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Livelli circolanti della Neurotrofina BDNF nella depressione: correlazioni con la gravità dei sintomi, lo stato metabolico e gli indici di flogosi.

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DIPARTIMENTO DI FARMACIA

Corso di Laurea Magistrale in Farmacia

TESI DI LAUREA

Livelli circolanti della neurotrofina BDNF nella depressione: correlazioni con la gravità dei sintomi, lo stato metabolico

e gli indici di flogosi Relatore: Prof. Gino Giannaccini

Prof.ssa Laura Betti

Correlatore: Dott.ssa Lionella Palego

Candidato: Alberto Brogi

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Sommario

Introduzione ... 3

Disturbi dell’umore e depressione ... 6

Teorie biologiche della depressione e dei disturbi dell’umore ... 9

Depressione e asse neuroendocrino ipotalamo-ipofisi-surrene ...15

Depressione, immunità e infiammazione ...20

Depressione e stress ossidativo ...24

Acido Urico e sistema purinergico ...30

La neurotrofina “Brain-derived neurotrophic factor” (BDNF) ...37

BDNF, depressione e risposta infiammatoria ...38

BDNF periferico ...41

Scopo della tesi ...46

Materiali e Metodi ...49

Soggetti ...49

Valutazioni psichiatriche ...50

Prelievo di sangue ...54

Trattamento delle piastrine per l’analisi del BDNF ...56

Dosaggio del BDNF col kit ELISA ...57

Preparazione della piastra e procedura operativa ...59

Dosaggio proteine totali: Metodo di Bradford ...61

Dosaggio dell’acido urico nel plasma ...63

Analisi Statistiche ...64

Risultati e discussione ...65

Valutazioni Cliniche ...65

Valutazioni chimico-cliniche, biochimiche e degli indici di flogosi ...67

Conclusioni ...80

Bibliografia ...83

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Introduzione

La depressione è una patologia grave che colpisce quasi il 20% della popolazione nel corso della vita, con importanti ripercussioni non solo a livello individuale, ma anche socio-economico. Si stima, infatti, che già a partire dal 2020, la depressione rappresenterà la seconda causa di disabilità e di costi i nel mondo dopo le malattie cardiovascolari. Se si tiene presente che non infrequentemente le due condizioni

patologiche coesistono, lo scenario si fa davvero drammatico.

Nonostante lo sviluppo di farmaci antidepressivi sempre più raffinati, a partire dai primi anni sessanta del secolo scorso, che senza dubbio hanno contribuito a migliorare significativamente la prognosi della depressione, tuttora un terzo dei pazienti risponde poco o non risponde affatto alle varie strategie terapeutiche. Inoltre, tutti gli antidepressivi non svolgono attività terapeutica prima di 3-4 settimane.

I primi antidepressivi disponibili sono stati i triciclici, cosiddetti per la loro peculiare struttura chimica, che agiscono aumentando i livelli delle principali amine biogene (noradrenalina, serotonina e dopamina) senza dubbio efficaci, ma anche non scevri di effetti collaterali invalidanti in molti pazienti. Tuttavia, grazie ai triciclici si sono iniziati ad approfondire non solo il loro meccanismo d’azione, ma anche le possibili basi neurobiologiche della depressione. La messe di studi che si sono accumulati nel decenni successivi hanno sottolineato il ruolo centrale della serotonina e del sistema serotoninergico, che risultavano ipofunzionanti. Per tale motivo, sono stati sviluppati e immessi nella pratica clinica a partire dalla metà degli anni ottanta del secolo scorso

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i cosiddetti inibitori selettivi del reuptake della serotonina, o SSRI, che sono la fluoxetina (Prozac, il capostipite), la paroxetina, la sertralina, la fluvoxamina, il citalopram e l’escitalopram. Rispetto ai triciclici, gli SSRI, considerata il loro specifico meccanismo d’azione, presentano un miglior profilo di tollerabilità, ma non sono privi di effetti collaterali.

E’, comunque, ormai evidente che una patologia complessa e con un quadro clinico multiforme come la depressione non possa essere sottesa dalle alterazioni di uno o pochi neurotrasmettitori, ma risulti dalle interazioni tra genetica, vulnerabilità di base, eventi vitali e alterazioni neurobiologiche. Si parla attualmente di depressione come patologia sistemica, che coinvolge cioè non solo il cervello, ma l’intero organismo. A supporto di questa ipotesi esistono numerose evidenze di alterazioni dei processi infiammatori, che si correlano anche all’attività di neurotrofine, in particolare del Brain-Derived Neurotrophic Factor (BDNF), della serotonina e di altri neurotrasmettitori, dell’attività dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene (HPA), dei sistemi che regolano lo stress e i processi metabolici.

La modulazione del BDNF, che risulta alterato in alcune categorie di pazienti depressi, sembra costituire una delle più promettenti strategie terapeutiche per lo sviluppo di farmaci antidepressivi innovativi, anche se i primi dati non sono incoraggianti. Infatti esiste il problema che una riduzione troppo rapida nell’organismo di BDNF sembra aumentare il rischio tumorale, per cui sono attualmente in studio alcuni farmaci biologici capaci di regolare la neurotrofina a

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comprensione di come il sistema delle neurotrofine e del BDNF possa interagire con la risposta infiammatoria nella patogenesi dei disturbi dell’umore.

Scopo di questo lavoro è stato quello di approfondire il ruolo del BDNF nella depressione maggiore, attraverso la sua valutazione in un campione ben definito di pazienti, esplorando le possibili correlazioni con parametri clinici e alcuni fattori metabolici, chimico clinici e di risposta infiammatoria.

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Disturbi dell’umore e depressione

I disturbi dell’umore sono caratterizzati da un ‘alterazione del tono dell’umore che crea sofferenza soggettiva e alterazioni del funzionamento sociale e relazionale.

I principali disturbi dell’umore sono la depressione maggiore (MD), il disturbo bipolare, la distimia, i disturbi dell’umore dovuti a una condizione medica e quelli dovuti a uso di sostanze (DSM5, American Psychiatric Association, 2013).

In tutti i casi si sottolinea come la fisiopatologia sia dovuta a una relazione tra fattori genetici, biologici e psicosociali (Figura 1).

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La MD, definita “endogena” in passato, è il più frequente disturbo dell’umore che colpisce con una maggior frequenza i soggetti di sesso femminile rispetto a quello maschile (con un rapporto di 2:1).Come già sottolineato, l’organizzazione mondiale della sanità (WHO) considera la MD come uno delle malattie più invalidanti al mondo, con un costo sociale molto elevato.

E’ caratterizzata da un insieme di sintomi tipici che possono essere distinti in:

 Sintomi affettivi

 Sintomi cognitivi

 Sintomi comportamentali

 Sintomi corporei/somatici

I sintomi affettivi comprendono una tristezza profonda e costante per gran parte della giornata, da non confondersi con la tristezza legata a particolari situazioni o eventi, che ha sempre una durata limitata nel tempo. Il paziente depresso è quasi sempre incapace di provare piacere: questa caratteristica si definisce anedonia. Oltre che con l’umore depresso, la MD può manifestarsi con umore irritabile, e/o con ansia e angoscia.

Il pensiero è spesso focalizzato su sensi di colpa, sensazione di vuoto, perdita di sentimento verso i propri cari, indecisione cronica, un rallentamento del flusso del pensiero (bradipsichismo), ruminazioni pessimistiche su di sé e sull’inguaribilità, fino ad arrivare a pensieri deliranti e suicidari. Ancora, tra sintomi cognitivi dominano un

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drastico calo dell’attenzione, isolamento sociale e tendenza a rimanere nel proprio letto per tutto l’arco della giornata (clinofilia), diminuzione dello slancio vitale e abulia.

Sul piano comportamentale il depresso presenta una riduzione dell’interesse nelle attività quotidiane, tende d avere meno cura di sé, del proprio aspetto fisico e della propria igiene personale, abbandonando abitudini come il lavarsi, truccarsi o pettinarsi. Si può arrivare alla tendenza a volersi isolare sempre di più, ed evitare un qualsiasi rapporto con l’ambiente esterno, trovando insopportabile ogni forma di contatto sociale.

Tra in più importanti sintomi somatici, ricordiamo i disturbi del ritmo sonno-veglia con aumento o diminuzione del sonno notturno che sono spesso il primo campanello d’allarme della patologia, quelli dell’appetito, il calo della libido o del desiderio sessuale, i disturbi gastrointestinali, la stanchezza cronica e l’ipocondria.

La MD può essere a episodio singolo, o ricorrente, nel caso che si verifichi, rispettivamente, una solo volta o più volte nel corso della vita, o avere caratteristiche di stagionalità, nel qual caso si parla di disturbo affettivo stagionale.

