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Il mantenimento della salute peri-implantare: revisione della letteratura

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Academic year: 2021

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UNIVERSITÀ DI PISA

Dipartimento di Patologia Chirurgica, Medica, Molecolare e dell’Area Critica Corso di Laurea Magistrale in Odontoiatria e Protesi Dentaria

Presidente: Prof. Mario Gabriele

TESI DI LAUREA:

Il mantenimento della salute peri-implantare: revisione della

letteratura

RELATORE:

Prof. Ugo Covani

CANDIDATO:

Giuseppe Testa

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1 Alla mia famiglia.

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2 INDICE 1 - IL TESSUTO OSSEO 1.1 Istologia ossea……….5 1.1.1 Le cellule……….5 1.1.2 I tipi di osso………5 1.2 La vascolarizzazione……….8 1.3 La fisiologia ossea………..9

1.3.1 Crescita e rimodellamento osseo………..……….10

1.3.2 Rimodellamento osseo attorno all’impianto……….…….11

1.3.3 Rimodellamento osseo in seguito ad estrazione dentale………..13

1.3.4 Le conseguenze del rimodellamento osseo sulla mascella e sulla mandibola……….14

2 - GLI IMPIANTI DENTALI 2.1 Introduzione………..15

2.2 Osteointegrazione e criteri di successo………..16

2.3 Evoluzione dei protocolli implantari……….20

2.4 I tipi di impianto………..21

2.4.1 La forma………...22

2.4.2 Il diametro………..22

2.4.3 Il connettore impianto-pilastro………...23

2.4.4 La superficie implantare………26

2.5 Impianti sommersi e non sommersi………...27

2.5.1 Impianti sommersi………...27

2.5.2 Impianti non sommersi………...28

2.5.3 Differenze………...28

2.6 Protocolli chirurgici………..28

2.6.1 Protocollo a due tempi………..28

2.6.2 Protocollo a un tempo………30

2.6.3 Protocollo impianti post-estrattivi……….31

(4)

3 3 - FALLIMENTO DELLA TERAPIA IMPLANTARE

3.1 Fallimento precoce e fallimento tardivo………33

4 – REVISIONE DELLA LETTERATURA 4.1 Obiettivi, materiali e metodi………..34

5 - MALATTIA PERI-IMPLANTARE 5.1 Definizioni………...………35

5.2 Eziopatogenesi………...35

5.3 Differenze tra parodontite e peri-implantite………..37

5.4 Fattori di rischio………..37

5.5 Criteri diagnostici………43

5.6 Prevalenza………...…..45

5.7 Classificazione di Schwarz per le peri-implantiti………..45

6 - TERAPIA 6.1 Prevenzione………46

6.2 Mantenimento domiciliare e professionale……….47

6.2.1 Mantenimento domiciliare………....47

6.2.2 Mantenimento professionale………..……….48

6.3 Introduzione al trattamento………49

6.4 Obiettivi e criteri di valutazione del successo del trattamento delle peri-implantiti………..49

6.5 Terapia non chirurgica……….50

6.5.1 Trattamenti meccanici……….………..50 6.5.2 Trattamenti laser………52 6.6 Terapia chimica………57 6.6.1 Antibiotici……….…..57 6.6.2 Antisettici……….……..59 6.6.3 Antinfiammatori……….60 6.6.4 Detossificanti………..….60

(5)

4

6.6.5 Terapia locale alternativa……….……61

6.7 Terapia chirurgica………..62

6.7.1 Conservativa………...……..63

6.7.2 Resettiva………...……….63

6.7.3 Ricostruttiva………...……….64

6.7.4 Membrane e materiali da innesto……….………….66

6.8 Protocollo terapeutico: CIST (Cumulative Interceptive Support Therapy)……….69

7 - CONCLUSIONI……….………..75

(6)

5

1 - IL TESSUTO OSSEO

1.1 Istologia ossea 1.1.1 Le cellule Gli osteoblasti

Queste cellule sono responsabili della sintesi della matrice ossea che le circonda e delle proteine di questa matrice. Questo tessuto è definito tessuto osteoide e prende il nome di tessuto osseo solo dopo la calcificazione. Gli osteoblasti son attivi durante la fase di edificazione delle strutture ossee mai anche durante i periodi di rimodellamento osseo.

Gli osteociti

Sono le cellule più abbondati. Corrispondono agli osteoblasti che si sono ritrovati intrappolati nella matrice ossea da essi stessi formata. Comunicano tra loro attraverso un sistema di prolungamenti dendritici che li collega, formando così una rete canalicolare.

Gli osteoclasti

Sono in grado di dissolvere i minerali e degradare la matrice organica. Questo riassorbimento osseo gli consente di controllare l’omeostasi del calcio. Queste cellule giganti multinucleate si trovano sulle superfici ossee dell’endostio, nei sistemi di Havers e talvolta sulla superficie del periostio, e sono presenti a livello dei siti attivi nel rimodellamento osseo.

Le cellule di rivestimento

Formano un confine tra l’osso e gli altri compartimenti dell’organismo. Derivano dagli osteoblasti e sono coinvolte nell’osteogenesi.

1.1.2 I tipi di osso

L’osso è organizzato in quattro compartimenti. Dall’esterno verso l’interno distinguiamo: il periostio (membrana fibrosa che riveste un ruolo importante nei rimaneggiamenti ossei

(7)

6 superficiali), l’osso corticale, l’endostio (ricopre la faccia interna dell’osso compatto) e l’osso spongioso.

L’osso compatto

Denso e rigido, l’osso compatto va a costituire l’osso della corticale. Si forma attraverso la

giustapposizione di osteoni, all’interno dei quali le lamelle ossee sono disposte concentricamente attorno ai cosiddetti “canali di Havers” dove circolano i vasi. I canali di Havers sono connessi da canali trasversi conosciuti come “canali di Volkmann”. L’osso compatto e quindi formato da osso haversiano, un osso lamellare ben strutturato e vascolarizzato soltanto all’interno dei canali di Havers.

La corticale interna è costituita in parte da osso a disposizione lamellare e in parte da osso fibroso. Quest’osso fibroso rappresenta un tipo molto primitivo di tessuto osseo. Deve la sua struttura al fatto che le principali fibre del legamento parodontale vi s’inseriscono e vi penetrano in

profondità. E’ chiamato anche “osso fascicolato”. La delimitazione della parete del tessuto osseo fascicolato è data da una linea cementante che separa quest’osso dall’osso spongioso.

A causa del costante rimodellamento dell’osso alveolare, lo strato corticale, costituito in origine da tessuto osseo molto denso a carattere lamellare, viene gradatamente rimpiazzato da osso

haversiano, questo rimodellamento osseo è accelerato dalle forze occlusali pertanto la linea cementante appare irregolare. La corticale esterna alveolare è in continuità con la corticale mascellare o mandibolare ed è coperta dal periostio. Quest’osso è costituito da dense lamelle ossee apposte le une sulle altre. Contiene numerose cavità: osteoblasti che contengono gli osteociti. Hanno una forma a stella e sono disposte in maniera regolare. Tra le lamelle sono presenti dei piccoli spazi midollari.

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7 L’osso spongioso

Chiamato anche osso trabecolare, è costituito da un arrangiamento tridimensionale di travi e sottili trabecole. Delimita gli spazi midollari, nei quali è situato il midollo osseo.

La sua quantità è minore a livello mandibolare rispetto che a livello mascellare. Permette di dare sostegno al dente e costituisce una riserva nutritiva. L’osso spongioso è presente tra la corticale esterna e quella interna laddove lo spazio sia sufficiente. Occupa inoltre i setti e le regioni interradicolari. Radiologicamente è caratterizzato dalla sua trabecolatura. La disposizione delle trabecole ossee è soggetta a numerose variazioni.

Il tipo di osso è importante da conoscere poiché al momento del posizionamento di un impianto, la risposta dell’osso sarà differente a seconda che avvenga in un osso corticale o spongioso.

Una classificazione della qualità ossea incontrata durante il posizionamento degli impianti è questa e tiene di conto della ripartizione tra osso corticale o spongioso (Lekholm U. et al. 1985)

- Osso di tipo 1: la mandibola è composta quasi interamente da osso compatto omogeneo

- Osso di tipo 2: uno spesso strato di osso compatto circonda un nucleo di denso osso trabecolare - Osso di tipo 3: un sottile strato di osso corticale circonda un nucleo di denso osso trabecolare - Osso di tipo 4: un sottile strato di osso corticale circonda un nucleo di osso trabecolare scarsamente denso

Questa classificazione istologica è però difficile da applicare nella pratica ed è per questo motivo che clinicamente faremo riferimento ad un’altra classificazione (Trisi P. et al.1999):

- Osso denso: il clinico è impossibilitato nell’apprezzare la delicata delimitazione tra la parte corticale e quella spongiosa.

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8 resistente.

