• Non ci sono risultati.

Valutazione ecocardiografica del danno da ischemia-riperfusione nel paziente con infarto miocardico acuto

N/A
N/A
Protected

Academic year: 2021

Condividi "Valutazione ecocardiografica del danno da ischemia-riperfusione nel paziente con infarto miocardico acuto"

Copied!
118
0
0

Testo completo

(1)

INDICE

INTRODUZIONE 5-8

CAPITOLO 1

CARDIOPATIA ISCHEMICA 9

1.1 EPIDEMIOLOGIA DELLA CARDIOPATIA ISCHEMICA 9-10

1.2 ANATOMIA DEL CIRCOLO CORONARICO 11-13

1.3 FISIOPATOLOGIA DEL CIRCOLO CORONARICO

1.3.1 METABOLISMO MIOCARDICO E REGOLAZIONE DEL

CIRCOLO CORONARICO 14-16 1.3.2 ANATOMIA DEL CIRCOLO CORONARICO 16-17 1.3.3 ANATOMIA FUNZIONALE DEL MICROCIRCOLO

CORONARICO 17-20 1.3.4 ENDOTELIO E DISFUNZIONE ENDOTELIALE 20-21

1.3.5 ATEROSCLEROSI CORONARICA : LA STENOSI 21-22 1.3.6 CIRCOLI COLLATERALI 22-23

1.4 EZIOPATOGENESI DELLA ATEROSCLEROSI 23-26

CAPITOLO 2

MANIFESTAZIONI CLINICHE DELLA CARDIOPATIA

ISCHEMICA: IL DOLORE TORACICO 27-29

2.1 SINDROMI CORONARICHE ACUTE 29-32

2.2 INFARTO MIOCARDICO ACUTO 32-37

2.3 GESTIONE DELL’IMA STEMI 37-39

2.4 ANATOMIA PATOLOGICA DELL’IMA 39-41

(2)

CAPITOLO 3

TERAPIA RIPERFUSIVA DELL’IMA 42-45

CAPITOLO 4

DANNO DA ISCHEMIA-RIPERFUSIONE 46

4.1 EFFETTI BIOCHIMICI DELL’ISCHEMIA 46-47

4.2 EFFETTI BIOCHIMICI DELLA RIPERFUSIONE 47-48

4.3 DANNO DA ISCHEMIA-RIPERFUSIONE 48-54

4.4 FENOMENO DEL NO-REFLOW 54-56

4.5 MANIFESTAZIONI CLINICHE DEL DANNO DA

ISCHEMIA-RIPERFUSIONE 56-57

4.6 STRATEGIE TERAPEUTICHE CONTRO IL DANNO

DA ISCHEMIA-RIPERFUSIONE 57-58

CAPITOLO 5

EDEMA INTRAMIOCARDICO 59-61

CAPITOLO 6

RIMODELLAMENTO CARDIACO POST-

INFARTUALE 62-71

CAPITOLO 7

L’ECOCARDIOGRAMMA NEL PAZIENTE CON

INFARTO MIOCARDICO ACUTO 72-75

7.1 VALUTAZIONE ECOCARDIOGRAFICA DELLA

(3)

7.2 VALUTAZIONE ECOCARDIOGRAFICA DELLA

FUNZIONE VENTRICOLARE DIASTOLICA 79-81

7.3 VALUTAZIONE ECOCARDIOGRAFICA DEL

RIMODELLAMENTO CARDIACO 82-83

7.4 VALUTAZIONE ECOCARDIOGRAFICA DELLA

CINESI VENTRICOLARE SINISTRA 83-84

7.5 RUOLO DELL’ECOCARDIOGRAMMA NEL

PAZIENTE CON IMA STEMI 84-85

CAPITOLO 8

RUOLO

DELL’ECOCARDIOGRAMMA

NELLA

VALUTAZIONE

DEL

DANNO

DA

ISCHEMIA-RIPERFUSIONE

E

DEL

RIMODELLAMENTO

VENTRICOLARE NEL PAZIENTE CON INFARTO

MIOCARDICO ACUTO (STEMI) : STUDIO CLINICO

PROSPETTICO 86

8.1 BACKGROUND 86-87

8.2 SCOPO DELLO STUDIO 87

8.3 MATERIALI E METODI

8.3.1 POPOLAZIONE DELLO STUDIO 87-88 8.3.2 ACQUISIZIONE DEI DATI 88-90 8.3.3 ANALISI STATISTICA 90

8.4 RISULTATI OTTENUTI

8.4.1 DATI DEMOGRAFICI E CLINICI 90-92 8.4.2 DATI CORONAROGRAFICI 92-93 8.4.3 TRATTAMENTO FARMACOLOGICO 94 8.4.4 DATI ECOCARDIOGRAFICI 95-96 8.4.5 VARIAZIONE DEGLI SPESSORI DI PARETE 97-99

(4)

8.4.6 CORRELAZIONE TRA SPESSORI DI PARETE, FUNZIONE

CARDOIACA E VOLUMI VENTRICOLARI 99-101

8.5 DISCUSSIONE 101-102

8.6 LIMITAZIONI DELLO STUDIO 102-103

CAPITOLO 9

CONCLUSIONI E SVILUPPI FUTURI 104

BIBLIOGRAFIA 105-117

(5)

INTRODUZIONE

Sono passati piu’ di 30 anni da quando Andreas Gruntzig ha introdotto la rivascolarizzazione percutanea (PTCA) come strategia terapeutica aggiuntiva alla terapia medica o chirurgica nei pazienti con cardiopatia ischemica e aterosclerosi coronarica [1] . Ma se molti studi hanno ben stabilito il beneficio della PTCA nelle sindromi coronariche acute in termini di outcome dei pazienti trattati, tanti altri studi sottolineano l’importanza di una rivascolarizzazione tempestiva per prevenire lo sviluppo o l’estensione della necrosi del miocardio a rischio, cioe’ quella regione di miocardio che è andata incontro ad un insulto ischemico. Il concetto di ischemia risiede infatti nello squilibrio tra apporto e richieste ed è quindi un concetto del tutto dinamico: i miocardiociti ischemici, come tutte le cellule, non vanno incontro ad una morte istantanea allorquando il flusso sanguigno viene meno, ma sono dotati di una propria resistenza all’ischemia. Se dunque il flusso sanguigno viene correttamente ripristinato entro tempi che ancora rientrano nella soglia di resistenza all’ischemia delle cellule miocardiche queste possono sopravvivere e recuperare. Da ciò emerge che il fattore tempo è certamente un aspetto critico nella gestione dei pazienti con infarto miocardico acuto.. La sopravvivenza del miocardio dipende dal riconoscimento precoce della condizione di emergenza e dalla disponibilità, anche logistica, di un atto terapeutico tempestivo.

La rivascolarizzazione coronarica precoce è ad oggi il gold standard terapeutico nel paziente con STEMI, tuttavia la ricanalizzazione del vaso occluso espone, come in tutti i tessuti, ad un danno specifico che è il danno da ischemia-riperfusione. Pertanto nella vasta popolazione di pazienti sottoposti a PTCA primaria l’evoluzione nel tempo del recupero tissutale, e quindi l’outcome a lungo termine, è per una certa quota dipendente dallo sviluppo e dall’entità del danno da ischemia-riperfusione, che inevitabilmente si accompagna ad ogni procedura di rivascolarizzazione.

Da quanto detto deriva che gli esiti di una PTCA primaria sono del tutto diversi da paziente a paziente, seppur sussistano le stesse indicazioni. L’evidenza e la misura dell’entità del danno da ischemia-riperfusione rappresentano un parametro predittivo del recupero funzionale atteso nel singolo paziente. Queste considerazioni possono aprire prospettive di personalizzazione terapeutica finalizzate alla ottimizzazione della gestione dei pazienti dopo l’evento acuto.

(6)

Attraverso l’utilizzo di alcune tecniche di imaging come risonanza magnetica (RMN) , tomografia ad emissione di positroni con fluorodesossiglucosio (PET-FDG), scintigrafia miocardica ed ecocardiografia con dobutamina, è possibile valutare l’efficacia e quindi il successo della terapia riperfusiva in termini di miocardio salvato. Tutto questo puo’ avere una grande importanza a breve e lungo termine nel predire il rimodellamento cardiaco, il recupero funzionale e quindi la mortalità e morbidità. Tuttavia queste tecniche non possono avere una larga diffusione e non sono impiegabili quotidianamente a causa dell’elevato livello di specializzazione richiesta ed a causa dei costi pertanto diventano metodiche non ripetibili a brevi intervalli di tempo. Per tale motivo l’ecocardiografia , una tecnica semplice, ripetibile, non invasiva ed a basso costo potrebbe essere una soluzione ottimale per il controllo e la gestione di tali pazienti.

STATO DELL’ARTE

Gaash [2] negli anni ’70 fu tra i primi ad evidenziare, mediante l’ecocardiografia, l’ispessimento della parete infartuata dopo il ripristino del flusso coronarico. Egli attribui’ tale aumento dello spessore di parete all’ “ingorgo” vascolare che conseguiva al netto ripristino del flusso.

