppur sommaria, introduzione, occorre trattare dell’oggetto di questo studio, il marchio di fatto.

Il Codice della Proprietà Industriale, dopo aver annoverato il marchio tra i diritti di proprietà industriale, all’art.2, prevede che essi:

“si acquistano mediante brevettazione, registrazione o negli altri modi

previsi dal presente codice. La brevettazione e la registrazione danno luogo ai titoli di proprietà industriale”.

Dunque la brevettazione e la registrazione fanno sorgere diritti titolati di proprietà industriale; la norma però prosegue:

19 Pubbl. Gazz. Uff. 8 marzo 2019 n.57, recante importanti modifiche alle

disposizioni contenute nel Codice della proprietà industriale che entreranno in vigore a decorrere dal 23 marzo 2019.

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“Sono protetti ricorrendone i presupposti di legge i segni distintivi

diversi dal marchio registrato, le informazioni aziendali riservate, le indicazioni geografiche e le denominazioni di origine”.

Il codice, pur riconoscendo alla registrazione un ruolo di pubblicità notizia, abbandona invece la tesi per cui essa sarebbe un elemento costitutivo della fattispecie fonte del diritto sul marchio; il diritto al marchio nasce al momento della sua costituzione e adozione e quindi anche i marchi non registrati, insieme agli altri segni distintivi di fatto, trovano protezione nella legislazione vigente.

Si tratta, però, di diritti non titolati che, in quanto tali, e nonostante l’intento del legislatore di dettare una disciplina tendenzialmente omogenea, si differenziano dai primi sotto diversi profili, che saranno approfonditi più avanti.

1.6 I profili economici alla base del marchio di fatto

Prima dell’analisi di dettaglio della disciplina che il legislatore detta in materia di marchio di fatto, può essere utile un inquadramento delle ragioni socio economiche del fenomeno.

Uno studio del marchio di fatto, cioè, non può non prendere le mosse dall’individuazione delle ragioni economiche che giustificano l’esistenza dell’istituto, così come degli altri segni distintivi di fatto. Infatti, gli istituti di fatto, tra cui centrale è proprio il marchio non registrato, risultano rafforzati dall’introduzione del Codice della Proprietà Industriale, d.lgs. 10 febbraio 2005, n. 30.

Si pone allora il problema di comprendere le ragioni di una simile valorizzazione, dato che l’ordinamento in passato ha sempre mostrato un certo favor registrationis.

(20)

Bisogna considerare anzitutto che la registrazione comporta un costo per il titolare del marchio, che non si esaurisce nelle tasse che egli è tenuto a pagare, il cui ammontare varia poi in ragione della dimensione territoriale (nazionale, comunitaria, internazionale) e delle classi merceologiche cui la registrazione si riferisce, ma comprende anche l’onorario spettante all’esperto esterno; infatti, sebbene l’interessato possa procedere direttamente alla registrazione, nella prassi è frequente che egli faccia ricorso a un esperto a causa della complessità degli adempimenti richiesti.

Inoltre si deve considerare anche che “i segni distintivi che possono

incontrare favore presso il pubblico sono molti ma non infiniti”20 e di

conseguenza, prima di procedere alla registrazione, è consigliabile avviare le cd ricerche di anteriorità, che consentono al titolare di acquisire gli elenchi degli anteriori marchi eguali o simili facenti capo a terzi.

Affinché si possa dare inizio alla procedura di registrazione è quindi necessario verificare che il marchio in questione sia dotato del requisito della novità, così da ridurre il rischio di violazione di altrui diritti di proprietà industriale.

Un altro modo per scongiurare un simile rischio potrebbe essere quello di pubblicizzare il marchio prima di procedere alla vendita del prodotto relativo, in modo da consentire ai titolari di diritti anteriori di fare opposizione ma, ancora una volta, si tratta di una procedura non propriamente economica.

Dunque le ragioni economiche sono senza ombra di dubbio il principale fattore che spinge gli imprenditori, specie se titolari di imprese di dimensioni medio piccole, a preferire il ricorso a segni distintivi di fatto, ma non l’unico; è possibile individuare anche motivi di natura diversa,

20 RICOLFI, I segni distintivi. Diritto interno e comunitario, Giappichelli, Torino 1999, cit., p.34.

(21)

in grado di orientare la scelta del titolare del marchio verso il mero uso del segno.

