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Il rapporto tra la classe padronale e gli opera

«Voi, economisti della scuola utilitarista, larve di insegnanti, commissari del Fatto, distinti e logori miscredenti, ciarlatani di mille piccole teorie vecchie e ammuffite, rammentate che la povera gente sarà sempre con voi. Coltivate in loro, finché siete in tempo, le sublimi grazie dell'immaginazione e dell'amore, e concedete alle loro esistenze il sollievo di cui hanno tanto bisogno! Perché altrimenti, nel giorno del vostro trionfo, quando dai loro animi sarà stata spazzata ogni illusione e non resterà loro che una vita squallida e vuota, la Realtà prenderà le sembianze di un lupo feroce, e per voi sarà la fine»96.

Coketown era una città che doveva esprimere, nell’intento dell’autore, i valori predominanti della sua epoca, quali la disciplina del lavoro e l’ordine sociale capitalista, che così diventavano i fattori principali della vita di ogni individuo. Tutto ciò era rappresentato dalla figura del signor Bounderby. Era proprio quest’ultimo che controllava la banca, il mercato, la produzione manifatturiera, che possedeva tutto ciò che poteva dare un valore alla città. Di fatto questa era il suo regno, dove la cupezza e l'artificiosità rispecchiavano lo «sguardo fisso e la risata di metallo»97, come anche la mancanza di qualsiasi sensibilità, del

cinico capitalista.

Bounderby, nel romanzo di Dickens, rappresentava la classe industriale inglese, quella parte della società che, nella sua ascesa economica e sociale, non si faceva scrupoli sulle conseguenze delle sue azioni sulle classi più

96 C. Dickens, Tempi Difficili, cit., p.. 194. 97 Ivi, p. 22.

40 povere. «I patrizi di Coketown»98 conoscevano i lavoratori solo in base alla

loro funzione dentro le fabbriche: «sapevano della loro esistenza, ma in ragione di centinaia e migliaia. Sapevano quanto lavoro poteva produrre un dato numero di operai in una data unità di tempo. Li conoscevano in quanto folla, folla che si spostava avanti e indietro dai propri nidi come formiche e scarafaggi […]. Erano qualcosa che si doveva far produrre un tanto e pagare un tanto: ecco tutto. Qualcosa che era infallibilmente regolato dalle leggi della domanda e dell'offerta; qualcosa che in quelle leggi inciampava e si dibatteva impigliandosi in ogni sorta di difficoltà, qualcosa che conosceva i morsi della fame quando il grano era caro e s'ingozzava oltre misura quando il grano era a buon mercato. Qualcosa che aveva una data percentuale di incremento, che produceva una data percentuale di criminalità e un'altra percentuale ancora di pauperismo»99. La stessa miseria veniva compresa e quindi giustificata tramite

le dottrine filosofiche, economiche e politiche del liberalismo e secondo il principio del laissez faire. In base a questa teoria, considerato che i rapporti sociali tra le varie classi erano fondati sullo scambio commerciale, l’unico contesto relazionale possibile era il mercato, all’interno del quale ogni attore doveva avere la piena libertà di perseguire il proprio interesse egoistico. La neutralità del mercato e la stessa libertà individuale sarebbero state garantite dalla concorrenza commerciale tra gli attori in veste di competitori economici: giusta l’immagine smithiana della Mano Invisibile, capace di indirizzare l’egoismo dei singoli verso un superiore bene collettivo100. Non è un caso che

Dickens faccia propria la lezione dei Principles of Political Economy (1849) di J. S. Mill nella sua accusa generale contro le idee che fondavano Coketown sull’Economia Politica, «la regina sopra ogni dio»101.

98 Ivi, cit., p. 96. 99 Ivi, pp. 189-190.

100 R. Williams, op. cit., pp. 87-88.

41 Per l’appunto, l’unica cosa importante nella “Città del carbone” era «migliorare il tenore di vita»102, nient’altro era concepito e concepibile per la

borghesia industriale, giacché l’intera esistenza ruotava intorno all’accumulo materiale e al progresso del proprio status sociale. Così, giacché ogni individuo godeva della libertà d’iniziativa al fine di perseguire i propri piaceri e interessi, sua e soltanto sua era la colpa di vivere una condizione di povertà e sofferenza, sua la responsabilità di aver fallito per ozio e pigrizia o per mancanza di acume e iniziativa imprenditoriale.