Nel 1984 Haendchen [3] precorse i tempi pubblicando un lavoro che correlava l’entità dell’ispessimento con la durata dell’occlusione coronarica (evidenziando come a tempi di riperfusione maggiori corrispondano maggiori incrementi dello spessore) e con la quota di necrosi miocitaria del relativo segmento : un incremento nello spessore della parete infartuata maggiore o uguale al 25% era associato ad una necrosi significativa e quindi costituiva un fattore prognostico fortemente negativo.

In letteratura l’ispessimento della parete infartuata dopo la riperfusione è stato variamente interpretato dal punto di vista prognostico, anche in maniera diametralmente opposta, cosicché si sono delineate due correnti principali: la prima considera l’ispessimento come un fattore positivo, espressione di una riperfusione avvenuta con successo e correlato a un irrigidimento con un minor bulging e discinesia parietale, la seconda ritiene che l’ispessimento sia viceversa un fattore negativo in quanto espressione del maggior edema e danno da ischemia-riperfusione.

(7)

• Biagini [4] : i segmenti con spessore telediastolico (EDWT) maggiore o uguale a 11 mm hanno le più alte chances di recupero mentre i segmenti con evidenza di riperfusione ma con EDWT inferiore a 11mm hanno una probabilità di recupero solo moderata;

• Baks [5] : i segmenti che presentano ispessimento dopo PTCA primaria normalizzano nel tempo la loro funzione contrattile;

• Merli e Sutherland [6] : la PTCA primaria si collega ad un aumento in acuto dell’EDWT della parete infartuata, espressione dell’edema da riperfusione, inversamente correlato alla stenosi residua del vaso responsabile; tale aumento rispetto alla parete di controllo non si registra inoltre con la trombolisi, la quale ristabilisce una pressione di perfusione solo parziale e non totale (EDWT come espressione di una riperfusione avvenuta con successo).

Nel secondo gruppo si collocano gli studi di :

• Pislaru [7] : l’aumento dell’EDWT è maggiore se l’ischemia si rende responsabile di una necrosi transmurale piuttosto che parziale, cioè se la necrosi è transmurale il danno da ischemia-riperfusione è massimo:

• Turschner [8] : in esemplari suini, l’induzione di una necrosi transumurale mediante l’occlusione totale dell’arteria circonflessa esita nell’aumento immediato dell’EDWT della parete interessata rispetto a quella di controllo e tale incremento procede in maniera logaritmica nei successivi 60 minuti di monitoraggio; l’analisi anatomopatologica testimonia infine che l’aumento dello spessore di parete è dovuto a un massivo edema extracellulare.

Turschner è il primo che formalmente afferma che l’identificazione in acuto di un ispessimento regionale di parete mediante la tecnica ecocardiografica in una zona infartuata riperfusa può essere usato nel paziente sia per evidenziare una riperfusione coronarica efficace ma anche per monitorare la presenza, l’estensione e la risoluzione dell’edema associato al danno da ischemia-riperfusione.;

• Streb[9] : procedendo nuovamente secondo la metodologia di Turschner, l’ispessimento di parete della zona infartuata connesso all’edema da riperfusione è minore negli esemplari suini nei quali si è precedentemente istaurato un flusso subottimale mediante l’inserimento per 4 settimane di uno STENT nell’arteria circonflessa responsabile di una stenosi tra il 30 e il 95% (in questo gruppo l’induzione di un infarto acuto transmurale è ottenuta ponendo il pallone da

(8)

angioplastica subito a monte della stenosi), comunque nemmeno in questi esemplari la cinesi risulta in acuto migliore.

Partendo da queste premesse e’ interessante approfondire il ruolo e la natura dell’ispessimento parietale del miocardio riperfuso nei pazienti con infarto miocardico acuto.

(9)

Capitolo 1

CARDIOPATIA ISCHEMICA

La cardiopatia ischemica comprende un gruppo di sindromi strettamente connesse tra loro e caratterizzate dalla comune patogenesi dello squilibrio tra apporto e richiesta di ossigeno e substrati energetici. Il termine ischemia deriva infatti dal greco e significa “riduzione di sangue”. Un tessuto ischemico ha quindi un debito di ossigeno e di nutrienti ed inoltre non è depurato dai cataboliti e dalle scorie, derivanti dalla proprie attività metaboliche subcellulari, che continuano ad accumularsi. La mancanza di flusso provoca in definitiva un insulto tissutale grave che esita infine nella necrosi. Una delle cause comuni di ischemia miocardica è la malattia aterosclerotica coronarica (CAD) la quale è responsabile della formazione di stenosi coronariche (critiche o subcritiche) causate da placche intimali ateromasiche le quali, indipendentemente dal grado di stenosi, possono acutamente complicarsi (rottura o trombosi) e dare origine, sul piano clinico, alle sindromi coronariche acute..

Le manifestazioni cliniche della cardiopatia ischemica sono rappresentate da :

• Cardiopatia ischemica cronica, la cui manifestazione clinica è rappresentata dall’angina pectoris stabile o a soglia fissa o da sforzo;

• Infarto miocardico acuto con sopraslivellamento del tratto ST (STEMI); • Sindrome coronarica acuta senza sopraslivellamento del tratto ST, a sua volta

classificabile come angina pectoris instabile o infarto miocardico acuto senza sopraslivellamento del tratto ST (NSTEMI), sulla base della assenza o della presenza di evidenza di necrosi cellulare;

• Morte cardiaca improvvisa di origine ischemica; • Scompenso cardiaco post-ischemico.

1.1 EPIDEMIOLOGIA DELLA CARDIOPATIA ISCHEMICA

Le malattie cardiovascolari rappresentano la prima causa di morte nei paesi industrializzati [10].

Negli USA più di 13 milioni di persone ne sono affette e circa 7 milioni hanno avuto esperienza di un evento acuto. La larga prevalenza di questa patologia è sicuramente connessa allo stile di vita ed all’aumento dei fattori di rischio ad essa collegati

(10)

(modificabili: fumo di sigaretta, diabete mellito, obesità, ipercolesterolemia, ipertensione arteriosa; non modificabili: l’età, tipicamente il sesso maschile e la familiarità per cardiopatia ischemica) [11][12][13][14]. Con l’urbanizzazione dei paesi in via di sviluppo anche in queste aree geografiche si sta verificando un aumento della prevalenza dei fattori di rischio, con la previsione che entro il 2020 la cardiopatia ischemica sarà la principale causa di morte a livello mondiale [15][16][17]

I soggetti più a rischio di cardiopatia ischemica sono quelli di sesso maschile di età medio-avanzata, anche se dopo la menopausa l’incidenza aumenta nel sesso femminile fino a eguagliare quella maschile.[18][19][20]

La mortalità legata alla cardiopatia ischemica è più alta nell’Europa dell’est (Russia, Germania) e più bassa nel Sud-Ovest europeo (Italia, Francia, Spagna, Portogallo, Grecia) : questo suggerisce l’importanza di fattori genetici, climatici e dietetici[21]. L’incidenza in Italia è di 235.4 eventi / 100000 uomini e di 100.1 / 100000 donne con una sostanziale differenza fra nord e sud : al sud si concentra la maggior parte dei casi, seguita dal centro e infine dal nord[22] Questo è il risultato di una completa inversione di tendenza rispetto agli anni ’90, allorquando il nord Italia risultava l’area a maggior incidenza. Questo trend inverso è il risultato di una campagna preventiva attuata maggiormente al nord piuttosto che al sud.

E’ essenziale sottolineare che, sebbene la cardiopatia ischemica sia strettamente associata dal punto di vista epidemiologico all’aterosclerosi coronarica (motivo per cui le campagne di prevenzione mirano al controllo dei fattori di rischio modificabili), la coronaropatia da sola non è una condizione sufficiente per lo sviluppo di un evento acuto; pertanto è più corretto considerare le due condizioni separatamente : esistono cioè pazienti con diffuse e gravi lesioni aterosclerotiche a livello coronarico che possono non sviluppare un evento ischemico e vi è una quota non trascurabile di pazienti (30-40 %) che sviluppano un evento acuto in assenza di una malattia aterosclerotica coronarica preesistente. Date queste premesse è intuibile che molti sono i fattori responsabili dello sviluppo di un evento coronarico acuto; pertanto la gestione del paziente deve comprendere una vasta campagna preventiva, che abbia come obiettivo la riduzione del rischio cardiovascolare globale del singolo paziente, ma anche una gestione più completa e tempestiva dell’evento acuto attraverso una maggiore conoscenza della fisiopatologia che lo sostiene..

(11)

1.2 ANATOMIA DEL CIRCOLO CORONARICO

Il cuore è irrorato dalle due arterie coronarie, destra e sinistra, che sostengono il circolo coronarico al quale di norma è destinato circa il 5% della gittata cardiaca.