- Osso scarsamente denso: la corticale e la parte spongiosa offrono poco resistenza e sono facilmente penetrate.

1.2 La vascolarizzazione

La vascolarizzazione dei mascellari dipende da alcune branche dell’arteria mascellare:

- L’arteria infra-orbitaria assicura la vascolarizzazione della superficie orbitale superiore così come della faccia anteriore del mascellare e dei denti anteriori

- L’arteria alveolare posteriore e superiore assicura la vascolarizzazione della faccia posteriore del mascellare e dei denti posteriori

- L’arteria palatina maggiore assicura la vascolarizzazione della regione posteriore della mucosa palatina

- L’arteria naso-palatina vascolarizza la regione anteriore della mucosa palatina

La vascolarizzazione della mandibola è assicurata da una rete esterna periostale ed una rete interna endossea:

- La rete esterna è costituita dall’arteria faciale, l’arteria submentale (proveniente dall’arteria faciale), l’arteria sublinguale, le arterie masseterine e pterigoidee (branche dell’arteria mascellare) e l’arteria miloioidea (branca dell’arteria alveolare inferiore)

- La rete interna è costituita invece dall’arteria alveolare inferiore (branca dell’arteria mascellare) dalla quale di originano dei rami destinati ai singoli apici dentali. E’ divisa in due: un’arteria incisiva che dona dei rami al canino e agli incisivi, e una arteria mentoniera che si anastomizza con l’arteria sottomentale.

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9 stessa in presenza di osso o meno. La vascolarizzazione dei processi alveolari è garantita

principalmente da:

- Branche delle arterie alveolari superiori ed inferiori così come dalle arterie dei setti interalveolari - Le arterie periostali della corticale

- Le arterie del legamento

Quest’ultima fonte di vascolarizzazione è assente al momento dell’osteointegrazione dell’impianto poiché il legamento parodontale è assente. La vascolarizzazione è quindi minore e questo avrà conseguenze sullo spessore del tessuto osseo poiché una minore vascolarizzazione porta a riassorbimento osseo.

1.3 La fisiologia ossea

1.3.1 La crescita ed il rimodellamento osseo

Durante l’infanzia la crescita ed il rimodellamento osseo coesistono mentre nell’adulto permane solo il rimodellamento.

La crescita ossea origina da due meccanismi: ossificazione encondrale, che assicura principalmente la formazione delle ossa lunghe, e l’ossificazione membranosa che prende origine a livello delle ossa piatte.

Il rimodellamento consente di preservare le proprietà biomeccaniche del tessuto osseo e si sviluppa secondo una cronologia ben precisa (Frost HM. 1969):

- La fase d’attivazione avvia il processo di rimodellamento. Questa fase porta al reclutamento degli osteoclasti che riconoscono la superficie da riassorbire.

- La fase di riassorbimento prende poi origine grazie agli osteoclasti che aderiscono alla superficie. Essi solubilizzano la matrice minerale tramite acidificazione e la matrice organica attraverso specifici enzimi.

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10 - Successivamente vi è una fase d’inversione in cui si forma la linea cementante. E’ qui che avviene il passaggio tra riassorbimento e sintesi. Gli osteoclasti si ritirano e lasciano spazio al reclutamento degli osteoblasti.

- Poi avviene una fase di formazione: gli osteoblasti aderiscono e sintetizzano una matrice collagene che verrà successivamente mineralizzata. Questa sequenza dura in media tra i 4 ed i 6 mesi.

- Infine, la fase di quiescenza: è uno stato di inattività che dura fin quando una nuova fase di rimodellamento non viene attivata attraverso stimoli di origine meccanica, sistemica o locale.

L’osso parodontale, come tutte le altre strutture ossee, subisce delle variazioni e dei

rimodellamenti costanti con lo scopo di adattarsi alle sollecitazioni delle funzioni masticatorie così come agli spostamenti dentali (fisiologici o patologici).

1.3.2 Rimodellamento osseo attorno all’impianto

Al momento del posizionamento di un impianto la reazione ossea non è specifica, ma è la stessa per qualunque tipo di riparazione dovuta ad effrazione del tessuto osseo (frattura, foratura, innesto). Contrariamente ai tessuti molli, la riparazione ossea non produce del tessuto cicatriziale qualora avvenga in condizioni adeguate. Al termine della guarigione, l’osso neoformato sarà identico all’osso preesistente. Dal momento che le cellule ossee vengono reclutate dal circolo sanguigno, è logico comprendere che i processi di riparazione nel caso di osso abbondantemente vascolarizzato saranno favoriti. La riparazione ossea necessita di un adeguato stimolo meccanico: senza stimolo la capacità osteogenica è scarsa, se invece lo stimolo è eccessivo, darà origine ad una fibro-integrazione.

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11 Risposta ossea attorno all’osso spongioso

- Fase 1: formazione del coagulo. Dopo il posizionamento dell’impianto, un coagulo sanguigno si forma all’interno degli spazi presenti nell’interfaccia osso-impianto. Il fibrinogeno del sangue si deposita sul titanio e permette l’adesione delle piastrine alla superficie. Esse successivamente rilasciano dei fattori di crescita che attirano cellule indifferenziate verso il sito della lesione. - Fase 2: formazione di una rete tridimensionale di fibrina. La rete di fibrina è seguita da un’angiogenesi locale. Attraverso i capillari arrivano le cellule mesenchimali e se le condizioni biomeccaniche locali lo consentono, si differenziano seguendo la linea osteoblastica. Queste cellule migrano nelle immediate vicinanze della superficie implantare, causando delle tensioni sulle fibre. Secondo la loro capacità di resistere a queste tensioni, l’osteogenesi potrà essere di contatto o a distanza. (Ramaglia L. 2010)

- Fase 3: prima apposizione d’osso.

Osteogenesi da contatto: se le fibre resistono alla trazione, le cellule osteogeniche arrivano direttamente sulla superficie implantare e la riconoscono come una superficie stabile,

permettendo così la loro differenziazione in osteoblasti. Queste cellule secerneranno una matrice proteica non collagene che si mineralizzerà immediatamente. Le cellule continuano la loro

apposizione ossea producendo un osso intrecciato (con fibre disorganizzate di collagene

mineralizzato). L’apposizione ossea continuerà in maniera centrifuga (dalla superficie dell’impianto verso l’osso) e centripeta, al fine di assicurare la stabilità dell’impianto.

Osteogenesi a distanza: se l’ancoraggio delle fibre è debole, esse si staccano dalla superficie. Le cellule rimangono a distanza e l’apposizione ossea avverrà a partire dal bordo della perforazione. Come visto in precedenza, viene secreta la matrice proteica non collagene e poi mineralizzata. Le cellule continuano la loro apposizione ossea in direzione dell’impianto producendo un osso intrecciato destinato ad essere rimodellato in osso lamellare e poi haversiano.

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12 - Fase 4: apposizione ossea ed osteointegrazione. Dopo l’attivazione dell’apposizione ossea, l’osso intrecciato si trasforma prima in osso lamellare con un’organizzazione parallele delle fibre di collagene, e poi in osso haversiano con un’organizzazione circolare concentrica.

Reazione di trabecolatura: si verifica nel caso di osteogenesi da contatto. L’osso forma un sottile strato osseo attorno attorno all’impianto, sul quale si inseriscono delle trabecole ossee orientate più o meno perpendicolarmente all’asse verticale dell’impianto. Quest’organizzazione è destinata a persistere per lungo tempo ed è tipica delle superfici implantari rugose.

Reazione di corticalizzazione: si verifica nel caso di osteogenesi a distanza. Attorno all’impianto l’osso forma un guscio osseo avvolgente di un certo spessore. Questa reazione necessita di tempo per arrivare alla fase haversiano ed è tipica di una superficie implantare liscia o “machined”.

Risposta dell’osso corticale

L’effetto delle superfici implantari sulla risposta ossea corticale è minore rispetto a quello sull’osso spongioso. Posizionato in un osso corticale, la superficie bioattiva non può esprimere le sue

proprietà di osteoconduttività. Quando il contatto osseo con la superfici implantare è stretto, il rimodellamento osseo a questo livello è rallentato e non avviene prima dei 3 mesi. Per ottenere l’osteointegrazione è richiesta una fase di riassorbimento locale per consentire alle cellule osteoblastiche di esprimere il loro fenotipo, e a livello dell’osso corticale questa fase necessita di maggior tempo rispetto che nell’osso spongioso.

L’odontoiatra deve pertanto essere a conoscenza del fatto che posizionando un impianto in un osso molto denso (tipo 1 o 2) avrà un’alta stabilità primaria, ma dal punto di vista della risposta ossea il tempo di riparazione sarà maggiore rispetto a quello necessario nel caso di osso spongioso (tipo 3 e 4).