Il “disturbo bipolare”, che una volta si definiva “malattia maniaco-depressivo”, è meno frequente della MD, ed è caratterizzato da alternanza di episodi di MD a episodi di polarità opposta, manicali o ipomaniacali. Nel primo caso si parla di disturbo bipolare di tipo I, nel secondo di disturbo bipolare di tipo II. Ci sono poi altre forme meno gravi di disturbo bipolare come il tipo III.

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La fasi maniacali sono caratterizzati da innalzamento patologico del tono dell’umore,

iperattività, irritabilità, irrequietezza e loquacità, e richiedono sempre

l’ospedalizzazione, mentre quelle ipomaniacali sono meno gravi.

Esistono poi condizioni ancora più gravi, i cosiddetti “stati misti”, in cui i sintomi depressivi si manifestano assieme a quelli maniacali, e si caratterizzano per la presenza di confusione mentale, e sintomi psicotici, quali deliri (false convinzioni) e dispercezioni, come allucinazioni uditive o visive. Sintomi psicotici possono essere spesso presenti sia nelle forme più gravi di MD, caratterizzati essenzialmente da deliri di colpa e rovina, e nella fasi maniacali del disturbo bipolare, sotto forma di deliri di grandezza e onnipotenza.

Si deve quindi precisare che un quadro sintomatologico depressivo si può riscontrare sia nella Depressione Maggiore, rappresentandone la caratteristica saliente, sia nel Disturbo Bipolare, in alternanza agli episodi contro-polari. Si parla pertanto di episodio depressivo maggiore nell’ambito della diagnosi di disturbo dell’umore. La “distimia” è una forma di depressione meno grave che insorge durante

l’adolescenza i cui sintomi sono in genere cronici e da confondersi con tratti del carattere o della personalità: In passato, infatti, si definiva “depressione

caratterologica” o Charlie Brown’s syndrome”.

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L’ipotesi monoaminergica (Figura 2) costituisce ancora valida teoria, dato che è stato dimostrato che tutti i farmaci antidepressivi provocano in vitro un aumento dei livelli delle monoamine, in particolare di serotonina e noradrenalina, attraverso il blocco del meccanismo di re-uptake delle stesse. Tuttavia, queste osservazioni non sono state in grado di spiegare le evidenze cliniche che i pazienti depressi presentano un

miglioramento dei sintomi solamente dopo 4-6 settimane dall’inizio del trattamento farmacologico. Pertanto, dopo le prime semplicistiche teorie, insieme al progressivo sviluppo di metodiche di ricerca sempre più raffinate, sono stati accumulati via via dati che hanno permesso di delineare un modello patogenetico più complesso. Secondo le ipotesi più recenti e accreditate, infatti, il blocco del meccanismo di reuptake, che avviene subito dopo la somministrazione di un antidepressivo, entrano in gioco gli autorecettori, che regolano la sintesi del neurotrasmettitore, e anche alcuni postsinaptici. Inoltre, un’esposizione prolungata agli antidepressivi innesca una cascata di meccanismi molecolari che modulano la funzione di specifici geni coinvolti nell’ espressione e sintesi di differenti fattori trofici.

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FIGURA 2.MECCANISMO ALLA BASE DELL'IPOTESI MONOAMINERGICA (STHAL SM,ESSENTIAL PSYCOPHARMACOLOGY,5°ED

2019)

Attraverso questi meccanismi, i farmaci antidepressivi (e anche gli stabilizzanti dell’umore) possono migliorare l’alterata funzionalità di alcuni circuiti neuronali, implicati nella regolazione di umore, emozioni e processi cognitivi attraverso un parziale recupero del loro trofismo.

La perdita del trofismo neuronale determina anche una riduzione delle capacità e quindi di adattamento agli stimoli ambientali delle aree cerebrali che regolano le emozioni. Studi sperimentali hanno infatti dimostrato che le proprietà plastiche dei neuroni sono associate a modificazioni nella morfologia cellulare che possono determinare un aumento o una diminuzione nella formazione di sinapsi e spine dendritiche, così come un’estensione o ritrazione di dendriti. Nel loro insieme questi

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dati hanno contribuito a formulare quella che viene definita “ipotesi Neurotrofica”. (Figura 3)

FIGURA 3.SCHEMA IPOTESI MONOAMINERGICA E NEUROTROFICA E TIPOLOGIE DI ARBORIZZAZIONE DENDRITICA (CASTRÈN, 2004/2005)

Tale ipotesi è stata avanzata alla fine degli anni ’90 e si basa appunto sul concetto di perdita di trofismo nel tempo di neuroni in alcune aree cerebrali in seguito a stress prolungato. Numerose ricerche sperimentali su ratti sottoposti a uno stress cronico hanno dimostrato che i neuroni del nucleo accumbens, ippocampo e corteccia prefrontale mostrano una riduzione della densità delle spine dendritiche e dell’arborizzazione delle sinapsi e una riduzione di volume, che si definisce “shrinking”. Lo shrinking, che è stato dimostrato anche in pazienti depressi e in soggetti a stress cronico, è significativamente migliorato dagli antidepressivi. E’ dunque evidente che il meccanismo d’azione di questi farmaci è molteplice e

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fattori trofici sia mediatori del sistema immunitario (anch’esse collegate a meccanismi trofici neuronali), ripristinando il normale trofismo neuronale.

Le neurotrofine che sembrano più coinvolte nella fisiopatologia della depressione sono il Brain-Derived Neurotrophic Factor (BDNF), oggetto di questa tesi e in misura minore il Glial-Derived Neurotrophic Factor (GNDF). I dati disponibili hanno consentito negli ultimi anni lo sviluppo di molecole in grado di superare la barriera ematoencefalica e di avere un’azione diretta sui neuroni, attraverso dei meccanismi epigenetici, e così modulare la funzione di specifici geni capaci di esprimere molecole trofiche e/o del sistema immunitario. La speranza è che nel prossimo futuro tali molecole possano rappresentare una nuova classe farmacologica più efficace.

Nell’ultimo decennio sono andate sviluppandosi nuove teorie della depressione, vista sempre di più ormai come un disturbo mentale complesso dalle molteplici

sfaccettature, sotteso anche da alterazioni della risposta di adattamento e resilienza agli inevitabili stimoli stressanti o stressors che si incontrano durante la vita, con anche ripercussioni di tipo somatico. Più precisamente, la depressione viene oggi considerata una patologia multifattoriale, nella quale cambiamenti ambientali, dello stile di vita o legati a fasi di transizione del corso dell’esistenza, in relazione a

vulnerabilità genetiche e/o acquisite, definiscono una varietà di endofenotipi biologici e quadri clinici sintomatologici (Leuchter et al, 2014). Nel paragrafo precedente abbiamo descritto varie forme di depressione, sulla base dei principali sistemi

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sovrapposizione di sintomi diversi di varia entità. Per un completo management della depressione e delle sue forme resistenti e croniche, occorrerebbe forse poter

controllare i fattori neurochimici, neurobiologici e metabolici che ne “modellano” la presentazione.

Questa nuova concettualizzazione è andata consolidandosi grazie ai progressi tecnologici nel settore delle neuroscienze e alle conoscenze che si sono andate

affermando più recentemente. In particolare, gli avanzamenti nel settore sono dovuti a 4 percorsi della ricerca biologica sulla depressione strettamente interrelati e che sono attualmente in corso: 1) la ricerca delle basi molecolari e cellulari che

sottendono e facilitano l’insorgenza dell’episodio depressivo (fattori etiologici, genetica molecolare, epigenetica, ricerca di base, modelli animali); 2) la ricerca dei meccanismi patogenetici che definiscono la presentazione clinica della malattia mentale e la sua evoluzione temporale (correlati molecolari patogenetici centrali e periferici, genetica molecolare, epigenetica, tecniche di “brain imaging”, modelli animali); 3) la ricerca farmacologica e biologica nel settore terapeutico (sviluppo di nuovi farmaci, ricerca di nuove strategie terapeutiche, valutazione dello stile di vita del paziente); 4) monitoraggio della risposta agli agenti antidepressivi (meccanismi molecolari centrali e periferici che sottendono la risposta farmacologica,

monitoraggio terapeutico del farmaco, farmacogenetica).

Da un punto di vista neurobiologico, l’ipotesi monoaminergica e la teoria

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legati alla risposta allo stress. Nei disturbi dell’umore è stata da sempre studiata l’iperattività dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene (hypothalamus-pituitary-adrenal axis, HPA), ma solo di recente si è tornati a sottolineare il ruolo di questo sistema nella melanconia, nelle caratteristiche psicotiche e nel rischio di suicidio, in concomitanza a studi molecolari che hanno mostrato l’implicazione di parametri centrali e

periferici, tra cui varianti genetiche di fattori neurotrofici e citochine

pro-infiammatorie (Strawberidge et al, 2017). La disfunzione delle vie neuroendocrine dello stress è quindi un importante meccanismo molecolare che integra l’attività monoaminergica centrale e periferica, la funzione neurotrofica e fattori cellulari e umorali pro-infiammatori come effettori patogenetici della depressione (Leonard,

2010; Haroon et al, 2012).