Le arterie coronarie e le loro ramificazioni principali decorrono sulla superficie esterna del cuore, accolte nei solchi coronario ed interventricolari, e spesso circondate da accumuli di grasso epicardico; occasionalmente brevi tratti dei rami arteriosi sono coperti da fasci di miocardio disposti su di essi a guisa di ponte.

Solamente i rami più sottili delle arterie coronarie si approfondano nello spessore del miocardio e giungono fino al connettivo interstiziale dello strato sottoendocardico, dove è organizzata la rete capillare. La vascolarizzazione cardiaca è illustrata in figura 1.1. Le arterie coronarie originano dall’aorta ascendente in corrispondenza dei seni aortici di Valsalva subito al di sopra delle semilune destra e sinistra (semilune coronariche) della valvola aortica ; il calibro delle due arterie coronarie è molto simile, in media 3-4 mm, ma quasi sempre la coronaria sinistra ha un diametro leggermente maggiore. Prescindendo dal calibro, per convenzione si parla di arteria dominante in base alla origine del ramo interventricolare posteriore (o discendente posteriore): nella maggior parte dei casi (75-80%) esiste una dominanza destra perché la discendente posteriore rappresenta la naturale continuazione dell’arteria coronaria destra sulla faccia inferiore o diaframmatica del cuore in corrispondenza della crux cordis. Nel 20-25% dei casi viceversa la coronaria destra si esaurisce poco prima di raggiungere la crux cordis e l’arteria interventricolare posteriore rappresenta la naturale continuazione dell’arteria circonflessa (dominanza sinistra). Nell’5% dei casi esiste una circolazione cosiddetta bilanciata in quanto la discendente posteriore è sostituita da due arterie parallele l’una originata dalla coronaria destra e l’altra dalla coronaria sinistra,

Fra le due arterie coronarie, come pure fra i rami di una stessa arteria coronaria, esistono anastomosi, anche se spesso rappresentate da vasi molto sottili e perciò insufficienti a stabilire un valido circolo collaterale. Per tale ragione le arterie coronarie sono state definite terminali, più da un punto di vista funzionale che anatomico stretto. I principali collegamenti tra coronaria destra e sinistra sono situati in corrispondenza del setto interventricolare e a livello della parete anteriore degli atri. Una considerazione diversa è da riservare invece ai circoli collaterali coronarici che col tempo si istaurano in risposta a una diminuzione del flusso per la presenza di placche coronariche ateromasiche: la

(12)

sviluppo di circoli collaterali coronarici e la validità degli stessi può indirizzare a strategie terapeutiche di tipo conservativo.

L’arteria coronaria destra dopo l’origine dal seno aortico destro si dirige lievemente in basso e a destra collocandosi nel solco atrio-ventricolare fra auricola destra e faccia anteriore o sterno-costale del ventricolo destro; quindi, dopo aver circondato il margine acuto, continua il suo decorso nel solco atrio-ventricolare sulla faccia diaframmatica fino alla crux cordis, in corrispondenza della quale nel 90% dei casi piega in basso formando un’ansa a U e prosegue quale arteria discendente posteriore nel solco interventricolare posteriore. Durante il suo decorso la coronaria destra fornisce numerosi rami collaterali diretti all’atrio destro (tra cui nel 55% dei casi l’arteria del nodo seno atriale), alla faccia sternocostale e alla faccia diaframmatica del ventricolo destro, e infine stacca l’arteria del nodo atrioventricolare a livello della crux cordis e da ultima l’arteria interventricolare posteriore, la quale nel suo decorso nel solco omonimo fornisce rami per le porzioni limitrofe dei ventricoli destro e sinistro e rami perforanti settali che si distribuiscono al terzo inferiore del setto interventricolare, anastomizzandosi con i rami settali forniti dall’arteria discendente anteriore. Le ultime diramazioni della coronaria destra sono rappresentate dai rami posterolaterali per l’omonima parete del ventricolo sinistro.

L’arteria coronaria sinistra dopo l’origine dal seno aortico sinistro si dirige obliquamente in basso e a sinistra quale tronco comune, lungo circa 1 cm, coperto dal tratto iniziale del tronco polmonare, e quindi si divide nei due rami terminali di calibro pressoché uguale rappresentati dall’arteria interventricolare anteriore (IVA) o discendente anteriore (DA) e dall’arteria circonflessa (CX).

L’IVA, accolta nell’omonimo solco, discende fino all’incisura cardiaca del margine acuto che oltrepassa per fornire bravi ramuscoli alla superficie diaframmatica della punta del cuore ; durante il suo decorso la DA fornisce rami ventricolari per la faccia sternocostale dei ventricoli destro e sinistro, tra i quali il primo diagonale di sinistra ha calibro discreto, e rami settali perforanti che approfondandosi nei 2\3 anteriori dello spessore del setto interventricolare si anastomizzano con gli analoghi rami dell’arteria discendente posteriore; il primo ramo perforante è il più voluminoso e si distribuisce anche alla componente ventricolare del sistema di conduzione.

La CX abbandona quasi perpendicolarmente il tronco comune e decorre nel solco atrio-ventricolare, supera il margine ottuso e si porta sulla faccia diaframmatica del ventricolo sinistro esaurendosi (nel 80% dei casi) prima di giungere alla crux cordis; durante il suo

(13)

voluminoso è l’arteria del margine ottuso la quale seguendo il margine sinistro del cuore provvede alla sua irrorazione fino alla porzione apicale. Nel 45% dei casi l’arteria del nodo seno atriale è rappresentata dal primo ramo atriale della CX.

E’ importante conoscere il territorio di distribuzione di ciascuna arteria coronaria perché l’ostruzione di uno dei 3 vasi coronarici principali (DA, CX o coronaria DX) è responsabile di una necrosi clinicamente significativa di tessuto miocardico e perciò di un’IMA a sede nettamente differenziata.

(14)

1.3 FISIOPATOLOGIA DEL CIRCOLO CORONARICO

1.3.1 METABOLISMO MIOCARDICO E REGOLAZIONE DEL CIRCOLO CORONARICO

Le esigenze metaboliche del cuore sono garantite dal circolo coronarico ; allorquando si crea una discrepanza tra apporto ed esigenze metaboliche, intese sia in termini di apporto di ossigeno e substrati energetici che in termini di rimozione dei cataboliti prodotti dal metabolismo stesso, vi è l’ischemia. L’ischemia è quindi un concetto di insufficiente flusso ematico e non di semplice ipossia e il tessuto può andare in debito di ossigeno anche in presenza di un normale flusso ematico (ipossia senza ischemia), condizione meno grave dell’ischemia, nella quale si ha debito non solo di ossigeno ma anche di substrati energetici e di rimozione dei cataboliti.

Il cuore è un organo a metabolismo aerobico che può ricavare l’energia necessaria quasi esclusivamente tramite l’ossidazione dei substrati energetici e può sviluppare solo un piccolo debito di ossigeno; l’estrazione miocardica di ossigeno in condizioni di riposo è già prossima ai valori massimali pertanto l’aumento di apporto richiesto in situazioni fisiologiche come lo sforzo fisico può avvenire quasi esclusivamente tramite l’incremento del flusso sanguigno.

Le richieste metaboliche delle cellule miocardiche sono guidate dall’esigenza principale della sopravvivenza e secondariamente dallo svolgimento dell’attività contrattile per garantire una adeguata funzione di pompa.

(15)

I due determinanti principali della disponibilità metabolica miocardica sono (figura 1.2): la capacità di trasporto dell’ossigeno, come in tutti i tessuti (che può essere compromessa da condizioni che riducono la capacità del sangue di veicolare l’ossigeno come l’intossicazione da CO, gli stati anemici e l’insufficienza respiratoria da varie cause) e, più importante, l’entità del flusso coronarico.

In definitiva abbiamo da un lato l’offerta di ossigeno, dipendente da fattori quali la pressione di perfusione diastolica, le resistenze vascolari coronariche e la capacità di trasporto dell’ossigeno, dall’altro la richiesta di ossigeno del muscolo cardiaco, dipendente da fattori quali la tensione di parete, la frequenza cardiaca e la contrattilità miocardica, come mostrato in figura 1.3.

Figura 1.3

Il consumo totale di ossigeno da parte del cuore (mVO2) è pari a 6-8 ml O2/min/100 g di tessuto (il cuore normalmente pesa in toto 250-300 g) dei quali il 20% è destinato al metabolismo basale, l’1% all’attività elettrica, il 15% al carico di volume e il 64% al carico di pressione : si noti che il carico di volume richiede un lavoro inferiore da parte del miocardio e ha quindi anche un minore impatto in termini energetici rispetto al carico di pressione, e questo spiega per esempio perché l’insufficienza aortica è meglio tollerata dal cuore rispetto alla stenosi aortica.

