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Processo “ Sopra l’abuso di mandati falsi con firme di pubblici rappresentanti”

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(1)

UNIVERSITA’ CA’ FOSCARI VENEZIA

Dipartimento di Studi Umanistici

Corso di laurea Magistrale

Storia dal Medioevo all’Età Contemporanea

Tesi di laurea

Processo

“Sopra l’abuso di mandati falsi con firme di Pubblici Rappresentanti”

Relatore: Prof. Claudio Povolo

Laureando: Luisa Marin

Matricola n° 852038

(2)
(3)

II

Indice

Introduzione

Parte prima Capitolo I

LA DELEGAZIONE: elemento importante nel complesso p.1 rapporto tra centro e periferia

Capitolo II

POVERI- VAGABONDI: Venezia tra repressione e assistenza p. 73

Bibliografia p. 137

Parte seconda

PROCESSO “Sopra l’abuso di mandati falsi con firme p. 140 di Pubblici Rappresentanti”

Volume Primo p. 141

Volume Secondo p. 219

Volume Terzo p. 256

(4)

III

INTRODUZIONE

Il Processo “Sopra l’abuso di Mandati falsi con firme di Pubblici

Rappresentanti” è conservato nell’Archivio di Stato di Venezia e rientra nella

serie Processi criminali di Brescia del Consiglio dei Dieci, buste 78/79 ed è

costituito da un voluminoso fascicolo processuale suddiviso in quattro volumi.

E’ nel fascicolo processuale che ritroviamo tutte le ritualità e l’insieme

di norme e procedure che regolano il complesso iter giudiziario che riflette la

conformazione di un potere politico e delle sue gerarchie, il fascicolo rivela

innanzitutto la nuova struttura giurisdizionale e gerarchica che si è imposta a

partire dal Seicento… La dimensione statuale della giustizia appare nel

fascicolo in tutta la sua evidenza denotando esplicitamente come il valore di

ciascuna fase procedurale assuma un suo preciso significato a seconda del

contesto giurisdizionale che l’ha prodotta.

1

Il fascicolo diventa una fonte perché racconta una storia, il racconto di un

sistema statuale, quello della Repubblica di Venezia; il racconto di un

contesto politico dove il processo e la difesa penale si sono sviluppati, evoluti

e trasformati soprattutto tra Sei e Settecento ed il racconto di un contesto

sociale con le sue specificità locali che si riesce a leggere tra le pagine delle

testimonianze di questi inconsapevoli protagonisti, testimoni e imputati.

1

A cura di Claudio Povolo, Processo e difesa penale in età moderna: Venezia e il suo stato territoriale, Bologna, il Mulino, 2007, p.82

(5)

IV

La narrazione, seppur filtrata

2

dall’opera di trascrizione del Cancelliere, ha

una forza vitale, lascia spazio ad un piccolo micromondo, ad una realtà a cui

appartengono uomini e donne, con tutti i loro segreti e le loro miserie.

L’iter processuale in questione e la sua indagine non si basa solo su prove

testimoniali, tra cui anche quelle di tre periti scrittori e di molti rappresentanti

pubblici, ma nel fascicolo sono presenti anche tutta una serie di documenti di

notevole importanza, tra cui i mandati falsi con le firme dei pubblici

rappresentanti, attestati di Fede di parroci e di direttori di Scuole e luoghi pii,

alcuni campioni di tessuto cioè un Bollo rilasciato dall’ufficio di Sanità che

rappresentava una sorta di certificato che i mendicanti dovevano appuntare

nei vestiti.

3

Nel Processo formato dal Podestà di Brescia con l’autorità e rito del

Consiglio Dei dieci, sono più di venti le persone accusate e condannate:

“….sopra la rea maniera usata da molti vagabondi e malviventi affine di estorguere sotto pretesto di pietà e i religione elemosine. Riconosciuti i principali autori del grave e odioso delitto e pienamente verificata con diligenti confronti la

2

“La parola che emergeva dal rito processuale costituiva un idioma, un linguaggio altamente elaborato, che esprimeva la struttura gerarchica della società. La mediazione giurisdizionale approntata dai giuristi sulla scorta dell’ideologia di diritto comune esprimeva sia l’esigenza di filtrare ed attenuare la portata dei conflitti, che di salvaguardare le gerarchie sociali esistenti[…]Claudio Povolo, Introduzione, il Processo a Paolo Orgiano, Roma, Viella, 2003.p.XX. Il Cancelliere compie un’ opera di mediazione linguistica e di traduzione e di sistemazione della frase districandosi tra i diversi dialetti, egli deve ascoltare e fissare per iscritto seguendo una struttura.

3

…sieno contrassegnati i Poveri naturali della Città terminano l ’Eccellenze Sue

coll’intervento suddetto, che a metodo di quanto è stato accostumato per il passato siano muniti di un nuovo Bollo a stampa con l’impronto di questo Uffizio di Sanità, che […] dal medesimo rilasciato col mezzo di un Ministro Deputato, e che doveranno sempre portare sul vestito esposto in fito a tutti visibile per conseguir il quale averà ad esser munito della Fede giurata del suo Parroco di povertà, colle particolarità di Pelo, Età, e Statura, d’esser nato in questa Città, il che constar doverà dalla sola Fede di Battesimo. ASV, Processi criminali di Brescia,

(6)

V

falsificazione degli attestati e mandati colla sottoscrizione anche della pubblica Rappresentanza molti de’ qual carichi in potere della giustizia con cui essi si facilitavano la questua[…]..4

Per i sei retenti e per il resto della banda proclamati banditi, il reato è di lesa

maestà

5

, reato ritenuto molto grave dalla Repubblica, punibile secondo il

dizionario del Ferro con la pena ordinaria di morte atroce e la confisca dei

beni. Il Processo nonostante fosse stato delegato con il Rito e l’autorità del

Consiglio dei Dieci, rito che avrebbe dovuto garantire la segretezza dei

testimoni , e svolgersi con una certa rapidità, si protrarrà invece per molti

anni dal 1785 al settembre del 1789. Durante tale lasso di tempo tutti i retenti

rimasero detenuti all’interno delle prigioni del territorio, dove due di questi

trovarono la morte.

Il Processo prende l’avvio dopo l’accusa di uno dei questuanti della banda,

appunto Antonio Belli che richiedeva l’impunità alla Giustizia per la sua

complicità. Si trattava di una lega ben organizzata tra cui vi facevano parte un

vicentino, appunto il Belli, un ebreo del Ghetto di Venezia, alcuni genovesi e

persone di varie località del territorio della terraferma. Era una vera e propria

banda di malviventi, di gente che viveva ai margini e che, aggirando le leggi

vigenti sulla mendicità, vivevano estorcendo elemosina nei territori di Adro,

Palazzolo, Boato, Orzivecchi, Vaglio e altri luoghi del territorio bergamasco e

bresciano. Territori questi che consentivano ai delinquenti di rifugiarsi con

una certa facilità nei vicini territori esteri. L’organizzazione oltre a persone

4

ASV, Processi criminali di Brescia- Consiglio dei dieci, busta 78, Cfr. pp.214

5

“Falsificare anco il Sigillo del Principe sarebbe delitto di Lesa Maestà(1473 20 ottobre-1525 ult. Giugno Prom. Mal c.209), Marco Ferro, Dizionario del Diritto comune e veneto, ASV, 1845, cap. XXIV,p.237

(7)

VI

vagabonde e senza mestiere, comprendeva, come testimonia il Belli, anche un

fante prefettizio, Giovan Battista Poeta:

“… che di questa città è un eccellente falsificatore di tali mandati, e ne ha fatti

anche per me, come ne ha fatti per li miei compagni. Costui era da molto tempo nella Lega e girava i Paesi come faceva ancor’ io. Nel Reggimento del Nostro Vostro Priuli fu retento e posto in queste prigioni. Gli furono trovati addosso alcuni di questi mandati falsi, e per tal motivo fu anche pubblicamente scopato. Allora continuò a girare con questi Birbanti di professione e fece degli altri mandati sotto li Reggimenti Zulian, Corner, ed altri, anche con la testa del mandato a stampa, col pubblico impronto di San Marco, che sarà stato facile a lui di avere come Fante, o da qualche pubblico ufficio o dallo stesso pubblico stampatore. Uno di questi col nome del Nostro Vostro Vendramin, riconfermato sotto il Reggimento Nostro Vostro Zulian lo ebbi io dal Poeta, e l’ho poi lasciato in mano del Console del Comun di Pisognè alcuni anni sono, all’occasione che fui colà a questuare in figura di Calvinista convertito, ed ebbi dal Comune Lire 16, dietro al qual mandato gli estesi di mio pugno la Ricevuta.

