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Charles Dickens: uno sguardo critico sulla società vittoriana

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Academic year: 2021

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Indice

Introduzione

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Charles Dickens: la vita

2 Charles Dickens e i suoi Tempi Difficili

2.1

La trama in breve

2.2 Coketown: la città-fabbrica

2.3 La fabbrica e la società industriale

2.3.1.

«The Hands»: “le Braccia”

2.3.2.

La miseria della classe lavoratrice

2.4 Il rapporto tra la classe padronale e gli operai

2.4.1.

Dickens e il sindacalismo

2.5 La critica al sistema educativo e la metafora del circo

3 Our Mutual Friend: il mondo disgregato

3.1 Dickens e il dark novel

3.2 La trama del romanzo

3.3 La Londra di Dickens

3.3.1.

Prima di Our Mutual Friends. La Londra

di Bleak House

p. 3 p. 5 p. 15 p. 19 p. 21 p. 33 p. 38 p. 48 p. 52 p. 60 p. 60 p. 72 p. 76 p. 83 p. 29 p. 29

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3.3.2.

Londra in Our Mutual Friend

3.4 Un affresco della Società Vittoriana

3.4.1.

Dickens e la New Poor Law

3.4.2.

«La Voce della Buona Società»

4 Il messaggio del romanziere: Gissing e Orwell e

l’in-terpretazione di Dickens

5 Conclusioni: Dickens oggi

6 Bibliografia

p. 92 p. 102 p. 102 p. 109 p. 113 p. 119 p. 122

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Introduzione

La letteratura dickensiana è caratterizzata da una grande quantità e varietà di opere e si distingue per la qualità stilistica dell’autore, celebre per le descrizioni del contesto urbano e della società inglese del XIX secolo, oltre che per l’impegno sociale legato alla denuncia delle condizioni di miseria e sfruttamento in cui vivevano le fasce più deboli della popolazione. Una qualsiasi delle sue opere potrebbe dare, anche da sola, una fotografia della realtà dell’epoca, mentre uno sguardo più ampio sulla sua produzione letteraria permette di ricostruire le trasformazioni storiche susseguitesi durante l’arco della sua vita.

L’ampia attività di Dickens, che varia dalla composizione di articoli di giornale e racconti brevi fino ai romanzi diventati ormai capisaldi della narrativa mondiale (come per esempio Oliver Twist, David Copperfield o A Christmas

Carol), passa anche attraverso racconti che, se pur meno noti, riescono

comunque nel loro intento critico di denuncia delle contraddizioni contemporanee.

Tra questi ultimi, sono stati qui presi in esame più nello specifico due romanzi: il primo è Hard Times, l’unico esempio dickensiano di romanzo industriale, in cui lo scrittore trattò direttamente le conseguenze sociali dell’industrializzazione e l’ambiente della città-fabbrica; il secondo, Our

Mutual Friends, ha permesso invece di individuare l’evoluzione della Londra

vittoriana e di ricomporre, attraverso uno sguardo retrospettivo che parte appunto dall’ultimo romanzo portato a termine dall’autore, l’evoluzione dello stesso pensiero di Dickens rispetto ai cambiamenti della società dell’epoca. Con l’analisi di questi romanzi si intrecciano due articoli pubblicati dal

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romanziere sul giornale Household Word. On strike (febbraio 1854) offre la testimonianza diretta dell’autore dello sciopero di Preston, su cui si basava anche la stessa stesura di Hard Times; il secondo, Great Invasion, del 10 aprile 1852, racconta le impressioni di Dickens rispetto alla forte urbanizzazione che caratterizzò la City della metà del secolo XIX, la quale, oltre alle conseguenze ambientali dell’espansione delle periferie, trasformò la città stessa, mutando non solo i luoghi ma anche le persone che la abitavano.

All’Interno di quest’analisi sono stati messi a confronto alcune opere, tra cui

Oliver Twist, Dombey and Son e, più nello specifico, Bleak House, che hanno

permesso di costruire un’ampia panoramica della vita londinese dell’epoca. Inoltre, proprio da Bleak House a Our Mutual Friends è possibile individuare l’ulteriore maturazione del pensiero dickensiano: una maturazione che prende forma nel crescente pessimismo dello scrittore, portandolo a sviluppare una nuova consapevolezza. La testimonianza storica contenuta all’interno delle vicende, dei personaggi e dei luoghi tratteggiati da Dickens disvela le trasformazioni e le contraddizioni di un’epoca che ha lasciato una traccia profonda nella storia dell’essere umano fino alla società in cui viviamo noi oggigiorno.

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1 Charles Dickens: la vita dell’autore

Charles John Huffam Dickens nacque il 7 febbraio 1812 a Portsmouth, secondo di otto figli, da John Dickens, impiegato all'Ufficio Stipendi della Marina Inglese, e da Elizabeth Barrow. Charles visse la prima infanzia tra Portsmouth, Londra e Chatam, nel Kent, in anni profondamente segnati dalle condizioni di costante precarietà economica della famiglia e dalle sofferenze e umiliazioni che ne derivarono. Nel 1823, la famiglia Dickens, molto impoverita, fu costretta nuovamente a trasferirsi a Londra, a Camden Town, all’epoca uno dei quartieri più poveri della City.

A dodici anni, Charles fu mandato a lavorare in un magazzino di lucido di scarpe, dove cominciò a guadagnarsi da vivere e ad aiutare la famiglia. Questo periodo lasciò una traccia indelebile nella sua memoria, da un lato pregiudicando il rapporto con la madre (come affermò l’autore in età adulta: «non dimenticherò mai che mia madre fece di tutto perché fossi rimandato a lavorare»1), ma, dall’altro lato, permettendogli di sviluppare una sensibilità

particolare rispetto alle condizioni delle persone più deboli e, in particolare, dei bambini. Tutte le esperienze della gioventù, così profondamente traumatiche, sarebbero poi riemerse più volte nei suoi romanzi in forma più o meno dissimulata: è, per esempio, il caso della dolorosa iniziazione alla vita del bambino protagonista in Oliver Twist2, dove il senso di ingiustizia subita fu trasposto dal piano personale a quello sociale. La miseria vissuta e il lavoro in fabbrica portarono il futuro romanziere ad avere una particolare attenzione per

1 J. Forster, La vita di Charles Dickens, REA, L’Aquila, 2007, p.35. 2 C. Dickens, Le Avventure di Oliver Twist, Mondadori, Milano, 2004.

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la condizione della classe operaia che, nel tempo, divenne uno dei temi principali delle sue opere3. Si può affermare che i motivi umani e quotidiani

delle fasce più basse della società, protagonisti dell’opera dickensiana, risalgono in gran parte a impressioni e ricordi dell’infanzia e della prima adolescenza4.

Nel febbraio del 1824, John Dickens, dichiarato debitore insolvente, venne imprigionato nel carcere della Marshalsea, a Londra, dove fu seguito dalla moglie e dai quattro figli più piccoli, con l'eccezione di Charles che, nel frattempo, continuò a lavorare in fabbrica, nella Warren's Blacking Warehouse5. Si trattò per il ragazzo di una nuova, dolorosa e indelebile

esperienza, con cui lo scrittore, negli anni della maturità, sarebbe tornato a confrontarsi, facendo della prigione il centro simbolico di Litttle Dorrit (La

Piccola Dorrit) e dell’imprigionamento la metafora di una difficile ricerca

d’identità nel mondo borghese6. Dopo pochi mesi di carcerazione, John

Dickens uscì da Marshalsea, grazie a una provvidenziale e inattesa eredità ricevuta da sua madre dopo la morte, che gli consentì così di pagare i debiti e ridare una casa alla sua famiglia.

All'età di quindici anni Charles, al termine degli studi inevitabilmente molto irregolari, trovò lavoro come impiegato presso uffici legali, prima al Lincoln’s

Inn e poi al Gray’s Inn. Nel 1829, insoddisfatto di una professione legata al

mondo dei codici e degli avvocati, iniziò a collaborare con l'agenzia The

Mirror of Parliament (Lo Specchio del Parlamento), fondata da suo zio e, nello

stesso periodo, iniziò a studiare stenografia e divenne cronista parlamentare

3 C. Izzo, Autobiografismo di Charles Dickens, Neri pozzi Editore, Venezia, 1954, p. 11-12. 4 Ivi, p.49.

5 C. Pagetti, Cronologia della vita e delle opere, in C. Dickens, Il Nostro Comune Amico, ET Classici, Torino, 2014, p. XXV.