Gli elementi che producono il maggiore incremento del consumo miocardico di ossigeno sono l’aumento del carico di pressione (aumento del 50%), l’aumento della frequenza cardiaca (aumento del 50%) e l’aumento della contrattilità (aumento del 45%); il carico di

(16)

controllare la frequenza cardiaca, la contrattilità e le resistenze vascolari periferiche, il SNA simpatico è il maggior determinante del consumo miocardico di ossigeno.

La tensione di parete è proporzionale alla pressione endocavitaria ventricolare secondo la legge di Laplace (Tensione = [Pressione endocavitaria * raggio] / 2 spessore parietale) : il sovraccarico di pressione è tra gli elementi che maggiormente determinano un incremento del consumo miocardico di ossigeno.

1.3.2 ANATOMIA DEL CIRCOLO CORONARICO

Nel circolo coronarico i capillari hanno la caratteristica di essere privi di tonaca muscolare e la loro parete è costituita esclusivamente da endotelio che poggia sulla membrana basale : questo fattore anatomico li rende maggiormente suscettibili all’azione della pressione all’esterno della loro parete cosicché la perfusione miocardica non avviene in modo continuo ma si interrompe durante la sistole, allorquando nella parete ventricolare sinistra si generano pressioni molto elevate, e poi riprende in diastole. Come mostrato in figura 1.4, il gradiente pressorio che genera il flusso coronarico è pari alla differenza tra (3) la pressione diastolica in aorta (durante la sistole i capillari coronarici sono collabiti) e (2) la pressione diastolica nel ventricolo sinistro (in diastole vigono pressioni che permettono il flusso coronarico capillare); l’entità del flusso dipende però infine anche dalla (1) durata del tempo diastolico.

Figura 1.4

Dato che l’aumento della frequenza cardiaca è fondamentalmente ottenuto mediante la riduzione del tempo diastolico, e dato che essa stessa determina un aumento del consumo e quindi del fabbisogno di ossigeno, la frequenza cardiaca rappresenta un altro

(17)

Per quanto riguarda la perfusione invece del ventricolo destro, assicurata dalla coronaria destra, si deve dire che essendo la pressione sistolica nel ventricolo destro molto più bassa rispetto a quella del ventricolo di sinistra, anche durante la sistole è presente un gradiente aorta-ventricolo sufficiente a permettere un certo passaggio di sangue nel circolo coronarico.

Nel circolo coronarico, mano a mano che si procede dal versante arterioso a quello venoso si individuano progressivamente le arterie epicardiche, con diametro > 300 micron, le piccole arterie, con diametro tra 300 e 150 micron, le arteriole pre-capillari, con diametro tra 150 e 10 micron, i capillari, con diametro pari a 8-4 micron, quindi le venule, con diametro tra 10 e 100 micron, ed infine le vene, con diametro > 100 micron. Il flusso coronarico del ventricolo sinistro ha luogo solo durante la fase diastolica ed è controllato da due fattori: il gradiente pressorio tra pressione diastolica aortica e pressione diastolica ventricolare, e le resistenze vascolari: l’insieme di arteriole pre-capillari, capillari e venule con diametro < 300 micron prende il nome di microcircolo ed a questo livello avviene la regolazione della perfusione miocardica mediante il controllo delle resistenze.

Figura 1.5

1.3.3 ANATOMIA FUNZIONALE DEL MICROCIRCOLO CORONARICO

Le resistenze del circolo coronarico sono concentrate in massima parte a livello del microcircolo: misurando la pressione a partire dall’origine della coronaria sinistra si nota che essa si mantiene inizialmente abbastanza costante, poi però al di sotto dei 300 micron di diametro inizia a scendere rapidamente, come mostrato in figura 1.6

(18)

Figura 1.6

Sebbene il flusso coronarico dipenda dal gradiente pressorio tra aorta e ventricolo durante la diastole, l’entità del flusso è regolata dal miocardio stesso sulla base del suo fabbisogno metabolico. La pressione aortica infatti si modifica nel tempo e non solo sulla base dell’esercizio fisico ma in dipendenza di numerosi stimoli e condizioni patologiche quali gli stress emotivi o anche semplicemente le variazioni di posizione, come nel passaggio dal clinostatismo all’ortostatismo. Il flusso coronarico, tuttavia, è regolato in maniera indipendente dalle variazioni della pressione aortica entro un certo range pressorio piuttosto ampio. Esiste cioè un meccanismo di autoregolazione del flusso coronarico, mediamente efficace tra i 60 e i 180 mmHg di pressione arteriosa media (nell’iperteso il range è spostato in maniera compensatoria su valori più elevati), che rende il flusso coronarico soggetto alle sole esigenze istantanee metaboliche miocardiche: all’aumentare della pressione aortica e quindi della pressione di perfusione coronarica il meccanismo di autoregolazione esita in una vasocostrizione, viceversa al diminuire della pressione aortica e quindi della pressione di perfusione coronarica il meccanismo di autoregolazione esita in una vasodilatazione.

L’autoregolazione del flusso è una prerogativa dei circoli nobili e infatti l’altro distretto nel quale si ritrova è quello cerebrale.

I meccanismi principali che intervengono nella regolazione del flusso coronarico mediante il controllo delle resistenze sono:

• meccanismo metabolico: la regolazione metabolica si basa sul rilascio di vasodilatatori endogeni che collegano le richieste miocardiche di ossigeno alle resistenze vascolari. Tra le molecole coinvolte è da ricordare prima tra tutte l’adenosina, che si forma per degradazione dell’ADP quando la rigenerazione dell’ATP a livello mitocondriale tramite il metabolismo aerobio diminuisce e diffonde dai cardiomiociti verso il circolo venoso coronarico; quindi il

(19)

• meccanismo endotelio-mediato: la vasodilatazione del circolo coronarico indotta dall’adenosina determina un aumento della velocità con cui il sangue perfonde il miocardio, però l’apporto di ossigeno e substrati energetici assieme alla rimozione dei cataboliti sono processi che necessitano di un certo tempo per realizzarsi cosicché esiste un meccanismo in grado di moderare la velocità di scorrimento del sangue nel circolo coronarico basato sulla liberazione da parte dell’endotelio di ossido nitrico (NO). Questo sistema risponde alle variazioni con cui il sangue scorre sull’endotelio determinando il cosiddetto shear stress (stress da attrito tangenziale) cosicchè all’aumentare della velocità di scorrimento del sangue nel lume vasale (e quindi dello shear stress) viene rilasciata una maggior quantità di NO e questo riporta la velocità del flusso ematico a livelli ottimali per consentire gli scambi;

• meccanismo neurormonale : il controllo neurormonale si svolge in modo complementare a quello metabolico ed è basato sull’azione del sistema nervoso autonomo (SNA). Le arterie coronarie sono infatti riccamente innervate dalle fibre del sistema simpatico e in misura modesta dalle fibre del parasimpatico e di conseguenza sono ricche di recettori adrenergici e muscarinici: si descrive un controllo simpatico caratterizzato da una vasocostrizione α-mediata bilanciata dalla vasodilatazione β1-mediata e un controllo parasimpatico caratterizzato da una vasodilatazione acetilcolina-mediata;

• meccanismo miogeno: a livello capillare gli scambi sono regolati da gradienti di pressione idrostatica e oncotica e affinché possano avvenire in maniera efficiente deve essere garantito un adeguato regime pressorio all’interno dei capillari. Il meccanismo miogeno consiste nella capacità della muscolatura liscia vascolare di opporsi alla pressione di distensione intraluminale che tende a modificare il calibro delle arteriole. In questo modo i vasi si rilasciano quando la pressione di distensione intraluminale è diminuita e si contraggono quando essa è elevata, così da opporsi alle modificazioni della pressione idrostatica capillare a valle. Tale meccanismo sembra operare attraverso l’attivazione di canali ionici sulle cellule muscolari lisce vasali tramite la stimolazione di recettori sensibili alle variazioni della tensione di parete (è comunque di importanza ridotta rispetto agli altri).

(20)

Nel circolo coronarico si possono individuare sedi preferenziali, anche se non esclusive, dove i vari meccanismi di regolazione agiscono, come illustrato in figura 1.7

Figura 1.7

Le arteriole coronariche si comportano come una serie di elementi specializzati che operano in serie in modo integrato: il meccanismo endotelio-mediato agisce soprattutto sulle arteriole più grandi, con calibro di 500-100 micron, il meccanismo miogeno interessa soprattutto le arteriole più piccole, con calibro < 100 micron, il meccanismo metabolico interessa soprattutto le arteriole pre-capillari. Le fibre nervose autonomiche hanno invece un’azione dipendente dalla localizzazione recettoriale: in particolare, i recettori α-adrenergici (vasocostrittori) prevalgono nei vasi epicardici mentre i recettori β1-adrenergici (vasodilatatori) prevalgono nei vasi intramuscolari.