Devo dire che il Poeta non estende li mandati, ma li fa estendere ora da uno ora dall’altro, che non so poi da chi, e lui poi falsifica la firma del Rappresentante e vi oppone il pubblico Bollo, che lui hacome Fante essendo stato rimesso in questa carica di Fante non so da quanto tempo. Egli esige per tali mandati ora due ora quattro lire e si unisce a pranzo con li compagni che capitano qui di quando in quando.6”

La politica sociale e la normativa riguardante la carità e l’assistenza ai poveri

della Repubblica di Venezia era molto complessa. Alle istituzioni delle Scuole

Grandi erano affidati i compiti di beneficenza e di distribuzione delle

elemosine e di controllo dei poveri. Sono tutte queste norme, così come viene

riportato nel fascicolo processuale, che vengono abilmente aggirate da questa:

6

(8)

VII

“…

truppa di persone vagabonde, senza mestiere vanno girando per li territori della Terra Ferma col falso pretesto de’ essere o ebrei venuti alla Fede, o schiavi fuggiti dalle mani dei Barbari, o Calvinisti, Luterani convertiti alla nostra religione, esigendo dai Capi delle comunità, dai Parrochi e dai Direttori delle scuole e dai Luoghi Pii copiosa elemosina.7”

Così riferiva il vice contestabile alla corte pretoria di Brescia all’indomani

dell’arresto dei cinque retenti:

“Per estorquerle più facilmente hanno costoro inventata la maniera di falsificare

la firma dei pubblici Rappresentanti, estendendosi li detti mandati a loro modo commissivi ai Reggenti delle Comunità di far loro Limosina, a Parrochi di raccomandarli in Chiesa dall’altare alla Pietà dei fedeli, ed assicurandoli persino che le limosine che fossero per contribuire a costoro, saranno ad essi nella Revisione dei loro maneggi abbonate. Prese da me perciò la più cauta ed esatte informazioni, ho potuto anche rilevare che molti di costoro girassero per le ville di questo territorio, muniti di mandati falsificati col nome dell’eccellentissimo Signore Niccolò Barbarigo attual Capitano Vice Podestà , e che li principali, e più abili nell’estesa de’ mandati e falsificazione di caratteri fossero un tal Francesco Trombetta, e Giovan Battista Poeta Fante attuale Prefettizio di questa città. E

ancora “Per riflesso alla grave qualità e delitto, dietro le più caute estese tracce,

ho creduto del mio dovere di passare all’arresto del Poeta, autore principale di tali falsificazioni, ritrovato qui nel cortile del Broletto questa mattina, e m’è riuscito pure di arrestare Marco Biasio Monaco, Giuseppe Boeman, Antonio Belli, Francesco Trombetta sudetto, ed Anna Maria Teresa moglie del Boeman sopraccennato, i quali tutti in compagnia erano sortiti dalla Porta di San Giovanni, diretti su la statua Regia che porta a Bergamo. Siccome aveva avuto l’avviso dai confidenti, aveano costoro indosso li loro mandati falsi, co’ quali si accingevano ad una nuova questua.[…]”.8

7

Ivi cfr. p. 152

8

(9)

VIII

I mandati falsi sia nell’estesa che nella sottoscrizione hanno anche la clausola

“nonostante qualsiasi ordine o proclama contrario”.

9

Come risulta quindi dal processo vengono riconosciuti come i principali

autori della falsificazione dei Mandati e delle firme delle pubbliche

rappresentanze, Francesco Trombetta e Giovan Battista Poeta, fante prefettizio

di Brescia, entrambi retenti nelle prigioni. Nella sua deposizione, Antonio

Belli, l’impunitante, descrive in modo particolareggiato come avveniva tale

falsificazione:

“Per dare una maggior prova alla Giustizia di quanto le ho esposto nei scorsi giorni, racconto la falsificazione della firma di questo pubblico Rappresentante Barbarigo, che suol fare il pubblico Fante Poeta sopra li mandati, colla scorta de’ quali quelli della Lega vanno in giro per li Comuni a questuare sotto finti pretesti di ebrei, e di Luterani e Calvinisti convertiti, mi sono rivolto a lui nei passati giorni, pregandolo a munirmi d’ uno di tali mandati per poter procurarmi da vivere, giacché non sapeva come più sostentarmi. Gli diedi anco la modula come desiderava che fosse compiuto. Mi promise di farlo ed intanto a conto ha voluto che gli paghi il pranzo, la merenda, e da bere l’acquavite. Ieri mattina lo fece copiare al nominato Marc’ Antonio Baldassari, e quando furono l’ore 20 circa mi condusse nella Chiesetta di questo palazzo Pretorio, di cui tiene le chiavi e dopo esserci chiusi al di dentro tirrò fuori la carta firmata di proprio pugno dal Signor eccellentissimo Capitano, la pose dietro al mandato che aveva fatto estendere dal Baldassari e fissandola bene al chiaro della finestra vi andò sopra pian piano colla penna, e firmò la sottoscrizione che potrà osservar la Giustizia nel mandato stesso che ho qui meco da presentare. Mi diede anco un bollo di San Marco da lui

9

(10)

IX

preventivamente preparato con bollino e galletto di carta(fai nota sul bollo) ed io poi colla saliva l’ho attaccato al margine di tale mandato10”.

Una volta ottenuti i mandati falsi i questuanti si recavano presso i parroci delle

comunità perché li esaminassero e attestassero con una fede di averli

riscontrati legittimi

11

. Una volta ottenuto questo riconoscimento i questuanti

andavano poi dai Reggenti dei Comuni, dai Direttori delle Comunità e Luoghi

Pii per ottenere un Viglietto o Bolletta per il pagamento da parte del massaro

della elemosina. Tale bolletta veniva poi custodita dal Cancelliere nei registri

del Comune.

Il Presidente e poi Sindico della Scuola del Santissimo di Adro negli anni

1784 e 1785 testimoniò infatti che:

“… nell’anno 1784 saranno stati di simili questuanti a casa mia per cercar la

carità, come Presidente di detta Scuola, quattro o cinque volte. Quando in uno, e quando in due comparivano, ma mai in più. Io son certo di non aver fatto carità per conto della Scuola ad alcuno fuorché ad un solo per la ragione, ch’era tutto

10

Busta 78, cfr.p.149

11

Ecco cosa afferma durante la sua testimonianza il Parroco di Verola d’Alghise, parlando dei questuanti imputati: “Mi par, che siano questi capitati anco a Verola Alghise, e che mi si siano

prodotti perché riscontrassi le loro fedi, come feci a vari altri, che massime nei passati anni si vedevano, e si annunciavano colli titoli o di Ebrei fatti cristiani, o Luterani, o Calvinisti venuti alla Santa Fede, o Nobili caduti in miseria, ovvero Schiavi liberati dalle mani dei Barbari. Io vi faceva elemosina, e poi rilasciai a taluno qualche Attestazione con cui andavano a questuare dalle persone particolari della Terra, assicurando io con tali Attestazioni, che aveva esaminate la loro carte, così con più facilità vi facevano elemosina. Sarebbero ricorsi allaComunità, ed ai Direttori della Scuola, ma come niente possiedono di rendita, così neppur vi si presentavano perché niente in alcun tempo hanno conseguito.”Cfr. p.202

(11)

X

lacero. Vi feci un Viglietto di 20 soldi soli pagabili dal massaro, ed il Viglietto sarà poi passato in custodia del Cancelliere della Scuola, Signor Giovanni Baglioni12.”