Nessuna statistica e nessuna comprensione scientifica della realtà poteva però spiegare ciò che non si poteva contabilizzare, come la costrizione dell'individuo al ruolo di schiavo, ridotto alla fame e ad una vita di miseria, senza alcuna possibilità di scelta. Le classi più povere non avevano alternative. La loro unica opportunità di “scalata sociale”, come la rappresentò Dickens in una delle sue metafore, era verso l’oblio: la casa nello slum «si trovava in uno dei tanti vicoli per i quali il più richiesto impresario di pompe funebri teneva apposta una scala a pioli nera, cosicché quanti avevano cessato di trascinarsi ogni giorno su e giù per quelle scale troppo strette potevano prendere congedo da questo mondo operoso scivolando attraverso la finestra»103.

Il pregiudizio che avevano gli industriali rispetto alla classe operaia rispecchiava l'incolmabile distanza delle rispettive condizioni di vita, non potendo, chi viveva nell’agio materiale, nemmeno concepire il disagio quotidiano in cui si trovavano i «ceti inferiori», relegati, quando non lavoravano rinchiusi in fabbrica, nei bassifondi delle città. Davanti a «cotoletta e sherry»104, nella sua casa grande e lussuosa, Bounderby puntava il dito contro

l'immoralità del popolino e la sua depravazione105. Non vi era nessuna

102 C. Dickens, Tempi Difficili, cit., p.. 144. 103 Ivi, p. 82.

104 Ivi, p. 87. 105 Ivi, p. 93.

42 comprensione della situazione in cui vivevano i suoi lavoratori, solo la denuncia della loro pigrizia, della mancanza di obbedienza, della pretesa di vivere meglio “senza alcun merito”106.

Nel giudizio di Bounderby, l’unica cosa che essi sapevano fare era lamentarsi della propria condizione e cercare il modo per vivere nel lusso, «farsi scorrazzare su un tiro a sei, essere sfamati a brodo di tartaruga e cacciagione e serviti con un cucchiaio d'oro»107. Gli imprenditori del tempo facevano carico

ai lavoratori dei peggiori difetti e vizi morali, e Dickens, nella sua analisi sociale, cercava di ricondurre le cause del progressivo degrado umano non tanto all’appartenenza a una classe particolare, ma alle scelte che una persona attuava in determinate circostanze, a prescindere dal suo status sociale. Perciò, a essere criticata non era la classe borghese in quanto tale, ma gli individui che la componevano e che, nonostante avessero usufruito della «miglior educazione possibile», vivevano nel vizio e, in quanto detentori del potere economico e politico, tiranneggiavano chi era a loro subordinato108.

In realtà, la dottrina del libero scambio mascherava quello che era il reale interesse degli industriali a conservare lo status quo, come condizione che consentiva loro di sviluppare la produzione e di aumentare il profitto. Solo in un contesto in cui i lavoratori erano spremuti fino al midollo, sotto il ricatto del lavoro salariato, i costi di produzione potevano essere così bassi, come sempre più basse erano, e dovevano continuare a essere, le retribuzioni. Tuttavia, se la condizione di totale sfruttamento e la sottomissione della popolazione operaia ai precetti della produzione non fossero state protette dalla complicità delle istituzioni e dai meccanismi statali, la posizione della borghesia capitalista non avrebbe avuto vita così facile.

106 R. Runicni, Dal Resoconto al racconto le origini giornalistiche della scrittura

dickensiana, op. cit., p. 54.

107 C. Dickens, Tempi Difficili, cit., p. 87. 108 C. Dickens, On The Strike, cit., p. 554.

43 «Una cosa è certa: non ci fu porcellana più fragile di quella di cui erano fatti gli imprenditori di Coketown. Non li si trattava mai con sufficiente delicatezza ed essi andavano in frantumi con tanta facilità da far nascere il sospetto che fossero già incrinati in partenza. Caddero in rovina quando fu loro imposto di mandare a scuola i bambini che lavoravano nelle fabbriche, quando si nominarono gli ispettori incaricati di controllare le condizioni di lavoro nelle officine, quando i suddetti ispettori manifestarono qualche dubbio circa l'eventualità che ci potessero essere ragionevoli giustificazioni al fatto che le loro macchine facessero a pezzetti la gente; furono completamente distrutti quando qualcuno insinuò che forse non era sempre necessario fare tutto quel fumo»109.

Il ricatto del lavoro salariato, abilmente orchestrato dai padroni, era, dunque, quel sistema di rapporti produttivi e di potere che aveva privato la «povera gente»110 del controllo e della gestione dei mezzi di produzione, costringendo gli operai a una condizione di totale ininfluenza sulla questione dei salari o delle condizioni di lavoro in fabbrica. Lo sfruttamento perpetrato sui lavoratori nei decenni precedenti aveva fatto si che gli industriali avessero accumulato ancora maggiori capitali di prima, rendendo il loro potere sempre più ampio111.