Depressione e asse neuroendocrino ipotalamo-ipofisi-surrene

Da quasi cinquant’ anni si considera che l’attività anormale dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene (HPA) possa essere uno tra i fattori biologici più rilevanti che sono alla base dell’insorgenza e dell’esordio della depressione. Tuttavia, i meccanismi precisi che sottendono questa alterazione non sono stati ancora pienamente chiariti (Baumeister et al, 2016). L’attività di questo importante, asse che regola i

cambiamenti adattativi agli stress esterni, provenienti dagli eventi traumatici e/o piacevoli durante la vita, origina a livello limbico, più precisamente nelle proiezioni dell’amigdala e nei nuclei della stria terminalis che proiettano al nucleo

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paraventricolare dell’ipotalamo, nei nuclei parvocellulari, con la secrezione del fattore di rilascio dell’ormone adrenocorticotropo (CRF) e del peptide vasopressina (AVP). Il CRF raggiunge a sua volta l’ipofisi dove regola la trascrizione genica della propiomelanocortina, precursore di peptidi come l’adrenocorticotropina, la

β-endorfina e altri, e attiva il rilascio dell’ormone adrenocorticotropo (ACTH), che infine stimola la secrezione dei glucocorticoidi (cortisolo) dalla ghiandola surrenale (Arborelius et al, 1999). Il cortisolo e i glucocorticoidi rilasciati in circolo

raggiungono i propri recettori, GRs e MRs (recettore mineralcorticoide di tipo I), localizzati in molteplici target tissutali e cellulari sia del SNC che dell’intero organismo. Nel SNC, i glucocorticoidi regolano la sopravvivenza neuronale, la

neurogenesi, la grandezza di aree cerebrali quali l’ippocampo e modificano i processi di memoria e apprendimento emotivo degli eventi (Herbert et al, 2006), oltre a

regolare, mediante feed-back negativo sulle aree limbiche e ipotalamiche, il rilascio del CRF. A livello periferico, i glucocorticoidi agiscono modulando la risposta immunitaria e infiammatoria via specifici recettori localizzati sulle membrane di linfociti e leucociti (Lu et al, 2017) (Figura 4).

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FIGURA 4.SCHEMA ASSE IPOTALAMO-IPOFISI-SURRENE (MODIFICATO DA:THOMSON E CRAIGHEAD,2005, E DA DUNN, 2007)

In condizioni fisiologiche, l’attivazione dell’HPA ha un ruolo di primaria importanza nell’adattamento metabolico e immunitario agli stimoli esterni stressanti e alle

situazioni pericolose: la secrezione dei glucocorticoidi esercita anche un feed-back negativo sull’attivazione ipotalamica dell’asse, secondo un meccanismo di

autocontrollo della risposta. Il sistema HPA esercita un feed-back positivo

sull’amigdala e sulle reazioni di paura e rabbia, e quando attivato stimola i neuroni dei centri catecolaminergici, potenziando lo stato di vigilanza e di pronta reazione a fronte di situazioni di pericolo. Dal punto di vista metabolico, il cortisolo agisce, promuovendo la mobilizzazione delle riserve energetiche, inducendo la proteolisi, stimolando la gluconeogenesi, aumentando i livelli di glucosio ematici e riducendo

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l’attivazione della risposta infiammatoria per permettere all’intero organismo di reagire. Il loop endocrino dell’HPA è un esempio di risposta comportamentale, metabolica e cellulare combinata e regolata che integra in modo biunivoco funzioni del SNC e periferiche.

E’ stato ipotizzato che nella depressione questo asse, per motivi di varia natura, genetici e ambientali, è disfunzionante e iperattivo per la perdita del feed-back negativo da parte dei GRs sull’ipotalamo e l’ipofisi. Infatti, è stato ampiamente dimostrato che una percentuale di pazienti depressi presenta aumentati livelli di cortisolo nelle urine, nel plasma e nella saliva, con ghiandole ipofisi e surrene aumentate di volume (Nemeroff e Vale, 2005; Pariante, 2006). Le alterazioni

dell’asse HPA, la presenza di ipercortisolemia o di recettori GRs con sensitizzazione modificata e l’induzione di pattern infiammatori, come l’aumento di citochine

circolanti, la stimolazione di popolazioni leucocitarie specifiche e l’alterazione di fattori legati al rischio cardiovascolare quali VES, proteina C reattiva e reattività piastrinica, potrebbero essere parte di uno stesso meccanismo patogenetico nel

paziente psichiatrico depresso. Anche i recettori per i mineralcorticoidi o MRs hanno un ruolo nella disfunzione dell’asse nei pazienti depressi, suggerendo piuttosto uno stato di desensitizzazione e perdita d’inibizione a feed-back dell’HPA a più livelli nella patologia depressiva (Pariante e Lightman, 2008). E’ stato anche osservato che lo stress cronico, “scaricando” i meccanismi di regolazione dell’asse HPA, è in grado di generare alterazioni della microglia a livello ippocampale (Brites and Fernandez,

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pazienti depressi (Shao et al, 2018). L’attivazione della microglia e le conseguenze dello sbilanciamento dell’asse HPA accompagnato dalla resistenza ai glucocorticoidi, sono fattori che contribuiscono al perdurare della secrezione delle citochine pro-infiammatorie. Le citochine portano all’attivazione di specifiche vie metaboliche, quali lo shunt del triptofano, aminoacido essenziale precursore di 5-HT, chiamato via della chinurenina, che porta alla formazione dell’acido quinolinico in direzione

NAD+, stimolando il sistema glutammatergico a scapito della produzione di 5-HT

(Palego et al, 2016; Tafet e Nemeroff, 2016). I glucocorticoidi attivano l’enzima triptofano-2,3-diossigenasi (TDO) a livello epatico, l’enzima che inizia la via della chinurenina, sottraendo il triptofano all’uptake da parte di altri organi e alla

triptofano-idrossilasi (THP) per la sintesi di 5-HT, riducendone la concentrazione. Nella depressione la reattività dell’asse HPA è ridotta e l’attività dell’enzima TDO aumentata, mentre l’aumento delle citochine pro-infiammatorie promuove

l’induzione l’enzima indolamina-2,3-diossigenasi (IDO) linfocitaria che attiva la via

della chinurenina, spingendola in direzione NAD+ (Tafet e Nemeroff, 2016). Dirette

conseguenze sono la tendenza allo stato infiammatorio, la riduzione della sintesi di importanti indolamine attive per il controllo del tono dell’umore, per il mantenimento dei ritmi circadiani e la qualità del sonno, tutte funzioni alterate nella depressione e contribuenti alla gravità della sintomatologia. La disfunzione dell’asse HPA può avere ripercussioni non solo sui sistemi noradrenergico e dopaminergico, ma anche sul sistema del glutammato e sulla produzione di neurotrofine, modificando l’assetto di risposta allo stress in modo anormale, mettendo l’organismo in uno stato di allarme

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iperattivo, ma al tempo stesso meno efficace e promuovente una condizione di “scarica” del metabolismo energetico, con possibili cambiamenti dell’assetto nutrizionale e/o dello stato di stress ossidativo nei pazienti.

Depressione, immunità e infiammazione

Il ruolo dell’infiammazione nella depressione è ampiamente documentato. Pur non essendo una malattia infiammatoria, meccanismi cellulari e umorali facenti parte della risposta infiammatoria sono risultati alterati nella depressione (Amodeo et al,

2017). Recenti studi hanno messo in evidenza il possibile ruolo di proteine, definite

infiammasoma, in processi che fanno da ponte o meglio da sensore molecolare tra stress psicologico e risposte endogene adattative: tali proteine includono la famiglia

dei recettori “NOD-like”, l’IL1-, il sistema NLRP3 (infiammasoma contenente il

dominio pirinico 3) e altre ancora (Iwata et al, 2013). Si ritiene che lo studio approfondito dell’infiammasoma e delle sue interazioni con il sistema delle monoamine e delle neurotrofine possa chiarire molte problematiche legate alla patogenesi e al trattamento dei disturbi dell’umore e della depressione. La risposta infiammatoria e la risposta di coping allo stress condividerebbero meccanismi molecolari facenti parte di un sistema “pivot” endogeno, in grado di modulare l’apparato neuroendocrino e metabolico in senso fisiologico, oppure verso l’instaurarsi di una depressione conclamata e, nei casi più complessi, verso la

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alcune caratteristiche fondamentali di una risposta infiammatoria, esibendo un incremento dell’espressione di citochine pro-infiammatorie (Figura 5) e dei loro recettori, e un livello aumentato di chemochine sia nel circolo sanguigno periferico che nel fluido cerebro-spinale.