Se ad esempio l’imprenditore è un rivenditore al dettaglio, potrebbe non avere interesse alla registrazione in quanto:

- i prodotti da lui venduti recano già il marchio del produttore e perciò apporre il proprio marchio sul prodotto non servirebbe ad aumentarne la competitività sul mercato;

- la clientela del rivenditore è prevalentemente locale ed egli è conosciuto attraverso la propria insegna che talvolta coincide con il marchio, utilizzato soprattutto sul materiale da confezione più che sul prodotto.

Altrettanto accade in alcuni settori produttivi come quello del mobile.21

Resta però il fatto che, accanto all’indubbio vantaggio di abbattimento dei costi, la rinuncia alla registrazione comporta diversi inconvenienti. Anzitutto, mentre per il marchio registrato il momento genetico si identifica con quello del deposito della domanda di registrazione, non è altrettanto chiaro quando sorga il diritto in presenza di un marchio di fatto.

Inoltre il marchio non registrato è strettamente legato all’uso mentre il marchio registrato può essere richiesto addirittura prima che abbia inizio l’attività d’impresa o per settori produttivi diversi da quelli cui l’attività si riferisce.

Infatti “la tutela del marchio registrato” si estende “automaticamente

su tutto il territorio nazionale a prescindere da ogni considerazione di un uso effettivo, mentre nell’ipotesi di marchio di fatto, la tutela di esso e la sua estensione appaiono necessariamente condizionate e

21 Per una trattazione più approfondita CARTELLA, Il marchio di fatto nel Codice

della Proprietà Industriale, Giuffrè, Univ. Mi. Bicocca - Dip. dir. per l’economia,

(22)

determinate dall’utilizzo e dalla concreta diffusione della notorietà. Presupposto della tutela di fatto è, pertanto, l’uso effettivo e non la mera adozione, da cui deve risultare l’intenzione di adoperare il segno come marchio per determinati prodotti della propria impresa, attraverso un impiego concreto, consistente nello smercio del bene contrassegnato, indispensabile per rendere conosciuto il marchio in una cerchia più o meno larga di consumatori, in quanto soltanto in seguito ad un’effettiva immissione nel mercato si realizzerebbe nella mente del pubblico, quell’associazione tra segno distintivo e prodotto, indice dell’acquisita notorietà del segno non registrato”22.

I profili differenziali da citare sarebbero ancora molti ma saranno trattati più approfonditamente in seguito.

1.7 L’evoluzione storica dell’istituto

1.7.1 Il marchio all’indomani dell’Unità d’Italia

Originariamente il marchio di fatto non conosceva alcuna forma di tutela, in quanto la l. n. 4577/1868, concernente i marchi e i segni distintivi di fabbrica, prevedeva all’art.1 che:

“Chiunque adotta un marchio, o altro segno, per distinguere i prodotti della sua industria, le mercanzie del suo commercio (…), ne avrà l’uso esclusivo purché adempia il deposito in questa legge prescritto.

Il marchio o segno distintivo deve essere diverso da quelli già legalmente usati da altri (…)”.

(23)

La norma stabiliva, cioè, che i marchi già registrati non potessero essere oggetto di valida registrazione da parte di terzi per difetto di novità al contrario dei marchi di fatto, già in uso ma non ancora registrati. La tutela era quindi accordata unicamente ai marchi registrati, come se la registrazione costituisse una condicio sine qua non23 della tutela

stessa.

Ben presto, però, sia la giurisprudenza che la dottrina giunsero a contestare la legittimità di una simile previsione, nella misura in cui negava qualsiasi forma di protezione al marchio non registrato.

Sono da segnalare al riguardo una serie di pronunce di poco posteriori, riportate nelle loro opere da alcuni autori dell’epoca24, che per la prima

volta si occuparono dell’uso precedente del segno distintivo e dei rapporti tra segni di fatto e segni posteriormente registrati, senza però indicare i tratti distintivi di tale uso.

Gli interpreti tuttavia continuavano a ritenere che la registrazione fosse un elemento indispensabile al fine di acquisire l’uso esclusivo del segno, pur riconoscendo al preuso la capacità di escludere l’acquisto da parte di altri del diritto esclusivo sullo stesso.

1.7.2 L’evoluzione normativa nella prima metà del XX secolo

Questa era dunque la situazione che si era venuta a creare prima che, a cavallo tra le due guerre, si avessero due interventi degni di nota: da un lato, la Convenzione dell’Unione di Parigi sulla proprietà industriale25,

dall’altro il r. d. 1934 n. 1602, recante una nuova disciplina sui brevetti e sui marchi, di fatto mai entrato in vigore.