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del quotidiano The True Sun7. Nelle pieghe dell’alta società londinese, tra

impiegati e giornalisti, fra avvocati, uomini d’affari e politici, Dickens maturò le prime esperienze sociali e riuscì, come scrittore, a rappresentare con inimitabile arte pregi e difetti, vizi e privilegi, autoesaltazioni e servilismi della nascente classe della società industriale: il ceto medio-borghese.

Charles nella sua vita riuscì, sfruttando le opportunità che il mondo moderno offriva a un piccolo borghese, ad attraversare le varie classi sociali intermedie, raggiungendo, nel corso di pochi anni, lo status di ricco gentleman e stimato intellettuale. Questo passaggio avvenne senza che il romanziere mutasse nella sostanza il proprio punto di osservazione della realtà: ciò che altrimenti avrebbe potuto minare la sua peculiare capacità di dare risalto alla miriade di universi umani che costellavano la società vittoriana. Di qui la possibilità di rintracciare proprio nella singolarità dell’esperienza di vita del romanziere l’origine della sua caratteristica angolazione di prospettiva, a con esso un approccio più ampio alla complessità e alle contraddizioni della società vittoriana.

Infatti, anche se ormai diventato ricco famoso e socialmente più vicino alla classe dominante che a quella d’origine, riuscì a mantenere vivo in sé il ricordo della povertà subita in infanzia, facendo traboccare dalle pagine dei suoi romanzi le sofferenze e le esperienze umane vissute8. È come se Dickens

narrasse i fatti quotidiani della realtà mettendoli in continuo collegamento con la memoria delle sue drammatiche vicende: la casa nello slum e l’incarcerazione del padre, lo sfruttamento e la fame subiti nel periodo del lavoro in fabbrica, furono tutti ricordi che permisero allo scrittore di conservare

7 C. Pagetti, Cronologia della vita e delle opere, in C. Dickens, Il Nostro Comune Amico, ET Classici, Torino, 2014, p. XXVI.

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un forte livello di empatia con le classi più misere della società inglese9.

Il 1º dicembre 1833 pubblicò anonimamente il suo primo bozzetto sul Monthly

Magazine. Nell'agosto del 1834 fu assunto come cronista dal Morning Chronicle, dove iniziò la sua carriera letteraria. Invitato dal direttore di questo

giornale scrisse, sotto lo pseudonimo Boz, alcuni saggi umoristici che pubblicò nel 1835 in un volume dal titolo Sketches by Boz (I Bozzetti di Boz). Si tratta di una raccolta di articoli, pezzi di costume, inchieste, racconti che il giovane e prolifico giornalista aveva messo insieme fino ad allora10.

Nel 1837 fu pubblicato il primo numero di Bentley’s Miscellany, di cui Dickens fu redattore per due anni, in cui venne pubblicata la prima puntata di Oliver

Twist (1837-39). A questo romanzo fece seguito la richiesta di preparare una

serie di episodi da pubblicare in venti puntate mensili, come commento ad altrettante illustrazioni. In questo frangente, Dickens rivendicò la sua autonomia artistica, pretendendo che fossero le illustrazioni a seguire il testo e non viceversa. Gli episodi, così raccolti, divennero il celebre e popolare

Pickwick Papers (Il Circolo Pickwick). Nel 1839 terminò la pubblicazione di

un altro romanzo, Nicholas Nickleby (1838-1839). Nel 1840 lanciò la pubblicazione di Master Humphrey’s Clock, un settimanale da lui stesso ideato ma destinato a breve durata e scarso successo, nonostante fosse servito da trampolino di lancio per la diffusione di The Old Curiosity Shop. Nel 1841 terminò il romanzo storico Barnaby Rudge (1841), incentrato sulle manifestazioni violente avvenute a Londra oltre mezzo secolo prima, passate alla Storia come i “Gordon Riots”. Infatti, nel giugno del 1780 la popolazione londinese, dopo aver inizialmente protestato contro alcune leggi emanate in

9 V. De Simone, Introduzione, in C. Dickens, Le Due Città, Newton Compton, Roma, 2016, p. 2.

10 R. Runicni, Dal Resoconto al racconto le origini giornalistiche della scrittura

dickensiana; in M. T. Chialant - C. Pagetti, La città e il teatro. Dickens e l'immaginario vittoriano, Bulzoni Editore, Roma, 1988, p. 41.

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favore della minoranza cattolica (il Catholic Relief Act del 1778), insorse in una rivolta generale contro lo stato di miseria e oppressione cui era costretta. Dal 2 al 10 giugno l’intera città fu messa a ferro e fuoco: furono saccheggiate le case dei ricchi, furono attaccate caserme della cavalleria e stazioni della polizia furono date alle fiamme; alcune prigioni e case di correzione furono distrutte, con la liberazione dei detenuti, mentre furono tentati ripetuti assalti alla Banca d’Inghilterra. La rivolta fu repressa nel sangue: la polizia e l’esercito provocarono 285 morti e 170 feriti gravi tra i manifestanti; furono arrestate 450 persone e ne furono processate 160, di cui 62 condannate a morte (per 32 di queste, la pena fu commutata con la detenzione nelle colonie penali)11.

Nelle considerazioni su a questo episodio storico Dickens palesò la sua vicinanza alle posizioni politiche più moderate: nonostante avesse simpatia per i ceti inferiori e un sincero desiderio di migliorare le loro condizioni di vita, nei fatti era schierato dalla parte della classe più forte. Rifacendosi a una concezione tipica della borghesia, temeva fortemente ogni protesta violenta da parte della massa degli sfruttati; la quale, se avesse rivendicato con forza il proprio diritto di esistere dignitosamente, avrebbe rischiato di abbattere l’ordine costituito e la posizione di potere della stessa classe borghese12.

L’anno successivo partì per gli Stati Uniti con la moglie Catherine (con cui si era sposato nel 1836). Dickens era un giovane radicale, pieno di speranze: dall’America tornò un uomo disilluso e politicamente scettico rispetto all'individualismo e al mercantilismo statunitense, avendo visto con i propri occhi l’odiosa condizione di schiavitù in cui, soprattutto in Virginia, viveva la popolazione afroamericana. Al ritorno pubblicò i saggi American Notes (Taccuini Americani), aspramente critici nei confronti delle forme di civiltà del

11 E. P. Thompson, Rivoluzione Industriale e classe operaia in Inghilterra, Vol. 1, Il Saggiatore, Milano, 1968, p. 57.

12 M. R. Cifarelli, Introduzione, in C. Dickens, Tempi Difficili. Per questi tempi, Einaudi, Torino, 2014, p. XXI.

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nuovo mondo, e il romanzo Martin Chuzzlewwit (1843), in cui, con accenti ancora più grotteschi e violenti, diede voce alla sua delusione verso la società statunitense, in quanto profondamente legata all’ideologia capitalista e utilitarista.13 Il 19 dicembre uscì A Christmas Carol (Canto di Natale), il primo

dei popolarissimi racconti pubblicati in occasione di Natale. Entro il 24 dicembre furono vendute oltre 6.000 copie.

In preda ad una momentanea crisi creativa, partì per un periodo di riposo in Italia, soggiornando a Genova tra il 1844 e il 1845, e visitando diverse città della penisola, tra cui La Spezia, Carrara, Pisa, Firenze, Venezia, Milano, Mantova, Roma e Napoli. Il resoconto di questi viaggi costituì il materiale per il suo libro Pictures from Italy. Fu nella lunga tappa genovese, nell'estate del 1844, che scrisse The Chimes (Le campane).

Nel corso di un altro viaggio in Francia e Svizzera, cominciò a scrivere

Dombey and Son (Dombey e figlio), pubblicato tra il 1847 e il ‘48. Incentrato

sul tema dell’avidità e del potere del denaro nella società contemporanea, fu questo il primo grande romanzo della maturità, in cui era presente una visione più ampia e complessa di un mondo ormai organizzato sui precetti del commercio, da indagare alla luce dei nuovi interessi di potere all’origine dei profondi cambiamenti sociali. Apparso pochi anni prima della Grande Esposizione del 1851, simbolo dell’autoesaltazione del progresso tecnico e industriale, il romanzo cercò di rappresentare l’adattamento della metropoli londinese alle necessità dettate dalla modernità, che comportava l’annullamento dell’essere umano nell’idolo delle merci e della macchina14.