FIGURA 5.SCHEMA DELLE CITOCHINE PRIMARIE E DEI MEDIATORI SECONDARI (TRECCANI,2001)

Sono state descritte elevate presenze nel sangue di un macrofago pro-infiammatorio di tipo M1 e un’elevata quantità di interleukina di tipo 6 (IL-6), di tipo 8 (IL-8) e INF1. In aggiunta, è stato ritrovato in soggetti suicidi affetti da depressione maggiore un incremento dell’espressione dei geni di immunità innata e di proteine, fra cui IL1β, IL-6, Tumor Necrosis Factor (TNF), TLR3 e TLR4.

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(PCR), sono i marcatori biologici più affidabili riguardo all’infiammazione in pazienti depressi.

Polimorfismi di geni di citochine pro-infiammatorie, includendo anche IL-1β, TNF e proteina c-reattiva (PCR), sono stati associati a depressione e alla risposta al suo trattamento. Sono state trovate correlazioni positive e negative tra i livelli di PCR ad alta sensibilità, nel siero di donne affette da depressione, associate anche ad un elevato rischio di patologia cardiovascolare. (Ma et al, 2011).

La somministrazione di citochine pro-infiammatorie, per esempio IFNα o i loro induttori, tipo endotossine o la vaccinazione antitifica, provoca in individui sani sintomi chiaramente depressivi. Al contrario, il blocco delle citochine tipo TNF o di altre componenti dell’infiammazione, come la ciclossigenasi 2, hanno ridotto in maniera significativa i sintomi depressivi in pazienti affetti da altre patologie, tipo artrite reumatoide, psoriasi e cancro. Lo stesso risultato si è ottenuto in pazienti affetti da depressione maggiore (Marazziti et al, 2014).

In seguito, è emerso come i marcatori biologici dell’infiammazione sono elevati non solo in un sottogruppo di pazienti depressi, ma anche in soggetti con altri disturbi neuropsichiatrici come disturbo ossessivo-compulsivo, ansia e schizofrenia. Pertanto, è stato proposto di verificare l’impatto dell’infiammazione non sulla depressione tout-court, ma su sintomi specifici tramite diagnosi che si allineano al quadro dei criteri di ricerca presentato dal National Institute of Mental Health.

Tali sintomi fanno riferimento ad anedonia, affaticamento e compromissione psicomotoria, aumento della sensibilità alle minacce con risultato di ansia,

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eccitazione e stato di allarme. Si è anche notato che la presenza di infiammazione ha ridotto la risposta agli antidepressivi. In uno studio clinico recente, quasi la metà dei soggetti con mancata risposta alla terapia convenzionale, mostrava un livello di PCR > 3mg/L, valore che è considerato indicativo per elevato stato infiammatorio. Da notare che la percentuale di pazienti con alti livelli di PCR varia a seconda della popolazione in esame, essendo più alta in persone con depressione e resistenza al trattamento, che hanno subito maltrattamenti infantili oppure affetti da altre patologie mediche e sindromi metaboliche.

Per quanto riguarda il ruolo del sistema immunitario sulla sindrome depressiva, numerosi studi dimostrano come le cellule T proteggano dallo stress e dalla depressione gli animali da laboratorio. Infatti, trasferendo cellule T in animali cronicamente stressati, si otteneva un fenotipo antidepressivo. Questo dato è stato messo in relazione all’attività delle citochine pro-infiammatorie nel siero, con uno spostamento verso un fenotipo neuroprotettivo M2 nella microglia e un aumento della neurogenesi dell’ippocampo. Risultati simili sono stati ottenuti in topi sottoposti a stress acuto in cui la migrazione di cellule T nel plesso coroideo (situato nei

ventricoli cerebrali) ha provocato un’induzione dei glicocorticoidi all’espressione della molecola ICAM1, con riduzione dell’ansia. L’immunizzazione di animali inclini all’ansia con un antigene specifico ha riportato il traffico delle cellule T nel cervello, invertendo il comportamento ansioso con una neurogenesi aumentata e bloccando la depressione da stress.

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produzione di IL-4 nello spazio meningeo che stimola gli astrociti a produrre BDNF e promuove la conversione di monociti e macrofagi meningei da un fenotipo M1 pro-infiammatorio a uno M2 meno pro-infiammatorio. Il movimento delle cellule T nel cervello, spazio meningeo compreso, è diventato di particolare interesse con la recente descrizione di un sistema linfatico cerebrale fino ad allora sconosciuto. Le cellule T-Reg possono avere un ruolo nel ridurre l’infiammazione e nel sostenere l’integrità neuronale durante lo stress (Miller e Raison, 2016; Amodeo et al., 2017).

Depressione e stress ossidativo

Se pur non precisamente noti i meccanismi che sottendono le alterate risposte redox nelle varie forme di depressione, si è ipotizzato che lo scompenso dell’asse HPA, dei sistemi monoaminergici e neurotrofici possa influenzare lo stato metabolico e redox dei pazienti; inoltre, una risposta disfunzionale agli stressors può, da un lato, portare alla produzione di citochine pro-infiammatorie attraverso l’attivazione delle proteine dell’infiammasoma (Iwata et al, 2013), dall’altro, può essere associata all’alterato stile di vita dei pazienti e ai comportamenti alimentari scorretti tipici della patologia, con conseguenze sulla risposta anti-ossidante e sulle condizioni metaboliche e

nutrizionali del paziente depresso (Watkins et al, 2014; Maurya et al, 2016; Czarny et

al, 2018).

L’induzione di stress ossidativo (specie reattive dell’ossigeno, o ROS, e nitrosativo, specie reattive dell’azoto o RNS, Figura 6, A-B), accompagnata da una risposta

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immuno-infiammatoria, potrebbe svolgere un ruolo di rilievo nei meccanismi di base di molti disturbi psichiatrici tra cui depressione e disturbo bipolare. Ossigeno e azoto possono infatti alterare importanti funzioni cerebrali, modulando l’attività di

neurotrasmettitori (tipo glutammato), coinvolti nella neurobiologia della depressione.

FIGURA 6A.RAPPRESENTAZIONE DEI DANNI DA STRESS OSSIDATIVO A LIVELLO CELLULARE (SPRING HATFIELD,2019)

Il sistema antiossidante è definito da due componenti principali: gli antiossidanti non enzimatici e gli antiossidanti enzimatici (Young e Woodside, 2001). La prima

componente è data da tutte le sostanze, atomi e molecole, a basso o alto peso molecolare, che esercitano di per sé attività antiossidante neutralizzando i radicali liberi prodotti e residui del metabolismo energetico ed ossidativo, quali glutatione, tioli (R-SH), proteine plasmatiche, acido urico, Vitamina C, Vitamina E, Zinco e coenzima Q10 (Young e Woodside, 2001). Tale componente è misurabile nel plasma e nel siero dei soggetti in esame mediante varie tecniche, quali la determinazione di FRAP o potere antiossidante totale del plasma (Benzie e Strain, 1996). La misura FRAP valuta in particolare la presenza di acido urico, bilirubina, vitamina E,

FIGURA 6B.RAPPRESENTAZIONE DANNO NITROSATIVO

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vitamina C, e altre componenti plasmatiche che controbilanciano l’accumulo di ROS o RNS. La seconda componente è data da enzimi con funzione specializzata alla neutralizzazione delle specie radicaliche o reattive potenzialmente tossiche, quali superossido dismutasi, catalasi, glutatione perossidasi e reduttasi, sistema delle tioredoxine (Pham-Huy et al, 2008). Vari studi clinici e preclinici, hanno dimostrato che la depressione è legata a livelli alterati di marcatori di stress ossidativo, con concentrazioni ridotte dei vari antiossidanti sia non enzimatici che enzimatici, normalizzabili con l’uso di antidepressivi. Del resto alcuni antiossidanti (Zinco, N-acetilcisteina, acidi grassi liberi Omega 3), possono presentare proprietà

antidepressive.

L’esito dello squilibrio ossidativo o dello stress è legato a una eccessiva produzione di ROS (radicali liberi dell’ossigeno) che, a bassa concentrazione fisiologica,

funzionano come molecole di segnalazione e giocano un ruolo importante nella risposta immunologica per la regolazione dell’attività di varie cellule (ad esempio a livello della mitosi).

In alte concentrazioni, invece, i ROS portano a notevoli danni di componenti cellulari comprese proteine (recettori ed enzimi), lipidi e DNA, fino a portare all’apoptosi e alla morte cellulare.

Attualmente, alcuni studi mostrano che stress ossidativo e meccanismo

pro-infiammatorio svolgono un ruolo decisivo sia nell’invecchiamento che nello sviluppo di gravi patologie come cancro, malattie cardiovascolari e neurodegenerative

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la depressione maggiore, schizofrenia e disturbi bipolari. Questo è dovuto alla

spiccata vulnerabilità del SNC al danno ossidativo: la conseguenza è un alto utilizzo di ossigeno con produzione di radicali liberi, alto contenuto di acidi grassi insaturi come substrato per l’ossidazione stessa, potenziale redox di un certo numero di neurotrasmettitori, difesa inefficiente contro i radicali liberi, e infine alta

concentrazione di ioni metallici coinvolti nei processi redox.