23 MANGINI V., Il marchio non registrato, CEDAM, Padova, 1964, cit., p. 2. 24 BOSIO E., Trattato dei marchi e segni distintivi di fabbrica secondo la legge

italiana e il diritto internazionale: della contraffazione e della concorrenza sleale,

Unione tipografico - editrice, Torino, 1904 e AMAR M., Dei nomi, dei marchi e

degli altri segni e della concorrenza nell’industria e nel commercio, Unione

tipografico – editrice, Torino, 1893.

(24)

In particolare l’art. 6 bis della Convenzione suddetta prevede che:

“I Paesi dell'Unione si impegnano a rifiutare o invalidare, sia d'ufficio

- se la legislazione del Paese lo consente - sia a richiesta dell'interessato, la registrazione e a vietare l'uso di un marchio di fabbrica o di commercio che sia la riproduzione, l'imitazione o la traduzione, atte a produrre confusione, di un marchio che l'autorità competente del Paese della registrazione o dell'uso stimerà essere ivi già notoriamente conosciuto come marchio di una persona ammessa al beneficio della presente Convenzione e usato per prodotti identici o simili”.

La norma impediva cioè la registrazione e l’uso in ciascun Paese dell’Unione, di un marchio confondibile con quello appartenente a un cittadino di un altro Paese, se tale marchio fosse stato “notoriamente

conosciuto”. In questo modo, il legislatore attribuiva valore a un segno

distintivo di fatto.26

Quanto poi al r. d. 1934 n. 1602, questo riconosceva espressamente l’esistenza del marchio non registrato, attribuendo la facoltà di usarlo in maniera esclusiva, nei limiti della diffusione, a chi per primo lo avesse utilizzato nella sua industria o commercio.27

La legge inoltre introduceva anche una distinzione semantica tra marchio, termine con il quale veniva indicato il solo segno distintivo registrato, e segno distintivo in senso lato, in cui rientrava il contrassegno di fatto.

Vale la pena citare in questo contesto anche un altro intervento normativo: il codice penale del 1930 che, all’art. 514, II co, prevede ancora oggi un’aggravante per “chiunque, ponendo in vendita o

mettendo altrimenti in circolazione, sui mercati nazionali o esteri,

26 VANZETTI A. e GALLI C., La nuova legge marchi, Giuffrè, Milano, 2001, p.119.

(25)

prodotti industriali, con nomi marchi o segni distintivi contraffatti o alterati, cagiona un nocumento all’industria nazionale (…) se per i marchi o per i segni distintivi sono state osservate le norme delle leggi interne o delle convenzioni internazionali sulla tutela della proprietà industriale”.

Infatti, la norma, parlando genericamente di marchi, offre tutela penale anche al marchio di fatto.

Si può dunque concludere, alla luce di questi dati testuali, che già prima dell’entrata in vigore del nuovo codice civile e della l. marchi, non residuasse alcun dubbio sulla tutelabilità del marchio di fatto.

1.7.3 Gli anni ’40: il codice civile e la legge marchi

Il marchio di fatto trova, infine, riconoscimento formale nel codice civile, dove all’art. 2569 si dice che “in mancanza di registrazione il

marchio è tutelato a norma dell’art. 2571”, il quale, intitolato “Preuso”,

a sua volta dispone che:

“Chi ha fatto uso di un marchio non registrato ha la facoltà di

continuare a usarne, nonostante la registrazione da altri ottenuta, nei limiti in cui anteriormente se ne è valso”.

Anche la legge marchi, r. d.1942 n. 929, dispone all’art.9 che, in caso di uso precedente da parte di terzi di un marchio non brevettato che non importi notorietà o importi notorietà puramente locale, i terzi hanno diritto di continuare nell’uso nei limiti della diffusione locale e, all’art. 17, che l’uso precedente della parola, figura, segno, quando non importi notorietà, o importi notorietà puramente locale, non toglie la novità. Se ne evince perciò che, laddove il marchio di fatto sia privo di notorietà o abbia notorietà locale, ciò non impedisce al terzo di registrare il medesimo marchio perché uno dei requisiti della registrazione, la

(26)

novità, non viene meno per effetto del preuso; il preutente a sua volta non è pregiudicato dalla registrazione del marchio da parte di terzi ma potrà continuare a disporre del marchio di fatto, seppur nei limiti in cui ne abbia fatto uso in precedenza.