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13 Il fenomeno della craterizzazione iniziale

Il rimodellamento osseo si verifica anche attorno all’impianto dopo la messa in carico. Secondo Branemark una perdita d’osso tridimensionale sarà inevitabile. Questa craterizzazione è un fenomeno biologico di rimodellamento osseo che permette di creare un sufficiente spazio per l’attacco dei tessuti molli all’impianto. Si verifica durante i mesi seguenti l’esposizione

dell’impianto all’ambiente orale e diventa stabile dopo il primo anno di messa in funzione (Albrektsson et al. 2017).

Numerosi fattori sembrano essere responsabili di questo rimodellamento osseo; affronteremo questo discorso più avanti, nel capitolo relativo agli impianti ed ai tipi di connettori.

1.3.3 Rimodellamento osseo in seguito ad estrazione dentale

Il processo di guarigione post-estrattivo inizia immediatamente dopo l’avulsione dentale e comincia con la formazione di un coagulo sanguigno sul fondo dell’alveolo. Successivamente avviene l’invasione da parte dei fibroblasti e dei polimorfonucleati. In un secondo tempo appare un tessuto di granulazione che va a rimpiazzare progressivamente il coagulo. Gli osteoblasti arrivano nel fondo dell’alveolo e iniziano la sintesi di tessuto osteoide. Il tessuto di granulazione viene quindi trasformato in tessuto connettivo primitivo, la formazione di nuovo osso continua, generando della trabecole ossee mineralizzate. La chiusura epiteliale avviene tra le 4 e le 5 settimane dopo l’estrazione. Dopo 15 settimane circa, l’alveolo è riempito da tessuto osseo in pieno rimodellamento che sarà influenzato in larga parte da fattori locali meccanici.

In uno studio (Araujo MG et al. 2005) è stato osservato che il riassorbimento delle pareti vestibolari e linguali passano attraverso due fasi sovrapposte. Durante la prima fase l’osso fascicolato viene riassorbito e rimpiazzato da osso intrecciato fibroso. Pertanto, la cresta della

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14 parete vestibolare, essendo composta unicamente da osso fascicolato subirà un sostanziale

riassorbimento verticale. Durante la seconda fase, avverrà il riassorbimento a partire dalla superficie esterna delle pareti linguali e vestibolari. Riassumendo, il riassorbimento è più importante sulla parete vestibolare rispetto alla parete linguale poiché la parete vestibolare è molto sottile alla base ed è composta quasi esclusivamente da osso fascicolato; la parete linguale invece è composta da una maggiore quantità di osso corticale (sulla faccia esterna) e da osso fascicolato (sulla sua faccia interna). Inoltre, il riassorbimento avviene verticalmente ed

orizzontalmente. Secondo questo studio il riassorbimento orizzontale attorno agli alveoli senza impianto è di circa il 50% per la corticale vestibolare ed è significativamente maggiore rispetto alla corticale palatina. Queste osservazioni sono state fatte anche in un altro studio (Schropp L et al. 2003)

1.3.4 Le conseguenze del rimodellamento osseo sull’anatomia dei mascellari e della mandibola Il rimodellamento osseo ha conseguenze sia dal punto di vista macroscopico che microscopico. Le alterazioni dimensionali post-estrazione nelle ossa mascellari sono differenti da quelle che

avvengono nella mandibola, a causa dell’assenza delle importanti forze muscolari che agiscono su quest’ultima durante la masticazione. Inoltre, il riassorbimento è maggiore a livello del tavolato osseo vestibolare. Dobbiamo poi ricordare che il riassorbimento essendo centrifugo a livello mandibolare (poiché il riassorbimento linguale è maggiore) e centripeto a livello mascellare, i rapporti intermascellari risulteranno alterati. Man mano che progredisce il riassorbimento, il canale mandibolare si troverà sempre più vicino alla cresta, rappresentando pertanto un ostacolo anatomico al posizionamento implantare. Per quanto riguarda il seno mascellare, la perdita dei denti porterà alla loro pneumatizzazione, limitando perciò anche in questo caso il volume osseo disponibile per la collocazione degli impianti.

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15

2 - GLI IMPIANTI DENTALI

2.1 Introduzione

Nel corso degli ultimi 30 anni la chirurgia implantare ha acquisito un ruolo sempre più importante nella riabilitazione protesica di pazienti edentuli o parzialmente edentuli. Branemark, un fisico ricercatore svedese, è considerato il padre dell’implantologia moderna grazie alla scoperta del titanio come materiale idoneo alla costruzione di protesi implantari che fu del tutto casuale. Intorno agli anni ’50 Branemark, stava eseguendo degli studi e delle osservazioni sul midollo osseo ed aveva inserito nella tibia e fibula di alcuni conigli delle lenti ottiche di titanio; trascorso del tempo e terminati i suoi studi applicati alla guarigione ossea, si accorse però che era impossibile recuperare queste lenti dalle ossa degli animali, poiché si erano saldamente ancorate a

quest’ultime. Da questa osservazione ne derivò l’intuizione che viti di titanio potessero essere utilizzate come radici artificiali nella riabilitazione protesica dei pazienti edentuli e questo diede le basi per lo sviluppo del concetto di osteointegrazione. I suoi esperimenti implantari iniziarono prima negli animali ed a partire dal 1965 iniziò ad utilizzare impianti in titanio nei suoi pazienti. Attese poi circa dieci anni prima di pubblicare i suoi risultati, nel 1977, nel tentativo di fornire un protocollo chirurgico che fosse ritenuto affidabile. (Branemark PI et al. 1977)

Meno diffusa in ambito accademico è invece la storia del medico odontoiatra italiano, Stefano Tramonte, che, in realtà, fu il primo al mondo a utilizzare il titanio per gli impianti endorali su paziente, pubblicando i suoi case report nel 1965 e 1966.

Purtroppo, però, Tramonte non ebbe l’adeguata riconoscenza dei suoi meriti scientifici, perché non era un ricercatore e non lavorava in ambito accademico, bensì come dentista privato e le sue ricerche, inizialmente, furono pubblicate soltanto in lingua italiana. Inoltre Branemark non citò

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16 nessuno degli studi di Tramonte e così questo autore passò in secondo piano, nonostante oggi siano ancora in commercio gli impianti Tramonte con un successo non indifferente.

2.2 Osteointegrazione e criteri di successo

Nel 1977 Branemark definì l’osteointegrazione come “un’apposizione di osso diretta sulla

superficie implantare senza interposizione di tessuto fibroso”. Alcuni anni dopo, questa definizione fu modificata e si giunse al concetto che l’osteointegrazione era “una giunzione anatomica e funzionale diretta tra l’osso vivo residuo e la superficie implantare impiantata”. (Albreksson T. et al 2001)

Per ottenere una perfetta osteointegrazione il protocollo originariamente proposto da Branemark prevedeva l’inserimento dell’impianto nell’osso e l’attesa di alcuni mesi per la guarigione (3 mesi nella mandibola, 6 per la mascella, costituita da osso con una più alta componente trabecolare). L’obiettivo di questa attesa era quello di assicurarsi una sufficiente apposizione di osso prima di sottoporre l’impianto alle forze occlusali, evitando così l’insorgenza di un incapsulamento fibroso. Chappuis nel suo studio del 2016 condotto su maialini nani ha osservato che la percentuale di BIC (Bone to Implant Contact), ovvero la percentuale di superficie implantare effettivamente

osteointegrata con l’osso circostante, per quanto riguarda gli impianti in titanio, potrebbe raggiungere l’82% a 4 settimane (Chappuis V et al. 2016)

Un’analisi della letteratura di Sagirkaya del 2013 ha fatto notare che le percentuali di BIC variano a seconda di alcuni parametri tra cui il tipo di impianto, posizionamento nella mandibola o nella mascella, nella zona anteriore o posteriore, utilizzo di protocolli a carico immediato o differito. In questo caso le percentuali potrebbero oscillare tra il 37% ed il 79%.

Quindi in realtà non si ha mai l’ideale e completa osteointegrazione ma una percentuale alta di BIC, nella pratica, permette all’impianto di essere ancorato (osteointegrato) nell’osso.

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17 Inizialmente il tasso di successo implantare si attestava attorno all’80%, ma con l’evoluzione delle tecniche e dei materiali, dopo 15 anni si raggiunse un tasso di successo del 99%. (Lindquist LW et al. 1997)

Secondo Branemark la preparazione chirurgica genera la formazione di una zona di necrosi periferica al perimetro di perforazione, e ciò dipende dall’aumento locale di temperatura e

diminuzione di vascolarizzazione del tessuto osseo. Le prime tappe di cicatrizzazione saranno volte quindi ad eliminare questa zona di necrosi. Come abbiamo visto nel capitolo 1, l’osso fibroso immaturo neoformato possiede una scarsa capacità di resistenza alla forze masticatorie, ma il rimodellamento osseo, con formazione di osso lamellare e haversiano, ne rinforzerà in seguito le proprietà meccaniche; questo processo può necessitare di un periodo compreso tra 3 e 18 mesi circa. (Davarpanah, Manuale di implantologia clinica 2001).