Sulla base di dati clinici è stata formulata l’ipotesi che, attivando le vie infiammatorie insieme allo stress ossidativo e nitrosativo, si realizza la base fisiopatologica della depressione. Tale stress chimico, può causare oltre al danno tissutale, una risposta autoimmune. Può, infatti, alterare la struttura chimica di varie molecole, generando una varietà di epitopi modificati e quindi altamente autoimmuni. La nitrazione delle proteine, per esempio, dà luogo alla nitrotirosina, neoepitopo immunogenico. A sua volta l’ossidazione di autoepitopi di acidi grassi, normalmente ignorati dalle cellule del sistema immunitario, può comportare il loro riconoscimento nel momento in cui i componenti della membrana lipidica siano stati danneggiati da questi processi

ossidativi. Questo potrebbe spiegare come possa formarsi una immunoglobulina specifica tale da generare una risposta autoimmune contro acidi grassi e neoepitopi proteici.

In molti casi di depressione si è osservato proprio il danno ossidativo a carico dei lipidi. Un primo studio che collega depressione e perossidazione lipidica ha mostrato una diminuzione dei PUFA (acidi grassi polinsaturi) nelle membrane lipidiche dei globuli rossi di pazienti depressi, indicando un aumento della degradazione a catena

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lunga per perossidazione. E’ stato calcolato l’indice del potenziale ossidativo (OPI) per misurare la tendenza degli acidi grassi a ossidarsi. Risulta che nella depressione tale indice è ridotto, il che fa pensare a una diminuita capacità di ossidazione da parte dei fosfolipidi legata a un aumento del potenziale, con conseguente degradazione della catena lunga. In alcuni studi, altresì, i marcatori di perossidazione lipidica erano diminuiti dopo trattamento riuscito della terapia antidepressiva, in modo particolare nei lunghi trattamenti. In una forma acuta di depressione, è stato invece rilevato un aumento di ossidazione, con conseguenti danni al DNA nel sangue, nelle urine e anche nel tessuto cerebrale. Infine, all’esame autoptico, era risultato innalzato il livello di 8 idrossi-guanosina rispetto al gruppo di controllo, ma inferiore rispetto a quello di pazienti affetti da schizofrenia e disturbi bipolari. In altri studi in pazienti con depressione ricorrente sono stati evidenziati alti livelli di 8 Idrossi-Guanosina, rispetto a pazienti al primo episodio depressivo. Un altro parametro che si rileva nella depressione è una ridotta concentrazione di antiossidanti come vitamina E e coenzima Q10. Alcuni studi, comunque, non hanno evidenziato una stretta correlazione tra i livelli di Vitamina E, A e C e lo stato depressivo, nel senso che la loro concentrazione rimaneva invariata. Addirittura, uno studio mostrava che il livello della vitamina E era aumentato. In un altro lavoro invece, è stata notata una correlazione negativa tra vitamina E e patologia depressiva, mentre, un altro ancora, mostra un rapporto opposto tra Vitamina C e gravità di depressione. D’altra parte, altri studi mostrano come la terapia antidepressiva aumenti il livello di vitamina C o A rispetto a un ridotto valore basale. Si tratta comunque di dati controversi che necessitano di essere

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approfonditi in studi futuri.

I principali sistemi che proteggono dai danni cerebrali provocati dai radicali liberi, sono enzimi antiossidanti, espressi sia in periferia che a livello centrale. L’attività di questi enzimi, compresi rame-zinco superossido dismutasi, catalasi e glutatione perossidasi, in pazienti con disturbo unipolare è generalmente diversa da quella osservata in soggetti sani.

La maggior parte dei dati disponibili riporta un aumento dell’attività dell’enzima superossido dismutasi (SOD) nella depressione, ma è stato riportato anche il dato opposto (Vavàkova et al,2015). Comunque, in molti studi, il trattamento

antidepressivo è in grado di ridurre l’azione del SOD, la cui attività appare correlata positivamente alla gravità della depressione.

Nel disturbo unipolare si evidenzia una maggiore attività di catalasi e glutatione-reduttasi e una diminuita risposta del glutatione-perossidasi, e una loro

normalizzazione dopo terapia antidepressiva. Anche in tal caso sono stati riportati casi di ridotta attività della catalasi nella depressione (Oczan et al, 2004).

In pazienti con un solo episodio depressivo è stato poi notato che la capacità

antiossidante totale era inferiore rispetto all’indice di stress ossidativo nei confronti dei soggetti sani, ma che si normalizza dopo la terapia specifica (Marcin Siwek et al.,

2013). Tali risultati rifletterebbero, nel loro complesso, un’alterata reattività del

sistema antiossidante nelle varie forme e presentazioni della malattia, anche in base alla risposta farmacologica (Allen et al, 2018; Czarny et al, 2018).

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Acido Urico e sistema purinergico

Un capitolo a parte merita l’acido urico, per il suo ruolo sia come agente del sistema purinergico sia come specie redox, appartenente quindi a vie e networks implicati nella patogenesi di disturbi neuropsichiatrici e della depressione (Ames et al, 1981;

Nieto et al, 2000; Sautin e Johnson, 2008; Abbracchio et al, 2009).

L’acido urico (Figura 7) e le purine giocano un ruolo di primo piano nel regolare sonno, appetito, capacità cognitiva, pulsioni, memoria, soglia convulsiva, interazione

sociale e impulsività.

Figura 7. Struttura dell’acido Urico

In pazienti con disturbo bipolare, è stato notato un altissimo rischio di gotta, mentre uno studio recente ha evidenziato che migliorando il funzionamento di modulatori purinergici migliora immediatamente il quadro clinico di questi pazienti.

Recenti studi genetici suggeriscono che in particolare la modulazione dei recettori P1 e P2 (Figura 8), svolge un ruolo decisivo nei disturbi dell’umore. Mezzi sofisticati di indagine come la spettroscopia cerebrale hanno consentito di valutare le

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Il sistema purinergico, infatti, comprende recettori transmembranici P1 e P2, così definiti in base alla loro attivazione farmacologica: il primo da adenosina e il secondo da nucleotidi. P1 presenta 4 sottotipi recettoriali (A1, A2a, A2b, A3) ed è accoppiato a proteina G, una sua attivazione comporta una diminuzione dell’attività cardiaca data da un’inibizione del nodo atrioventricolare, vasodilatazione coronarica, broncospasmo, inibizione della degranulazione dei neutrofili e quindi un’azione antiinfiammatoria. P2 possiede invece 2 sottotipi recettoriali (P2X, P2Y) e, una volta attivato, permette un aumento delle secrezioni, della risposta immunitaria,

aggregazione piastrinica, ritmo cardiaco, tono vascolare e nocicezione. All’inizio degli anni ’70 è stato individuato il ruolo dell’ATP come neurotrasmettitore su alcuni nervi definiti appunto “purinergici”.

Studi successivi hanno rivelato la presenza sia di ATP che di adenosina nel SNC, così come lo stoccaggio e il rilascio sempre di ATP da parte dei neuroni.

Il sistema purinergico ha vari sottotipi di enzimi che degradano l’ATP in adenosina e inosina, ed è presente in varie aree cerebrali tra cui corteccia cerebrale, ipotalamo, gangli della base, ippocampo e altre aree del sistema limbico. L’ATP è presente sia in cellule neuronali che non neuronali e viene sintetizzato dai mitocondri durante la fosforilazione ossidativa, e poi è immagazzinato nel citoplasma dei terminali nervosi. Il sistema purinergico collega cellule neuronali e gliali, dove ATP genera segnali intercellulari di onde di calcio che portano alla formazione di sinapsi e favoriscono la plasticità neuronale.

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purinergici sulle cellule gliali provocando cambiamenti nelle concentrazioni

intracellulari di Ca++ e di AMPc, portando al rilascio gliale di ATP che influenza sia la proliferazione che la differenziazione, la motilità e la mielinizzazione del tessuto gliale.

Figura 8. Schema dei recettori purinergici, dei loro attivatori e il loro effetto fisiologico. (2010)

Gli effetti del sistema purinergico influiscono anche sul GABA, sul sistema

dopaminergico, su quello glutamatergico, nonché serotoninergico, tutti implicati tutti nella fisiopatologia del tono dell’umore.

Tanto l’adenosina che l’ATP e così pure loro metaboliti possono indurre effetti a cascata attivando recettori purinergici diversi che, a loro volta, sono un tramite tra il SNC e i sistemi immunitario e vascolare.