L’idea di scrivere una biografia si risolse in un nuovo romanzo, David

Copperfieeld, dove confluì molto dell’originale materiale riguardante la

13 C. Izzo, Autobiografismo di Charles Dickens, cit., p. 18-19.

14 R. Runcini, Illusione e paura nel mondo borghese da Dickens a Orwell, Editori Laterza, Bari, 1968, p. 79.

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propria vita. Nell'opera autobiografica si possono riconoscere personaggi e situazioni che lo stesso Dickens aveva conosciuto e vissuto in prima persona. In questi anni, tra il 1848 e il 1849, s’intensificarono le sue iniziative pubbliche sia in ambito teatrale (organizzò, infatti, numerosi spettacoli insieme all’amico romanziere Edward Bulwer-Lytton) che giornalistico. Nel marzo del 1848, nonostante gravi problemi familiari e difficili questioni da risolvere nella sua cerchia di amici, Dickens riuscì comunque a portare avanti il progetto di un giornale periodico battezzato Household Words, con l'intento di mescolare la narrativa e la polemica contro le ingiustizie dell’età vittoriana15. Nel 1850 uscì

il primo numero del periodico, destinato a sopravvivere per dieci anni, fino a che il dissenso con gli editori provocò la chiusura e la continuazione con il nuovo titolo All the Year Round.

Dickens, nel 1852, cominciò la pubblicazione in fascicoli di Bleack House (Casa Desolata), un romanzo incentrato sul potere disumanizzante della burocrazia e dell'amministrazione giudiziaria, nella Londra sommersa dai liquami e nel pieno di una crisi igenico-sanitaria. È da questo romanzo in poi che si può notare un cambiamento nell’autore, che sembrava aver sviluppato uno sguardo sempre più disilluso e negativo nei confronti della realtà circostante.

Nel 1854 scrisse Hard Times (Tempi Difficili), poche settimane dopo che ebbe assistito a uno sciopero a Preston. La dedica iniziale a Carlyle segnalava al lettore la tradizione culturale entro la quale il testo ambiva a situarsi: quell'umanesimo antirazionalista di ascendenza romantica di cui proprio Carlyle, insieme ad Edmund Burke, S. T. Coleridge e John Ruskin, era a quei tempi il portavoce più rappresentativo16.

15 C. Pagetti, Cronologia della vita e delle opere, in C. Dickens, Il Nostro Comune Amico, cit., p. XXVI.

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La dichiarazione di guerra dell'Inghilterra e della Francia alla Russia e la successiva Guerra di Crimea, aggravarono il suo pessimismo sociale, espresso nelle pagine di Household Words in reiterate denunce del malgoverno e della corruzione politica.

Nel 1855 si recò a Parigi con l'intento di studiare i meccanismi della speculazione finanziaria nel mercato dei titoli azionari. Al suo ritorno cominciò a lavorare a Little Dorrit (La piccola Dorrit), romanzo incentrato sulla simbologia sociale della città-labirinto e della prigione. Il racconto, infatti, è ambientato nello stesso carcere londinese dove era stato imprigionato il padre. Nell'ultima parte del 1856 si dedicò alla messinscena del dramma di Wilkie Collins The Frozen Deep, sulla sfortunata spedizione polare di Sir John Franklin. L'anno successivo recitò l'opera di fronte alla regina Vittoria, la quale, in seguito, si congratulò tramite una lettera con lo scrittore. Durante l'estate il dramma teatrale fu rappresentato a Manchester in altri tre eventi17. Nel 1857 andò nuovamente a Parigi, dove visse un'intensa esperienza dell’alta società, venendo a contatto con i maggiori scrittori dell'epoca, tra cui Georje Sand e Alexandre Dumas. Durante il 1858 si separò definitivamente dalla moglie e, spinto da esibizionismo e avidità di denaro, iniziò un viaggio di conferenze e letture pubbliche dei suoi romanzi, sia in Inghilterra che in Irlanda. Nel 1859, influenzato dalla lettura di The French Revolution di Carlyle, scrisse A tale of two Cities (Le due città), romanzo storico ambientato a Parigi e Londra, sullo sfondo della Rivoluzione Francese del 1789.18

Lasciò Londra nel 1860 per andare a vivere nei pressi di Chatam, nel Kent, dove aveva passato gli anni più belli della sua giovinezza e i cui ricordi gli avevano fatto sviluppare peculiari capacità d’immaginazione e rappresentazione simbolica. Qui iniziò a scrivere Great Expeectations (Grandi

17 Ivi, p. XXIX.

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Speranze), uno dei suoi romanzi di maggiore complessità sociale in cui analisi critica e percorso di maturazione individuale si fondevano perfettamente in un'equilibrata architettura narrativa19.

Tra il 1863 e il 1864 scrisse Our Mutual Friends (Il nostro comune amico), opera nella quale il tono introspettivo che aveva caratterizzato il precedente romanzo si aprì a una nuova ampiezza di stili e linee narrative espressive di più voci e punti di vista, riutilizzando molte tecniche narrative usate in precedenza ma in una nuova forma.

Il 9 giugno 1865 restò coinvolto nell'incidente ferroviario di Staplehurst, nel corso del quale sei carrozze del treno sul quale Dickens viaggiava caddero da un ponte in riparazione; l'unica carrozza di prima classe che rimase sul ponte fu proprio quella in cui si trovava lo scrittore, che comunque ricevette un trauma nervoso dal quale non si riprenderà mai del tutto20. Sebbene fosse

afflitto da gravi disturbi cardiaci, il romanziere iniziò, nell'aprile del 1866, una nuova tournée di letture pubbliche a pagamento, e il successo fu stupefacente.

Mugby Junction, la sua storia di Natale, non a caso incentrata attorno ad un

incidente ferroviario, riuscì a vendere entro Natale quasi trecentomila copie. Nel 1867 si recò nuovamente negli Stati Uniti, per una serie di letture delle sue opere, durante le quali incontrò E. A. Poe; al suo ritorno iniziò un giro di conferenze in Gran Bretagna che prevedeva più di cento incontri con il pubblico. Dopo oltre settanta apparizioni in diverse città fu colto da un malore a Liverpool e rientrò così a Londra.

Nel marzo del 1870 pubblicò la prima puntata di The Mistery of Edwin Drood (Il mistero di Edwwin Drood), un romanzo dallo stile poliziesco. Lo stato di salute dello scrittore peggiorò giorno dopo giorno e, alla fine, gli fu

19 J. H. Miller, Charles Dickens: the world of his novels, Harvard university Press, Cambridge Mass., 1958, p. 254.

20 C. Dickens, In luogo della prefazione, 2 settembre 1865, in C. Dickens, Il Nostro Amico

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diagnosticato un attacco di paralisi. Durante l'anno i mali fisici aumentarono fino all'emorragia celebrale che lo colse l'8 giugno del 1870. Il giorno seguente morì. Venne sepolto il 14 giugno nell’Abbazia di Westminster, trasportato da un treno speciale, nell'angolo dei poeti (Poets' Corner). In settembre uscì il sesto e ultimo fascicolo di Edwin Drood, senza che il mistero di cui si parla nel titolo (l’assassinio del protagonista), fosse stato risolto.

Nel 1871 fu pubblicata la raccolta Christmas Stories (Racconti di Natale), apparsi nel corso degli anni in Household Words e All the Year Round21.

21 C. Pagetti, Cronologia della vita e delle opere, in C. Dickens, Il Nostro Comune Amico, cit., p. XXXI.

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2 Charles Dickens e i suoi Tempi Difficili

«Indi i figli di Urizen lasciarono l’erpice e l’aratro, il telaio, e il martello e il cesello e il regolo e i compassi…

E tutte le arti di vita essi mutarono in arti di morte.

La clessidra, spregiata perché il modo semplice del suo operare era il modo di operare dell’aratore; e la ruota

che solleva l’acqua nelle cisterne, spezzata e data alle fiamme,

perché il modo del suo operare era simile al modo di operare dei pastori, e inventate in loro vece ruote intricate, ruote senza ruote,

per confondere con la loro eccellenza i giovani, e legare a fatiche di giorno e di notte le miriadi di Eternità, che potessero limare e pulire l’ottone e il ferro ora per ora, in laboriosa opera,

tenute all’oscuro dell’uso affinché potessero spendere i giorni della saggezza in miseranda fatica, al fine di ottenere un gramo tozzo di pane,

e ignare, vedere una piccola parte e crederla il Tutto,

e chiamarla una dimostrazione, cieche ad ogni semplice norma di vita.»22

Il romanzo «Tempi Difficili. Per questi tempi» fu pubblicato da Charles Dickens, a puntate sulla rivista dello stesso autore «Household Words», tra l'aprile e l'agosto del 1854, scritto sotto la pressione di un’imprecisata idea che lo aveva «afferrato con violenza alla gola»23.