1.3.4 ENDOTELIO E DISFUNZIONE ENDOTELIALE

Nella fisiologia del circolo coronarico un ruolo molto importante è quello svolto dall’endotelio: le cellule endoteliali sono cellule capaci di trasdurre segnali derivati dal sangue, di sentire forze meccaniche nel lume e di regolare il tono vascolare mediante il rilascio di molteplici fattori umorali vasoattivi sia vasodilatanti, come NO, prostacicline e EDRF (Endothelial Derived Relaxing Factor), sia vasocostrittori, come l’endotelina-1. Il ruolo dell’endotelio nelle patologie cardiovascolari è assolutamente centrale: la disfunzione endoteliale si associa costantemente alla malattia aterosclerotica clinicamente manifesta, agli stadi pre-clinici dell’aterosclerosi ed anche ai comuni fattori di rischio

(21)

Sebbene le placche aterosclerotiche non coinvolgano direttamente le piccole arteriole di resistenza, esse compromettono comunque la risposta di queste ultime agli stimoli vasodilatatori endotelio-dipendenti e ciò contribuisce notevolmente all’incapacità del vaso aterosclerotico di aumentare il flusso in caso di maggiore necessità metabolica. La disfunzione endoteliale non è sempre sinonimo di malattia aterosclerotica e parallelamente in presenza di CAD possono esistere vari gradi di disfunzione endoteliale.. Shiliakhto [25], studiando pazienti con pregresso infarto miocardico precoce ( < 45 anni di età) e provocando ischemia dell’arto superiore mediante compressione transitoria dell’arteria brachiale, ha dimostrato che la risposta vasodilatatoria reattiva al termine del test è alterata e il numero di cellule endoteliali desquamate circolanti è maggiore in questi pazienti rispetto ai controlli, ma l’associazione è più forte in presenza di ipertensione arteriosa e/o ipercolesterolemia rispetto agli altri classici fattori di rischio di aterosclerosi coronarica.

1.3.5 ATEROSCLEROSI CORONARICA : LA STENOSI

In presenza di una stenosi coronarica, l’influenza che essa autonomamente esercita sul flusso coronarico è dipendente dal diametro della stenosi, infatti la caduta pressoria trans-stenotica è inversamente proporzionale alla quarta potenza del raggio del lume, secondo la legge di Hagen-Poiseuille. In presenza di una stenosi severa, cambiamenti anche minimi del diametro luminale, secondari alla vasomotricità residua a livello della stenosi, possono causare modificazioni importanti del flusso transtenotico e precipitare un quadro critico acuto. La lunghezza della stenosi, in accordo con la legge di Hagen-Poiseuille (flusso = [π *δP* r^4] / [8*η*l])è anch’esso un parametro che incide sul flusso e sulla caduta pressoria transtenotica, ma in misura inferiore rispetto allo spessore della placca La coronarografia fornisce una valutazione anatomica delle stenosi espressa come riduzione percentuale del diametro del vaso; ad oggi una stenosi coronarica è definita emodinamicamente significativa se comporta una riduzione del diametro luminale di oltre il 75%. Come dimostrato da Lance Gould[26], stenosi coronariche sequenziali ciascuna inferiore al 50% oppure un restringimento diffuso del vaso possono produrre ischemia nei territori distali, quindi anche un vaso esente da stenosi emodinamicamente significative alla coronarografia può produrre ischemia miocardica. Inoltre l’importanza emodinamica di stenosi comprese tra il 40 e il 70% è dubbia e può richiedere il ricorso alla misura

(22)

(FFR), che rappresenta un indice funzionale utilizzato per valutare la severità funzionale della stenosi.

In definitiva quindi il meccanismo fisiopatologico sul quale insistono tutti i fattori di rischio cardiovascolari è rappresentato dalla riduzione della riserva coronarica e sebbene il substrato anatomopatologico che più spesso si rende responsabile della riduzione della riserva coronarica sia rappresentato dalla stenosi derivante dalla formazione di una placca aterosclerotica, quest’ultima non può costituire di per sé il bersaglio terapeutico : l’oggetto della terapia deve essere rappresentato dalle sole stenosi coronariche che si sono dimostrate responsabili di ischemia miocardica.

1.3.6 CIRCOLI COLLATERALI

I circoli collaterali possono limitare la gravità dell’ischemia, ridurre l’estensione dell’infarto e aumentare la sopravvivenza del paziente. ). Le conseguenze sul miocardio di una stenosi coronarica dipendono anche dalla capacità del microcircolo distale alla stenosi di dilatarsi e dalla presenza di circoli collaterali che connettono le arterie epicardiche a monte e a valle della stenosi. Solitamente il flusso coronarico a riposo rimane conservato fino a restringimenti luminali inferiori al 85-90% ma in presenza di circoli collaterali adeguati il flusso può essere mantenuto sufficiente a riposo anche per restringimenti superiori all’85-90% del diametro del lume.

I vasi collaterali possono essere preesistenti o neoformati. I vasi preesistenti normalmente sono chiusi e non funzionanti per l’assenza di un gradiente pressorio capace di alimentare il flusso tra le arterie interconnesse,in caso di occlusione però la pressione distale,a valle della stenosi,improvvisamente crolla e a questo consegue l’apertura dei vasi collaterali preesistenti. Il processo di trasformazione dei vasi preesistenti in veri e propri vasi collaterali maturi si realizza progressivamente e prende il nome di arteriogenesi : nelle prime 24 ore i canali vascolari si aprono passivamente secondo gradiente pressorio e per l’istaurarsi al loro interno di un flusso sanguigno si determina uno shear stress sulle cellule endoteliali che così si attivano e iniziano a produrre proteasi che degradano la membrana basale rendendo possibile la migrazione delle cellule endoteliali stesse,quindi dalla prima alla terza settimana si ha l’infiltrazione monocitaria con infiammazione e proliferazione cellulare dipendente dal rilascio di fattori di crescita e citochine,che determinano inoltre una migrazione organizzata delle cellule endoteliali e

(23)

longitudinali,infine dal primo al sesto mese si ha la deposizione collagenica e un’ulteriore proliferazione cellulare con finale ispessimento della parete vasale. Al termine di questo processo i vasi collaterali maturi raggiungono 1 mm di diametro e la loro struttura è praticamente indistinguibile da quella di una normale arteria coronaria di pari calibro. I vasi collaterali coronarici non si formano fino a che la stenosi non è almeno del 70% ; la presenza di fattori di rischio cardiovascolari, soprattutto il diabete mellito, riduce la possibilità di formazione dei circoli collaterali.

1.4 EZIOPATOGENESI DELLA ATEROSCLEROSI

Le arterie coronarie rappresentano uno dei distretti vascolari dove i classici fattori di rischio cardiovascolari agiscono in maniera sinergica causando in ultimo la malattia della parete arteriosa . L’ipertensione arteriosa, l’ipercolesterolemia, il diabete, il fumo di sigaretta e anche l’età determinano primariamente una alterazione dell’endotelio arterioso che è il primum movens nella formazione della placca aterosclerotica. L’endotelio esposto ai fattori di rischio diviene viscoso e permeabile a cellule e fattori circolanti. Questo porta alla attivazione di una cascata di eventi: produzione di molecole di adesione che mediano la diapedesi dei monociti circolanti, aumento dei segnali che promuovono l’attivazione e l’adesione piastrinica e che aumentano il passaggio ed il deposito nel sottoendotelio delle LDL circolanti. Le LDL tipicamente sono le lipoproteine circolanti che si accumulano nello spessore intimale in quanto le uniche in grado di farlo grazie alle loro piccole dimensioni; penetrate al di sotto dell’intima le LDL subiscono un processo di ossidazione che amplifica la risposta infiammatoria ed il rilascio di mediatori citochinici solubili [27][28][29]. L’aterosclerosi è quindi considerabile una risposta infiammatoria cronica della parete arteriosa, scatenata dal danno a carico dell’endotelio operato dai fattori di rischio ed è associata ad una importante alterazione della funzione endoteliale, a sua volta responsabile dell’evoluzione della malattia e delle sue conseguenze cliniche. Da un punto di vista istologico, l’aterosclerosi risulta un processo degenerativo e infiammatorio non localizzato che interessa in maniera polidistrettuale e diffusa il sistema vascolare arterioso. La placca aterosclerotica matura è definita come una lesione focale rilevata rispetto alla superficie endoluminale che origina nell’intima. Essa è composta da un nucleo molle e giallastro ricco di lipidi (core lipidico) al di sopra del quale si colloca un cappuccio fibroso variamente spesso costituito da fibrocellule muscolari lisce e tessuto

(24)

connettivo. L’organizzazione finale della placca è il risultato di un processo lento e progressivo che passa attraverso diverse fasi e riconosce diversi stadi

In ordine cronologico si evidenziano:

1. le macchie lipidiche, costituite da cellule schiumose (foam cells) isolate: esse sono macrofagi sottoendoteliali che hanno fagocitato le LDL ossidate

2. le strie lipidiche, derivate dall’organizzazione delle macchie lipidiche in colonne di foam cells tra loro aggregate

3. ,l’ateroma, nel quale si ha una vera e propria organizzazione dell’accumulo lipidico anche in sede extracellulare con formazione del core lipidico centrale. L’espressione relativa del cappuccio fibroso e del core lipidico nell’ateroma sono ampiamente variabili, anche in relazione al quadro clinico, stabile o instabile, del paziente in cui vengono studiati. Il fibroateroma, tipico delle fasi stabili della malattia, presenta un cappuccio fibroso o fibrocalcifico particolarmente sviluppato ed un core lipidico scarso o assente.