1.7.4 Le riforme tra la fine del XX e l’inizio del XXI secolo

In seguito il d.lgs. 4 dicembre 1992, n. 480, in attuazione della direttiva n. 89/104/CEE, recante avvicinamento degli Stati membri in materia di marchi d’impresa, ha apportato alcune modifiche, più o meno rilevanti, alla legge marchi.

Quanto all’art. 9 non si segnalano rilevanti notifiche mentre all’art. 17 lett. b viene introdotto un richiamo all’art. 6-bis della Convenzione di Parigi, per cui si considera altresì noto il marchio notoriamente conosciuto ai sensi del suddetto articolo.

Ad essere modificato è anche l’art. 48, relativo alla convalidazione del marchio, istituto per cui, decorsi 5 anni dalla conoscenza dell’uso illegittimo altrui del proprio marchio, il titolare del marchio perde la possibilità di reagire con un’azione di nullità o di contraffazione nei confronti del terzo, purché quest’ultimo fosse in buona fede.

Infatti, con il d.lgs. n. 198/1996, è stato introdotto l’ultimo periodo del I co secondo cui: “il titolare del marchio posteriore non può opporsi

all'uso di quello anteriore o alla continuazione del preuso”, ricalcando

sostanzialmente la previsione dell’art. 2571 cc.

Si giunge così, all’esito di questo breve excursus storico, a trattare dell’introduzione del Codice della proprietà industriale, d.lgs. n. 30/2005, emanato a norma dell’art. 15 della l. n. 273/2002, che ha esteso al marchio di fatto la protezione riconosciuta ai diritti di proprietà industriale, sottraendolo alla disciplina della concorrenza sleale.

(27)

Si legge all’art. 1 che “l’espressione proprietà industriale comprende

marchi e altri segni distintivi (…)” e all’art. 2 che “i diritti di proprietà industriale si acquistano mediante brevettazione, registrazione o negli altri modi previsti dal presente codice. La registrazione e la brevettazione danno luogo ai titoli di proprietà industriale (…). Sono protetti, ricorrendone i presupposti di legge, i segni distintivi diversi dal marchio registrato”.

Dalla lettura combinata delle due disposizioni emerge, quindi, che il marchio di fatto costituisce un diritto di proprietà industriale, sia pur non titolato e quindi soggetto a una tutela in parte diversa da quella dei diritti titolati28.

È stato, infatti, correttamente sottolineato come il marchio di fatto sia “un diritto dotato di oggettività sufficiente per essere ricompres(o) in

uno schema di tutela proprietaria”29.

Analogamente in giurisprudenza, cfr. Trib. Milano, 24.2.1994, in Giur. dir. ind., 1995, 325, è stato affermato che “l’uso di fatto di un marchio

è costitutivo di un vero e proprio diritto assoluto del tutto paragonabile a quello del marchio registrato con la conseguenza dell’applicabilità̀ degli istituti di tutela giudiziaria propri del marchio registrato”.

Bisogna precisare però che, al di là dell’evidente valorizzazione del marchio di fatto (così come degli altri segni distintivi di fatto30) da parte

del Codice della proprietà industriale, la normativa vigente presenta una

28 È vero infatti che l’apparato sanzionatorio che si applica al marchio di fatto è il medesimo previsto per il marchio registrato, ma permangono importanti differenze sul piano sostanziale e probatorio, si pensi al diverso onere della prova che grava sul titolare del marchio di fatto il quale, a differenza del titolare del marchio registrato, che gode di una presunzione di iuris tantum circa la validità e l’appartenenza del marchio, è tenuto a provare l’uso e la concreta diffusione della notorietà del marchio.

29 FLORIDIA G., Il codice della proprietà industriale: disposizioni generali e

principi fondamentali, in Il diritto industriale, 2005, p. 13.

30 Si pensi ai disegni e modelli, rispetto ai quali il Regolamento n. 6/2002 CE all’art. 11 dispone che: “il disegno o modello che possieda i requisiti di cui alla

sezione 1 è protetto come disegno o modello comunitario non registrato per un periodo di tre anni decorrente dalla data in cui il disegno o modello è stato divulgato al pubblico per la prima volta nella Comunità”.

(28)

lacuna, dal momento che non specifica quali siano i “presupposti di

legge” menzionati dall’art. 2 c.p.i.