Il titolo Tempi Difficili e il suo sottotitolo Per questi tempi, inserirono con forza

22 Poesia di William Blake, I Figli di Urizen.

23 R. Bonadei, Paesaggio con figure. Intorno all'Inghilterra con C. Dickens, Jaka Book, Milano, 1996, p. 119.

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17 la pubblicazione nell'acceso dibattito ideologico e politico dell'età vittoriana riguardante le condizioni sociali, materiali e spirituali dell'Inghilterra, nel periodo che vedeva prendere forma le prime sostanziali conseguenze della rivoluzione industriale. Il romanzo industriale assumeva, in un momento storico segnato da grandi trasformazioni economiche e conflittualità sociali irrisolte, un valore di denuncia che tendeva a mostrare le pesanti incongruenze sociali e i livelli di emarginazione e miseria prodotti dall'espansione industriale. Tempi Difficili diventò una sorta di “romanzo industriale per eccellenza”24, in quanto rappresentava «un esame completo e creativo della

filosofia dominante dell'industrialismo […] un'analisi più che

un'esperienza»25. Com’è stato osservato da Raymond Williams, Hard Times

può essere a buon diritto considerato il primo romanzo che in Inghilterra interrogava con sistematica lucidità i «tempi difficili» di una società cresciuta e trasformata in tempi brevissimi, se misurati rispetto alla relativa fissità che aveva caratterizzato la storia delle società pre-industriali26. Inutile cercare, in

questo romanzo, un'accurata fedeltà documentaria, un realismo che sia qualcosa di più di un “effetto di realtà”. Pur restando ancorato a una visione sociale definita dal suo tempo, l'autore analizzò alcuni problemi di estrema concretezza ad un livello simbolico e in una sorta di astrazione che, tramite scenari surreali e figure “fantastiche” spesso commentate con violenta ironia, trasmettevano il suo smarrimento percettivo e la sua profonda indignazione27.

In effetti, il romanzo, nei vari passaggi che compie e nelle tematiche che va a toccare, riflette le motivazioni dell'autore a sviluppare un'aspra critica dei problemi dell’epoca, mettendo in evidenza i limiti e le contraddizioni di un

24 M. R. Cifarelli, op. cit., p. IX.

25 R. Williams, Cultura e Rivoluzione Industriale, Inghilterra 1780-1950, Einaudi, Torino, 1968, p. 126.

26 Ivi, p. 125.

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18 modello di sviluppo economico che aveva prodotto una società degradata e degradante, sia per gli esseri umani che per l'ambiente28.

Ciò che Dickens denunciava era una società costruita in base alle necessità produttive del sistema industriale, che fagocitava con le sue macchine ogni spazio naturale, schiacciando l’ambiente con la forza artificiale. Non solo, ma egli metteva in discussione le città, ormai sviluppate in base alle esigenze delle fabbriche, e la società depravata che esse producevano; mostrava quanto la classe operaia fosse stremata e alienata dallo sfruttamento che quotidianamente la attanagliava, mentre la classe imprenditoriale e politica viveva nell'opulenza; condannava una visione del mondo che filtrava attraverso le lenti della statistica e concepiva ogni cosa solo analizzandone e calcolandone i costi, con l’unico obiettivo di ottenere i maggiori profitti29.

Insomma, Dickens criticava un modello di sviluppo che plasmava e snaturava ogni aspetto della realtà. Così sono vari gli aspetti negativi della società vittoriana che Dickens cercò di esplorare: il sistema educativo, che creava dei bambini-automi, dei “futuri individui” ridotti al ruolo di perfetto ingranaggio della società industriale; l'ideologia capitalista che altro non vedeva se non il guadagno ad ogni costo, e valutava qualsiasi circostanza o persona esclusivamente in base all'utilità che ne poteva ricavare; l'inquinamento e gli effetti disastrosi dell'industrializzazione sulla natura; le condizioni di miseria e di totale assoggettamento in cui gli abitanti della città vivevano e lavoravano; la perdita di ogni rapporto sociale estraneo alle leggi di mercato; gli esiti sociali di tensioni e alleanze all'interno della borghesia e la stretta sinergia tra il potere politico e quello economico; la funzione della legge, che legittimava i privilegi

28 M. T. Chialant-C. Pagetti Dickens e la critica, in M. T. Chialant - C. Pagetti, La città e il

teatro, cit., p. 17.

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19 dei pochi sulla povertà dei molti30. A dare unità di rappresentazione a questa

critica era la denuncia del pericolo di trasposizione in campo sociale dei principi dell'economia politica e dell'utilitarismo, di quelli che Dickens chiamava «Fatti», i quali erano soprattutto «fatti» economici31.

30 M. T. Chialant, "The Romantic Side of Familiar Things" La tensione fra il reale e

l’immaginario in due romanzi di C. Dickens, Ist. Univ. Orientale, Napoli, 1980, pp.

21-22.

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2.1 La trama in breve

Tempi difficili è un romanzo strutturato in tre parti. Il primo libro, La Semina,

introduce i principali protagonisti del romanzo, Thomas Gridgring e Sissy Jupe, la figlia di un acrobata del Circo equestre Sleary, che egli prende in affidamento dopo che è stata abbandonata dal padre; il signor Bounderby, il padrone della fabbrica e il banchiere città; i figli del signor Gridgring, Tom e Louisa, due bambini ormai già completamente addomesticati alle regole dell’utilitarismo del padre e insoddisfatti di una vita del tutto vuota. In particolare, il decimo capitolo tratta degli operai di Coketown, soprattutto di Stephen Blackpool, che vive una situazione matrimoniale infelice e tuttavia impossibilitato a divorziare dalla moglie a causa del suo misero stato sociale. Lo sviluppo dell’intreccio porta al matrimonio tra Louisa e Bounderby, voluto dal padre della fanciulla, indifferente rispetto alla malinconica apatia con cui la figlia accetta. Il secondo libro, La Mietitura, si svolge due anni dopo il matrimonio. Fa la sua comparsa nel romanzo il signor James Harthouse, un borghese elegante e dal bell'aspetto, funzionario del parlamento, che si

innamora della giovane Louisa. Il capitolo quattro, intitolato

emblematicamente Uomini e Fratelli, ha poi al centro un’assemblea sindacale nella quale Blackpool si chiama definitivamente fuori dai progetti di lotta dei suoi colleghi associati, accettando come conseguenza di essere isolato dagli altri lavoratori. Ma inutilmente il signor Bounderby cerca di sfruttare la situazione, proponendo a uno Stephen ormai emarginato il ruolo di spia. Al rifiuto dell’operaio, persona dai saldi principi, Bounderby reagisce licenziandolo con l’accusa di essere un agitatore.

La notte stessa Louisa e Tom si recano di nascosto a casa dell’operaio per aiutarlo, offrendogli del denaro, che lui accetta solo in parte e con l’impegno

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21 comunque di restituirlo. Nell’occasione però Tom inganna Stephen, attirandolo nei pressi della Banca che aveva svaligiato per far cadere su di lui la colpevolezza del furto. Nel frattempo, Louisa e Harthouse continuano a frequentarsi in un rapporto che si fa sempre più stretto e che sfocia con la dichiarazione d’amore del gentleman. L'animo triste e fragile di Louisa non riesce però a reggere l’emozione e, sotto shock, scappa rifugiandosi dal padre su cui, per la prima volta libera di esprimere i suoi sentimenti, scarica le sofferenze che per anni ha represso dentro di sé.

Nella terza parte, Il Raccolto, l’autore porta a compimento le varie vicende. Il signor Bounderby scopre la relazione tra Louisa e Harthouse e, sentendosi umiliato, lascia la moglie per riprendere, come se nulla fosse la sua vita da borghese, industriale e banchiere. Senonché alla più totale umiliazione non può sottrarsi quando sono messe in luce le sue vere origini: fino quel momento il signor Bounderby si era spacciato per autentico self-made-man, orgoglioso delle proprie origini misere, abbandonato e cresciuto in mezzo alle fogne, mentre in realtà era stato sostenuto da una madre amorevole e premurosa. Intanto Stephen Blackpool, nel tentativo di tornare a Coketown per chiarire la sua innocenza, cade in un pozzo di carbone, dove è ritrovato in fin di vita da Sissy e Rachael. Da questa tragedia Louisa esce con la consapevolezza che era stato il fratello a rubare nella Banca e con la sua testimonianza salva così l’onore dell’operaio defunto. Da parte sua Tom si sottrae alla condanna, emigrando negli Stati Uniti, dove muore di malattia poco dopo. La conclusione del romanzo non prefigura soluzioni diverse e non arriva a nessun lieto fine. Le storie di ogni singolo personaggio restano sospese, come appese alle verità che ognuno, nella propria esperienza, ha maturato: chi migliorando, come Louisa, che riesce a comprendere se stessa e le proprie emozioni, e chi, come il signor Bounderby, incancrenendosi ancora di più nella propria vita gelida e meschina.