Caratteristiche della placca aterosclerotica instabile o vulnerabile sono invece: • abbondante core lipidico : >40% del volume totale della placca;

• fragile e sottile (<45 micron) cappuccio fibroso sul versante luminale : la scarsa rappresentazione del collagene e delle fibrocellule muscolari lisce determina una maggiore suscettibilità ad erosioni e fessurazioni della placca; • numerose foam cells infiltranti il core lipidico e complessità dell’infiltrato infiammatorio (quota in neutrofili e linfociti T) : da questi dipende un maggior grado di infiammazione,locale e sistemico;

• presenza di fenomeni necrotici e neovascolarizzazione;

• scarse calcificazioni : le calcificazioni,caratterizzanti alcune placche datate,sono segno di stabilità della placca.

La placca aterosclerotica così formata può andare incontro a modificazioni acute (si parla di fibroateroma modificato) quali: la fissurazione o la rottura, l’erosione, l’ulcerazione e l’emorragia endoateromasica. Queste modificazioni sono tanto più probabili quanto più la placca è vulnerabile .

(25)

Figura 1.8

In figura 1.8 sono mostrate a sinistra una placca aterosclerotica stabile stenosante cronicamente il lume coronarico, a destra una placca aterosclerotica vulnerabile andata incontro acutamente a rottura con sovrapposizione trombotica intraluminale e quindi responsabile di una sindrome coronarica acuta.

Poiché non tutte le placche vulnerabili vanno necessariamente incontro a rottura con sviluppo di eventi coronarici acuti è determinante la concomitante presenza di fattori scatenanti estrinseci alla placca che possono scatenare brusche modificazioni della configurazione della stessa e quindi la conseguente finale sovrapposizione trombotica. La rottura di una placca aterosclerotica coronarica vulnerabile con successiva sovrapposizione trombotica può essere determinata da vari triggers:

•elevata pressione arteriosa : aumento dello shear stress; •transitorio vasospasmo;

•stress meccanico dovuto all’aumento della contrattilità cardiaca; •elevata frequenza cardiaca.

Da questi fattori trigger si capisce come l’esercizio fisico o comunque la stimolazione adrenergica per esempio anche per intensi stati emotivi possano precipitare l’evento coronarico acuto nel paziente suscettibile ; per le stesse ragioni, si spiega anche perché la maggior parte degli IMA si concentrino nella prima parte della giornata, secondo il ritmo circadiano della stimolazione β-adrenergica.

Comunque non dobbiamo dimenticare che nel 30-40% dei casi l’occlusione coronarica acuta non è su base aterosclerotica; le cause di IMA non associato ad aterosclerosi coronarica sono numerosissime :

(26)

• vasospasmo; • vasculiti;

• malattie dismetaboliche che provocano alterazioni della parete coronarica quali mucopolisaccaridosi,omocistinuria,malattia di Fabry;

• embolia coronarica : vavulopatie (prolasso mitralico,endocardite batterica o non batterica su valvola protesica o non protesica),mixoma atriale,fibrillazione atriale,trombo endocavitario,embolia paradossa;

• contusione miocardica;

• anomalie coronariche congenite come aneurismi coronarici; • policitemia,CID; • amiloidosi; • tireotossicosi; • ipotensione prolungata; • Tako-tsubo; • coronaropatia attinica.

(27)

Capitolo 2

MANIFESTAZIONI

CLINICHE

DELLA

CARDIOPATIA

ISCHEMICA:

IL

DOLORE

TORACICO

Le manifestazioni cliniche principali della cardiopatia ischemica sono rappresentate dalle sindromi coronariche acute (SCA) e dalla angina stabile o a soglia fissa o da sforzo, espressione di cardiopatia ischemica cronica.

Il sintomo più frequente della cardiopatia ischemica è il dolore toracico (angina pectoris). Esso tuttavia non è né sempre presente né esclusivo di questa patologia. Infatti soltanto il 20% circa dei pazienti che accedono al pronto soccorso accusando dolore toracico ha in realtà una patologia cardiaca.

Il dolore toracico è perciò un sintomo che va interpretato, analizzando attentamente una serie di caratteristiche del dolore stesso: sede, irradiazione, durata, cause scatenanti, remissione, sintomi associati. L’analisi integrata di queste caratteristiche del dolore toracico può rendere altamente probabile l’origine cardiaca cel dolore (angina tipica), o viceversa renderla altamente improbabile (dolore toracico atipico). Tuttavia, anche in caso di sintomi dalle caratteristiche apparentemente atipiche, una quota variabile, ma fortunatamente bassa, di pazienti, può presentare una cardiopatia ischemica o comunque un dolore toracico di origine cardiaca (angina atipica).

Ischemia miocardica • angina stabile ;

• sindromi coronariche acute : o STEMI ;

o NSTEMI ; o UA.

Altre patologie cardiovascolari • pericardite acuta ;

• prolasso della mitrale ; • dissecazione aortica ; • embolia polmonare.

Ischemia miocardica in assenza di stenosi coronarica • spasmo coronarico ;

• miocardiopatia ipertrofica ; • insufficienza aortica grave ;

• ischemia da discrepanza (ipossia, anemia, tachicardia, crisi ipertensiva).

Patologie non cardiache • gastroesofagee ; • mediastiniche ;

• pleuropolmonari (embolia polmonare, pneumotorace, pleurite) ;

• psicogene (ansia, depressione, psicosi cardiaca) ; • parietali (nevriti intercostali e radicoliti posteriori,

affezioni muscolari, osteoalgie, sindrome dello scaleno anteriore, herpes zoster, costocondrite).

(28)

La diagnosi differenziale che deve essere posta dinanzi ad un paziente che accusa dolore toracico è veramente molto ampia : patologie cardiache, aortiche, polmonari, gastroesofagee, muscolo-scheletriche possono essere responsabili, e da ciò deriva anche una diversa gravità in cui si colloca lo stato del paziente. In figura 2.1 sono riportate in tabella le cause più frequenti di dolore toracico.

Un’attenta analisi delle caratteristiche del dolore riferite dal paziente può permettere l’attribuzione, con elevata probabilità, dell’origine cardiogena o non cardiogena dello stesso.

Nell’angina pectoris tipica, la localizzazione del dolore è in sede retrosternale (75% dei casi) generalmente nella parte medio-alta (precordio), anche se può essere interessata interamente tutta la regione retrosternale, e la qualità del dolore è di tipo costrittivo o meno frequentemente oppressivo, con conseguente mimica del paziente (segno di Levine), con irradiazione a livello della spalla sinistra (25% dei casi) ed estensione variabile lungo il versante ulnare del braccio, dell’avambraccio e talvolta finanche della mano sinistra; nel 17.5% dei casi però l’irradiazione dell’angina è a livello della spalla destra con estensione variabile all’arto superiore destro lungo il versante ulnare, sedi ancora meno frequenti di irradiazione sono la base del collo, con senso di costrizione alla gola e coinvolgimento dell’angolo mandibolare e dei denti, la regione precordiale destra (dolore complessivo a sbarra sul torace), la regione epigastrica e la regione interscapolare. Le sedi di localizzazione del dolore miocardico ischemico sono illustrate in figura 2.2. E’ possibile anche avere una sintomatologia dolorosa isolata nelle sole sedi di irradiazione e ciò potrebbe complicare notevolmente la diagnosi.

(29)

E’ importante sottolineare che non esiste nessuna correlazione tra la gravità dell’ischemia miocardica e la sintomatologia soggettiva del paziente, e a riprova di ciò si consideri che circa il 15% degli IMA avviene in totale assenza di sintomi (infarto silente) : in questi pazienti l’infarto miocardico è diagnosticato a posteriori, più o meno occasionalmente mediante indagini strumentali (ECG, ecografia o scintigrafia) o in seguito ad una complicanza acuta, solitamente infausta poiché non attesa, la più temibile delle quali è l’arresto cardiaco. L’IMA nel paziente diabetico è spesso silente a causa della neuropatia autonomica.