Nella dinamica dell’incontro durante il quale l’operaio Blackpool fu licenziato dal padrone Bounderby, Dickens esprime appunto con semplicità e chiarezza la costrizione quotidiana cui la classe lavoratrice doveva sottostare, oppressa e senza altra scelta che non fosse tra lo sfruttamento in fabbrica e la morte per inedia. Così replicava il lavoratore all'industriale: «Signore, sapete bene che se non posso lavorare da voi, non potrò farlo da nessun'altra parte».112

In concreto, come l’autore spiegò anche in «On Strike», gli industriali

109 C. Dickens, Tempi Difficili, cit., p. 135-136. 110 Ivi, p. 91.

111 C. Dickens, On The Strike, cit., p. 555. 112 C. Dickens, Tempi Difficili, cit., p. 183.

44 licenziavano e segnalavano ai proprietari di altre industrie, allo scopo di impedire la riassunzione, qualsiasi operaio che fosse di ostacolo alla produzione o facesse opera di proselitismo tra i suoi colleghi. Doppio perciò il vantaggio: non solo l’allontanamento del “sabotatore”, ma anche un esempio da mantenere a memoria per chiunque altro avesse la tentazione di lottare per migliorare la propria condizione di vita. I padroni avevano oltretutto la facoltà di promuovere la serrata delle proprie fabbriche; ciò giovava ad accrescere i loro profitti (grazie all’aumento dei prezzi dovuto all’arresto della produzione), oltre che a minacciare la classe lavoratrice con quelle che sarebbero state le conseguenze degli scioperi113.

A saldare definitivamente le sbarre della gabbia in cui era stata rinchiusa la classe operaia, intervennero le istituzioni che, oltre a favorire gli interessi economici e il profitto della «gente importante»114, avevano il compito, tramite

le leggi e la repressione, di eliminare qualsiasi attacco alla libertà di mercato e al modello di produzione industriale. In questo modo Dickens esprimeva, per bocca di Bounderby, quella che per gli industriali era l’unico modo per risolvere “il problema degli operai” che si lamentavano e protestavano:

«Sapendo che costoro sono una banda di ribelli e farabutti deportarli sarebbe

persino troppo poco»115, «impiccarli tutti si dovrebbe»116.

Che fosse per necessità o per principio, ogni rivolta degli operai doveva essere comunque limitata se non soffocata. Spesso, infatti, accadeva che anche una singola protesta fosse soppressa con durezza e nel sangue, affinché fosse d’esempio per chiunque volesse rompere, o almeno allentare, la rete dello sfruttamento capitalista (l’esempio storico più emblematico fu il massacro di Peterloo del 1819, a Manchester). Infatti, la classe dirigente e industriale

113 C. Dickens, On The Strike, cit., p.554. 114 C. Dickens, Tempi Difficili, cit., p. 91. 115 Ivi, p. 178.

45 dell’età vittoriana temeva fortemente, e talvolta non del tutto a torto, che il malessere della classe lavoratrice tornasse a manifestarsi, a loro danno, in maniera dirompente e diffusa. E questo era proprio ciò che doveva essere evitato, a garanzia non solo della sopravvivenza dello Stato inglese, ma anche del progresso del sistema industriale stesso117.

Dickens naturalmente criticava la durezza degli industriali, espressa molto crudamente da Bounderby: «Prenderemo una dozzina di Slackbridge, processeremo quelle canaglie per alto tradimento e le spediremo ai lavori forzati nelle colonie penali»118. Ma non era il pugno di ferro ad aggiustare una

realtà troppo iniqua, giacché i problemi sociali, così come tutti i problemi dei «ceti inferiori», sarebbero continuati a persistere, se non addirittura a peggiorare: «potete anche prendere cento Slackbridge, tutti quelli come lui, e anche dieci volte tanti, e chiuderli ognuno dentro a un sacco e buttarli

nell’oceano profondo […] ma quest’imbroglio rimarrebbe tale e quale»119.

Ironicamente, nel romanzo, Dickens commenta in questo modo il connubio tra potere economico e potere politico: «ogniqualvolta un notabile di Coketown si sentiva maltrattato -vale a dire, ogni qual volta che non gli si permetteva di fare il comodo suo e si avanzava l'ipotesi che potesse essere responsabile delle conseguenze dei suoi atti – si poteva star certi che costui se ne sarebbe uscito con la terribile minaccia che, piuttosto, avrebbe “gettato i suoi beni nell'Atlantico”; minaccia che in più occasioni, aveva procurato al Ministro degli Interni uno spavento tale da far temere per la sua vita»120.