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ectonucleoside trifosfato difosfoidrolasi (ENTPDasi), fosfodiesterasi (NPP), fosfatasi alcaline (ALP) e ecto-5’-TNid. Questi enzimi catalizzano la reazione di demolizione completa dei nucleotidi, producendo adenosina. Questa può essere prodotta per scissione della S-adenosil omocisteina (SAH). L’adenosina può a sua volta essere assorbita dai trasportatori dei terminali nervosi e poi scomposta in inosina dalla adenosina-deaminasi, poi trasformata in ipoxantina tramite una nucleosidasi e infine scissa dalla xantina-ossidasi (XO) per generare il suo prodotto finale che è l’acido urico.

L’aumento del livello di questo acido accelera la trasformazione purinergica, diminuendo la trasmissione adenosinergica.

I metaboliti del sistema purinergico svolgono altresì un ruolo significativo come molecole di segnalazione aggiuntive o marcatori di attivazione in varie situazioni. Per quanto riguarda il ruolo del sistema purinergico, Kraepelin fu il primo studioso ad ipotizzare che fosse coinvolto nella patologia dei disturbi dell’umore (Kraepelin, 1921), suggerendo che l’escrezione di acido urico nei soggetti con stati di umore alterati fosse assai ridotta. Negli anni ’70 Brooks e collaboratori hanno studiato l’acido urico periferico, riferendolo a specifici sintomi umorali e hanno considerato che la clearance dell’acido urico derivava da un significativo turnover delle purine nel cervello. In quello studio si cercava una correlazione tra l’acido urico stesso e allucinazioni, tendenza al suicidio e forme maniacali. In realtà il sistema purinergico è stato collegato alla depressione maggiore (MDD), al disturbo bipolare (BD) e ai disturbi d’ansia tra cui: disturbi del sonno, anedonia, cambiamenti di appetito e dei

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livelli di energia e della funzione motoria, nonché deficit cognitivo e agitazione psicomotoria.

Studi sull’uomo hanno esaminato campioni di tessuto periferico, per valutare

l’espressione del recettore purinergico nei leucociti e analizzato i livelli circolatori di potenziali biomarcatori purinergici tipo l’acido urico. In particolare sono state

descritte situazioni cliniche di comorbilità; in pazienti affetti da disturbo bipolare si sono manifestati anche fenomeni di gotta. Inoltre, aumentate concentrazioni di acido urico sierico sono state rilevate in pazienti bipolari in relazione allo stato maniacale (Salvadore et al, 2010; Muti et al, 2015).

A livello molecolare, alcuni studi sull’uomo hanno dimostrato la disfunzionalità del recettore a valle dell’adenosina nel disturbo bipolare, evidenziando livelli alterati di cAMP, proteina chinasi C, e Ca++ intracellulare nei pazienti maniacali.

Nell’approfondire meglio le cause patogenetiche specifiche di questo sistema, sono state condotte indagini genetiche dell’espressione genica purinergica, rilevando polimorfismi a singolo nucleotide che mostravano effettivamente un aumentato rischio di disturbi dell’umore. In questi pazienti sono stati identificati metaboliti e marcatori dell’acido purinico, cercando nuovi approcci terapeutici con modulatori purinergici. Infine, studi di imaging hanno consentito di visualizzare il metabolismo di ATP e dell’attività del recettore P2X7 nel cervello, riportando risultati unici nello studio di popolazioni di individui depressi.

Come già detto, esiste una correlazione tra disturbi bipolari e fenomeni gottosi, il che conferma lo squilibrio metabolico dell’acido urico in questi pazienti. Oltre a ciò, il

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disturbo bipolare è associato a problemi di obesità, alterazioni tiroidee, malattie

cardiovascolari, e diabete. Tutto questo implica una disfunzione dei sistemi energetici e metabolismo nell’eziologia dei disturbi bipolari.

E’ stata evidenziata anche una correlazione fra disturbo bipolare e malattia di Lesch-Nyhan dovuta a carenza congenita di ipoxantina-guanina fosforibosiltransferasi, enzima che rigenera le purine nella loro via di recupero. Tale patologia è

caratterizzata da iperuricemia, con conseguente gotta, ritardo dello sviluppo neurologico, movimenti anormali, comportamento autolesionistico e instabilità dell’umore.

Il sistema purinergico e in particolare il recettore P2X7 è stato implicato in numerose condizioni del SNC, tra cui sistemi neurodegenerativi e legati alla

neuroinfiammazione come sclerosi multipla, dolore, convulsioni ed emicrania, nonché altre numerose patologie sistemiche. La maggior parte di queste è spesso associata a disturbi dell’umore.

L’evidenza che queste condizioni comportino la disfunzione del sistema purinergico, attraverso processi patologici centrali e periferici, supporta l’ipotesi che i disturbi dell’umore siano malattie sistemiche.

Questi risultati suggeriscono che il sistema purinergico possa essere un bersaglio interessante per identificare nuove terapie per il trattamento dei disturbi dell’umore (Machado-Viera, 2012; Bishnoi, 2014). Il sistema purinergico potrebbe collegarsi ai disturbi dell’umore per una disfunzionalità di ATP e adenosina su base ereditaria ovvero neuroinfiammatoria. Studi in vitro dimostrano che ATP e adenosina sono

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implicati nei meccanismi fisiopatologici e in potenziali terapie del tono dell’umore. Per esempio, recentemente si è scoperto che allopurinolo (Figura 9) e febuxostat (Figura 10), potenti inibitori delle xantina-ossidasi puriniche, che bloccano quindi l’accumulo di urati, hanno avuto effetti antidepressivi in alcuni modelli animali di stress.

Figura 9. Struttura Allopurinolo (2010) Figura 10. Struttura Febuxostat (2007)

I risultati erano paragonabili a quelli della fluoxetina. Questi dati preliminari sottolineano la necessità di studiare i meccanismi biochimici alla base della

disfunzione purinergica negli stati alterati dell’umore come strumento per identificare gli obiettivi terapeutici.

Come sopra indicato, si deve brevemente menzionare qui anche il ruolo particolare dell’acido urico nell’ambito della risposta redox e nell’azione scavenger di protezione dall’accumulo di radicali liberi, dato il possibile coinvolgimento dello stress

ossidativo nella risposta agli stimoli, traumi ambientali e nei meccanismi di coping, alterati nella depressione (Watkins et al, 2014). La formazione dell’acido urico è l’ultimo step del catabolismo delle purine e dei nucleotidi purinici in cellule e tessuti umani, soprattutto sotto controllo della dieta, in presenza di elevate quantità di acidi

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nell’uomo il gene che codifica per l’enzima uricasi, capace di trasformare l’acido urico in allantoina e presente nella maggior parte degli animali, non è attivo (pseudogene). Possiamo dire che nel contesto del metabolismo purinico, la via dell’acido urico è all’opposto della formazione dei nucleotidi ad alto contenuto energetico GTP and ATP. La capacità dell’urato ad agire come molecola scavenger dei radicali dell’ossigeno e a proteggere le membrane cellulari e, in particolare, degli eritrociti dalla perossidazione, fu descritta per la prima volta da Kellogg e Fridovich (Kellogg e Fridovich, 1977) e caratterizzata successivamente da Ames e coautori (Ames et al, 1981). L’acido urico circolante può neutralizzare i ROS circolanti

derivanti da reazioni tossiche, quali l’auto-ossidazione l’emoglobina e la formazione dei perossidi prodotti dalle cellule ematiche dell’immunità innata, effetti promossi anche dalla presenza di vitamina C (Sautin e Johnson, 2008).

La neurotrofina “Brain-derived neurotrophic factor” (BDNF)

Il BDNF (Figura 11), peptide di 27KDa, è una delle principali neurotrofine nel cervello dell’adulto dove svolge un ruolo importante nella proliferazione e differenziazione cellulare, nella protezione neuronale e nella regolazione della funzione sinaptica.

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Figura 11. Struttura tridimensionale del BDNF (2007)

Sintetizzato inizialmente come precursore (preproBDNF), subisce un primo clivaggio a proBDNF a livello del reticolo endoplasmatico. Successivamente, il proBDNF è trasportato all’apparato di Golgi mediante vescicole sia costitutive sia a secrezione regolata. È quindi convertito alla forma matura di BDNF da proteasi intra- ed extra-cellulari. La suddetta forma matura è quella che va a legarsi con il TRKB, una classe di recettori tirosin-kinasici che regolano la plasticità del SNC (Serra-Millàs, 2016).

BDNF, depressione e risposta infiammatoria

Come abbiamo spiegato in precedenza, lo stato infiammatorio sembra essere

ampiamente coinvolto nella fisiopatologia della depressione e dei disturbi dell’umore. Vari studi clinici mostrano alcuni effetti di potenziamento degli antidepressivi da parte degli antiinfiammatori (FANS o corticosteroidi) sia in aggiunta alla terapia tradizionale, sia in monoterapia.

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Tuttavia, la complessità della cascata infiammatoria, la limitata evidenza clinica e il rischio di effetti collaterali anche gravi, impongono ancora cautela estrema

nell’applicazione clinica di questi farmaci.