I segni distintivi diversi dal marchio registrato sono presi in considerazione soltanto in negativo: la Sezione II del Capo I del c.p.i vi fa infatti riferimento unicamente in relazione ai loro rapporti con un marchio confondibile da altri registrato o di cui si chiede la registrazione. 31

Alcune indiscrezioni avevano rivelato l’intenzione, in seno alla Commissione interministeriale incaricata di introdurre alcune correzioni al c.p.i, di rimuovere la lacuna normativa modificando l’art.2, di modo che riportasse la formula “ricorrendo i presupposti previsti nel presente

codice, nonché negli artt. 2563, 2564 e 2598 c.c.”, ovvero di aggiungere

un terzo comma32 all’art. 22, così da far sorgere il diritto esclusivo sui

segni distintivi non registrati attraverso l’uso in funzione distintiva, in quanto idoneo a far acquisire notorietà, svincolandoli esplicitamente dalla normativa della concorrenza sleale.33

Tuttavia il d.lgs. 13 agosto 2010, n.131, recante modifiche al d.lgs. 10 febbraio 2005, n.30, non ha formalizzato nessuna delle due proposte e la lacuna a oggi permane.

31 CELLI V., La complessa fattispecie del marchio di fatto alla luce delle recenti

precisazioni della Corte di Cassazione in tema di "secondary meaning" e tutela ultramerceologica. Nota a Cass. sez. I civ. 16 novembre 2015, n. 23393

in Rivista di diritto industriale, 2016, fasc. 3, pt. 2, p. 243.

32 Recante il seguente testo: “L’uso in funzione distintiva dei segni distintivi non

registrati, in quanto sia idoneo a far acquisire ad essi notorietà, fa sorgere il diritto esclusivo all’uso di detti segni nei limiti, anche territoriali, della notorietà conseguita e comunque nei limiti di cui all’art.20, comma I, lettere b e c del presente codice. Fatta salva l’applicazione delle norme in materia di concorrenza sleale, ai segni distintivi non registrati si applicano le disposizioni del presente codice previste per i marchi registrati, in quanto siano compatibili con l’assenza di registrazione e non siano in contrasto con le disposizioni relative a determinate categorie di detti segni contenute nel codice civile e nelle leggi speciali”.

33 Così SENA G., Confondibilità e confusione. I diritti non titolati nel codice della

proprietà industriale, Relazione all'Incontro di studio interdistrettuale sul tema "Il nuovo codice della proprietà industriale d.lgs. 10 febbraio 2005, n. 30, Milano, 18 novembre 2005”, in Rivista di diritto industriale, 2006, fasc. 1, pt. 1, p. 23.

(29)

L’assenza di una disciplina positiva del marchio e degli altri istituti di fatto ha portato all’emersione di due differenti orientamenti; alcuni ritengono che la normativa si debba ricavare a contrario dalle disposizioni del c.p.i. che ne regolano l’interazione con il marchio registrato, altri invece sostengono che si debba ricorrere al c.c. per individuare gli elementi costitutivi e il contenuto dei diritti sui segni distintivi diversi dal marchio registrato34, rinviando poi al testo unico

per la disciplina sanzionatoria e processuale.

La riforma del codice, intervenuta con d.lgs. 13/08/2010 n. 131, non sembra aver comportato alcuna variazione fondamentale della disciplina, limitandosi a un riordino sistematico delle norme35.

Anche il d.lgs. 20 febbraio 2019 n.15, con cui il legislatore nazionale ha dato attuazione alla direttiva UE 2015/2346 del Parlamento europeo e del Consiglio, pur contenendo importanti modifiche alle disposizioni del codice con l’obiettivo non solo di superare le differenze esistenti tra i titolari di marchi di alcuni Paesi rispetto a quelli di altri, ma anche di ampliare le fattispecie già esistenti in tema di diritti derivanti dal segno distintivo, non si segnala per particolari novità in materia di marchio di fatto.

34 In tal senso FLORIDIA G., Il codice, p.13 laddove si legge che i diritti “non

titolati sono protetti ricorrendone i presupposti di legge: presupposti che non necessariamente devono essere consacrati nello stesso codice della proprietà industriale, ben potendo essere contemplati altrove, come nel caso della ditta e dell’insegna i cui presupposti, oltre che dalla generale disciplina dei segni distintivi, sono posti nel codice civile”.