I testimoni chiamati a citazione sono numerosi tra cui Sindaci dei vari

Comuni negli anni tra il 1783 al 1785, Parroci, Direttori di Scuole e

Confraternite, e molti Pubblici Rappresentanti tra cui Podestà e Capitani per

il riconoscimento della falsificazione delle loro firme, ma anche cancellieri,

massari e stampatori camerali per la verifica delle stampe dei mandati

suddetti. Vengono anche citati come testi numerosi osti e ostesse, persone

queste anche loro sempre al margine della legalità, in qualche modo un po’

complici. Nel Proclama, già citato, circa .. lo Sfratto de’ Questuanti,

Forestieri, Birbanti, e Vagabondi da questa Città, e Territorio(Fig.16)c’è

proprio un riferimento a costoroed alle loro eventuali colpe:

“…perché non allignarebbero certamente in questa Città Pitocchi, e Birbanti, Forestieri, se non vi fosse chi li conducesse, e chi li ricoverasse, così cadendo sopra questi la maggior reità, come quelli, che fomentano la disobbedienza, e mantengono il disordine, siano perciò, e s’intendano incorsi nelle maggiori pene, li Conduttori Albergatori, Cameranti, Osti, Bettonieri, e Locandieri, che conducessero, dassero alloggio, e ricovero, per esser puniti irremissibilmente in caso di difetto, oltre la pena pecuniaria di ducati venticinque, essendo Uomini con tre tratti di Corda, ed essendo Donne coll’esser frustate attorno le Piazze, e Luoghi soliti di questa Città13”.

Dalle testimonianze quello che emerge è che gli imputati non usavano armi,

erano solo in alcuni casi insistenti e arroganti allorquando non ricevevano

alcuna elemosina. Le prove testimoniali e prove materiali sono fondamentali

12

Busta 78, cfr. p. 249

13

(12)

XI

per capire i vari passaggi della truffa organizzata e permettono così alla

Giustizia di giungere nel 1789 ad un verdetto.

Tre delle persone retente hanno presentato anche un memoriale di difesa,

ultimo tentativo di riuscire, grazie all’aiuto, seppur celato, di un avvocato di

sovvertire le prove schiaccianti raccolte. Maria Teresa Boeman , unica donna

processata, cerca di difendersi dalle accuse facendo leva sul suo obbligo di

dover seguire il marito, il quale, colpito da apoplessia, la mandava a questuare

munita dei suoi mandati:

“…una povera moglie che seguir deve suo marito, che non dove scortarsi da lui,

che è tenuta, o costretta di obedirlo sarà sempre un oggetto di compassione quand’anche avesse ella avuta scienza o parte nei delitti del marito commessi. Ma io non ebbi scienze, né parte, mi erano ignote le falsificazioni di quelle fedi, di quei Mandati, ignoto l’inibizione di quelle questue, io feci sempre in bona fede supplico la Vostra pietà, la vostra innata Carità, Consesso Augusto di dar fine alla pena che soffro grave, e longhissima di ben quattro Anni, con un Giudizio che considerandomi o innocente, o punita segni la mia libera assoluzione”.14

I primi due volumi del processo sono inseriti nella busta 78; il primo volume

arriva fino alla carta 93 e contiene di fatto la deposizione dell’impunitante

Antonio Belli; il costituto de plano dei cinque questuanti retenti e le

deposizioni di alcuni testi, tra cui numerosi osti. Il volume contiene anche le

lettere (da carta 86) che il podestà di Brescia invia al Consiglio dei Dieci per

14

(13)

XII

richiederne, vista la gravità dell’argomento in questione, la partecipazione. Il

12 agosto del 1785 la corte pretoria di Brescia riceve la Ducale

15

(Fig.2)

per procedere nel processo con l’ autorità e rito del Consiglio dei Dieci.

Nelle ultime pagine del volume la delegazione al processo viene riconfermata,

essendo cessata la reggenza del podestà Nicolò Barbarigo.

Il secondo volume arriva fino alla carta 213 e contiene altre testimonianze tra

cui anche quelle di alcuni stampatori camerali chiamati al riconoscimento dei

mandati a stampa. Vengono anche ripetuti i costituti de plano dei retenti su

ordine del podestà di Brescia.

Nel secondo volume ci sono anche tutte le preziose carte, tra cui numerosi

mandati manoscritti e a stampa, ritrovate nelle mani dei retenti al momento

dell’arresto. Ho inserito i vari documenti cambiando la loro attuale

disposizione all’interno del fascicolo processuale. Ho deciso infatti di

presentare i vari documenti e le loro fotoriproduzioni disponendoli seguendo

via via la narrazione.

Il terzo volume, che è contenuto nella busta 79, arriva fino a carta 301, e

riporta nella coperta i nomi delle quattordici persone che vengono proclamate

banditi per il reato di falsificazione delle firme di pubblici rappresentanti. Il

terzo volume comprende in gran parte testimonianze di sindaci, parroci,

direttori di scuole e confraternite. Ho tralasciato di inserire alcune di queste

numerose deposizioni.

Nel quarto e ultimo volume i retenti vengono richiamati ancora una volta

davanti alla giustizia per il loro costituto opposizionale, il fascicolo

15

(14)

XIII

comprende anche i tre memoriali di difesa presentati dai retenti Maria Teresa

Boeman, Francesco Trombetta e Giovan Battista Poeta e il verdetto a cui si

arriva nel settembre del 1789. Verdetto giunto grazie anche all’indagine

condotta dalla giustizia sui caratteri delle firme dei pubblici rappresentati con

l’aiuto di tre periti scrittori.

Per quanto riguarda i criteri di trascrizione ho seguito alcune indicazioni che

ho trovato nel Processo a Paolo Orgiano. Mi sono attenuta più fedelmente

possibile al testo per quanto concerne le doppie, ho seguito il metodo moderno

per quanto riguarda la punteggiatura, gli accenti e gli apostrofi e ho scritto per

esteso le abbreviazioni.

Ho messo la lettera maiuscola nelle risposte degli imputati seguendo la regola

del discorso diretto, per l’iniziale dei nomi propri di persone, luoghi, mesi,

magistrature e titoli di rilevanza.

Ho posto tra le parentesi quadre[ ] alcune parti mancanti o illeggibili e tra le

parentesi tonde ( ) le parole la cui interpretazione non è certa.

Ho cercato di spiegare ogni fase dell’iter processuale con delle brevi

spiegazioni in corsivo, ho inoltre mantenuto la suddivisione del corposo

fascicolo in quattro volumi riportando ogni volta la scritta della coperta.

Le fotoriproduzioni di alcune carte originali del processo sono state eseguite

nella Sezione di fotoriproduzione dell’ Archivio di Stato di Venezia.

Ho pensato alla mia tesi come ad un secretaire, un tipo di mobile costituito

nella parte superiore da un grande piano ribaltabile e da tutta una serie di

nicchie e cassetti interni nascosti.

(15)

XIV

Il grande ripiano è il Processo e la difesa penale della Repubblica di Venezia

alla fine del 18° secolo, con il rito e l’autorità del Consiglio dei Dieci,

processo in questo caso delegato alla corte pretoria di Brescia. La struttura del

mobile è la struttura dell’ Iter processuale con le sue fasi, con la sua disciplina,

con le sue ritualità e le sue cadenze.

Una ricerca quindi sulla attività giudiziaria penale del Consiglio dei Dieci con

la sua singolare procedura e sul diritto veneto come espressione di una

struttura del potere dello stato veneziano nella sua forma repubblicana.

Venezia era infatti una Repubblica, organizzata secondo una struttura paritaria

(aristocratica) e il suo diritto diventa espressione di quel principio di equità

necessario per salvaguardare gli equilibri all’interno delle istituzioni e delle

consuetudini veneziane. Ma il rito del Consiglio dei Dieci è uno strumento

politico, uno strumento in mano alla classe politica dirigente appartenente al

ceto patrizio. La specificità della sua procedura era molto diversa dalla

procedura degli altri tribunali, come la Quarantia, o le corti della Terraferma.