Riassumendo pertanto, l’osteointegrazione implantare si articola in due fasi:

- La stabilizzazione primaria: rappresenta la fase di ancoraggio meccanico dell’impianto nel sito osseo preparato. Essa dipende essenzialmente dalla qualità dell’osso e dal suo volume, dalla tecnica chirurgica e dalla morfologia implantare. La stabilità primaria è un fattore determinante per l’osteointegrazione ed è ottenuta essenzialmente dalla porzione implantare a contatto con i tavolati ossei corticali. L’osso corticale offre un miglior ancoraggio primario rispetto all’osso spugnoso. Avendo dunque spesso la mascella una corticale esterna sottile, è più difficile in questo caso ottenere una perfetta stabilità primaria.

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18

Figura 1: rappresentazione schematiche dell’andamento delle stabilità primaria e secondaria da 0 a 8 settimane. “Fonte propria”.

- La stabilizzazione secondaria: è caratterizzata dalla formazione di una connessione biologica tra il tessuto osseo e l’impianto, ovvero un’osteointegrazione. In questo caso, laddove un osso

spongioso scarsamente corticalizzato offre solitamente una minore stabilità primaria, dall’altro lato garantisce un processo più rapido di stabilizzazione secondaria.

Come possiamo osservare nell’immagine (figura 1) la stabilità primaria è massima al momento del posizionamento dell’impianto e decresce con il passare delle settimane; viceversa la stabilità secondaria è minima al tempo 0 ed aumenta nelle settimane successive.

Questo grafico ci permette di comprendere che il momento più delicato per quanto riguarda la stabilità dell’impianto è a 3 settimane: la stabilità primaria risulta difatti notevolmente diminuita e quella secondaria non ha ancora raggiunto un livello adeguato. (Raghavendra S et al. 2005)

Secondo Albrektsson l’osteointegrazione è influenzata e dipende da 6 fattori:

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19 le sue proprietà di biocompatibilità.

- La forma dell’impianto: inizialmente esistevano varie forme, come quella cilindrica o quella a vite, o successivamente la forma a lama, ma fu osservato che la forma a vite garantiva risultati

superiori.

- La finitura della superficie: la superficie rugosa ottenuta tramite sabbiatura offre una migliore aderenza alla fibrina e di conseguenza una migliore apposizione ossea.

- La condizione del sito implantare: sia la condizione ossea che quella mucosa presentano un’ elevata importanza.

- La tecnica chirurgica: l’osso non sopporta temperature superiori ai 47° C per più di 1 minuto. La tecnica di fresatura deve garantire il mantenimento della temperatura al di sotto di questa soglia, per non incorrere nel rischio di fenomeni di necrosi.

Per fare ciò dobbiamo avvalerci di un’abbondante irrigazione e far sì che la velocità di rotazione della fresa non superi i 1.200 giri al minuto.

- Le condizioni della messa in carico: questo parametro ha subito una notevole evoluzione nel corso degli anni ma il protocollo originale di Branemark indicava un periodo di attesa per la guarigione e per la messa in carico di 3/6 mesi.

Criteri di successo in implantologia

L’osteointegrazione condiziona la buona riuscita di un impianto e nel 1986 Albrektsson e collaboratori hanno definito i criteri di successo di un impianto:

- L’impianto, testato clinicamente, deve essere immobile.

- Nella radiografia endorale deve essere evidente l’assenza di zone radiotrasparenti attorno all’impianto.

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20 a 1.5mm), la successiva perdita di osso deve essere inferiore a 0.2mm nell’arco di due esami eseguiti a distanza di un anno.

- Numerosi segni clinici devono essere assenti: dolore, necrosi tissutale, infezione, parestesia o anestesia della zona implantare, comunicazioni oro-antrali o oro-nasali, danneggiamento del canale mandibolare.

- Il tasso di successo a 5 e 10 anni deve essere almeno dell’85% e 80% rispettivamente.

Ad oggi il tasso di successo a lungo termine risulta essere di circa il 99% (Lindquist LW et al. 1997)

2.3 Evoluzione dei protocolli implantari

Nel corso degli anni, il miglioramento delle caratteristiche e proprietà degli impianti dentali hanno portato ad un evoluzione dei protocolli implantari ed alcune raccomandazioni indicate da

Branemark nel suo protocollo originale, sono state considerate non più essenziali.

Gli impianti dentali utilizzati inizialmente da Branemark erano caratterizzati da superfici lisce, ma numerosi studi hanno evidenziato successivamente che l’utilizzo di superfici rugose garantiva un incremento dell’ancoraggio meccanico e quindi della stabilità primaria. La superficie rugosa si è dimostrata maggiormente efficace soprattutto in quelle condizioni cliniche considerate a rischio, ovvero nelle regioni con scarsa altezza e densità ossea. Sono stati quindi sviluppati numerosi tipi di trattamenti superficiali: trattamenti per addizione (plasma torch e trattamenti elettrochimici) e trattamenti per sottrazione chimica (mordenzatura) o fisica (sabbiatura).

Tutti questi miglioramenti nella qualità dell’ancoraggio hanno reso possibile la semplificazione delle tecniche chirurgiche e l’evoluzione dei protocolli si è orientata sempre più verso

un’accelerazione dei piani di trattamento arrivando ad eseguire interventi che prevedono l’inserimento dell’impianto e la messa in carico immediata.

(22)

21 materiali biocompatibili e la fresatura atraumatica dell’osso per evitare la necrosi e facilitare un processo di guarigione ossea fisiologico.

2.4 I tipi di impianti

Come abbiamo detto precedentemente, nel corso degli anni sono state apportate modifiche alle caratteristiche degli impianti. Qui di seguito faremo un’analisi delle varie tipologie indicandone le differenze salienti.

Cominciamo ricordando le componenti che costituiscono un impianto:

- Il collo: è la parte più coronale dell’impianto, a livello della quale avverrà la connessione con l’abutment. Talvolta il collo potrà essere esposto nella cavità orale e pertanto la sua superficie dovrà avere caratteristiche tali da inibire l’adesione del biofilm batterico e facilitarne le operazioni di pulizia. Per questo motivo solitamente presenta una superficie di tipo liscio.

- Il corpo: è la porzione più grande dell’impianto, compresa tra collo ed apice. Le spire presenti in quest’area hanno l’obiettivo di garantire un alto livello di stabilità primaria.

- L’apice: è la parte terminale dell’impianto e potrà essere attivo o passivo.

Il tipo d’impianto utilizzato sarà scelto in base a: volume osseo disponibile, spazio protesico residuo e livello stress meccanico. Questo garantirà la durevolezza dei tessuti duri e molli peri-implantari. L’analisi dei requisiti protesici e chirurgici ci consente di determinare i parametri di scelta del nostro impianto. Le differenti caratteristiche riguardano: morfologia, diametro, lunghezza, resistenza meccanica e tipo di connessione.

Gli impianti vengono inoltre suddivisi in due grandi gruppi: sepolti (endo-ossei, iuxta-ossei) e non sepolti (trans-gengivali).

(23)

22 2.4.1 La forma implantare

Impianto cilindrico (o standard)

Questa forma presenta il più alto tasso di esperienza clinica. In origine l’intervento veniva eseguito in due stadi: il posizionamento dell’impianto e successivamente (dopo alcuni mesi) la sua messa in carico. La forma è cilindrica e presenta una filettatura esterna su tutta la lunghezza del corpo. È autofilettante, il collo può essere leggermente svasato oppure dello stesso diametro del corpo, l’apice è tronco e secante.

Impianto conico (o anatomico)

Questo tipo di impianto ha una morfologia simile alla radice dentale. E’ autofilettante e la sua forma si adatta efficacemente al sito di fresatura ossea. L’effetto di compressione periferica sull’osso ne favorisce la stabilità primaria in un osso scarsamente denso oppure nel caso di implantologia a carico immediato.

2.4.2 Il diametro implantare

Il diametro dell’impianto può essere di tre tipi: grande (>4.5mm), standard (compreso tra 3.75mm e 4.1mm) e piccolo (<3.4mm).

La scelta del diametro si baserà chiaramente sull’analisi delle condizioni cliniche: la quantità di osso, la qualità, disponibilità di spazio protesico, siti edentuli, tipo di occlusione.

L’impianto standard esiste da più di 30 anni ed il suo diametro è quello di riferimento nella maggior parte dei casi. Variando il diametro dell’impianto cambiano i vantaggi e gli svantaggi. L’impianto di grosso diametro presenta alcuni vantaggi: un aumento della superficie protesica grazie all’aumento del diametro del collo, una maggiore resistenza alla sollecitazioni, una maggiore superficie di interfaccia osso-impianto. In particolari situazioni può quindi rappresentare la scelta ottimale, come nel caso di insufficiente qualità ossea, altezza crestale o edentulie molari. L’utilizzo

(24)

23 di impianti a diametro piccolo trova invece interesse nel caso di ridotto spazio osseo

inter-radicolare (come nel caso di agenesia dei laterali), in caso di cresta alveolare sottile oppure nel caso in cui il diametro protesico cervicale sia limitato. Gli svantaggi sono ad esempio invece una minore resistenza alle sollecitazioni e stress meccanici.