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22

2.2

Coketown: la città-fabbrica

«In tante regioni, un tempo come questa dominio sicuro di calma e semplicità e di pace pensosa, una luce innaturale destinata per occhi che lavorano

brilla da un'enorme fabbrica piena di finestre»32

Coketown: la «città del carbone». Le vicende del romanzo si svolgono nella città-modello immaginata da Dickens, probabilmente situata nei distretti tessili del Nord dell'Inghilterra. «La città restava dov'era, immersa nella sua caligine e seguitava a crescere e a moltiplicarsi»33, una città forse “distopica”, ma

comunque troppo vera nella mente dell'autore per essere solo un'idea o un'ipotesi futura rispetto alla realtà che già viveva. La città immaginaria diventava così emblema della rappresentazione del mondo reale.

Coketown da lontano si profilava come una «macchia» che non voleva prendere forma. La visione sembrava disturbata e confusa, come disturbata e confusa poteva essere la percezione dei cambiamenti profondi di chi viveva in quegli anni. I processi percettivi e quelli narrativi in questo modo si intrecciavano di fronte alla crisi dello sguardo, alla difficoltà di comprendere l'improvviso passaggio causato dal processo di industrializzazione, che si era introdotto nella vita quotidiana come un fatto compiuto, imponendo le sue profonde trasformazioni su tutto il contesto sociale34.

32 W. Wordsworth, The Excursion (1800), Book VIII, pp. 164-169, in Selected Poems, Londra, Penguin UK, 2004. Il riferimento era alle tessiture del Coumberland, in cui il poeta vedeva la causa della cancellazione dell'economia pastorale originaria.

33 C. Dickens, Tempi Difficili, cit., p. 136.

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23 «Vista da lontano con questo tempo, Coketown appariva avvolta da una sua caratteristica caligine che sembrava impenetrabile ai raggi del sole. Si capiva che là dentro c'era la città solo perché senza una città non avrebbe potuto esserci nel panorama una macchia così cupa. Una bruma di fumo e di fuliggine che tendeva confusamente ora in una direzione, ora nell'altra […]; un grumo denso e informe solcato da fasci di luce che altro non mostravano se non una massa di tenebre. Sebbene non si scorgesse neanche un mattone, Coketown si annunciava già in lontananza per quella che era»35.

Con queste tonalità e questo impatto appariva al romanziere inglese la città costruita sulla base delle esigenze del progresso industriale, un luogo per il quale non sembrava ancora esistere un adeguato modello interpretativo: la modernità, con l’impeto dei cambiamenti che aveva prodotto, creò una rottura netta con il passato, stravolgendo i consueti modi di vivere, l’ambiente circostante e le condizioni stesse di esistenza. Dickens dovette così sopperire a tale mancanza utilizzando, per cercare di rendere comprensibile la disumanità di Coketown, un parallelo immaginario e dicotomico tra “il naturale” e “l'artificiale”, poiché il mondo della natura, nelle sue lente e continue mutazioni, rimaneva ancora un punto di riferimento comprensibile con cui interpretare la realtà. L'ordine artificiale della città appariva così in totale violazione dell'ambiente naturale: «Il ritmico movimento delle loro ombre [dei macchinari] sulle pareti era tutto quanto Coketown offriva al posto della frusciante penombra dei boschi; per tutto l'anno, dall'alba del lunedì alla sera del sabato, al ronzio estivo degli insetti sostituiva il cigolio di ingranaggi e pistoni»36.

Il problema di Coketown sembrava essere che la città non cercasse di addomesticare la natura, ma di sterminarla sostituendosi a essa. Nella

35 C. Dickens Tempi Difficili, cit., p. 135. 36 Ivi, p. 137

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24 fabbrica, tutti gli elementi che contribuiscono alla vita e alla crescita (sole, aria, acqua e terra) si trasformavano, in agenti di morte, snaturati dall'impietosa «foresta di telai e macchine»37. La fortissima industrializzazione che aveva accompagnato la crescita della produzione aveva letteralmente attaccato la natura, predandone le risorse e cercando di assoggettarla alle proprie necessità di sviluppo economico. L’artificiale, con le sue città, le sue macchine e le sue scorie, contaminava ogni ecosistema con cui entrava in contatto. Dickens esprimeva questa sua sofferenza per la distruzione e l’inquinamento di ogni ecosistema, mostrando come a Coketown tutto fosse nocivo, tutto rappresentasse la morte della vita38.

Il sole diventava più impietoso del gelo, mentre l’aria, resa irrespirabile dalle esalazioni velenose delle ciminiere, era calda come il vento del Sahara. In questa città, perennemente avvolta dalla nube cupa di caligine, il «sole [sembrava] in fase di eterna eclissi»39; la terra era un deserto reso sterile dalle industrie, mentre l’acqua del fiume che attraversava la città era «nera e densa

per le tinture» ed emanava «un odore nauseabondo»40.

Quando pioveva, la pioggia si abbatteva su un paesaggio desolato e squallido, rappresentato dall’autore come un terreno tempestato di detriti, rottami e carbone: a Coketown la pioggia non poteva bagnare la vita, perché le condizioni naturali in cui questa poteva svilupparsi erano state cancellate dall’artificialità della città41.

Fuori dalla cittadina la natura resisteva in qualche forma, creando stupore nell’operaio Blackpool, ormai abituato al grigiore, mentre abbandonava la città: «che strano allontanarsi dalle ciminiere e udire gli uccelli cantare! Che

37 Ivi, p. 85.

38 R. Runicni, Dal Resoconto al racconto le origini giornalistiche della scrittura

dickensiana, op. cit., p. 63.

39 C. Dickens, Tempi Difficili, cit., p. 197. 40 Ivi, p. 137.

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25 strano avere sui piedi la polvere della strada invece che granelli di carbone!»42.

Il distacco dell'essere umano dalla natura era talmente profondo che l'ambiente artificiale della cittadina sembrava ormai l'unica dimensione possibile per chi vi abitava.

Ma anche il paesaggio che circondava Coketown si mostrava comunque contaminato dalla presenza della città. Gli alberi che sopravvivevano attorno all’agglomerato di case, catapecchie e fabbriche, erano «ormai affumicati e cosparsi di polvere fuligginosa, parevano sudici fumatori di tabacco». L’intero territorio, per chilometri e chilometri, era «ricoperto di scorie di carbone […] e brutture di ogni genere»43. Una ferrovia squarciava in due la visione di una

terra ormai resa inospitale, rasa al suolo, dove solo pochi alberi, arroccati, tentavano di resistere all’inesorabile progresso dell’uomo civilizzato.

È questo ciò che resta dello spazio naturale sfruttato dall'industrializzazione. Ogni luogo sembrava istituito sulla “mortificazione” di tutto quanto non fosse “funzionale”. Non era da meno il ventre di Coketown, tipica città industriale ottocentesca, che al suo interno si mostrava come all'esterno: un'entità terribile, il ripudio della vita sia nella sua struttura, monotona e ordinata, sia nelle persone che la abitavano, anonime e svuotate. Una «cupa cittadella dove mura di mattoni sbarravano il passo alla natura con la stessa prepotenza con cui custodivano gas ed esalazioni»44. Coketown si mostrava, nella descrizione del

romanziere inglese, come se avesse dei colori artificiosi che rappresentavano la sua profonda differenza con ogni ambiente naturale. Non era rossa come i mattoni d’argilla con cui era stata costruita, ma nera, affumicata e ricoperta dall’inquinamento che essa stessa produceva45.

Era «una città piena di macchinari e di alte ciminiere dalle quali uscivano senza

42 Ivi, p. 197. 43 Ivi, p. 197. 44 Ivi, p. 78.

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26 tregua interminabili serpenti di fumo, che si snodavano nell'aria senza mai sciogliere le loro spire. C'era un canale di acque nere e un fiume reso violaceo da tinture maleodoranti e vasti agglomerati di edifici pieni di finestre scossi per tutto i giorno da un frastuono e un tremito incessanti, dove gli stantuffi delle macchine a vapore si alzavano e si abbassavano monotoni come teste di elefanti in preda ad una malinconica follia»46.