35 Per approfondimenti si veda SIROTTI GUADENZI A., Proprietà intellettuale

e diritto della concorrenza – Volume V: la riforma del codice della proprietà industriale, Utet, Torino, 2010.

(30)

1.8 Il marchio di fatto nell’Unione Europea

La disciplina del marchio comunitario si basa sulla registrazione, come statuisce espressamente l’art. 6 del regolamento 207/2009/CE36, circa i

modi di acquisizione del marchio, dove si legge appunto che “il marchio

UE si acquisisce con la registrazione.”

Ciò nonostante, la fattispecie del marchio di fatto è contemplata dalla legislazione nazionale di vari Paesi membri, seppur con differenze, talvolta macroscopiche, tra uno Stato e l’altro37.

Ne deriva che, almeno sotto questo profilo, la direttiva 2008/95/CE, sul ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di marchi d’impresa, non abbia avuto fino a oggi piena attuazione.

Tra i vari paesi che costituiscono l’Unione infatti alcuni non riconoscono affatto tale fattispecie, altri richiedono requisiti stringenti per la configurabilità del marchio di fatto, mentre la Danimarca è l’unico Paese a garantire il riconoscimento del marchio di fatto sulla base del semplice uso.

1.8.1 Il marchio notoriamente conosciuto ex art. 6 bis Convenzione di Parigi

Occorre iniziare col ricordare che, sebbene il legislatore comunitario non detti alcuna disciplina a tutela del marchio di fatto, tutti gli Stati membri dell’UE aderiscono alla Convenzione dell’Unione di Parigi, il cui art. 6 bis, sopracitato, protegge i marchi notoriamente conosciuti, indipendentemente dalla registrazione.

36 Che da qui in avanti sarà indicato con l’acronimo EUTMR ossia EU

Trademark Regulation.

37 Una trattazione esaustiva dell’argomento è contenuta in un articolo del

Trademark Reporter intitolato “Unregistered trademarks in EU trademark law”

(31)

L’esistenza di un marchio notoriamente conosciuto in uno Stato membro può essere opposta alla registrazione del marchio comunitario, ai sensi dell’art. 8, paragrafo 2 dell’EUTMR, in presenza di tre condizioni38:

- il marchio anteriore deve aver raggiunto un certo grado di notorietà;

- tale notorietà doveva sussistere al momento della presentazione della domanda di registrazione del marchio comunitario;

- vi deve essere identità o somiglianza di detto marchio col marchio anteriore/ identità o somiglianza di prodotti e servizi per i quali i marchi sono richiesti ovvero rischio di confusione.

Quanto al requisito della notorietà residuano alcuni dubbi, in particolare per quanto riguarda la sua estensione territoriale.

La Corte di Giustizia UE, nel caso Fincas Tarragona del 2007, ha sostenuto che il marchio debba aver raggiunto notorietà nel territorio di uno Stato membro o in una parte consistente dello stesso e quindi, nel caso di specie, ha negato la tutelabilità del marchio in ragione del fatto che esso godeva di rinomanza nella sola città di Tarragona e nell’area circostante.

La Corte ha applicato lo stesso criterio geografico anche nel caso Chevy del 1999 e nel caso Pago del 2001.

Tuttavia, si può osservare che la popolazione della città di Tarragona e provincia, se commisurata a quella dell’intera nazione spagnola, è all’incirca corrispondente alla percentuale della popolazione austriaca rispetto a quella europea.

Ma, mentre nel primo caso la Corte ha ritenuto che la conoscenza del marchio limitata alla sola città di Tarragona non fosse sufficiente per

38 Indicate dall’EUIPO, European Intellectual Property Office, nella decisione del 12 novembre 2014, B 1898751 – Yellow label.

(32)

classificarlo come notorio, nel caso Pago ha affermato che la rinomanza in un singolo Stato membro, l’Austria, lo fosse.

Tuttavia la questione principale resta non tanto l’estensione geografica quanto il grado di notorietà richiesto.

In Germania ad esempio occorre che almeno il 50% del pubblico di riferimento abbia familiarità con il marchio, circostanza che di solito viene accertata mediante indagini di mercato, viceversa la Corte di Giustizia UE non ritiene ammissibile un giudizio fondato unicamente sul dato percentuale, ma ricorre a una serie di criteri ulteriori, come la quota e il volume di mercato, l’estensione geografica e la durata dell’uso nonché la pubblicità del marchio.