L'economista Ricardo spiegava questo rapporto tra politici e industriali con motivazioni strettamente economiche, perché esso andava a toccare direttamente quello che era il flusso di investimenti e dunque la stessa crescita

117 E. P. Thompson, Rivoluzione Industriale, Vol. 2, cit., p. 235. 118 C. Dickens, Tempi Difficili, cit., p.181.

119 Ivi, p.181. 120 Ivi, p. 136.

46 economica del Paese. Lo Stato non avrebbe mai potuto scoraggiare lo sviluppo industriale, poiché insieme all’impiego delle macchine avrebbe dovuto rinunciare anche alle molte entrate che il loro uso permetteva di ottenere. E i capitalisti avrebbero comunque indirizzato e realizzato i loro investimenti all’estero121.

Se Dickens tanto insisteva sull’alleanza tra gli interessi economici e l’autorità politica, è perché, appartenendo alla classe medio-borghese e frequentando gli ambienti dell’alta società londinese, poteva osservare dall’interno i meccanismi decisionali e le pressioni che provenivano dalla cerchia dei «veri gentiluomini, i quali, avendo scoperto che al mondo non c'è nulla che abbia valore, erano ormai disposti a tutto»122. Non è un caso che nel racconto di Dickens, quando il signor James Harthouse, un funzionario del parlamento e un vero «partigiano del Puro Fatto»123, incontrò l'industriale Bounderby,

entrambi si trovarono immediatamente d'accordo che tutto dovesse restare grigio e pieno di fuliggine com’era. Invero, il colloquio tra i due gentleman, ha il valore simbolico di un’assoluta intesa sulla necessità che le fabbriche continuassero a inquinare, con evidenti sottovalutazioni sull’impatto ambientale («guardate il nostro fumo. Per noi è pane e companatico. È la cosa più salubre che ci sia al mondo, da tutti i punti di vista, soprattutto per i polmoni») e che allo stesso modo continuasse lo sfruttamento della classe lavoratrice, così mistificando le condizioni operaie: «è il lavoro più piacevole che ci sia, il meno pesante e il meglio retribuito»124. Harthouse rappresentava quella categoria di individui benestanti e facoltosi che, non avendo alcuna opinione, poteva far propria qualsiasi idea che gli avrebbe dato il maggior

121 D. Ricardo, On the Principles of Political Economy and Taxation, Batoche Books, Kitchener Ontario, 2001, p. 466.

122 C. Dickens, Tempi Difficili, cit., p. 151. 123 Ivi, p.152.

47 vantaggio possibile125.

Più in generale, Dickens non aveva una buona opinione della classe politica, di quei «sani spiriti giunti a tali sublimi vette d’indifferenza»126. Il parlamento

era per lui solo «l'immondezzaio nazionale», «un meccanismo un po' rumoroso e piuttosto sordido», mentre i parlamentari erano «i netturbini […] -che si

trastullavano- con un gran numero di scaramucce e rumorose polemiche»127.

In realtà, nel giudizio del romanziere inglese, era tutta la classe dirigente di

Westminister ad apparirgli corrotta e insensibile al richiamo dei valori morali,

oltre che al fine del miglioramento sociale. Di qui la polemica di Dickens nei confronti della legislazione contemporanea, concepita esclusivamente come un mezzo nelle mani dei ricchi per imporre il proprio potere sui poveri e sui diseredati. Non a caso, quando essa poteva in astratto entrare in conflitto con le élites della società, a costoro era comunque garantita l’impunità. Le essenziali parole di Blackpool possono ben esprimere tale ingiustizia: «quando ci sono dei problemi la gente privilegiata ha i soldi e gli ori […] Ma noi povera gente no. Loro tornano liberi per dei reati meno gravi»128. Lo Stato, dunque,

era esclusivamente, come tuonava l'operaio, «un grande imbroglio; un imbroglio bell'e buono»129.

Tuttavia, le «classi inferiori» non dovevano opporsi al destino che era tracciato per loro e su di loro, come fece intendere il signor Bounderby, rispondendo al suo operaio: «non chiamare imbroglio le istituzioni del tuo paese, altrimenti un giorno o l'altro ti ci troverai in un serio imbroglio. Le istituzioni del paese non sono affar tuo, e il tuo unico dovere è badare agli affari»130. La verità è che era

125 R. Williams, op. cit., p. 129.

126 C. Dickens, Tempi Difficili, cit., p. 151. 127 Ivi, p. 257.

128 Ivi, p. 91. 129 Ivi, p. 92. 130 Ivi, p. 92.

48 proprio «affare» degli operai la miseria che essi vivevano131.