Le caratteristiche del dolore anginoso di tipo cronico sono del tutto simili qualitativamente a quelle del dolore anginoso di tipo acuto ma il contesto nel quale si realizza l’ischemia miocardica responsabile dell’angina è completamente differente perché diverso è il substrato fisiopatologico: nel caso dell’angina pectoris stabile una stenosi aterosclerotica significativa (≥75%), si rende responsabile di una ridotta riserva coronarica che è evidenziabile solo se le richieste miocardiche di ossigeno aumentano, tipicamente in corso di attività fisica. Il dolore si manifesta solo in queste situazioni ed ha una durata limitata (massimo 10-15 minuti), recedendo rapidamente alla cessazione dell’esercizio fisico o per azione della nitroglicerina sublinguale. In questi casi si parla di angina da sforzo o di angina a soglia fissa, nel senso che esiste una soglia fissa dell’esercizio in corrispondenza della quale compare il dolore. Nel caso delle SCA, invece, il dolore compare spesso inprevedibilmente, essendo precipitato da una occlusione coronarica acuta, completa e sostenuta in caso di STEMI, incompleta e intermittente o sostenuta in caso di NSTEMI, da vasospasmo coronarico o trombosi coronarica reversibile in caso di angina instabile. Il dolore anginoso che si associa all’infarto ha per i motivi sopra ricordati una durata nettamente superiore (per definizione > 30 minuti) rispetto all’angina stabile da sforzo.

2.1 SINDROMI CORONARICHE ACUTE

Le SCA si dividono in due grandi gruppi :

• infarto miocardico acuto con evidenza di sopraslivellamento del tratto ST all’ECG (STEMI);

• angina instabile/infarto miocardico acuto senza evidenza di sopraslivellamento del tratto ST all’ECG (UA/NSTEMI).

(30)

La patogenesi delle due forme di SCA è differente, sebbene collegata : lo STEMI è generalmente causato da occlusione coronarica acuta completa e sostenuta, l’ UA/NSTEMI è invece generalmente associato a occlusione coronarica acuta, sostenuta o intermittente, ma generalmente non completa.

Questa suddivisione è importante in quanto presenta notevoli implicazioni terapeutiche : se nell’ UA/NSTEMI l’obiettivo del trattamento è rappresentato dalla risoluzione dell’ischemia e dei sintomi, nello STEMI l’obiettivo del trattamento è rappresentato dalla ricanalizzazione coronarica e dalla riperfusione miocardica precoce.

L’angina instabile è una sindrome che riconosce numerose cause potenziali ed è definita come angina pectoris con almeno uno dei seguenti caratteri :

• si manifesta a riposo (oppure con minima attività) con durata maggiore di 20 minuti (se non interrotta con l’assunzione della nitroglicerina);

• è grave ed è descritta come dolore franco e di nuova insorgenza (entro 1 mese): da considerare un’angina instabile, solo eventuali successivi episodi tipici per angina stabile potranno far riconsiderare la diagnosi di cardiopatia ischemica cronica;

• si presenta con una sintomatologia ingravescente, cioè ogni volta più intensa, prolungata o frequente rispetto agli episodi precedenti (angina subentrante). La classificazione clinica di Braunwald dell’angina instabile[30] è di riferimento in quanto si è dimostrata un utile mezzo per la stratificazione del rischio[31] ; essa prevede una suddivisione in gruppi di pazienti in base :

• alla severità dell’ischemia miocardica:

1. classe I: angina grave di nuova insorgenza o angina ingravescente, assenza di dolore a riposo;

2. classe II: angina a riposo subacuta (nell’ultimo mese ma non nelle precedenti 48 ore);

3. classe III: angina a riposo acuta (nelle ultime 48 ore).

La probabilità di andare incontro entro 1 anno ad IMA o a morte aumenta dalla classe I (7.3%) alla classe III (11%);

• alle circostanze cliniche nelle quali si realizza l’attacco ischemico acuto:

1. A: in presenza di condizioni extracardiache che intensificano l’ischemia miocardica, per esempio tireotossicosi, infezioni o stati anemici (angina secondaria);

(31)

2. B: in assenza di evidenti fattori scatenanti non coronarici (angina primitiva);

3. C: nelle ultime 2 settimane dopo IMA (angina post-infartuale).

I pazienti con UA possono ulteriormente essere suddivisi in quelli con o senza modificazioni del segmento ST (sottoslivellamento o transitorio sopraslivellamento) e dell’onda T durante il dolore.

Dal momento che l’angina instabile è una sindrome clinica che riconosce numerose cause potenziali, spesso concomitanti, è stata elaborata anche una classificazione eziologica, la quale permette di perfezionare l’approccio diagnostico e di definire in modo più accurato le strategie terapeutiche per trattare la malattia di base che provoca l’angina instabile[32]. La classificazione eziologica identifica cinque processi fisiopatologici che possono contribuire, anche simlutaneamente, allo sviluppo dell’angina instabile :

• rottura, fissurazione o erosione di placca con sovrapposto trombo occlusivo; • ostruzione dinamica (vasospasmo);

• ostruzione meccanica progressiva (progressivo restringimento luminale);

• infiammazione/infezione (Chlamydia pneumoniae è stato chiamato in causa come causa potenzialmente trattabile di CAD [33][34]);

• angina instabile secondaria (scatenata da aumentata domanda miocardica di ossigeno o da diminuito apporto).

L’UA si differenzia dall’ NSTEMI per l’assenza della evidenza di necrosi miocardica, il cui sviluppo può essere evidenziato con varie metodiche strumentali (elettrocardiografia, ecocardiografia, scintigrafia) ma che comunemente viene indagato mediante il dosaggio seriato degli enzimi di miocardiocitonecrosi ; un altro parametro differenziale, certamente meno affidabile, può essere rappresentato dalla durata del dolore, in quanto raramente nell’ UA il dolore anginoso si protrae per oltre 20-30 minuti dato che questo è il tempo massimo di resistenza dei cardiomiociti all’ischemia (l’angina è quindi instabile perché a rischio di evoluzione in un infarto del miocardio).

Nell’infarto STEMI il flusso è generalmente assente nel territorio di distribuzione della coronaria perché questa è ostruita da un trombo completamente occludente il lume coronarico e per questo il dolore non è sensibile alla somministrazione di vasodilatatori (nitrati); nell’ UA/NSTEMI l’assunzione di vasodilatatori può invece migliorare la sintomatologia anginosa poiché il trombo non è completamente occludente il lume coronarico. L’ipotesi patogenetica dell’infarto NSTEMI, nel quale la necrosi è spesso

(32)

limitata al terzo interno della parete miocardica o comunque non si estende a tutto spessore nella parete ventricolare, risiede nella rottura di una placca coronarica vulnerabile cui consegue la sovrapposizione acuta di un trombo che però va incontro a lisi prima che la necrosi si faccia transmurale ; la regione subendocardica è infatti quella meno efficacemente perfusa e quindi la più vulnerabile in caso di riduzione del flusso coronarico. Conseguentemente, l’infarto STEMI lascia il segno di sè a livello elettrocardiografico in quanto nella regione miocardica nella quale vi è stata la necrosi transmurale si realizza una “finestra elettrica” che all’ECG risulta espressa dalla comparsa della onda Q di necrosi (risultante dalla posizione endocavitaria che l’elettrodo esplorante la regione in necrosi viene ad avere e dalla relativa percezione del vettore di depolarizzazione), cosicchè si parla anche di IMA Q. Di contro, nell’infarto NSTEMI (e nei piccoli infarti STEMI precocissimamente rivascolarizzati), poichè non si realizza una necrosi transmurale, la regione miocardica colpita continua a presentare una normale attività elettrica residua e il tracciato ECG non presenta segni di pregressa necrosi, cosicchè si parla anche di IMA non Q. Le diverse evoluzioni dei due tipi di infarto sono rappresentate in figura 2.3, nella quale lo spessore delle frecce è proporzionale alla evoluzione infartuale più frequente.

Figura 2.3

2.2 INFARTO MIOCARDICO ACUTO

La diagnosi di infarto miocardico acuto richiede l’evidenza della necrosi delle cellule miocardiche a seguito di ischemia prolungata. Tale evidenza può essere ottenuta con varie

(33)

metodiche: elettrocardiografica (nuove onde Q all’ECG); bioumorale (incremento tipico e significativo dei markers e degli enzimi cardiaci); ecocardiografica (nuove asinergie di contrazione); scintigrafica (nuovi deficit irreversibili di perfusione).

Per la diagnosi clinica devono essere presi in considerazione diversi parametri:

• clinici : dolore toracico di durata prolungata (solitamente superiore ai 30 minuti), eventualmente associato a segni e sintomi di insufficienza ventricolare sinistra (dispnea, rantoli polmonari). Possono essere presenti anche segni e sintomi di chiaro scompenso cardiaco (classi di Killipp) se non può più essere garantita un’adeguata funzione di pompa.

Il dolore probabilmente deriva dalla stimolazione delle terminazioni nervose presenti nel miocardio ischemico ma non necrotico. La persistenza prolungata del dolore è quindi indicativa o di un processo necrotico molto lento (per esempio per la coesistenza di circoli collaterali) o di una area ischemica a rischio molto estesa ai margini della necrosi. Frequentemente il dolore si associa a sudorazione algida, astenia, nausea, vomito, agitazione, pallore, vertigini, palpitazioni, ansia, senso di morte imminente ;

• elettrocardiografici: sopraslivellamento del tratto ST nello STEMI; sottoslivellamento del tratto ST, inversione delle onde T o assenza di alterazioni ECG nell’NSTEMI. Nell’NSTEMI dall’1 al 6 % dei casi l’ECG può essere del tutto normale.