2.4.3 Il connettore impianto-pilastro

Il restauro implanto-protesico si compone di un impianto, un pilastro e una corona.

L’assemblaggio di queste tre componenti da origine a delle giunzioni dalle quali si origina un certo dinamismo che può portare all’insorgenza di disturbi di tipo meccanico e batterico.

L’insorgenza di tali complicazioni può dipendere da numerosi fattori: - Presenza di microgap a livello della giunzione impianto-pilastro - Presenza di infiltrato batterico lungo la giunzione impianto-pilastro - Presenza di micromovimenti dell’abutment rispetto all’impianto - Presenza di sollecitazioni meccaniche legate all’occlusione

- Presenza di perturbazioni dovute a manipolazioni protesiche ripetute

I tessuti peri-implantari risponderanno quindi seguendo i principi di conservazione dello spazio biologico.

Tutti gli impianti a due tempi utilizzano connessioni con superficie liscia (machined). Avviene quindi il collegamento tra la componente “maschio” e la componente “femmina” che collega il pilastro protesico al corpo dell’impianto. Qualora il collegamento garantisca un posizionamento preciso dell’impianto e ne impedisca la rotazione, parleremo di connettore anti-rotazionale. Il diametro del pilastro è solitamente identico al diametro del collo dell’impianto ed i due elementi sono quindi in continuità in senso verticale e non presentano deviazioni in senso orizzontale. Nel

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24 caso in cui il pilastro abbia diametro minore del collo e si crei perciò una deviazione laterale, parleremo di “platform switching”, come vedremo più avanti.

Le differenti configurazioni di connessione

Connessione a esagono esterno: è la forma più utilizzata ed originariamente proposta da Branemark. La superficie protesica dell’impianto è data da una base sormontata al centro da un esagono. Il pilastro viene inserito nell’esagono ed avvitato.

Connessione a esagono interno: la connessione interna presenta una forma esagonale. Questo sistema è più semplice del sistema ad esagono esterno e facilita la manipolazione protesica. Connessione a poligono interno: rappresenta un’evoluzione dell’esagono interno e consente un aumento del numero di posizioni possibili dell’abutment, secondo step di 15° anziché di 30°. Connessione a cono Morse: questo assemblaggio non fornisce punti di riferimento per il

posizionamento del pilastro. L’abutment non può essere modificato nel laboratorio protesico per poi essere riposizionato in bocca poiché la posizione varia in funzione della coppia di serraggio. Connessione a cono Morse anti-rotazionale: E’ un sistema intermedio che associa il cono Morse al poligono interno permettendo un posizionamento preciso dell’abutment sull’impianto.

Comparazione tra connettore piatto e connettore a cono Morse

Nei connettori piatti (interni o esterni) la stabilità dalla giunzione tra abutment ed impianto

dipende dalla vite di transfissione. L’incastro è di tipo parallelo ma vi è un certo grado di tolleranza affinché la parte “maschio” e la parte “femmina” si possano adattare correttamente. Questa tolleranza, provocando un’apertura, può essere talvolta all’origine dello svitamento delle parti protesiche o della frattura della vite di transfissione. Se l’esagono è interno allora avremo una stabilità maggiore.

(26)

25 Il cono Morse possiede numerosi vantaggi (Schmitt CM et al. 2014). Dal punto di vista meccanico il collegamento di due coni normalizzati consente un aumento massimo della superficie di contatto garantendo così una maggiore stabilità e limitando il rischio di fratture o di svitamento. I

micromovimenti saranno di conseguenza notevolmente ridotti. Inoltre, grazie alla distribuzione ottimale delle forze lungo l’impianto, diminuisce il rischio di sovraccarico dell’osso peri-implantare ed è possibile far fronte ad alti carichi funzionali con l’utilizzo di impianti relativamente piccoli e sottili.

Dal punto di vista biologico il cono Morse limita la formazione di un gap tra il pilastro e l’impianto, prevenendo così la contaminazione batterica (Scarano A, Lorusso C et al 2016, Scarano A,

Valbonetti L et al. 2016)

Tutto ciò assicura una stabilità dei tessuti molli peri-implantari consentendo il posizionamento di questo tipo d’impianto in posizione infra-crestale e permettendo così una migliore gestione del profilo d’emergenza.

Il platform switching

Una delle problematiche osservate durante la terapia implantare è il riassorbimento di osso crestale peri-implantare durante il primo anno di carico (Albrektsson et al. 2017). Le cause alla base di questo riassorbimento sono ancora incerte ma sono state formulate delle ipotesi che si basano su problematiche di tipo meccanico (stress dovuto al carico masticatorio) e biologico (formazione di un gap tra abutment ed impianto con conseguente invasione e colonizzazione da parte dei batteri).

Il concetto di platform switching è stato scoperto per caso, ed introdotto da Lazzara e Porter nel 2006 Consiste nell’utilizzo di un abutment di dimensioni inferiori rispetto all'impianto e di una connessione di tipo cono morse. Questa configurazione, secondo gli autori, garantirebbe alcuni

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26 vantaggi:

- vantaggio meccanico: uno spostamento delle forze di stress meccanico dalla zona periferica dell’impianto a quella centrale.

- Dal punto di vista biologico: l’indirizzamento dell’infiltrato batterico presente a livello della connessione abutment-impianto, verso la zona centrale dell’impianto, allontanandolo così dall’osso crestale.

Gli studi e le osservazioni presenti in letteratura fanno supporre l’efficacia di questo sistema implantare (Hsu YT et al. 2017, Di Girolamo M. et al. 2016, Kinaia BM et al. 2014)

2.4.4 La superficie implantare

Uno degli interrogativi dell’implantologia moderna è stato quello di scegliere tra impianti a superficie liscia (machined) o impianti a superficie rugosa.

La superficie liscia degli impianti machined allunga i tempi di osteointegrazione poiché limita l’adesione da parte delle cellule coinvolte nel processo di cicatrizzazione, ed inoltre limita il livello di stabilità primaria. D’altro canto però, la scarsa propensione all’adesione cellulare, la rende meno colonizzabile da parte dei batteri.

E’ necessario comunque aprire una parentesi e ricordare che gli impianti dentali sono ricavati a partire da una barra di titanio puro e quindi anche gli impianti machined non sono totalmente lisci, ma presentano in realtà delle microstriature parallele tra loro e circumferenziali all’asse

dell’impianto, dovute alla lavorazione dei macchinari. Queste striature appaiono evidenti ad elevato ingrandimento.

La superficie rugosa presenta viceversa un’aumentata capacità di adesione da parte degli

osteoblasti alla superficie implantare, quindi una maggiore e più rapida osteointegrazione (Shalabi MM et al. 2006). Di contro favorisce maggiormente anche l’adesione e la colonizzazione batterica.

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27 Per passare dalla superficie liscia a quella rugosa sono state messe a punto numerose metodologie tra cui i cosiddetti trattamenti per addizione (plasma torch e trattamenti elettrochimici) e

trattamenti per sottrazione chimica (mordenzatura) o fisica (sabbiatura).

2.5 Impianti sommersi e non sommersi 2.5.1 Impianti sommersi

Iuxta-ossei: hanno un collo liscio che può essere di tipo dritto (il più semplice, descritto da

Branemark) oppure svasato. La base protesica è più larga, per garantire un miglior risultato in caso di creste sottili, prossimità radicolari o concavità ossee. La maggior superficie di contatto tra l’abutment protesico ed il collo implantare ne migliorano inoltre le proprietà meccaniche. Gli impianti a collo liscio necessitano che la sepoltura consenta alla superficie rugosa del corpo implantare di essere a livello osseo e alla superficie liscia del collo di essere a livello gengivale. Endo-ossei: sono privi di collo e solitamente presentano delle microspire. In accordo alla teoria biologica, le microspire permettono una migliore ripartizione delle sollecitazioni a livello della cresta alveolare. Gli impianti senza collo possono essere sepolti in profondità aumentando così il profilo di emergenza nei settori anteriori.

2.5.2 Impianti non sommersi

Trans-gengivali: Il concetto di impianto monoblocco fu sviluppato per la prima volta in Svizzera. Questo tipo ti impianto ha la particolarità di possedere un collo lungo che si estende ad

attraversare la gengiva. L’abutment ha quindi lunghezza minore ed il collegamento tra questo e l’impianto avviene in posizione sovra-crestale. A parte il collo, la forma di questo tipo di impianto è uguale a quello standard, permettendo così anche una compatibilità dei materiali chirurgici. Il sistema trans-gengivale permette di semplificare il processo protesico.