La stessa struttura urbana si basava sulla monotonia e sulla ripetitività del lavoro che vi si svolgeva, mutando profondamente l'animo di chi era costretto a trovarsi in stretta simbiosi con il ritmo della fabbrica e i movimenti della macchina. «C'erano parecchie grandi strade, tutte uguali, e un gran numero di viuzze ancora più uguali, abitate da persone anch'esse uguali, che entravano e uscivano alla stessa ora, con il medesimo scalpiccio sul medesimo selciato, per recarsi a svolgere il medesimo lavoro e per le quali oggi era identico a ieri e a domani e ogni anno la replica di quello passato e di quello a venire»47.

La fabbrica rappresentava l'unico elemento che permeava ogni aspetto della realtà cittadina, ogni elemento si omologava a essa ed era votato alla sua esistenza. La mancanza di bellezza in questo luogo era disarmante, l'uniformità e l'impersonalità architettonica sembravano l'emblema stesso del tipo di vita che conducevano i suoi abitanti. Ogni edificio assomigliava e si confondeva con gli altri, non aveva nessuna differenza caratteristica che lo distinguesse: «la prigione avrebbe potuto essere l'ospedale, l'ospedale la prigione, il municipio l'uno o l'altra indifferentemente, oppure tutti e due insieme, o qualsiasi altra cosa, visto che nessun particolare architettonico ne indicava il contrario»48.

Così, la descrizione rendeva la città-fabbrica il simbolo stesso della civiltà

46 C. Dickens, Tempi Difficili, cit., p.31 47 Ivi, p. 31.

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27 industriale e del sistema capitalistico che qui si realizzavano nelle loro strutture «materiali» e «immateriali», ben esprimendo la totalità dell'esperienza contemporanea e la stretta interdipendenza che vi era tra la base economico-sociale e l'ideologia imperante49. «Fatti, fatti, nient'altro che fatti: ovunque

fatti, nell'aspetto materiale della città come in quello immateriale. Era un fatto la scuola […] come lo erano i rapporti tra padrone e operaio; solo fatti c'erano fra l'ospedale in cui si nasceva e il cimitero […]»50.

L'accusa che lo scrittore muoveva alla sua epoca era di aver perso i contatti con la “realtà”, contrapponendo appunto a essa il culto dei «fatti». Il denaro e il prestigio sociale, la dottrina utilitarista e la fede scientifica erano diventate i valori imperanti. La razionalizzazione di questi principi distruttivi soffocava quelle facoltà creative che Dickens riteneva necessarie affinché l'individuo potesse fare “un’esperienza” propria della vita, tramite i suoi affetti, sentimenti ed emozioni. Ma, nella città del carbone, «l'intero sistema sociale si fondava sull'interesse personale»51. L'unico valore predominante era la logica

mercantile e la ricerca del profitto. Tutto ciò che non si poteva valutare in cifre e non si poteva acquistare per ricavarne un guadagno, non aveva nessuna

importanza poiché non aveva un valore commerciale e, dunque, non esisteva52.

Questo modello di valori determinava l'inaridimento delle relazioni umane, che diventavano perciò funzionali alla riproduzione di una struttura socio-economica necessaria per la produzione industriale.

Il principio basilare della filosofia utilitarista era, infatti, che tutto avesse un costo di acquisto e un prezzo di vendita, e ciò che ne scaturiva, il profitto, diventava l’unico elemento importante poiché l’unico che avesse un’utilità. Così, la tavola dei valori che aveva caratterizzato le comunità agricole inglesi

49 M. T. Chialant, Il paradosso dickensiano: fact vs fancy, cit.,p. 106. 50 C. Dickens, Tempi Difficili, cit., p. 32.

51 Ivi, p. 344. 52 Ivi, p. 32.

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28 di mezzo secolo prima era stata completamente ribaltata. Quelle comunità, infatti, non si basavano allora sul bieco egoismo e sull’individualismo di stampo capitalista, fondandosi piuttosto su rapporti solidali e di generosità interna. Invece, a Coketown, ogni rapporto all’interno della rete industriale era come una compravendita: «ogni frammento dell'esistenza umana, dalla nascita alla morte, era da considerarsi alla stregua di un contratto che andava stipulato da due parti contrapposte»53.

Qualunque tipo di rapporto sociale veniva così distrutto, ogni tratto umano era destinato a essere estirpato dall'insaziabile fame di profitto, pronta a mercificare tutto e a schiavizzare tutti. In breve tempo le piccole comunità e i villaggi scomparvero, perché diventati enormi centri industriali o perché legati a un modo di vivere destinato a estinguersi. Con loro svanirono i rapporti che differenziavano quel tipo di società, basati sul senso di appartenenza alla comunità e sulla sussidiarietà reciproca tra i suoi membri54. Come diceva Dickens: «vi sono determinate fasi della manipolazione del tessuto umano in cui l'azione del tempo è rapidissima»55.

Le comunità umane vennero così plasmate dal progresso tecnico-scientifico e da quella razionalità fondata sul culto dei «fatti», dei dati e delle cifre, che pretendeva di avere una conoscenza oggettiva del mondo e della società, affermando un modello che arbitrariamente decideva di ordinare il mondo secondo le leggi dell'economia politica e del mercato56.

53 Ivi, p. 345.

54 E. P. Thompson, Rivoluzione Industriale, Vol. 1, cit., p. 421. 55 C. Dickens, Tempi Difficili, cit., p. 112.

56 C. de Stasio, «A View in Indian Ink»: lo scenario di desolazione in Black House, in M. T. Chialant - C. Pagetti, La città e il teatro, cit., pp. 123-124.

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29

2.3 La fabbrica e la società industriale

«Il sistema di fabbrica è il grande dispensatore di civiltà al globo terracqueo, la linfa vitale della scienza e della religione fra le miriadi che giacciono ancora nella regione e nell’ombra della morte»57

2.3.1.

«The Hands»: “le Braccia”

«Non si deve consentire che coloro che lavorano giorno dopo giorno in mezzo alle macchine siano lasciati degenerare fino a ridursi essi stessi a macchine»58

Non c’era angolo a Coketown che non ricordasse il dominio della macchina e del ritmo industriale, in un ordine artificiale piatto che annullava ogni differenza. La macchina rappresentava l'apoteosi dei «fatti», perfettamente calcolabile e precisamente controllabile: uno strumento che, con la sua

potenza, modellava il mondo e le persone che lo vivevano59. «Sappiamo cosa

sa fare la macchina, fin nella sua più minima componente, ma neppure tutti i contabili della tesoreria nazionale, messi insieme, riusciranno mai a calcolare quale sia l'attitudine a compiere il bene o il male, ad amare oppure a odiare, a

57 A. Ure, Philosophy of manufacturer, C. Wright, Londra, 1835, pp. 18-19.

58 C. Dickens, On The Strike, in HouseHold Words, Vol. VIII, febbraio 1854, pp. 553-559. 59 R. Bonadei, Paesaggio con figure, cit., p.98.

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30 servire la patria oppure a sobillare, la capacità di corrompere la virtù in vizio, o viceversa, che si annida nell'animo di ciascuno di questi mansueti servitori dai volti composti e dai gesti regolari»60.

Dickens cercò di dipingere una città i cui attributi erano considerati inseparabili dall'industria che le dava da vivere, dove la macchina a vapore tendeva a riprodursi in ogni aspetto dell’esistenza e della struttura cittadina. L'artificiale dominava ogni cosa e modellava la realtà, espellendo così da quella cittadina la natura e tutto ciò che di vivo poteva esserci. Gli stessi esseri umani erano una parte estranea alla fabbrica e sembravano, all’autore, in pieno contrasto con l’ambiente degli edifici industriali, grigi e nauseanti, e con i tempi e la fatica che essa imponeva61. Coketown è il regno dell'industria, della fabbrica come modello di vita e della macchina come struttura sociale: ogni individuo ha un ruolo ben preciso, come l'ingranaggio di un meccanismo, e ha un tempo definito, dettato ogni giorno dai ritmi e dagli orari del lavoro, dalla nascita alla

morte62. «A Coketown il tempo si comportava come uno dei macchinari: tanto

materiale lavorato, tanto combustibile utilizzato, tanta energia consumata, tanto denaro guadagnato. Meno inesorabile del ferro, dell'acciaio e dell'ottone, esso tuttavia imponeva le sue mutevoli stagioni persino in quel deserto di fumo e di mattoni, e rappresentava il solo ostacolo mai opposto alla spaventosa uniformità del luogo […]. Il tempo, con la potenza dei suoi innumerevoli cavalli vapore, proseguiva imperturbabile la sua opera»63.