Con il tempo le procedure e le caratteristiche del diritto veneto si imporranno

in modo “celato”, sempre più frequentemente, anche nei territori della

Terraferma attraverso la delega dell’autorità del Consiglio dei Dieci. Un rito

che con la sua procedura inquisitoria e segreta veicolava nel contesto locale

una sensibilità politica tipicamente veneziana, vanificava i canali attraverso

cui si alimentava il potere delle aristocrazie locali e, infine, debellava

l’autorità dei tribunali cittadini

16

. Autorità che Venezia aveva formalmente

rispettato garantendo ai tribunali locali, che seguivano il diritto comune, una

separatezza giuridica rispetto alla Dominante.

16

A cura di C. Povolo, Processo e difesa penale in età moderna, Bologna, il Mulino, 2007,saggio di Claudia Andreato, Rito inquisitorio del Consiglio dei Dieci nel XVI secolo, p.365

(16)

XV

Ho aperto un altro cassetto o capitolo sulla politica sociale della Repubblica di

Venezia. Gli imputati sono mendicanti e vagabondi e, il territorio veneto,

come altri territori non solo italiani, ma anche europei, a partire dagli anni

Settanta del Cinquecento, sono afflitti da un incremento della criminalità, dal

problema del banditismo e del vagabondaggio, fenomeni che avevano una

forte ricaduta sulla vita e sulla serenità dei sudditi minacciando lo stato

sociale e la solidità statuale. Per questo in tutta Europa si erano diffuse leggi

molto severe contro vagabondi, questuanti, zingari e bravi. Venezia aveva

cercato di proteggere i veri poveri, cioè quelle persone che per età o per gravi

malattie e fatali disgrazie erano incapaci di procurarsi il loro mantenimento,

attraverso la fondazione di numerosi istituti assistenziali.

17

Esaminando questi

elementi si ritorna ancora una volta all’amministrazione della giustizia con i

suoi sistemi repressivi, il suo sistema carcerario e le pene che vengono inflitte

ai malviventi.

Il fascicolo processuale è però ricco anche di tanti elementi che possono

raccontare qualcosa della società, e del costume del tempo, un capitolo di

storia sociale contenuta in un processo. Ci sono i mestieri dal venditore di

galanterie, alla riparatrice di calze, al callegaro, c’è il mestiere del fante e del

massaro, che offrono spunti di ricerca. Ci sono i luoghi, i luoghi della città

dove si incontravano i poveri vagabondi: i portici delle chiese, ma soprattutto

le osterie dove questi solevano abitualmente ritrovarsi a desinare ed

alloggiare.

Ci sono le descrizioni degli imputati fatte dal Cancelliere nella fase del

costituto de plano, una descrizione fisica dettagliata che si arricchisce di

17

(17)

XVI

elementi riguardanti gli abiti e le abituali pettinature che vengono a costituire

una sorta di identikit:

“… Una donna di statura ordinaria con capigliatura castagna chiara legata in

coda, con fazzoletto bianco in capo, altro di rete nero su le spalle, vestita con capottino Gavellino di color turchino, cottola di Gavellino di color rosso, grembiule di bombisina a righe di vari colori, dell’età come si disse, ed all’aspetto dimostra d’ anni 29 circa…”18

La trascrizione del processo è stata la parte del lavoro a cui ho dedicato più

tempo, mi ha dato la possibilità di fare una ricerca su “vecchie carte”e di

apprezzare il piacere e l’emozione dello stare e del ricercare in archivio, di

superare le difficoltà incontrate durante la ricerca, perché trovare carte in

archivio è molto diverso da cercare un libro in biblioteca, di oltrepassare

anche tutte quelle difficoltà legate anche alla trascrizione della grafia antica:

“…Il piacere dell’archivio è… un vagare attorno alle parole altrui, la

ricerca di un linguaggio che ne salvi le caratteristiche. È forse anche un

vagare tra le parole di oggi, una convinzione magari poco ragionevole che la

storia si scriva non per raccontarla, ma per articolare in parole un passato

morto e produrre “lo scambio tra vivi”.”

19

18

Busta 78, cfr. p.157

19

(18)
(19)

XVIII

Fig. 1 ASV Processi criminali Brescia – Consiglio dei dieci Busta 78 Denuncia dell’ impunitante Antonio Belli del 7 giugno 1785- Inizio del processo

(20)
(21)

1

Capitolo I

“La delegazione: elemento importante nel complesso

rapporto tra centro e periferia”

Nel 1580 Antonio Milledonne, segretario del Consiglio dei dieci, parlava così

dell’autorità e dell’attività giudiziaria del massimo organo politico- giuridico

della Repubblica, il Consiglio dei dieci:

In questo Consiglio (dei dieci) si elegge per sorte un Collegio criminale che ha carico de formar li processi, constituire li rei, tormentarli, far pigliar li complici, darli le difese, che è darli habilità di far esaminare testimoni per provare quello ch’hanno detto nelli loro constituti in sua difesa, il che fatto con diligentia; sono poi espediti da Collegio per poter essere introdotti al Consiglio, perché sia fatta giustizia. Questo Collegio criminale consiste in un consigliero, un Capo dei dieci, un inquisitor, et un Avogador di Commun, et si chiama Collegio ordinario…Il Collegio estraordinario viene eletto per li casi, per li quali sono assonti estraordinariamente nel Consiglio dei Dieci il quale per conservare la pace, et la quiete di tutto lo stato, molte volte assume in sé alcuni casi d’importantia, che sono oltre li tre di ribellione, sodomia, et di monede, come s’è detto sopra. L’Avogador di Commun introduce al Consiglio li rei del suo Collegio, narrando semplicemente il fatto, secondo ch’è descritto nel processo, perché non havendo li rei chi li difenda, non è conveniente che siano accusati. Questo Consiglio ha particolar carico di tenere in freno ogni qualità di persone, però li Capi hanno molta

(22)

2

auttorità in qualunque occasione per acquetar li tumulti, et dispareri, et particolarmente tra Nobili, … 20

Il 12 agosto 1785, il Consiglio dei Dieci conferisce alla corte pretoria di

Brescia la delegazione a procedere, secondo il rito inquisitorio, nel processo “

Sopra l’abuso di mandati falsi con firme di Pubblici Rappresentanti”:

Grave il fatto per se stesso, e più ancora, per il pericolo delle conseguenze, trova il Consiglio dei Dieci incaricarvi a devenire sua l’intero contenuto di essa lettera ad accurata formazione di Processo coll’autorità e rito suo facendo sempre scrivere dal vostro Cancelliere, promettendo la secretezza a testimoni e l’impunità ad alcun complice purchè non sia principal auttore, o mandante, che accorderete pure al Denominante Belli quanto vi risulti. Ridotto che sia il Processo a perfezione sino ad offesa inviarete al tribunale dei Capi una distinta relazione del suo contenuto osservando il Decreto 17 settembre 1713 a lume delle ulteriori deliberazioni. Mentre per quello sia all’indicato Proclama tendente a garantire simili inganni li Direttori de’ Corpi pubblici offici ad ogni privato individuo si rimette al zelo, ed avvertenza vostra l’estenderlo, e pubblicarlo con quella provvidenza, che all’importante oggetto riputerete opportune e convenienti.