Era dunque obbligo per Dickens denunciare lo stato d’ingiustizia che regnava nel suo Paese, inconcepibile che la terra esistesse per immiserire le persone, laddove in passato aveva fornito tutti i mezzi di sussistenza necessari, arricchendo con i suoi frutti ogni essere vivente. L’autore sosteneva che fosse contro natura il fatto che chi piantava e raccoglieva il grano non avesse niente da mangiare e chi cuciva non avesse da vestirsi, mentre quelli che non avevano mai cucito un solo centimetro di stoffa avevano a disposizione così tanti vestiti che sarebbero bastati a decine di lavoratori con le loro famiglie132.

«È proprio un bell’imbroglio. Guardate la città, ricca com’è, e guardate quanta gente è nata qui e passa la vita a tessere e cardare e guadagnarsi il pane. Sempre le stesse cose, dalla culla alla tomba. Guardate come viviamo, dove abitiamo, quanti siamo, le occasioni che abbiamo. Guardate com’è sempre uguale la nostra vita, come le fabbriche vanno sempre avanti e non ci portano mai da nessuna parte tranne che alla morte […]. Voi ci avete sempre ragione e noi sempre torto e da quando siamo nati non ci abbiamo avuto ragione proprio mai. E tutto questo cresce e aumenta ogni anno sempre di più. Chi è che può guardare tutto questo senza dire onestamente che è un bell’imbroglio?»133.

131 R. Williams, op. cit., pp. 128-129. 132 C. Dickens, On The Strike, cit., p. 554. 133 C. Dickens, Tempi Difficili, cit., p. 180.

49

2.4.1.

Dickens e il sindacalismo

La polemica di Dickens riguardava non soltanto la posizione privilegiata e protetta degli industriali, ma era critica delle stesse organizzazioni di lavoratori, i sindacati.

È un fatto che, immediatamente prima della stesura del romanzo, egli si recò a Preston, una cittadina industriale nei pressi di Manchester, per osservare da vicino lo svolgimento di uno sciopero destinato poi a diventare celebre per la sua durata di otto lunghi mesi (1853-1854).134

La protesta ebbe inizio quando, alla richiesta dei tessitori di telai meccanici di reintegrare nel loro salario il dieci per cento in meno imposto a forza nel 1847, i proprietari risposero chiudendo le fabbriche, rifiutando ogni tipo di negoziato, licenziando e dichiarando che non vi sarebbero state riassunzioni se gli operai non avessero lasciato le Unions.135

Dickens, assistette a due incontri sindacali, a commento dei quali non solo scrisse l’articolo «On Strike» pubblicato nel febbraio del 1854 sulla sua rivista

Household Words, ma ricavò l’ispirazione per trattare la tematica del

sindacalismo anche nel romanzo Hard Times.

Nell’articolo, dalla narrazione giornalistica dei fatti, emerge una posizione generale di favore ma al contempo una critica delle politiche, dell’organizzazione e del metodo di lotta dei sindacati.

Dickens non metteva in discussione e anzi difendeva il diritto dei lavoratori di potersi organizzare e unire. Polemizzava invece con quelle che erano le dinamiche interne a tali organizzazioni, dal leaderismo e dalla costituzione dell’opinione in maggioranza, ai comportamenti della folla impersonale e

134 C. Dickens, On The Strike, cit., p. 553. 135 M. R. Cifarelli, op. cit., p. VII.

50 manipolabile.

A Dickens non interessava schierarsi da una parte o dall’altra, farne una questione di appartenenza di classe, oppure una contesa ideologica, o filosofica, nel momento in cui l’oggetto del suo attacco era il rapporto di lavoro esistente nella società contemporanea e le reali conseguenze che gli sfruttati vivevano quotidianamente. Nel suo giudizio era come se sindacati e padroni fossero soltanto due facce della stessa medaglia, come se in gioco nel loro rapporto ci fosse solo una contrattazione delle condizioni di sfruttamento, senza comprensione reale delle sue dinamiche, delle origini del degrado morale e psico-fisico e della miseria degli operai.136 Non era perciò una soluzione di

compromesso, concepita su basi contrattuali, che avrebbe giovato alla loro condizione.

«Non serve a niente mettersi d’accordo per fare in modo che una parte abbia sempre e comunque ragione e l’altra sempre e comunque torto. Lasciate pure migliaia e migliaia di perone a vivere la stessa vita, dentro ai guai fino al collo,

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