L’alterazione elettrocardiografica considerata più specifica di ischemia miocardica in atto è il sopraslivellamento del tratto ST, comunque bisogna ricordare che anche le pericarditi acute presentano un sopraslivellamento del tratto ST, anche se di entità minore, persistente per alcuni giorni e presente in quasi tutte le derivazioni ; da quanto detto consegue che solo in un quadro clinico compatibile l’ECG non sopraslivellato ma anche sopraslivellato può essere indicativo di ischemia miocardica;

biochimici: la presenza in circolo di sostanze di natura proteica normalmente contenute all’interno delle cellule miocardiche indica che i cardiomiociti sono andati incontro a necrosi e rottura, però il passaggio nel sangue di questi marcatori di citonecrosi richiede alcune ore di tempo e inoltre è necessariamente dipendente dal ripristino del flusso nel territorio necrotico (infatti se la coronaria viene ricanalizzata la comparsa dei markers nel sangue

(34)

è più precoce). I marcatori di necrosi oggi correntemente utilizzati sono: la mioglobina, l’isoforma cardiaca della creatinchinasi (CK-Mb) e la troponina (Tn).

Alla troponina è attribuita particolare importanza diagnostica perchè la sua specificità nei confronti del miocardio è del 100%. Tuttavia, la specificità del marcatore nei confronti dell’IMA è molto inferiore, poichè esistono numerose situazioni nelle quali la troponina si altera conseguentemente a situazioni di necrosi miocardica non ischemica, come nella miopericardite acuta, nell’embolia polmonare, nella miocardite, nelle situazioni di shock, dopo cardioversione elettrica. Un altro problema della Tn è la sua elevatissima sensibilità : è stato definito il cut-off diagnostico dell’aumento al di sopra del 99º percentile dell’intervallo di riferimento perché i suoi incrementi si verificano anche per frequenti danni minimi del miocardio, non clinicamente rilevanti

Il picco della Tn è piuttosto tardivo, attorno alla trentesima ora, e dato che la realizzazione nel tempo della curva enzimatica è molto più significativo dei singoli dosaggi essa sarebbe in effetti un ottimo marker di conferma diagnostica tardiva di necrosi miocardica. Da quanto detto deriva che il monitoraggio dei markers di citonecrosi mediante prelievi ematici seriati allorquando l’ECG non è dirimente assume la massima significatività diagnostica (NSTEMI), comunque ad oggi il dosaggio in fase precoce della Tn è senza dubbio considerato un caposaldo per la diagnosi di infarto acuto sia STEMI che NSTEMI.

F

Figura 2.4

In figura 2.4 è rappresentato l’andamento dei markers di citonecrosi nel tempo.

Il dosaggio dei markers di citonecrosi ha assunto oggi anche un valore prognostico (soprattutto per quanto riguarda la troponina), direttamente

CK-MB Mioglobina Troponina Tempo di comparsa dall’insorgenza dei sintomi(h) 4-8 6 30 Picco(h) 16-30 24 6-8 Normalizzazione(h) 96 72 240

(35)

correlato sia al picco ematico raggiunto, sia, soprattutto, alla reale entità di liberazione ematica del biomarcatore.

La diagnosi clinica di IMA si avvale secondariamente anche di parametri:

• ecocardiografici : evidenzia di una asinergia di contrazione di nuova comparsa. Le anomalie regionali della cinesi parietale devono essere di nuova insorgenza perché viceversa possono rappresentare l’esito di un pregresso infarto;

• coronarografici : l’indagine emodinamica è invasiva e non esente da rischi perciò la selezione dei pazienti deve essere accurata. Lo scopo della coronarografia nell'IMA è non solo diagnostico, ma soprattutto terapeutico, in quanto indirizzato al trattamento delle lesioni coronariche. L’indagine coronarografica permette di visualizzare l'anatomia dell’albero coronarico. E' da sottolineare che l'assenza di malattia coronarica documentabile alla coronarografia è comunque compatibile con la diagnosi di IMA (ad esempio nella sindrome di Tako-Tsubo) e, al lato opposto, una coronaropatia anche severa ed estesa è spesso presente in assenza di IMA. Le eventuali stenosi riscontrate non sono necessariamente la causa dell’infarto e anzi devono essere valutate in relazione al quadro clinico e agli altri esami strumentali.

Le ultime linee guida della Società Europea di Cardiologia/American Heart Association e American College of Cardiology hanno recentemente elaborato una serie di criteri per la diagnosi di infarto miocardico acuto[35] Sono stati riproposti i criteri per la diagnosi di IMA sottolineando l’importanza sul ruolo chiave della troponina quale biomarcatore sensibile in grado di svelare lo sviluppo di necrosi miocardica, in un contesto clinico compatibile. Secondo la attuale definizione universale di IMA, la diagnosi può essere posta in presenza di un incremento e/o decremento dei marcatori cardiaci (preferibilmente la Tn) con almeno un valore al di sopra del 99º percentile dell’intervallo di riferimento insieme all’evidenza di ischemia miocardica con almeno uno dei seguenti :

• sintomi di ischemia miocardica;

• modificazioni ECG di nuova comparsa indicative di ischemia (alterazioni del tratto ST-T o BBsx di nuova insorgenza);

(36)

• evidenza all’imaging di nuova perdita di miocardio vitale o nuove anomalie della motilità regionale;

• identificazione mediante esame angiografico o autoptico di un trombo intracoronarico.

Uno tra i seguenti criteri è invece sufficiente per la diagnosi di infarto miocardico pregresso :

• presenza di onde Q patologiche all’ECG con o senza sintomi, in assenza di cause non ischemiche;

• evidenza all’imaging di una perdita di vitalità e di contrattilità regionale miocardica, in assenza di cause non ischemiche;

• reperti anatomopatologici di pregresso infarto miocardico.

La classificazione universale dell’infarto miocardico ad oggi identifica 6 tipi di infarto : • tipo 1: infarto miocardico spontaneo associato alla rottura, ulcerazione,

fissurazione, erosione o dissezione di placca che esita in una trombosi intraluminale che riduce il flusso di sange in una o più arterie coronarie o provoca una embolizzazione distale ;

• tipo 2: secondario ad una condizione che determina uno squilibrio tra offerta e domanda miocardica di ossigeno, come la disfunzione endoteliale coronarica, il vasospasmo coronarico, l’embolia coronarica, le tachi- o le bradiaritmie, l’anemia, l’insufficienza respiratoria, l’ipotensione e l’ipertensione, con o senza ipertrofia ventricolare sinistra;

• tipo 3: morte cardiaca improvvisa, inaspettata, spesso con sintomi suggestivi di ischemia miocardica, e accompagnata da presumibile sopraslivellamento del tratto ST o BBsx di nuova insorgenza e/o evidenza di trombo recente all’angiografia coronarica e/o all’autopsia ma in cui la morte si manifesti precedentemente al prelievo dei campioni ematici o prima che i marcatori cardiaci compaiano nel sangue;

• tipo 4a: per gli interventi coronarici percutanei, in pazienti con valori di base di troponina nella norma, l’aumento dei marcatori cardiaci al di sopra del 99º percentile dell’intervallo di riferimento è indicativo di necrosi miocardica periprocedurale;

Figura

Figura 7.6 : analisi ecocardiografica 3D degli speckles
Figura 7.7 : strain longitudinale, radiale, circonferenziale e torsionale  (3D-strain)
Figura 7.11                                                       Figura 7.12
Tabella 8.4  PAZIENTI  % Globale 63  100 STEMI Inferiore 37  58.7 STEMI Anteriore 26 41.3 PAZIENTI  % Globale 63  100
+5

Riferimenti

Documenti correlati

3.2.1 Decreto presidente consiglio dei ministri del 1 marzo 1991: limiti massimi di esposizione al rumore negli ambienti abitativi e nell'ambiente

A scandire quelle che, sommariamente, si sono indicate vicissitudini editoriali, la selezione comprende anche le lettere relative a episodi essenziali

The ambitious aim of the study by Kitsios and colleagues (pp. 1666–1677) in this issue of the Journal is to better define the interplay between the host inflammatory response and the

En un contexto de Estado de cultura como el actual, la cultura ha dejado de ser un instrumento del Estado con el que alcanzar sus fines, para convertirse en un fin del Estado en

The ICP-OES data were obtained by collecting samples from the circuit after 30 h of purification performed at a working temperature of 210 °C with electric currents of 15 and 6 A

del deposito archeologico – e qualche elemento ascrivibile all’aspetto Bonnana- ro, ritrovato entro la profonda fossa circolare g   , il contesto materiale della por - zione

Quanti più sono quelli che mi precedono, tanto più sono al sicuro, ma poi mi viene in mente perché alcuni avanzano così lenti, perché sembra quasi che la mazza da baseball e lo