L'intera giornata era scandita dai tempi dei macchinari e si svolgeva rinchiusa in giganteschi stabilimenti dove gli operai lavoravano «per ore e ore, in mezzo al turbinio dei fusi, al frastuono dei telai e al ronzio degli ingranaggi»64.

60 C. Dickens, Tempi Difficili, cit., p..85. 61 Ivi, p. 85.

62 R. Bonadei «Mubgby Junction»: sui treni vittoriani incontro al moderno, in M. T. Chialant - C. Pagetti, La città e il teatro, cit., p. 277.

63 C. Dickens, Tempi Difficili, cit., p. 111. 64 Ivi, p. 295.

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31 Dickens riuscì a dare una surreale quanto veritiera descrizione di un tempo piatto scolpito dai rintocchi sanciti delle sirene e dai motori che si accendevano o si spegnevano. A ciò corrispondeva, ciclicamente, la giornata della massa operaia che si svolgeva dall'alba alla sera sotto l'infaticabile ritmo dei cavalli a vapore65.

Solo la notte dava un attimo di tregua al flusso di persone che andava e veniva ogni giorno da quel luogo infernale, da dove le macchine, pur se a riposo, riuscivano comunque ad assoggettare la realtà, essendo il silenzio ormai inconsueto66. «Le macchine rallentarono la loro corsa, ebbero qualche sussulto,

come un polso che stia per spegnersi, poi si fermarono del tutto. Di nuovo la sirena; le luci abbaglianti si spensero, il calore si disperse e le fabbriche tornarono a stagliarsi imponenti nella notte scura di pioggia – le alte ciminiere dirette verso il cielo come torri di Babele in perenne tenzone»67.

Un ambiente così “mostruosamente artificiale” e un modo di vita talmente routinario da essere alienante non potevano che conformare anche la mente e i pensieri dei lavoratori alla macchina. Questo provava l'operaio Blackpool alla fine della giornata lavorativa: «la vecchia sensazione che l'arresto delle macchine provocava in lui: la sensazione che quell'enorme congegno avesse sferragliato e si fosse arrestato nella sua testa»68.

Andrew Ure, considerato uno degli intellettuali che per primo tracciò il percorso della meccanizzazione come ideologia, riteneva che: «in realtà è scopo e tendenza costante di ogni perfezionamento nel macchinario di soppiantare interamente il lavoro umano, o di ridurne il costo, sostituendo il lavoro degli uomini con quello delle donne e dei fanciulli, o il lavoro degli

65 Ivi, pp. 85-86.

66 R. Runicni, Dal Resoconto al racconto le origini giornalistiche della scrittura

dickensiana, op. cit., p. 49.

67 C. Dickens, Tempi Difficili, cit., p. 98. 68 Ivi, p. 79.

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operai qualificati con quello dei manovali comuni»69. L’apologeta

dell'automazione esponeva e propagandava le “virtù” della macchina, infaticabile, controllabile e indipendente da qualsiasi condizionamento esterno. Era questo il sistema di fabbrica, una «grande automazione, composta da vari organi meccanici ed intellettuali, che agiscono in continuo accordo per un oggetto comune, tutti subordinati ad una forza motoria autoregolante»70.

La parola chiave di questa logica è «subordinare»: il proprietario della fabbrica doveva assicurarsi che gli operai fossero tutt’uno con gli ingranaggi e le fasi produttive, doveva «addestrare gli esseri umani alla rinuncia delle proprie abitudini di lavoro, prive di metodo, per identificarsi con la regolarità invariabile della complessa automazione»71. Perciò, secondo l’idea del pensatore inglese, la stessa natura umana doveva essere trasformata in virtù delle esigenze del sistema di fabbrica e, così, sistematicamente adattata alla disciplina della macchina72.

La fabbrica, la macchina e, dunque, l’automazione, non rappresentavano semplicemente un metodo produttivo, ma diventavano, per una loro peculiarità specifica, esse stesse modello organizzativo che doveva ordinare e regolare una parte sempre maggiore delle attività umane, affinché esse fossero sempre più funzionali alla produzione e al consumo. La catena produttiva necessitava dell'addomesticamento totale dei lavoratori, di individui resi intercambiabili e isolati, come ogni altra parte del processo meccanizzato. Il sistema di fabbrica comportava senza dubbio un’erosione sempre più profonda dei rapporti umani, dell'aspetto sociale, delle scelte indipendenti e dell'abilità personale, perché nessuno di questi fattori era funzionale all’Economia; anzi erano proprio l’autonomia individuale e le differenze caratteriali che potevano rendere un

69 A. Ure, The Philosophy of Manufactures, cit., p. 23. 70 C. Dickens, Tempi Difficili, cit., p. 32.

71 Ivi, p. 32. 72 Ivi, p. 18.

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33 lavoratore poco efficiente e discontinuo nella produzione, se non addirittura in opposizione agli ordini del padrone. Difatti, «non c'era nulla a Coketown che non ricordasse la severa disciplina del lavoro»73.

In quell'epoca, secondo un esperto contemporaneo, un solo uomo poteva svolgere il lavoro che due o trecento operai facevano all'inizio della Rivoluzione Industriale. Questo era l'esempio più esplicito del dominio ottenuto dalla scienza umana sul potere della natura, di cui i positivisti e gli utilitaristi dell’epoca andavano tanto fieri74. La macchina, strumento di

progresso e oppressione, snaturava l'essere umano, degradandolo all’unica capacità funzionale di avere «the Hands». «Centinaia e centinaia di “braccia” al lavoro in questa fabbrica; centinaia e centinaia di cavalli-vapore»75. Infatti, «la moltitudine di Coketown, era genericamente denominata “le Braccia”, razza che tra certa gente avrebbe goduto di maggior considerazione se la Provvidenza avesse ritenuto opportuno fornirla di sole braccia, […] o unicamente di braccia e stomaco»76. Gli abitanti della Città-fabbrica,

metaforicamente “decapitati”, erano privati di ogni personalità, relegati a essere anonimi ingranaggi.

Il progresso tecnologico assumeva così le terribili sembianze del progresso dello sfruttamento, in quanto veniva quasi a realizzarsi un rapporto di proporzionalità tra lo sviluppo tecnico e l’aumento inaudito dello sfruttamento, sia quantitativamente (per quanto riguarda il numero di persone che colpiva), sia qualitativamente (per l’intensità e le condizioni di lavoro in cui si realizzava). Lo sviluppo tecnico rese i lavoratori sostituibili con assoluta facilità, all’interno di un processo produttivo che prevedeva la continua esecuzione di poche e semplicissime operazioni. Gli industriali, i positivisti e

73 Ivi, p. 32.

74 E. P. Thompson, Rivoluzione Industriale, Vol. 1, cit., pp. 273-274. 75 C. Dickens, Tempi Difficili, cit., p. 78.

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34 gli utilitaristi desideravano, e, quando potevano, esigevano, l’umile e silenziosa collaborazione della popolazione.

2.3.2.

La miseria della classe lavoratrice

«Lo schiavo nero delle Indie Occidentali, se sgobba sotto un sole che toglie la pelle, almeno ogni tanto ha un soffio d’aria a sventagliarlo […]. Il filatore inglese, schiavo anche lui, non gode l’aria aperta e le brezze del cielo. Imprigionato in fabbriche alte otto piani, non ha pace prima che la macchina ponderosa si arresti […]. Non è un ritratto caricato, questo; è letteralmente vero»77

«Ho la vaga idea che il popolo inglese sia condannato a lavorare più duramente di qualsiasi altro popolo su cui splenda il sole»78.

Così pensava Dickens sulla condizione della vita lavorativa in Inghilterra. Orari lunghi, rigidi e massacranti, dietro porte chiuse, poiché la norma giornaliera di lavoro, nei primi decenni del ’800, era di 12-14 ore, con punte fino a 16 e 18, ma comunque mai meno di 10. Per chi non rispettava la rigida disciplina di lavoro erano previste multe sugli stipendi, che già rasentavano la soglia della sopravvivenza, oltre alla coercizione e alla violenza fisica,

77 Il brano è contenuto in «A Journeyman Cotton Spinner», in «Black Dwarf», settembre 1818 (in E. P. Thompson, Rivoluzione Industriale, Vol. 1, cit., p. 200).