Date in nostro ducali palatio die XII Augusti Indizione III MDCCLXXXV21(Fig.2)

20

Antonio Milledonne, Ragionamento di doi gentil huomini, l’uno romano, l’altro venetiano, sopra il governo della Repubblica Venetiana, Biblioteca Marciana,ms it cit VII 709

21

(23)

Fig.2 ASV Processi criminali Brescia

La delegazione conferisce

procedimento processuale

giugno 1785, con la denuncia del vicentino Antonio Belli di professione

galanterioto, il quale implorando l’impunità per la complicità nel reato

diestorsione di elemosine, compiuto insiem

3

ASV Processi criminali Brescia -busta 78 Delegazione del 12 agosto 1785

legazione conferisce una nuova dimensione giudiziaria ad un

processuale che era però di fatto iniziato alcuni mesi prima, il 7

giugno 1785, con la denuncia del vicentino Antonio Belli di professione

le implorando l’impunità per la complicità nel reato

diestorsione di elemosine, compiuto insieme ad altre numerose persone che:

el 12 agosto 1785

una nuova dimensione giudiziaria ad un

ni mesi prima, il 7

giugno 1785, con la denuncia del vicentino Antonio Belli di professione

le implorando l’impunità per la complicità nel reato

(24)

4

“…sotto pretesto di pietà, e di Religione, sotto mentite figure chi di Calvinista, e Luterano convertito, chi di Ebreo battezzato, chi di persona nobile decaduta in miseria, chi di parente di schiavi in mano de’ Barbari. Giravano costoro per le Ville di questo territorio, del Cremano, del Bergamasco, e del Veronese. Oltre una serie di attestati, passaporti di aggregazioni a Scuole e fraterne avevano costoro de’mandati col nome de’ Pubblici Rappresentanti, apparenti rilasciati da’ Pubblici Offici, falsi nell’estesa, e falsi nelle sottoscrizioni”.22(Fig.3)

La denuncia presentata da Antonio Belli per la ricerca dell’impunità, porterà

all’arresto di cinque questuanti

23

che rimarranno insieme a lui rinchiusi

all’interno delle prigioni del Broletto a Brescia, aspettando la sentenza del

processo che arriverà solo nel settembre del 1789.

Questa truppa di gente vagabonda vive come ho detto a spese de’ Comuni, de’ Luoghi Pii, tutti si conoscono scambievolmente com’ ebbi modo di conoscerli io pure vivendo alla loro maniera. Tutti hanno mandati, per la maggior parte rinovati sotto il presente Reggimento, ma tutti falsi, tanto nell’estesa, quanto nella firma, ed alcuni pure sono muniti di pubblico Bollo falso.

Riflettendo però ad un tal disordine, che mi sembra grave e pentito come lo sono di condurre una vita così viziosa mi sono risolto di svelare con tutta secretezza all’Eccellentissimo Rappresentante implorando la di lui clemenza per il perdono della mia complicità e la sua protezione a salvezza della mia vita, che sarebbe troppo esposta alle vendette di coloro che se mai rivelassero d’ esser stati da me scoperti.24(Fig.1)

22

Cfr. p. 152

23

La mendicità era severamente vietata, i mendicati a cui non era stato rilasciato dai Provveditori alla Sanità un permesso rischiavano la carcerazione, la punizione corporale (cfr. n….)e successiva espulsione dalla città. I traghettatori di Venezia ad esempio dovevano informare tutti i forestieri che trasportavano in città delle pene previste per l’accattonaggio. Brian Pullan, La politica sociale della Repubblica di Venezia- 1500-1620,Roma, Il Vetro editrice, 1982 Cfr. Proclama “Per lo Sfratto de’ Questuanti, Forestieri, Birbanti, e Vagabondi

da questa Città, e Territorio”. 24

(25)

Fig. 3 Mandato falso ottenuto dall’impunitante Antonio Belli da Francesco Trombetta. Il mandato è apparentemente sottoscritto con la firma del rappresentante di Brescia Nicolò Barbarigo.

25

Noi Nicolò Barbarigo per la Serenissima Repubblica di Venezia Capitano di Brescia, e sua Giurisdizione

Permesso dal Venerato Proclama del Magistrato Eccellentissimo di Venezia in materia di questuanti di poter liberamente portarsi per questa città e territorio la persona di Antonio Belli e Catterina sua moglie, e sei figli calvinisti, ed ora convertiti alla Santa Fede, e non puotendo procacciarsi il loro necessario sostentamento , a tall’ eff

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also ottenuto dall’impunitante Antonio Belli da Francesco Trombetta. Il mandato è apparentemente sottoscritto con la firma del rappresentante di Brescia Nicolò Barbarigo.

Noi Nicolò Barbarigo per la Serenissima Repubblica di Venezia Capitano di Brescia, e sua Giurisdizione

Permesso dal Venerato Proclama del Magistrato Eccellentissimo di Venezia in materia di uestuanti di poter liberamente portarsi per questa città e territorio la persona di Antonio Belli e Catterina sua moglie, e sei figli calvinisti, ed ora convertiti alla Santa Fede, e non puotendo procacciarsi il loro necessario sostentamento , a tall’ effetto incarichiamo ogn’uno e massime li

also ottenuto dall’impunitante Antonio Belli da Francesco Trombetta. Il mandato è apparentemente sottoscritto con la firma del rappresentante di Brescia Nicolò Barbarigo.25

Permesso dal Venerato Proclama del Magistrato Eccellentissimo di Venezia in materia di uestuanti di poter liberamente portarsi per questa città e territorio la persona di Antonio Belli e Catterina sua moglie, e sei figli calvinisti, ed ora convertiti alla Santa Fede, e non puotendo etto incarichiamo ogn’uno e massime li

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6

Tutta la documentazione che aveva preceduto la delegazione, con le relative

verifichefatte dal vice contestabile

26

del reggimento di Brescia, Pietro

Lomazzi,a seguito della testimonianza del Belli, era stata inviata al Consiglio

dei Dieci che decideva così di investire i rettori e la corte pretoria di Brescia

di un’ autorità straordinaria

27

.

Reverendi Parrochi che nei giorni festivi li raccomandino al loro popolo, e con la propria borsa fargli raccogliere le più abbondanti elemosine così pure Restano Incaricabili Sindaci, Reggenti, e Consoli di qualunque Comunità a questa Giurisdizione sogette Chiese, Scole, Oratori e qualunque Luogo Pio che somministrar debbono le più abondanti elemosine, acciò non manchi il loro necessario vitto a si benemerita famiglia, e a Consoli di accompagnarli dove gli occorresse, come pure tutti li Reverendi Parochi di raccomandarli nelli giorni festivi ove li occorre, e queste elemosine saranno passate da Revisori senza contradizione alcuna, e per qualunque Proclama, Decreto, e Parte Contraria per il passato sia eseguito l’effetto presente, non essendo questi nel numero de’ birbanti, nè vagabondi, così non doverà esser impediti, nè molestati. In quorum

Brescia 10 Giugno 178525Busta 78 Mandato manoscritto presentato alla giustizia dall’impunitante Antonio Belli

26

Sbirro agli ordini del podestà. Il processo a Paolo Orgiano, cit. p.643

27

La giurisdizione penale si divideva in ordinaria e straordinaria o delegata. Si aveva la prima quando la corte pretoria e il podestà procedevano con l’autorità ordinaria del reggimento, prevista e regolata dagli statuti cittadini, ed in tal caso i processi erano formati quasi esclusivamente nell’ufficio del Maleficio, l’unico tra gli assessori del podestà che avesse competenze nel penale. I rettori e la Corte pretoria erano invece investiti d’autorità straordinaria quando erano chiamati a giudicare casi che venivano loro delegati dal Consiglio dei dieci, dalla Serenissima Signoria e dal Senato, in materie che erano di stretta competenza di queste magistrature o nelle cause per la loro particolare natura e gravità, richiedevano più ampi poteri decisionali. Quando una delegazione giungeva al reggimento della Terraferma, il processo veniva formato nella cancelleria pretoria del podestà. Povolo, Amministrazione della

giustizia penale, pp.161-162 Per quanto riguarda il giudice del Maleficio, che pure era un assessore del podestà, egli doveva istruire i processi, ma le redazioni dei fascicoli erano invece affidati ai notai che appartenevano ai collegi notarili. Nei casi delegati il giudice del Maleficio “ doveva assistere alla formazione dei processi come pure alli constituti delli rei … eccettuato che

li processi delegati non vengono deliberati dal giudice solo, come gli altri con l’auttorità del reggimento, ma si decretano in corte, sicome ogni altra deliberazione in ordine occorresse”

Retoriche, stereotipi, prassi, p.124 n.65 Il carico del giudice del Maleficio “sarà doppo

l’admissione delle denoncie, o querele, costituire gl’offesi per far formare li processi dalli nodari del maleficio, e nelli casi di rimarco assistervi esaminando egli li testimoni; formati che siano il decretarli. E li decreti per obligar li rei sono di cinque sorti : cioè caute ducatur, retenzione, proclama, mandato ad informandum, e citazione a legitima difesa, havuto sempreriguardo alle qualità delle colpe”. Gaspare Morari, Prattica de Reggimenti in terraferma,