Un ulteriore aiuto nell’individuazione del marchio notoriamente conosciuto ai sensi dell’art. 6 bis della Convenzione di Parigi è costituito dalle linee guida dettate dalla WIPO, acronimo per World Intellectual

Property Organization, nell’ambito della Joint Recomemendation Concerning Provisions on the Protection of Well-Known Marks.

Infatti, in aggiunta ai criteri individuati dalla Corte, le linee guida fanno riferimento anche al valore del marchio, al numero di applicazioni riuscite etc.39, sebbene, è il caso di ricordarlo, non abbiano carattere

vincolante ma siano mere raccomandazioni.

39 Articolo 2 paragrafo 1(b) punti. 2-6:

“In determining whether a mark is a well-known mark, the competent authority

shall take into account any circumstances from which it may be inferred that the mark is well known.

In particular, the competent authority shall consider information submitted to it with respect to factors from which it may be inferred that the mark is, or is not, well known, including, but not limited to, information concerning the following: (…)

2.the duration, extent and geographical area of any use of the mark;

3.the duration, extent and geographical area of any promotion of the mark, including advertising or publicity and the presentation, at fairs or exhibitions, of the goods and/or services to which the mark applies;

4. the duration and geographical area of any registrations, and/or any applications for registration, of the mark, to the extent that they reflect use or recognition of the mark;

5. the record of successful enforcement of rights in the mark, in particular, the extent to which the mark was recognized as well known by competent authorities; 6. the value associated with the mark

(33)

Ne discende quindi che, secondo la disciplina europea in tema di marchi, un marchio debba essere conosciuto da un porzione consistente del pubblico e in una parte cospicua del territorio in questione affinché possa definirsi marchio notoriamente conosciuto e possa quindi essere opposto alla registrazione di un identico marchio comunitario.

1.8.2 Il marchio di fatto nelle diverse legislazioni nazionali

Venendo ora al marchio non registrato, il diritto europeo, come accennato in apertura, sebbene non contempli una simile fattispecie, si preoccupa comunque di regolarne i rapporti con il marchio comunitario, dimostrandosi così il legislatore consapevole del fatto che la maggior parte dei Paesi membri riconosce una qualche forma di tutela al marchio non registrato: tutela che, tuttavia, presenta significative differenze tra Stato e Stato; in Paesi quali Benelux, Croazia, Estonia, Francia, Ungheria, Lituania, Polonia, Romania, Slovenia e Spagna, essa riguarda soltanto i marchi non registrati che presentino i requisiti richiesti dall’art. 6 bis della Convenzione di Parigi per il marchio notoriamente conosciuto.

Il risultato di una simile previsione è che in questi Stati la registrazione è un fenomeno largamente diffuso.

In altri invece esiste una qualche forma di tutela del marchio non registrato, sebbene le condizioni varino notevolmente a seconda del Paese considerato.

In alcuni, quali Regno Unito, Irlanda e Cipro la tutela del marchio di fatto è assicurata dall’azione di passing off, un rimedio di common law che può essere utilizzato per proteggere i marchi, impedendo che i beni e servizi offerti da un operatore possano essere presentati come propri, in modo mendace e fuorviante, da un altro agente economico.

L’azione legale consiste nella repressione dell’uso non autorizzato del marchio non registrato, o anche di quello registrato laddove non sia stato

(34)

possibile utilizzare altri rimedi previsti dalla legislazione, quale il

trademark infringement.

Ma quasi tutte le leggi nazionali degli Stati membri si basano sulla rinomanza del marchio presso il pubblico di riferimento; i requisiti quantitativi spaziano dal modello tedesco, che richiede la prova dell’accreditamento del segno in almeno il 30-50 % del pubblico, al modello maltese, dove, all’art. 11 paragrafo 3 lett. b della Legge marchi, è stabilito che sia sufficiente un uso continuato del marchio non registrato ai fini della tutela.

Tant’è vero che Malta è spesso menzionata tra gli Stati con un sistema basato sull’uso, anziché sulla registrazione.

Come anticipato, la Danimarca invece è l’unico Stato dell’Unione che contempla una tutela del marchio non registrato basata sul mero uso. L’art. 3, paragrafo 1 del Danish Trademarks Act, infatti, riconosce protezione al marchio in conseguenza di due eventi:

- la registrazione; - l’inizio dell’uso.

Per comprendere la facilità con cui viene riconosciuta tutela al marchio di fatto in Danimarca si può far riferimento a un caso della Suprema Corte danese (cd caso Elysium40).