E’ pur vero che numerosi studi in vivo hanno dimostrato una relazione tra parametri dell’infiammazione ed espressione del BDNF nel cervello: infatti, un aumento di lipopolisaccaridi e/o citochine pro-infiammatorie comporta un drastico aumento dell’espressione genica del BDNF e delle sue concentrazioni nel sangue. Fra le più coinvolte sembrano essere IL-1β, TNFα e IFNγ che sono strettamente legate alla modulazione della neurogenesi. Si è evidenziato che nel ratto, in seguito ad

un’iniezione di IL-1β (che stimola le cellule immunitarie a produrre citochine pro-infiammatorie) o LPS, si ha un aumento dei livelli di BDNF-mRNA a livello dell’ippocampo e di altre regioni corticali. La IL-1β influenza la citogenesi

ippocampale e la neurogenesi in due modi distinti: tramite diretta interazione col suo recettore IL-1R1 e conseguente attivazione del fattore nucleare K (NFkB), e

attraverso la stimolazione della secrezione di glucocorticoidi in risposta allo stress ambientale. Lavori recenti hanno evidenziato che le lipoproteine diminuiscono il livello di BDNF nelle regioni prefrontali e nell’ippocampo, mentre lo aumentano a livello del nucleo accumbens. Tuttavia, non esistono ancora dati certi sulla

correlazione fra eventi infiammatori e l’espressione di specifici geni del BDNF, nonostante i numerosi studi in corso.

Gli effetti negativi dell’infiammazione sul BDNF sembrano avere importanti implicazioni in numerose condizioni patologiche, Le citochine pro-infiammatorie

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compromettono la memoria ippocampo-dipendente, aumentando il grado di apoptosi cerebrale. Tali condizioni sono alla base di molte malattie legate all’invecchiamento e a patologie neurodegenerative. E’ ben noto, inoltre, che l’attivazione del sistema immunitario e antiinfiammatorio può contribuire allo sviluppo di disturbi psichiatrici come schizofrenia o depressione maggiore.

Per quanto riguarda la depressione, vi sono alcune evidenze cliniche che supportano i dati teorici:

 I soggetti depressi presentano un aumento dei marker infiammatori (VES,

PCR, linfociti, granulociti, globuli bianchi, etc...) a livello periferico e nel SNC

 Numerose patologie correlate a uno stato di moderata infiammazione

presentano un alto tasso di comorbilità con la depressione.

 Molti pazienti con cancro o epatite C e trattati con INFα, sviluppano

depressione maggiore.

I numerosi dati disponibili supportano l’ipotesi che uno stato infiammatorio

moderato, promosso e indotto presumibilmente da un’attivazione alterata dell’asse HPA, possa contribuire allo sviluppo e/o alla progressione della patologia depressiva, tramite un’alterazione della neuroplasticità provocata da ridotto funzionamento del BDNF. In accordo con questa teoria, è stato osservato che l’infusione di LPS nella

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decremento dei livelli di espressione di BDNF a livello dell’ippocampo (Calabrese et

al. 2014; Ji-chun Zhang et al. 2015; Köhler et al. 2015).

BDNF periferico

Le piastrine (Figura 12) sono la fonte principale del BDNF periferico (circa il 90%) e svolgono un ruolo importante nell’immagazzinare questa neurotrofina secreta da altri tessuti.

Figura 12. Formazione delle piastrine a partire dal megacariocita (Marco Rissone)

Infatti, gli mRNA di BDNF e di TrkB, sono espressi in diversi tessuti non neuronali, compresi muscoli, timo, cuore, fegato, testicoli, cellule muscolari vascolari lisce, polmone e milza. Il BDNF viene prodotto anche a livello di monociti, linfociti ed eosinofili. Queste ultime cellule lo producono tramite il sistema autocrino,

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Un ruolo chiave di questa neurotrofina sta pure nella crescita, nella sopravvivenza e nella chemioresistenza delle cellule tumorali in varie patologie, tra cui il linfoma di Hodgkin, il mieloma, il carcinoma epatocellulare e il neuroblastoma.

Molte cellule non neuronali come le muscolari lisce, i fibroblasti e gli astrociti

possono non esprimere tutte le componenti molecolari della via secretoria sottoposta a regolazione e quindi sono in grado di secernere neurotrofine solo in maniera

costitutiva. La valutazione delle concentrazioni periferiche di BDNF viene considerata un metodo importante e non invasivo, nell’ambito dello studio dei

correlati diagnostici, prognostici e di monitoraggio dei pazienti depressi. Tuttavia, la misurazione del BDNF periferico si è rivelata molto più complessa di quanto

inizialmente stimato (Serra-Millàs, 2016). In condizioni fisiologiche esiste una stretta relazione tra BDNF e piastrine, in quanto queste sono il suo deposito nel sangue. Inoltre, durante il processo coagulativo, si nota una differenza di circa 100 o 200 volte tra i livelli plasmatici e sierici della neurotrofina rilasciata dalle piastrine. E’ stato dimostrato che la quantità di questa sostanza fisiologica nel siero è quasi identica a quella reperita nei lisati piastrinici lavati. Pertanto, i livelli di BDNF sierici e plasmatici sembrano riflettere la quantità di BDNF immagazzinata nelle piastrine circolanti e, quindi, queste ultime potrebbero fungere da serbatoio la neurotrofina circolante. Il siero conterrebbe dunque la quota di BDNF rilasciata dalle piastrine attivate durante la coagulazione.

Il BDNF nelle piastrine può svolgere un ruolo importante anche durante un trauma tissutale o in lesioni di nervi, rilasciando il contenuto a questo livello.

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Inizialmente è stato osservato che il BDNF non veniva prodotto dalla cellula

precursore dei megacariociti delle piastrine mature, dove manca la sintesi proteica, ma era invece presente nel torrente circolatorio. Uno studio più recente rivela invece che il BDNF si trova nel citoplasma delle piastrine e sugli α-granuli, il che potrebbe significare che sia prodotto proprio nelle piastrine o trasferito da un megacariocita (MK). Un’altra ricerca invece sottolinea come la linea progenitrice di un

megacariocita produca BDNF dopo stimolazione di trombopoietina, espressa anche nel midollo osseo da fegato e reni, mentre i livelli di BDNF nelle cellule MEG-01, aumentano in correlazione col tempo. Questa nuova ipotesi sulla produzione di BDNF in una linea cellulare di megacariociti ha portato alla conclusione che la neurotrofina in questione possa potenziare proprio la proliferazione cellulare dei megacariociti in vivo. E’ possibile allora che esista un recettore per BDNF sulla superficie cellulare di MEG-01, mentre non è mai stato trovato il recettore TrkB, neppure a livello piastrinico. E’ quindi possibile che esista un nuovo recettore sconosciuto su MK o sulle piastrine.

Alcuni agonisti come trombina, collagene, Ca++, o addirittura uno stress da taglio potrebbero indurre rapido rilascio di BDNF da parte delle piastrine. Anche in questa circostanza però solo la metà di esso sarebbe rilasciato, mantenendo nelle piastrine un pool stabile di questa sostanza come sistema tampone. Un altro studio invece riporta che il rilascio della nostra neurotrofina, nei pazienti depressi era indipendente dalla reattività piastrinica. Va comunque sottolineato che allora la conoscenza della

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tra i due.

Il tasso di rilascio del BDNF è concomitante alla secrezione di 5-HT dai granuli densi e di PF4 dagli α-granuli rilasciati in quantità assai maggiore rispetto al BDNF stesso. Infatti, alcuni ricercatori ipotizzano che ci sia una quantità di questa neurotrofina non rilasciabile, vale a dire sequestrata da un trasportatore o legata ad un recettore sulla superficie piastrinica. Questo potrebbe favorire la permanenza all’interno delle piastrine di BDNF, come è stato visto per 5-HT e per gli astrociti. Alcune tecniche microscopiche Immunoelettroniche suggeriscono che le piastrine possano legare il BDNF esogeno.

Uno studio recente mostra che il BDNF è presente sia negli α-granuli che nel citoplasma, e si ritrova sia come P-Selectina, ovvero come marcatore α-granulo sia come PKC, marcatore citoplasmatico.

La produzione piastrine di BDNF attraverso l’attivazione del recettore PAR1, stimolato dalle proteasi durante la stimolazione trombinica, con il fattore di crescita dell’endotelio vascolare senza stimolazione di endostatina. Il peptide attivatore del PAR1 ha mostrato una curva dose risposta di rilascio di BDNF a due fasi: la prima è di massiccio rilascio con attivazione a basso livello completamente inibita dalla prostaglandina PGE1, il che suggerisce che questa fase dipenda dalla mobilitazione del Ca++. La seconda è di lieve rilascio con attivazione ad alto livello, e non ènon interessata dal blocco da parte di PGE1, suggerendo che debba esistere un altro segnale non influenzato da questa prostaglandina.