(27)

7

Autorità straordinaria nella procedura, che garantiva, come si legge nell’atto

di conferimento della delega, la secretezza a testimoni e l’impunità

28

ad alcun

complice… La procedura con il rito del Consiglio dei Dieci era infatti

inquisitoria, sommaria e segreta. Le procedure formali erano ridotte al

minimo, gli avvocati non erano ammessi, “ lasciando così l’ imputato in

balia di se stesso, nonché dei suoi giudici …permetteva così sia agli

accusatori che ai testimoni di restar segreti, sottraendoli ai rischi di minacce

e di vendette da parte degli accusati o dei loro protettori”

29

. Il processo è, in

28

Antonio Belli con la sua accusa ottiene in qualche modo la promessa dell’impunità per la sua complicità. Niccolò Ottelio, giurista friulano all’epoca della Serenissima, nel suo manoscritto “ Del modo di difendere li rei” scritto negli ultimi anni del Seicento, dell’impunità, che pretendono li rei per salvarsi da qualche condanna, scriveva: Li rei, o retenti overo absenti, o in

qualche modo obligati o non obligati alla giustizia per timore di qualche castigo, sogliono dimandare l’impunità per essere liberati.

Questa impunità è di due sorti. La prima è sopra il delitto del quale l’impunitante è reo. La seconda è sopra altro delitto che di quello del quale è reo quello che pretende l’impunità. Circa la prima specie d’impunità è per esempio: in tempo di notte viene commesso qualche homicidio o altro grave delitto e non si ha cognitione de’ rei onde la giustizia publica proclama d’impunità, et in questo caso se alcuno delli rei di detto fatto volesse pretendere impunità sono necessari li seguenti requisiti.

Primo, che quello che pretende l’impunità non sia reo principale o mandante, perché li rei principali non possono avere beneficio d’impunità. […] Secondo, deve questo impunitante presentare scrittura et esibire di far castigare uno o più rei. Terzo, deve andar in prigione sotto chiave e star ivi sino all’espeditione della causa. Quarto, deve portare tutto ciò che ha detto nella scrittura, e non provando viene esso castigato. Quinto, deve far castigare uno o più rei, et in tal caso ancora che siino castigati absenti o presenti, perché se questi si diffendessero e fossero assolti, l’impunitante è soggetto alla pena. E’ di notare che anco li presenti possono dimandare l’impunità, quando però il fatto non fosse provato contra essi. Perché in tal caso l’impunità non si concede a’ rei convinti ma, per li complici, si torturano perché confessino li loro rei . Niccolò Ottelio, Del modo di difendere li rei,in Processo e difesa penale in età

moderna cit. Quando il giurista friulano, che era stato anche assessore in diverse città della terraferma veneta, rivolge la sua attenzione all’avvocatura e alle difese degli imputati siamo probabilmente nei primi anni del Settecento e il processo penale era la testimonianza di quei nuovi rapporti di forza che si erano andati via via affermando nel corso del Seicento.

29

Gaetano Cozzi, Repubblica di Venezia e Stati Italiani, Torino, Enaudi, 1982, p.157 La specificità della procedura del rito del Consiglio dei dieci era molto diversa dalla procedura che si usava nella Quarantia. Procedura quest’ultima che si basava sul contradditorio orale tra l’avogadore di comun e il difensore dell’imputato, dando a quest’ultimo le necessarie garanzie di difesa. L’accusa segreta comunque garantiva la segretezza al denunciatore: Compare

(28)

8

questo caso, l’esito di una denuncia segreta

30

; denunce che erano in qualche

modo incoraggiate dalla Repubblica di Venezia e che accompagnavano molto

spesso la ricerca dell’impunità. Questi procedimenti penali aiutavano Venezia

nel riuscire a scoprire gravi delitti pubblici e i loro autori. “In effetti coloro

che più ricorrevano alla denuncia segreta erano gli autori di delitti non

ancora caduti nelle mani della giustizia, oppure carcerati e banditi che in

cambio di ciò che essi erano disposti a rilevare, chiedevano l’annullamento o

la riduzione della pena.”

31

Ma le denunce segrete o le suppliche erano anche il

fece, che li fosse promesso tenerlo in credenza, e segretamente conservar il nome suo, finché né con parole, né con cenni, né con scrittura, né per latra via immaginabile se ne possa dar indizio o argomento ad alcuno, e per benefizio pubblico, e suo ancor denoncia il tale, per quello che ect. Pratica criminale del Nobil Homo Sier Antonio Barbaro... - Venezia : G. Bortoli, 1739 30

Dal 1310 (anno anche dell’istituzione del Consiglio dei Dieci) dopo la congiura di Baiamonte Tiepolo furono costruite a Venezia diverse Bocche di Leone o Bocche per le denunce segrete, distribuite almeno una in ogni sestiere, collocate vicino alle Magistrature, a Palazzo Ducale o alle chiese, e servivano a raccogliere segnalazioni contro coloro che si macchiavano dei crimini più vari; alle denunce veniva così garantita la segretezza, ma non potevano essere anonime e venivano esaminate con estrema cautela dai magistrati competenti.

Si chiamavano così perché attorno alla fessura dove venivano imbucate le denunce scritte era scolpita l’immagine di un muso di leone. Solo i Capi del Sestiere potevano accedere al retro del muro dove erano poste le varie cassette, le cui chiavi venivano tenute dai Magistrati. Venezia aveva anche una vastissima rete di informatori, spie e confidenti, distribuiti su tutto il territorio.

31

Claudio Povolo, Aspetti e problemi dell’amministrazione della giustizia penale della Repubblica di Venezia in Stato, società e giustizia nella Repubblica di Venezia, a cura di Gaetano Cozzi, Roma, Jouvence,1985. Il presente processo è del 1785 e nel 1764 usciva Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria, opera che segna senza dubbio un passaggio, “…scandito

dalla condizione di suddito a quella di cittadino, il passaggio dal governo degli uomini a quello delle leggi”,. Egli dedica il XV capitolo alle accuse segrete: “Evidenti, ma consagrati disordini, e in molte nazioni resi necessari per la debolezza della costituzione, sono le accuse segrete. Un tal costume rende gli uomini falsi e coperti. Chiunque può sospettare di vedere in altrui un delatore, vi vede un inimico. Gli uomini allora si avvezzano a mascherare i propri sentimenti, e, coll'uso di nascondergli altrui, arrivano finalmente a nascondergli a loro medesimi. Infelici gli uomini quando son giunti a questo segno: senza principii chiari ed immobili che gli guidino, errano smarriti e fluttuanti nel vasto mare delle opinioni, sempre occupati a salvarsi dai mostri che gli minacciano; passano il momento presente sempre amareggiato dalla incertezza del futuro; privi dei durevoli piaceri della tranquillità e sicurezza, appena alcuni pochi di essi sparsi qua e là nella trista loro vita, con fretta e con disordine divorati, gli consolano d'esser vissuti. E di questi uomini faremo noi gl'intrepidi soldati difensori della patria o del trono? E tra questi troveremo gl'incorrotti magistrati che con libera e patriottica eloquenza sostengano e sviluppino i veri interessi del sovrano, che portino al trono

(29)

9

“barometro della situazione e degli umori del Dominio” e rappresentavano

anche per comunità, corpi territoriali e magistrature cittadine un mezzo per

rivolgersi al potere politico veneziano.

32

E’ da una supplica che prende avvio

il Processo contro il conte Paolo Orgiano (1605-1607), una supplica di

un’intera comunitàche chiedevache venissero accertate tutta una serie di

violenze e soprusi compiute dalla nobiltà locale

33

. Il rito inquisitorio si

intromette negli equilibri di una società, quella di Orgiano, dove il sistema

giudiziario era pervaso dal linguaggio della parentela e della faida

aristocratica

34

. Una giustizia comunitaria il cui fine era quello di

salvaguardare le gerarchie sociali esistenti e di riequilibrare le tensioni, una

coi tributi l'amore e le benedizioni di tutti i ceti d'uomini, e da questo rendano ai palagi ed alle capanne la pace, la sicurezza e l'industriosa speranza di migliorare la sorte, utile fermento e vita degli stati?