La scelta del nome Elysium, adottato da un’impresa funebre per designare un nuovo servizio da offrire alla clientela, era stata comunicata prima attraverso una lettera ai soci, poi, in data 18/04/1996, tramite un comunicato stampa pubblicato su diversi quotidiani; soltanto due giorni dopo, tuttavia, era stata avanzata richiesta di registrazione di un marchio omonimo da parte di un’impresa concorrente.

La Suprema Corte ha respinto l’istanza di quest’ultima, argomentando che la pubblicità a mezzo stampa era stata di per sé sufficiente, perché il marchio non registrato ottenesse tutela.

(35)

La differenza esistente tra la disciplina danese e quella tedesca è immediatamente evidente.

1.8.3 La protezione del marchio di fatto nei confronti di un marchio comunitario successivo ai sensi dell’art. 8, paragrafo 4 EUTMR

Nonostante la disciplina del marchio UE sia incentrata sulla registrazione, non essendo contemplata dal legislatore europeo l’esistenza di un marchio comunitario non registrato, l’EUTMR si preoccupa di regolare i rapporti tra il marchio UE e il marchio non registrato tutelato dalle singole legislazioni nazionali.

In base all’art. 8, paragrafo 4, l’esistenza di un marchio di fatto non registrato riconosciuto da uno Stato membro può essere opposta alla richiesta di registrazione del marchio comunitario.

Dispone, infatti, la norma che:

“In seguito all’opposizione del titolare di un marchio non registrato o

di un altro segno utilizzato nella normale prassi commerciale e di portata non puramente locale, il marchio richiesto è escluso dalla registrazione se e in quanto, conformemente a una normativa comunitaria o alla legislazione dello Stato membro che disciplina detto segno:

a)

a) sono stati acquisiti diritti a detto contrassegno prima della data di presentazione della domanda di marchio comunitario, o della data di decorrenza del diritto di priorità invocato per presentare la domanda di marchio comunitario;

b) questo contrassegno dà al suo titolare il diritto di vietare l’uso di un marchio successivo”.

L’art. 8, paragrafo 4, individua perciò alcune condizioni in presenza delle quali può essere fatta valere con successo l’opposizione alla

(36)

registrazione di un marchio comunitario; anzitutto, il marchio non registrato, o altro segno, deve essere “utilizzato nella normale prassi

commerciale”.

La soglia di tale requisito non è particolarmente elevata: è sufficiente che l’uso del segno si collochi nel quadro di un’attività diretta a ottenere un vantaggio economico, e non nella sfera privata, potendovi rientrare anche le consegne effettuate a titolo gratuito se realizzate nel quadro di un’attività commerciale finalizzata ad acquisire nuovi sbocchi.

Quanto all’ambito territoriale di applicazione, occorre citare la sentenza del Tribunale dell’Unione Europea (TUE)41, a proposito di

due aziende di fabbricazione di birra, l’americana Anheuser-Busch e la ceca Budějovický Budvar, che si contendevano ormai da anni il

marchio “Bud”.

Il TUE, sulla scorta di quanto affermato dalla CGUE nella sua pronuncia42, ha infatti chiarito che:

“Per poter impedire la registrazione di un nuovo segno, il segno che

viene invocato a sostegno dell’opposizione (…) deve avere un’estensione geografica che non sia puramente locale, il che implica, qualora il territorio di protezione di tale segno possa essere considerato come diverso da locale, che la suddetta utilizzazione abbia luogo in una parte rilevante di tale territorio”.

Infine, è necessario far riferimento anche all’elemento temporale: l’uso del segno nel traffico commerciale dev’essere dimostrato prima della

41 sul rinvio della Corte di Giustizia UE (CGUE) nelle cause riunite T-225/06 RENV,

T- 255/06 RENV, T- 257/06 RENV e T- 309/06 RENV.

42 La CGUE, nella sentenza del 29 marzo 2011, annullava la sentenza del Tribunale

di primo grado nella misura in cui riteneva che il TUE avesse “erroneamente

affermato, anzitutto, che la portata del segno in questione, che non può essere puramente locale, deve essere valutata unicamente sulla base dell’estensione del territorio di protezione di tale segno, senza tener conto dell’utilizzo di quest’ultimo in tale territorio, in secondo luogo, che il territorio pertinente per valutare l’uso del segno in questione non è necessariamente il territorio di protezione del segno stesso”.

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