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35 rappresentata dalla frusta del caposquadra, che vigilava come un secondino sui lavoratori chini sul telaio79.

Vittime dello sfruttamento erano soprattutto le donne e i bambini, che nel 1833 giunsero a formare circa i quattro quinti della manodopera dell'industria tessile80. Infatti, era molto facile forzare ad obbedire un bambino o una

bambina di quattro o cinque anni, dandogli una misera paga, un terzo o anche meno degli uomini; non solo, era anche pratica diffusa costringere gli orfani e le bambine povere a lavorare nelle industrie contro la loro volontà. Come accertò un'inchiesta parlamentare nel 1833, i bambini «in ritardo al lavoro» al mattino presto o che cadevano addormentati al pomeriggio venivano picchiati, «fustigandoli con molta crudeltà, […] alcuni erano battuti con tale violenza da perdere, a causa di questo, la vita»81.

L’ambiente lavorativo rispecchiava l’essenza della fabbrica: un luogo letteralmente infernale, dove «nulla poteva spezzare quella monotonia» necessaria alla produzione82. Un tale sistema di lavoro non solo era brutale

perché sottometteva gli individui più poveri, e dunque la gran parte della popolazione inglese, alla disciplina e all’oppressione quotidiana del lavoro, ma era per di più agghiacciante per le condizioni malsane e crudeli che imponeva loro83. In generale, le condizioni di lavoro nella fabbrica erano così terribili e

difficili che, come ha notato uno storico moderno, «tanti tessitori manuali e magliai, tra il 1830 e il 1840, preferivano morire di fame piuttosto che accettare la disciplina di fabbrica; molti di coloro che accettavano lo facevano perché

79 Ivi, p. 85.

80 Report of Factory Commission, 1834, in Hammond J. L. and Hammond B., The Town

Labourer 1760-1832, Longmans, Londra, 1978, pp. 19-20.

81 Parlamentary Paper, Manufacturing, Commerce, Shipping, (690) VI 1, 1833. 82 C. Dickens, Tempi Difficili, cit., p. 306.

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36 era la loro ultima risorsa»84.

Infatti, le condizioni di sfruttamento nell’industria tessile erano ben al di là dei limiti di sopportazione possibili. Per gli operai, la fabbrica era un vero e proprio castigo: si registravano temperature superiori agli 80° nei cotonifici; il rumore dei telai era assordante; l'aria era così piena di polveri da provocare una tosse particolare e permanente (soprattutto nei cotonifici per la grande presenza di “lanugini”); gli incidenti erano all'ordine del giorno e spesso mortali, sia per il sovraffollamento nei capannoni, sia per l'alta velocità dei macchinari e l'assoluta mancanza dei presupposti per un minimo di sicurezza.

«Emergendo da bassi corridoi sotterranei, i fuochisti uscivano nei cortili delle fabbriche, sedevano sui gradini, sulle assi e sulle staccionate e si tergevano i volti scuri contemplando le montagne di carbone. Era come se la città stesse friggendo nell'olio; c'era dappertutto un soffocante odore d'olio bollente. Le macchine luccicavano d'olio, i vestiti degli operai ne erano pure intrisi, le fabbriche stillavano e trasudavano olio dai loro numerosi piani»85.

Non era diversa la vita di altri lavoratori, come ad esempio i lavoratori a domicilio o i minatori. Questi ultimi facevano parte di una delle categorie operaie che vivevano le condizioni più dure, sia per la fatica fisica, sia per le specifiche condizioni di lavoro, sottoterra, con grandissimi pericoli di crolli e perdite di gas nocivi o addirittura infiammabili, che spesso erano la causa

d’immani tragedie86. «Il pozzo - di carbone-, come sanno i vecchi che vivono

ancora, è costato la vita a centinaia e centinaia di uomini e donne […]. Gli uomini che lavorano nei pozzi supplicano e chiedono a chi fa le leggi che per amor di Dio non lascino che il lavoro li ammazzi, e che siano risparmiati […]. Quando il pozzo funzionava, uccideva senza che ce n'era bisogno; adesso che

84 H. Perkin, The Origin of Modern English Society 1780-1880, London, Routledge and Kegan Paul, 1969, p. 131.

85 C. Dickens, Tempi Difficili, cit., p.. 136.

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37 non funziona più, uccide ancora senza che ce n'è bisogno»87.

La miseria nell'Inghilterra di metà '800 era dilagante: oltre un terzo della popolazione viveva al di sotto della soglia di povertà, resistendo ai limiti della sopravvivenza sia per quanto riguardava l'alimentazione, ridotta e povera di principi nutritivi, che per le condizioni malsane in cui lavorava. Fernand Braudel ha scritto che, dopo il 1780, vi fu un «generale impoverimento, […] un ribasso degli stipendi reali, i catastrofici effetti si videro nelle squallide abitazioni, nel cibo malsano, contaminato e irrisorio. È così evidente che il popolo inglese abbia pagato un prezzo molto alto per diventare la prima nazione industriale, garantendo solo a una minoranza di possidenti le ricchezze del progresso agricolo, […] le fortune dell’industria e della Banca d'Inghilterra»88. Infatti, oltre ai milioni che ricevevano il sussidio della legge

dei poveri (8 milioni nel 1818), vi erano le 180mila famiglie considerate itineranti, che quindi non ricevevano nemmeno il sussidio: i diseredati erano oltre il 20% della popolazione nel 1810, ed era una cifra destinata a crescere con il passare degli anni89. Anche chi, tra i lavoratori, percepiva uno stipendio,

soffriva ugualmente condizioni di vita miserrime. Il poco che riuscivano a guadagnare era appena sufficiente per un pasto: pane, patate, rape e, solo raramente, qualcosa di diverso90.

Le condizioni di vita erano ulteriormente aggravate dal forte inquinamento presente nei ghetti operai delle periferie cittadine. Le abitazioni degradarono di pari passo con il progredire dell'industria e l'ingrandirsi delle città, caratterizzate da sovraffollamento, abitazioni sotterranee e sporcizia inaudita.91

87 C. Dickens, Tempi Difficili, cit., p. 365.

88 F. Braduel, The Wheels of Commerce. Vol. 2: Civilization and Capitalism 15th-18th

century, Harper & Row, New York, 1982, p. 183.

89 C. Cook e J. Stevenson, British Historical Facts, Londra, Palgrave Macmillan, 1980, p. 194

90 E. P. Thompson, Rivoluzione Industriale, Vol. 1, cit., p. 321. 91 C. Dickens, Tempi Difficili, cit., p. 326.

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38 Dickens descrisse lo slum di Coketown come un labirinto soffocante di viuzze e corti strette ammassate l’una contro l’altra, un quartiere in cui le case erano state «costruite a pezzi e bocconi solo per rispondere con urgenza ai bisogni di qualcuno, fino a formare un insieme disarmonico di edifici, che schiacciavano e si appiccicavano tanto da esserne soffocati»92.

La salute della popolazione rispecchiava i luoghi malsani e le inesistenti misure d’igiene che, unite allo stato di assoluta malnutrizione, non potevano che comportare altissimi tassi di mortalità, soprattutto infantile. Un medico che visitò i quartieri operai di Manchester definì quello che vide come «uno spettacolo doloroso, una razza degenerata: esseri umani rachitici, debilitati e degradati»93. Era impossibile, per chi apparteneva alla classe operaia, avere una vita sana e longeva abitando in quartieri spesso costruiti ai piedi delle fabbriche inquinanti in cui lavoravano: infatti, erano pochi i bambini che superavano i primi mesi dalla nascita e pochissimi quelli che sopravvivevano oltre i 5-6 anni94.

Nel 1843 un fisico dell'Ospedale Generale di Sheffield sintetizzò così le condizioni nei distretti industriali dell'Inghilterra: «Non abbiamo esitazioni nell'asserire che le sofferenze delle classi lavoratrici, e conseguentemente il tasso di mortalità, sono maggiori oggi che nei tempi passati. In verità, è spaventoso constatare il tasso di mortalità nella maggior parte dei quartieri industriali»95.

92 Ivi, p. 78.

93 C. Turner ThacKrh, The effects of the principal arts, trades, and professions, and of civic

states and habits of living, on health and longevity, Longmans, Londra, 1831, p. 27.

94 C. Dickens, Tempi, Difficili, cit., p. 326.

95 Dr. G. C. Holland, in Chadwick, Report on Sanitary Condition, in H. Rule, The

Labouring Classes in Early Industrial England 1750 -1850, Longmans, Londra, 1986,

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