Chi può difendersi dalla calunnia quand'ella è armata dal più forte scudo della tirannia, il segreto? Qual sorta di governo è mai quella ove chi regge sospetta in ogni suo suddito un nemico ed è costretto per il pubblico riposo di toglierlo a ciascuno?

Quali sono i motivi con cui si giustificano le accuse e le pene segrete? La salute pubblica, la sicurezza e il mantenimento della forma di governo? Ma quale strana costituzione, dove chi ha per sé la forza, e l'opinione piú efficace di essa, teme d'ogni cittadino? L'indennità dell'accusatore? Le leggi dunque non lo difendono abbastanza. E vi saranno dei sudditi più forti del sovrano! L'infamia del delatore? Dunque si autorizza la calunnia segreta e si punisce la pubblica! La natura del delitto? Se le azioni indifferenti, se anche le utili al pubblico si chiamano delitti, le accuse e i giudizi non sono mai abbastanza segreti. Vi possono essere delitti, cioè pubbliche offese, e che nel medesimo tempo non sia interesse di tutti la pubblicità dell'esempio, cioè quella del giudizio? Io rispetto ogni governo, e non parlo di alcuno in particolare; tale è qualche volta la natura delle circostanze che può credersi l'estrema rovina il togliere un male allora quando ei sia inerente al sistema di una nazione; ma se avessi a dettar nuove leggi, in qualche angolo abbandonato dell'universo, prima di autorizzare un tale costume, la mano mi tremerebbe, e avrei tutta la posterità dinanzi agli occhi. È già stato detto dal Signor di Montesquieu che le pubbliche accuse sono piú conformi alla repubblica, dove il pubblico bene formar dovrebbe la prima passione de' cittadini, che nella monarchia, dove questo sentimento è debolissimo per la natura medesima del governo, dove è ottimo stabilimento il destinare de' commissari, che in nome pubblico accusino gl'infrattori delle leggi. Ma ogni governo, e repubblicano e monarchico, deve al calunniatore dare la pena che toccherebbe all'accusato.

32

Simonetta Marin, L’anima del giudice, in Retoriche, stereotipi, p.177

33

Claudio Povolo ( a cura di), Il Processo a Paolo Orgiano, Viella, 2003

34

(30)

10

giustizia però che non dava voce a contadini ed emarginati,a tutte quelle

persone escluse di fatto dal conflitto sociale.

I processi con il rito inquisitorio del Consiglio dei Dieci erano interamente

affidati alla cancelleria pretoria senza alcuna ingerenza delle istituzioni locali

e delle loro normative statuarie che eranocomunque rimaste attive. Nel

momento della sua espansione nell’entroterra, Venezia infatti aveva

conservato tutti i privilegi e le consuetudini, lasciando integri gli organismi

burocratici-giudiziari presenti nelle diverse città del Dominio. Strutture

amministrative e giudiziarie preesistenti a cui Venezia accostava i suoi

rappresentanti; nelle maggiori città della Terraferma Venezia inviava due

rettori, un podestà e un capitano

35

, al primo competevano prevalentemente

funzioni civili e giudiziarie, al secondo funzioni invece militari e

finanziarie

36

. Nei centri minori le due cariche venivano svolte da un unico

patrizio. Al podestà e agli assessori, che formavano la Corte pretoria,

competeva l’amministrazione penale.

37

Una volta ottenuta la delegazionei rettori, che agivano come giudici delegati,

acquisivano la stessa autorità delle magistrature della Dominante, togliendo di

fatto qualsiasi competenza ai tribunali cittadini.

38

Sul tema della delega

Lorenzo Priori scriveva che se “la delegazione è fatta dal Conseglio dei Dieci

la sentenza del giudice delegato in questo caso ha l’istessa virtù e auttoirtà

come se fosse fatta dal medesimo Conseglio di Dieci legge 1575 29 luglio. Ne’

35

Avevano due rettori città come Padova, Brescia, Verona, Bergamo e Vicenza.

36

Il podestà e il capitano rimanevano in carica per sedici mesi, periodo che spesso però veniva superato. Povolo, Amministrazione della giustizia penale cit, p. 156

37

Simonetta Marin, L’anima del giudice cit, p.174

38

(31)

11

quali casi delegati li cancellieri

39

dei rettori scrivono et formano i processi,

legge 1569 12 giugno, et sono esclusi li nodari non ostanti li privilegi o

concessioni che avessero.”

40

I rettori inviati a reggere le grandi città del Dominio, erano accompagnati dai

loro cancellieri e da alcuni giudici,detti assessori

41

, laureati in legge, esperti

quindi di diritto romano; Simonetta Marin nel suo saggio “L’ anima del

giudice”, definisce gli assessori come l’anello di congiunzione tra la visione

pragmatica del potere veneziano, che si concretizza nell’arbitrium del

giudice, e la tradizione nutrita di jus comune. Gli assessori scelti dal rettore

nell’ambito del ceto di giuristi da cui provenivano, estranei al contesto

sociale in cui andavano ad operare, edotti nel diritto comune, avevano il

compito di suggerire le leggi e delucidarne il senso”. L’amministrazione della

giustizia penale era quindi di competenza della Corte pretoria che era formata

dal podestà e dagli assessori.

39

Il cancelliere pretorio svolgeva un ruolo fondamentale nell’amministrazione della giustizia penale di Terraferma; era infatti suo il compito di tenere costantemente informato il Consiglio dei Dieci inviando delle relazioni, inoltre aveva il compito di scrivere l’intero processo. Come garanzia alla segretezza, il cancelliere veniva portato da Venezia dallo stesso podestà. “Così in

figura di Podestà come di Capitanio conducono seco ne’ governi un soggetto in qualità di cancelliere ; il cui principale requisito è l’esser mediante l’esame intorno alla sua professione dall’Avogaria licenziato. Il cancelliere seco tiene uno, overo due coadiutori, al fine di sollevarsi dal peso. Parlando adunque prima del pretorio; il di lui officio è di formare de’ suoi coadiutori tanto li processi particolari della cancelleria , quanto quelli delegati servatis servandis, questi però con l’assistenza del Giudice del Maleficio quando possa intervenirvi. Ma se poi la delegazione fosse qualificata dallo specioso carattere del Ritto, e segretezza, dovrà in virtù delle leggi scrivere egli solo indispensabilmente con l’intervento dello stesso Giudice l Maleficio”. Cap. IV, De’ cancellieri, e delle loro incombenze. Gaspare Morari, Prattica cit.,

p.29

40

Lorenzo Priori, (2004), p. 51 1

41

Simonetta Marin, L’anima del giudice, cit. p, 174 “Gli assessori devono essere in virtù delle leggi insigniti della laurea Dottorale nel Collegio de leggisti di Padova, sudditi di questo stato, non di quella città dove sono destinati a giudicare, e non devono essere impegnati nel reggimento”. Gaspare Morari, Prattica cit., pp.10-11

(32)

12

Un iter processuale quello delegato incentrato sui valori di equità, flessibilità e

di pragmatismo tipico di una città di “mercanti”

42

.Concetto di equità come

espressione di una struttura del potere dello stato veneziano nella sua forma

repubblicana, svincolato da qualsiasi mediazionedei ceti di giuristi che erano

invece espressione del potere esercitato dalle aristocrazie locali attraverso i

tribunali cittadini.