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28 2.5.3 Differenze

Analizziamo adesso quelle che sono le differenze tra questi due tipi di implantologia.

La prima è quella classica, proposta originariamente da Branemark, e si articola attraverso un protocollo chirurgico composto da 2 fasi. Il collo liscio implantare dovrà trovarsi a livello gengivale e non a livello osseo, pena una minore adesione delle cellule ossee.

La messa in carico dell’impianto introduce il concetto di pilastro trans-mucoso, che potrà essere transizionale (pilastro di cicatrizzazione/guarigione) oppure protesico (per avvitamento o cementazione).

Questa tecnica può essere modificata per evitare l’esecuzione di un secondo intervento mucoso e poter stabilire un’adeguata barriera biologica: la modifica consiste nel posizionare l’impianto in una posizione iuxta-crestale o leggermente sovra-crestale per allineare la prima spira a livello osseo minimizzandone il rimodellamento. A questo punto viene inserito l’abutment di guarigione e si attende di poter procedere alla successiva fase protesica.

Il secondo tipo di implantologia, ad una fase chirurgica, prevede invece l’utilizzo di impianti monoblocco. In questo caso il corpo ed il pilastro trans-mucoso sono rappresentati da un unico pezzo: la parte rugosa sarà a contatto con l’osso e la parte liscia a contatto con la gengiva. L’allineamento della prima spira avverrà ad un livello iuxta-crestale mentre la parte coronale dell’impianto si troverà a livello dei tessuti molli (livello iuxta-gengivale).

2.6 Protocolli chirurgici 2.6.1 Protocollo in due tempi

Le indicazioni all’utilizzo di questo protocollo sono:

1) casi in cui il risultato estetico sia particolarmente importante. 2) quando l’impianto è posizionato in un osso di bassa qualità.

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29 3) quando l’impianto è posizionato in un sito che è stato precedentemente aumentato.

4) quando al momento del posizionamento dell’impianto la terapia parodontale non è stata ancora conclusa.

5) quando si utilizzano tecniche di rigenerazione ossea o innesti ossei. 6) in caso di bassa stabilità primaria.

7) nel paziente fumatore.

8) nel paziente con condizioni sistemiche alterate.

Primo tempo chirurgico:

- Incisione e scollamento del lembo

Si esegue l’incisione primaria associata, se necessario, a delle incisioni di rilascio e si solleva un lembo a tutto spessore.

- Preparazione del sito implantare:

La corticale ossea viene perforata utilizzando una fresa ad alta velocità, assicurandoci nel

frattempo un’adeguata irrigazione ed effettuare anche delle piccole pause d’irrigazione. In questo modo, evitiamo di superare la soglia critica di 47°C che potrebbe indurre necrosi ossea a livello del sito implantare.

-Posizionamento dell’impianto: l’impianto viene tolto dal suo confezionamento sterile ed inserito nell’osso

-Posizionamento della vite di copertura: si effettua utilizzando una punta specifica installata sul contrangolo oppure manualmente.

-Riposizionamento e sutura del lembo: il sito chirurgico viene ripulito da tutti i detriti ossei e fibrosi, l’impianto viene sepolto sotto il tessuto molle ed il lembo viene suturato.

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30 Prima di procedere con il secondo tempo chirurgico attendiamo la guarigione (3 mesi nella

mandibola, 6 mesi nella mascella). Secondo tempo chirurgico

-Incisione e scollamento: viene eseguita in modo tale da distribuire al meglio il tessuto

cheratinizzato attorno all’impianto ed esporre la vite di copertura. Rimuoviamo la vite fresando l’osso attorno ad essa.

-Posizionamento della vite di guarigione: la vite di guarigione viene posizionata utilizzando uno specifico cacciavite e deve essere scelta in base allo spessore della mucosa ed al profilo

d’emergenza del dente rimpiazzato. Teoricamente dovrebbe protrudersi per 1-2mm oltre la gengiva.

-Riposizionamento e sutura del lembo: il sito chirurgico viene pulito ed irrigato abbondantemente. A questo punto posizioniamo il lembo adattandolo adeguatamente attorno al pilastro e

suturandolo.

Dopo un’adeguata guarigione del tessuto molle, provvederemo ad applicare la corona protesica.

2.6.2 Protocollo ad un tempo

Nel protocollo ad un tempo viene eliminata la fase di sepoltura dell’impianto; l’impianto viene infatti posizionato ed è subito inserita la vite di guarigione. In questo caso l’impianto non viene sepolto sotto la mucosa ed è quindi maggiormente esposto e sollecitato da forze esterne; nonostante ciò questo protocollo viene utilizzato sempre più spesso e fornisce un tasso di successo nella maggior parte dei casi identico al protocollo a due tempi. (Byrne G 2010)

Quest’ultimo viene utilizzato ad esempio qualora vi sia un rischio di stress meccanico dell’impianto durante la fase di osteointegrazione oppure nel caso in cui vi siano dubbi riguardo il livello

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31 I vantaggi nell’utilizzo del protocollo ad un tempo sono:

- Un unico intervento chirurgico (maggior comfort per il paziente e riduzione dei costi) - Guarigione della mucosa durante il periodo di osteointegrazione

- Diminuzione dei tempi di trattamento implantare

Possiamo però più facilmente incorrere nel rischio di contaminazione batterica qualora il controllo della placca non risulti rigoroso.

Riassumendo, il protocollo ad un tempo può essere indicato nel caso di: - Paziente parzialmente edentulo

- Ottimo controllo della placca - Buona stabilità primaria

- Protesi provvisorie non compressive Controindicato nel caso di:

- Paziente totalmente edentulo (a causa delle elevate forze masticatorie compressive) - Paziente con scarsa igiene orale

- Utilizzo di membrane/procedure di rigenerazione guidata - Scarsa stabilità primaria

(Esposito M et al. 2009)

2.6.3 Protocollo impianti post-estrattivi:

In passato il posizionamento di un impianto in sostituzione di un elemento da estrarre prevedeva un primo intervento in cui veniva eseguita esclusivamente l’estrazione e la gestione dell’alveolo residuo, seguito da un periodo di attesa di guarigione dei tessuti duri e molli (3-6 mesi), al termine del quale veniva eseguito un nuovo intervento per il posizionamento della protesi. Ad oggi,

l’ottimizzazione dei biomateriali, delle superfici implantari e dei protocolli chirurgici ha fatto sì che in determinate situazioni si renda possibile l’inserimento dell’impianto nell’alveolo post-estrattivo.

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32 Qualora infatti il paziente presenti un osso alveolare di adeguata qualità e quantità è possibile procedere all’estrazione dentale ed al posizionamento della protesi in un’unica seduta, senza dover attendere la guarigione dell’osso.

Uno dei vantaggi dell’impianto post-estrattivo consiste nella preservazione del sito estrattivo contribuendo a ridurre così la contrazione dei tessuti, nonché a preservare i piatti corticali ed a prevenire il collasso dei tessuti molli perimplantari (Trombelli L et al. 2008)

I cambiamenti ossei più evidenti avvengono infatti durante i primi 12 mesi dall’estrazione del dente: durante questo periodo si ha una riduzione del 50% della cresta alveolare, e i 2/3 di questa riduzione avvengono entro i primi tre mesi (Schropp L, Wenzel A et al 2003)

La guarigione dell’alveolo con la protesi implantare posizionata presenta le stesse caratteristiche del processo di guarigione degli alveoli estrattivi, mostrando però un vantaggio dovuto al minore quantitativo di osso da formare (Schropp L, Kostopoulos L et al. 2003)

La preventiva riduzione di perdita ossea consente di posizionare impianti aventi lunghezza e diametro maggiori, garantendo quindi una maggiore stabilità.

2.6.4 Protocollo impianti a carico immediato:

Nei pazienti con singola o parziale edentulia, in special modo dei settori anteriori è possibile considerare anche un posizionamento implantare a carico immediato (Gotz W. Et al 2010) in questo caso la protesi viene posizionata il giorno stesso dell’intervento (protocollo diretto) oppure entro i 15 giorni successivi (protocollo indiretto).

Il protocollo a carico immediato presenta sicuramente dei vantaggi poiché consente di accorciare i tempi necessari per il ripristino della funzione estetica e masticatoria, ma altresì degli svantaggi, dovuti alla necessità di monitorare con maggior frequenza il paziente durante le prime settimane post-intervento, all’obbligo di attuare con grande scrupolosità il protocollo e alla necessità di selezionare il paziente rispettando correttamente le indicazioni e le controindicazioni.

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33

3 - FALLIMENTO DELLA TERAPIA IMPLANTARE

3.1 Fallimento precoce e tardivo

Il fallimento della terapia implantare può essere precoce o tardivo.

Il fallimento precoce è quello che si verifica in caso di mancata osteointegrazione dell’impianto e può essere dovuto ad errori nella fase operatoria, come ad esempio un surriscaldamento dell’osso >47°C con conseguente necrosi ossea perimplantare, a mancanza di stabilità primaria, ad un infezione precoce oppure ad un sovraccarico meccanico precoce.