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E’ interessante notare come l’attivazione di PAR1 promuova il rilascio di fattori pro-angiogenici e tra cui andrebbe annoverato anche il BDNF sia fra questi fattori.

Altra dato interessante è che il BDNF nei granuli α è rilasciato sulla piastrina attivata, mentre quello citoplasmatico non lo è (Serra-Millàs, 2016).

Da tutto quanto visto in precedenza, si evince l’assoluta importanza della risposta infiammatoria nella depressione e più in generale nei disturbi dell’umore. In queste condizioni, l’organismo risponde con un aumento della sintesi di BDNF, neurotrofina il cui scopo è forse quello di limitare gli effetti patologici prodotti dallo stato

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Scopo della tesi

Esiste un’ampia letteratura sui correlati neuroanatomici, neurofisiologici e

neuroendrocrinologici del DDM, anche se fino ad ora nessun esame di laboratorio è stato sufficientemente sensibile e specifico come strumento diagnostico. Numerosi studi indicano, in aggiunta ai neurotrasmettitori e ai marcatori neuroendocrini che sono stati studiati per molti anni, il coinvolgimento della risposta infiammatoria e più in generale del sistema immunitario, dei fattori metabolici e di crescita (Strawberidge

et al, 2017). Inoltre, alla luce di quanto finora scoperto e pubblicato in letteratura,

attualmente riveste un grande interesse comprendere appieno le basi molecolari della mancata o parziale risposta alle terapie farmacologiche della depressione, patologia di grande impatto sociale. Infatti, nonostante il notevole miglioramento della gestione dei pazienti anche più gravi grazie al progresso della ricerca farmacologica e alla possibilità di scelta terapeutica tra antidepressivi con meccanismi d’azione più selettivi, circa il 30-40% dei pazienti non risponde o tende alla cronicizzazione. Si definisce depressione cronica quella condizione caratterizzata da episodi ripetuti, in media 5 durante l’arco della vita; è stato stimato che il numero di episodi precedenti aumenta il rischio di recidiva futura; circa il 50-60% dei pazienti che guariscono dal primo episodio corrono il rischio di ricaduta, e tale percentuale aumenta via via al numero di episodi successivi (Liu et al, 2019).

Tra i fattori ipotizzati alla base di questa condizione ricordiamo la variabilità

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altri psicofarmaci, e la scarsa aderenza a trattamenti che a volte durano tutta la vita. Le alterazioni del sistema infiammatorio e immunitario sono attualmente indagate come possibili fattori di vulnerabilità alla recidiva o cronicizzazione della

depressione/o di desensitizzazione dei targets della terapia antidepressiva (Carvalho

et al, 2013), tra cui modificazioni dell’infiammasoma, ovvero il proteoma legato

all’avvio del processo infiammatorio (caspasi, IL-1 e suo recettore, catepsine, famiglia di recettori PRR o “pattern recognition receptors”), (Müller et al, 2011;

Iwata et al, 2013).

Considerando tali presupposti, lo scopo di questo studio sperimentale è stato quello di valutare, in un gruppo di pazienti con depressione per lo più cronica e con una scarsa riposta alla terapia farmacologica, sia lo stato di infiammazione, sia lo stato

metabolico e di stress ossidativo, sia i livelli plasmatici e piastrinici di BDNF, e le loro possibili relazioni con la gravità della sintomatologia, includendo anche la durata della malattia. L’ipotesi da verificare consisteva nel possibile utilizzo dei livelli di BDNF circolante, sia plasmatici che piastrinici, come correlati della gravità dei

sintomi, valutando le variazioni di neurotrofina periferica in relazione alla presenza di determinati pattern infiammatori, metabolici e clinici. I sintomi clinici sono stati valutati con opportuni questionari psicometrici: la “Hamilton Depression Rating Scale” (HRSD o HAM-D) (Hamilton, 1960); la “Young Mania Rating Scale”

(YMRS) (Young et al, 1978); la “Clinical Global Impression- severity, improvement or change and therapeutic response” (CGI) (Guy and, William, 1976) e la “Global Assessment of Functioning” (GAF).

(48)

I parametri metabolici e d’infiammazione, valutati tramite analisi routinarie di laboratorio chimico clinico, erano i seguenti: PCR, VES, profilo lipidico, glucosio, acido urico (sistema purinergico e antiossidante), bilirubina (componente FRAP con acido urico e vitamine, Benzie e Strain, 1996), e marcatori ematologici di stato infiammatorio, come i rapporti neutrofili/linfociti (RNL), piastrine/linfociti (RPL) e monociti/linfociti (MPL). Esistono, infatti, molteplici evidenze che il sistema

immunitario/infiammatorio possa essere coinvolto anche a livello di reattività

cellulare nella patogenesi dei disturbi dell’umore, per cui alcuni autori hanno rilevato l’interesse a misurare proprio questi indici, RNL, RPL e MPL, facilmente ottenibili da analisi di laboratorio routinarie, per la loro capacità a distinguere pazienti depressi con peculiari profili e quadri clinici (Mazza et al, 2018). Il coinvolgimento di tali aspetti biochimici ed ematochimici nella patogenesi della depressione potrebbe avere ricadute rilevanti nella terapia delle forme più resistenti e insidiose della malattia, consentendo di trovare nuovi bersagli farmacologici per una più rapida azione antidepressiva (Mendlewitcz et al, 2006; Savitz et al, 2018).

A tali scopi, in via sperimentale, abbiamo utilizzato materiali e metodi appropriati qui di seguito illustrati.

(49)

Materiali e Metodi

Soggetti

Sono stati inseriti nello studio 22 pazienti ambulatoriali o degenti con una diagnosi di disturbo dell’umore nel corso di un episodio di depressione maggiore grave, in

accordo con i criteri del DSM-5, reclutati presso l’Unità Operativa 1 di Psichiatria dell’Ospedale Santa Chiara di Pisa, AOU Pisana (Dipartimento di Medicina Clinica e Sperimentale, Università di Pisa), da medici psichiatri con almeno 5 anni di pratica clinica post-specializzazione.

I criteri di inclusione erano i seguenti:

• età compresa tra 18 e 80 anni;

• storia e diagnosi degli episodi depressivi in accordo ai criteri di classificazione

del DSM-5;

• reclutamento alla prima visita e con o senza terapie psicofarmacologiche;

• presa visione e accettazione del protocollo di ricerca e firma del consenso

informato allo studio approvato dal Comitato etico dell’Università di Pisa. I criteri di esclusione erano i seguenti:

• anamnesi personale passata o presente di patologie neurologiche,

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• alterazioni cognitive e incapacità di sottoscrivere il consenso informato dello studio;

• gravidanza

• abuso di alcool negli ultimi 6 mesi;

• abuso di sostanze negli ultimi 6 mesi.

I pazienti potevano decidere di uscire dallo studio:

• in presenza o insorgenza di segni clinici incompatibili con i criteri di inclusione

ed esclusione dell’indagine;

• per insorgenza di patologia internistica grave;

• per ritiro dal consenso informato.

Tutti i pazienti inseriti nello studio venivano sottoposti a valutazioni clinico-psichiatriche e ad indagini biochimiche sulla base del disegno sperimentale.

Valutazioni psichiatriche

Tutti i pazienti che soddisfacevano i criteri di inclusione ed esclusione venivano invitati dal personale dell’UO di Psichiatria a completare alcune scale di valutazione per determinare la presenza di sintomi depressivi, maniacali, ansia e ideazione

suicidaria. Le scale di valutazione psichiatrica utilizzate erano le seguenti:

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• Young Mania Rating Scale (YMRS) (Young et al., 1978);

• Clinical Global Impression- severity, improvement or change and therapeutic

response (CGI) (Guy, 1976);

• Global Assessment of Functioning (GAF).

La Hamilton Depression Rating Scale (HRSD) costituisce un modo semplice per valutare quantitativamente la gravità della condizione depressiva mostrata dal

paziente e per documentarne i cambiamenti, prendendo in considerazione sia l'entità dei sintomi che la loro frequenza. Il periodo valutato è compreso tra gli ultimi giorni e fino a una settimana. La HDRS, nella sua versione più diffusa, consiste di 21 item. Generalmente, i primi 17 item sono considerati quelli nucleari e proprio su questi viene definito il cut-off di gravità, come segue (Hamilton M., 1960):

•> 25 depressione grave • 18-24 depressione moderata • 8-17 depressione lieve • <7 nessuna depressione.

2) la Young Mania Rating Scale (YMRS) è una scala di 11 item che esplora i

sintomi chiave della mania, generalmente presenti nell'intero corso, dalle fasi più modeste a quelle più gravi. La MRS ricorda nella sua struttura la HRSD e deve essere applicata da un clinico esperto. La valutazione della gravità viene effettuata sulla base di ciò che il paziente riferisce sulle proprie condizioni nelle ultime 48 ore e

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