I rettori inviati dalla Repubblica nel Dominio sono patrizi, sono

essenzialmente uomini politici, privi di qualsiasi preparazione giuridica,sono

anch’essi manifestazione delle scelte politiche della Repubblica. Fu una scelta

politica della Repubblicail voler salvaguardare gli statuti presenti nelle

diverse città del domino, garantendo così una separatezza giuridica rispetto

alla Dominante;fu una scelta politica omettere il diritto comune nella

gerarchia delle fonti delle leggi fondamentali di Venezia

43

, togliendo qualsiasi

mediazione giurisprudenziale. Ma diventa anche una scelta politica ben

precisa quella di concedere sempre più frequentemente alle corti della

Terraferma la delegazione a procedere con il rito inquisitorio del massimo

42

Il patriziato temeva di fatto il tecnico del diritto in quanto portatore di una mentalità astratta, incline alla sottigliezza, restia al pragmatismo indispensabile a chi agiva nella politica, e inoltre depositario di un sapere che, massime se si trattava di un diritto dotto come il romano, minacciava di diventare occulto e iniziatico, incline per giunta a trasformarsi in uno strumento di potere. Gaetano Cozzi ( a cura di), Stato, società e giustizia nella Repubblica veneta, Roma,

Jouvence, 1980, p.148

43

Nella Dominante gli Statuti, leggi fondamentali di Venezia, (fatti redigere dal doge Jacopo Tiepolo a metà del secolo XIII) sono al primo posto nella gerarchia delle fonti a cui deve far riferimento il giudice; in carenza di questi ci si doveva avvalere dell’analogia o delle consuetudini; mancando anche queste, il giudice doveva regolarsi secondo la propria equità, non si faceva alcun riferimento al diritto comune come fonte alternativa. Caratteristica fondamentale degli Statuti veneti era la ricerca dell’equità contro il tecnicismo del diritto romano. Così scriveva Marco Foscarini, patrizio e doge nel 1762, parlando del diritto veneto: lo

studio del diritto romano è inutile a Venezia, dato che nel suo Foro siadoperano le sole leggi della città, e si costuma di trattare le cause non colo mezzo di scritte allegazioni, ma colla voce degli avvocati, i quali dovendo attenersi allo jus patrio, non potrebbero far pompa d’erudizione straniera, senza allungare le arinche di soverchio. Gaetano Cozzi, La società veneta e il suo

(33)

13

organo giudiziario della Repubblica, che manifesta una nuova dimensione

punitiva della giustizia, caratterizzata da procedure più severe e dall’

inflizione di pene che definivano un nuovo concetto di ordine pubblico e di

pace sociale.

44

La Dominantesi inserisce così attivamente nei conflitti e negli

equilibri sociali, pur mantenendo le tradizionali strutture; lo strumento della

delegazione diventa un elemento importante nel complesso rapporto tra centro

e periferia.

A partire dal secondo decennio del Seicento l’attività di delega del Consiglio

dei dieci, sia con il rito inquisitorio che con la clausola servatis sevandis

45

, si

era estesa notevolmente.Una nuova giustizia punitiva si stava affermando,

lontana da quei valori e privilegidelle realtà municipali e da una dimensione

della giustizia comunitaria

46

che fino ad allora aveva prevalso nei tribunali

della Terraferma.Gli avvocati e i giudici che operavano nei tribunali cittadini

vengono esclusi da quella dimensione delegata controllata dal Consiglio dei

dieci; si nega così la loro tradizionale funzione di raccordo tra il consueto iter

processuale e le forza sociali coinvolte nel conflitto.

44

Giovanni Chiodi, Claudio Povolo (a cura di), Retoriche, stereotipi, prassi in L’amministrazione della giustizia penale nella Repubblica di Venezia, Verona, Cierre gruppo editoriale, 2004, p.75 Nel corso del Seicento ci fu un aumento della pena capitale, della pena del carcere e della relegazione, pene che cercavano di essere un deterrente e di sancire la gravità del delitto compiuto; scompare la pena del taglione che cercava di colpire principalmente chi andava contro ai principi della comunità, e viene decisamente anche ridimensionato il valore della pena pecuniaria e della pena del bando, considerate ancora come espressione di una giustizia compromissoria. Processo e difesa penale, p. 64

45

La clausola servatis servandis, nella nuova fase del processo penale, rientra nella giurisdizione della cancelleria, conferiva all’organo giudicante maggiori poteri e maggiore discrezionalità anche nell’assegnazione delle pene.

46

Era una giustizia compromissoria che cercava di salvaguardare gli interessi delle élite cittadine e di controllare fenomeni come il banditismo e il fuoriuscitismo. Claudio Povolo (a cura di), Processo e difesa penale in età moderna- Venezia e i suo stato territoriale, Bologna, il Mulino, 2007, p.39-46

(34)

14

A caratterizzare profondamente la struttura della nuova giustizia è il ruolo del

giudice, che viene notevolmente enfatizzato, e che acquista un potere

carismatico, di tipo sacrale

47

. Al giudice vengono concessi sempre maggiori

spazi di discrezionalità soprattutto nel condurre l’inchiesta (nella fase

istruttoria), che avrebbe portato alla ricostruzione della verità processuale, e

nella comminazione della pena. Un giudice che si muove sulla base del

proprio libero convincimento

48

evidenziando tutta la dimensione politica

47

Crisma di sacralità che secondo Gaetano Cozzi, era concentrato nella figura del Doge, depositario e tutore supremo della giustizia, ma di cui erano investiti anche gli altri giudici di estrazione patrizia, in quanto partecipi della dimensione sovrana… Più che mai dotati di quel

crisma erano, tra i giudici- patrizi, i membri del Consiglio dei Dieci. Il Consiglio era stato creato per perseguire crimini contro la Maestà divina, oltre che contro la maestà del principe, e questo aveva fatto dei consiglieri una sorta di oracoli… Gaetano Cozzi, La società veneta e il

suo diritto, Venezia, Saggi Marsilio, 2000, p. 156

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E’ significativa anche la critica che Beccaria fa rispetto al libero convincimento del giudice: “Nemmeno l’autorità d’interpretare le leggi penali può risedere presso i giudici criminali per la stessa ragione che non sono legislatori. I giudici non hanno ricevuto le leggi dagli antichi nostri padri come una tradizione domestica ed un testamento che non lasciasse ai posteri che la cura d’ubbidire, ma le ricevono dalla vivente società, o dal sovrano rappresentatore di essa, come legittimo depositario dell’attuale risultato della volontà di tutti … Non v’è cosa più pericolosa di quell’assioma comune che bisogna consultare lo spirito della legge… Ciascun uomo ha il suo punto di vista , ciascun uomo in differenti tempi ne ha un diverso. Lo spirito della legge sarebbe dunque il risultato di una buona o cattiva logica di un giudice, di una facile o malsana digestione, dipenderebbe dalla violenza delle sue passioni, dalla debolezza di chi soffre, dalle relazioni del giudice coll’offeso e d tutte quelle minime forze che cangiano le apparenze di ogni oggetto nell’animo fluttuante dell’uomo. Quindi veggiamo la sorte di un cittadino cambiarsi spesse volte nel passaggio che fa a diversi tribunali, e le vite de’ miserabili essere vittima dei falsi raziocini o dell’attuale fermento di un giudice, che prende per legittima interpretazione il vago risultato di tutta quella confusa serie di nozioni che gli muove la mente. Quindi veggiamo gli stessi delitti dallo stesso tribunale puniti diversamente in diversi tempi, per aver consultato non la costante e fissa voce della legge, ma l’errante instabilità delle interpretazioni.

Quando un codice fisso di leggi, che si debbono osservare alla lettera, non lascia al giudice altra incombenza che di esaminare le azioni de' cittadini, e giudicarle conformi o difformi alla legge scritta, quando la norma del giusto e dell'ingiusto, che deve dirigere le azioni sí del cittadino ignorante come del cittadino filosofo, non è un affare di controversia, ma di fatto, allora i sudditi non sono soggetti alle piccole tirannie di molti, tanto piú crudeli quanto è minore la distanza fra chi soffre e chi fa soffrire, piú fatali che quelle di un solo, perché il dispotismo di molti non è correggibile che dal dispotismo di un solo e la crudeltà di un dispotico è proporzionata non alla forza, ma agli ostacoli. Cosí acquistano i cittadini quella sicurezza di loro stessi che è giusta perché è lo scopo per cui gli uomini stanno in società, che è utile perché gli mette nel caso di esattamente calcolare gl'inconvenienti di un misfatto. Egli è vero altresí che acquisteranno uno

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