Il fallimento tardivo si verifica invece in una fase successiva a quella di osteointegrazione. Può avere cause di tipo biomeccanico, estetico o biologico (Sadid-Zadeh R et al 2015)

Il fallimento di tipo biomeccanico si verifica nel caso di frattura della protesi implantare, poiché di tipo e forma inadeguata, oppure poichè sottoposta a carichi occlusali eccessivi. (Sanivarapu S et al 2015, Shemtov-Yona K et al 2015)

Secondo Quirynen (1992) e Hoshaw (1994) il sovraccarico dell’impianto potrebbe indurre un riassorbimento osseo, sottoponendo quindi l’impianto a maggiore stress meccanico causato dallo spostamento dei punti di forza e favorendo così l’eventuale frattura.

Il fallimento estetico è riferito in particolar modo ai settori anteriori e può essere dovuto ad esempio ad un errore nella collocazione degli impianti tale da rendere difficoltosa la riabilitazione protesica, ma molto più spesso a recessione gengivale a livello perimplantare o a necessari

interventi di chirurgia resettiva; in entrambi i casi avremo una conseguente esposizione della superficie protesica metallica nella cavità orale (Fuentealba R et al. 2015)

Il fallimento biologico infine è quello legato alla colonizzazione batterica, che scatena una risposta infiammatoria e conseguente distruzione dei tessuti molli e duri perimplantari (Insua A et al. 2017). L’argomento sarà trattato più in dettaglio nei capitoli seguenti.

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4 – REVISIONE DELLA LETTERATURA

4.1 Obiettivi, materiali e metodi

In questa revisione della letteratura si è voluto fare un inquadramento attuale ed aggiornato della malattia peri-implantare al fine di individuarne le cause scatenanti, i fattori di rischio

maggiormente associati ed i criteri diagnostici ad oggi reputati più affidabili. Infine abbiamo concentrato il lavoro di analisi e ricerca della letteratura cercando di identificare le migliori modalità di prevenzione, nonché il tipo di terapia più efficace. Per la ricerca degli articoli è stato utilizzato il motore di ricerca scientifica PubMed, selezionando gli articoli in lingua inglese, analizzando i testi integrali degli articoli più rilevanti e dando la precedenza a revisioni

sistematiche e trial controllati randomizzati (RCT). E’ però emerso che ad oggi, per quanto riguarda la malattia peri-implantare, vi è una scarsità di studi RCT in letteratura e per questo motivo anche svariate revisioni sistematiche hanno dovuto attingere ad un più ampio spettro di tipologia di studio, facendo ad esempio riferimento a studi case series. In una review (Mombelli A et al. 2012) è stato fatto notare che quasi tutti gli studi riguardanti i trattamenti delle peri-implantiti

sull’uomo, non soddisfano i rigidi criteri previsti dai trial controllati randomizzati; molto spesso infatti vi è l’assenza di un vero gruppo di controllo. I trial con il più alto livello di evidenza hanno comparato procedure “test”, ed avevano entrambe un outcome incerto. Inoltre, l’eterogeneità del tipo di studio, dei criteri utilizzati per la definizione della malattia, l’alto rischio di bias, i numerosi criteri di inclusione/esclusione ed anche la durata del follow-up rendono difficoltosa la

comparazione dei vari studi al fine di trarne delle conclusioni specifiche suggerite da un’alta evidenza scientifica.

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35

5 - MALATTIA PERI-IMPLANTARE

5.1 Definizioni

La peri-implantite rappresenta una delle sfide maggiori per l’implantologia. Durante il 1° European workshop on Periodontology del 1993, fu definita come un processo infiammatorio con perdita di osso, attorno ad un impianto osteointegrato e funzionale. Un processo infiammatorio reversibile attorno ad un impianto, senza perdita di osso, viene definito invece mucosite peri-implantare. Il 7° European Workshop on Periodontology del 2011 ha confermato queste definizioni.

5.2 Eziopatogenesi

La malattia perimplantare presenta numerose similitudini con la malattia parodontale. È una malattia ad eziologia multifattoriale, associata alla presenza di un biofilm batterico sottogengivale, che causa una risposta infiammatoria e conseguente danno ai tessuti molli e duri perimplantari (Salcetti JM et al. 1997).

Nella malattia perimplantare e parodontale vi è un’elevata prevalenza di batteri gram-negativi, in particolar modo di quelli facenti parte del complesso rosso (Porphyromonas gingivalis, Treponema denticola, Tannerella forsythia) e arancione (Fusobacterium sp. e Prevotella intermedia), descritti da Socransky e colleghi (Socransky SS et al. 1998).

Si suppone inoltre che anche Staphylococcus aureus (gram positivo) possa rivestire un ruolo importante nella patogenesi di molti casi di peri-implantite (Heitz-Mayfield LJ et al. 2010). In alcuni studi in vitro infatti è stato dimostrato che Staphilococcus aureus presenta una certa affinità per le superfici di titanio (Harris LG et al. 2006).

Nel 1992 Ericsson e colleghi hanno valutato la risposta dei tessuti gengivali e perimplantari ad un deposito di biofilm batterico per la durata di 3 mesi. In entrambi i casi si osservava sanguinamento al sondaggio. La presenza prolungata del biofilm causa lo sviluppo di un infiltrato infiammatorio

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36 nella gengiva e nella fibro-mucosa peri-implantare. I due infiltrati presentano caratteristiche comuni, ma nella fibro-mucosa peri-implantare osserviamo un’estensione maggiore in direzione apicale.

Questo risultato suggerisce che il meccanismo di difesa della gengiva sembra essere più efficace di quello della fibro-mucosa peri-implantare nel prevenire la migrazione apicale del contenuto batterico della tasca.

Inoltre, la vascolarizzazione dei tessuti perimplantari è unicamente sopraperiostale, manca la vascolarizzazione del legamento parodontale. Queste differenze anatomiche comportano differenze nei processi anatomopatologici: la presenza di placca, a livello della mucosa perimplantare, porta ad una perdita ossea maggiore rispetto ai denti naturali e la presenza di cellule infiammatorie si estende fino all’osso, mentre questo non avviene nel parodonto (Abrahamsson I et al. 2003).

In uno studio di Bordin del 2009 è stato osservato che i fibroblasti presenti nel caso di

peri-implantite differiscono notevolmente dai fibroblasti presenti nella parodontite, in riferimento alla loro ridotta secrezione del fattore trasformante TGF beta 1 e dell’inibitore tissutale di

metalloproteinasi-1. È stata inoltre evidenziata un’aumentata secrezione di VEGF e MMP1, rispetto ai fibroblasti parodontali (sia in condizione di salute che in condizione di parodontite). Infine, i fibroblasti di perimplantite e parodontite hanno mostrato un profilo pro-infiammatorio più elevato rispetto a quelli della gengiva sana, con un aumento della secrezione di IL6, IL8 e MCP1.

Da queste osservazioni deduciamo che i fibroblasti potrebbero rivestire un importante ruolo nella patogenesi della perimplantite, promuovendo la vascolarizzazione ed il breakdown cellulare, e di conseguenza la migrazione ed il mantenimento dell’infiltrato a livello del sito. Le citochine

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37 prodotte dall’infiltrato potrebbe poi alimentare il processo infiammatorio attraverso un

meccanismo di auto-nutrimento (Bordin S et al. 2009).

5.3 Differenze tra parodontite e perimplantite

Nonostante numerosi similitudini dal punto di vista clinico ed eziologico, in alcuni studi sono state analizzate lesioni perimplantari provenienti da materiali bioptici umani e confrontate con lesioni parodontali, riscontrando alcune differenze istopatologiche significative: l’estensione apicale dell’infiltrato cellulare infiammatorio era maggiore nelle perimplantiti rispetto alle parodontiti, inoltre plasmacellule e linfociti erano le specie cellulari più rappresentate in entrambe le lesioni, ma i granulociti neutrofili ed i macrofagi ricorrevano in proporzione maggiore nelle perimplantiti. Fu osservato poi che mentre i granulociti neutrofili presenti nella parodontite risiedevano

esclusivamente nelle aree associate all’epitelio della tasca, la loro localizzazione nelle lesioni perimplantari si estendeva a compartimenti perivascolari in porzioni apicali distanti dall’area della tasca. La porzione apicale dell’infiltrato cellulare infiammatorio nelle perimplantiti inoltre era spesso scoperta e rivolta verso l’area della tasca, e si trovava in diretto contatto con il biofilm batterico presente sulla superficie dell’impianto. (Berglundht et al. 2011)

5.4 Fattori di rischio

Vi sono numerosi fattori di rischio associati allo sviluppo della malattia peri-implantare. Alcuni sono legati al paziente, altri rappresentano fattori di rischio locali.

Lo studio di Heitz-Mayfield del 2008 sui fattori di rischio per la peri-implantite ha però messo in evidenza il fatto che il numero di studi longitudinali presenti in letteratura a riguardo è limitato e che pertanto nel suo studio si è rivelato necessario ricorrere anche all’analisi di studi retrospettivi e cross-section.

(39)

38 Igiene orale

L’igiene orale rappresenta certamente uno dei fattori di rischio sui quali si è posta la maggiore attenzione per quanto riguarda l’insorgenza della malattia peri-implantare. In uno studio prospettico condotto da Lindquist e colleghi nel 1997 si è constatata la correlazione tra

insufficiente igiene orale e perdita di osso perimplantare. Inoltre, la perdita di osso peri-implantare nei pazienti fumatori con inadeguata igiene orale, si è rivelata essere tre volte maggiore rispetto ai pazienti non fumatori.

In un altro studio di Ferreira e colleghi del 2006 si è osservato che la presenza di sanguinamento al sondaggio su più del 30% dei siti implantari, associata ad una scarsa igiene orale, aumenta la frequenza di sviluppo di mucosite peri-implantare e peri-implantite. In questo stesso studio i ricercatori hanno constatato inoltre una forte correlazione tra la presenza di lesioni peri-implantari e l’indice di placca di Loe nel caso in cui quest’ultimo sia superiore o uguale a 2.

Fumo

In numerosi studi e review sistematiche è stata osservata un’associazione tra tabagismo e malattia peri-implantare. (Heitz-Mayfield LJ 2008, Strietzel FP et al 2007, Lindquist LW et al. 1997, Bain CA et al. 1993, Bain CA 1996).

Parodontite

Molti pazienti edentuli, a seguito di malattia di malattia parodontale, sono stati riabilitati con il posizionamento di impianti. Poiché la malattia peri-implantare può insorgere vari anni dopo il raggiungimento di una riuscita osteointegrazione, il tipo di studio più appropriato per valutare questo tipo di fattore di rischio è uno studio prospettico dalla durata di almeno cinque anni. In numerosi studi è stata osservata una correlazione tra malattia parodontale e malattia

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peri-39 implantare (Karoussis IK et al. 2007, Schou S et al. 2006, Quirynen M et al. 2007, Van der Weijden GA et al. 2005)

Nello studio del 2005 di Van der Weijden è stato valutato il successo a lungo termine (superiore a 5 anni) di impianti posizionati in pazienti parzialmente edentuli con una storia di parodontite. Gli autori hanno concluso che il successo ottenuto nei pazienti con una storia di parodontite sia significativamente inferiore rispetto a quello ottenuto nel caso di pazienti senza precedenti di malattia parodontale.

Anche una revisione sistematica del 2009 di Renvert e colleghi basata sull’analisi di quasi mille articoli ha concluso che una storia di malattia parodontale rappresenta uno dei principali fattori di rischio per la peri-implantite. Ad ogni modo è bene ricordare che molti di questi studi sono stati condotti con l’utilizzo di diversi protocolli e presentano diverse variabili confondenti, quali il fumo e l’igiene orale. Attualmente vi è un consenso comune nell’inserire la parodontite tra i fattori di rischio ma resta auspicabile una più approfondita ricerca futura.

Diabete

Alcuni autori si sono interrogati sulla possibile correlazione tra malattia diabetica ed insorgenza della malattia per-implantare. Questa malattia può indurre alterazione del metabolismo tissutale e della risposta infiammatoria, esponendo pertanto il paziente ad un aumentato rischio di

aggressione da parte dei batteri patogeni.

Analizzando la letteratura recente è emerso che una review sistematica del 2017 ha suggerito che i pazienti diabetici potrebbero avere un maggior rischio di sviluppo di malattia parodontale (Monje A et al. 2017).

Anche in una review del 2016 è emersa questa possibile correlazione tra diabete e malattia peri-implantare (Turri A et al. 2016).

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40 In una review sistematico del 2009 fu sottolineato però il fatto che nel caso di diabete ben

compensato (adeguato controllo della glicemia e dell’emoglobina glicata) , anche i pazienti diabetici possono raggiungere un buon livello di osteointegrazione implantare e mantenerlo stabile nel tempo. (Javed F et al. 2009). Questo concetto è estrapolabile anche dalle review del 2016 e 2017, dove infatti si parla di “diabete di tipo 2 mal compensato” ed “iperglicemia”. L’osservazione del legame tra diabete e peri-implantite necessita pertanto di ulteriori studi.

Fattori genetici IL1

Numerosi ricercatori si sono interrogati sulla possibile correlazione tra il polimorfismo dei geni codificanti per questa molecola e l’insorgenza della malattia peri-implantare; ad oggi però gli studi presenti in letteratura appaiono fornire risultati contrastanti.

L’interleuchina IL-1 ed il suo inibitore specifico (IL1-ra) è conosciuta per il suo ruolo chiave nella risposta infiammatoria.

In uno studio del 2006 condotto su 120 pazienti si è osservata una possibile relazione tra il polimorfismo di IL-1 e presenza di perimplantite. Ad ogni modo però gli autori sottolineano la necessità di conferma da parte di ulteriori studi longitudinali eseguiti su un più ampio campione di soggetti.

In un altro studio si è osservato invece che nel caso di fumatori pesanti (>20 sigarette al giorno) e presenza di un particolare polimorfismo del gene IL-1, vi potrebbe essere un incrementato rischio per la perdita di osso peri-implantare (Feloutzis A et al. 2003).

Osservazioni simili sono state evidenziate anche in un studio del 2005, indicando un possibile effetto sinergico tra fumo ed alcuni polimorfismi di IL-1 nei riguardi del fallimento precoce della terapia implantare (Jansson et al. 2005).

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41 genotipi di IL-1 e la malattia peri-implantare; né tantomeno la presenza di un effetto sinergico nel caso di fumatori pesanti. La questione resta pertanto ancora incerta e necessita di ulteriori approfondimenti.

Alcol

Uno studio prospettico (a 3 anni) del 2005, eseguito su 185 pazienti, ha evidenziato che il consumo quotidiano di più di 10g di alcol potrebbe avere un’influenza negativa sul successo a lungo termine del trattamento implantare, inducendo difatti un perdita di osso peri-implantare (Galindo-Moreno P et al. 2005).

Superficie implantare

Nel mercato attuale vi è un ampia varietà di sistemi implantari. Le differenze possono riguardare il passo delle spire, la composizione chimica della superficie implantare, oppure la rugosità della fixture. La maggior parte degli impianti oggi utilizzati presenta una superficie a rugosità media (compresa tra 1 e 2 micrometri). In numerosi studi si è cercato di capire come la superficie dell’impianto potesse influenzare l’insorgenza della perimplantite. (Albrektsson et al. 2004) Ellegaard e colleghi nel 2006 hanno osservato che in caso di superficie rugosa, si assiste ad una maggiore perdita di osso.

Astrand e colleghi concordano con questa osservazione, dopo aver valutato alcuni pazienti a 3 anni confrontando impianti a superficie liscia con impianti a superficie rugosa; la perimplantite risultava significativamente più incidente attorno agli impianti con superficie rugosa (Astrand et al. 2004).

Le superfici rugose infatti da un lato promuovono l’adesione degli osteoblasti favorendo

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42 molti sistemi implantari presentano un collare a superficie liscia, nel tentativo di ridurre così l’accumulo di placca

Secondo Heitz-Mayfield invece, l’associazione tra rugosità di superficie ed insorgenza di perimplantite resta ancora controversa a causa della scarsità di studi effettuati e per l’inconsistenza dei risultati (Heitz-Mayfield LJ 2008).

Anche secondo l’articolo di de Bruyn e colleghi del 2017, l’impatto della rugosità della superficie implantare in riferimento al rischio di peri-implantite e perdita di osso appare limitato e

caratterizzato da un’importanza clinica minimale.

Eccesso di cemento protesico sull’impianto

Recenti studi pubblicati in letteratura identificano nuove forme di peri-implantite legate a reazioni da corpi estranei. In particolare in presenza di protesi di tipo cementato l’operatore non è in grado di controllare la quantità di cemento che quindi spesso fuoriesce dalla corona protesica e viene spinto in profondità all’interno del solco gengivale causando una reazione infiammatoria. Un eccesso di cemento residuo dopo la fissazione della protesi è stato associato a segni clinici e radiografici di peri-implantite.

In uno studio prospettico del 2009 si è cercato di mettere in risalto la correlazione tra un eccesso di cemento ed un incremento nel rischio di peri-implantite riscontrando un collegamento tra le due cose nell’81% dei casi. Dopo la rimozione del cemento in eccesso, non si osservavano più segni di peri-implantite nel 74% dei casi (Wilson TG Jr 2009).

Un altro studio conferma questi risultati, paragonando la presenza di cemento in eccesso alla legatura eseguita a fini sperimentali per indurre l’insorgenza di una lesione peri-implantare (Renvert S et al. 2009).

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