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Elisa Dido di Cristóbal de Virués e Dido y Eneas di Guillén de Castro: la figura di Didone fra storia e mito

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Academic year: 2021

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INDICE

CAPITOLO 1 IL MITO DI DIDONE 3

1.1 Il mito fenicio: Timeo di Tauromenio ... 3

1.2 I dati storici di Giustino ... 6

1.2.1 Giustino e Timeo a confronto ... 9

CAPITOLO 2 Virgilio e l’Eneide 15

2.1 La vita di Virgilio ... 15 2.2 L’ Eneide ... 18 2.3 Fonti e modelli ... 19 2.3.1 Timeo ... 19 2.3.2 Nevio ... 20 2.3.3 Omero ... 23 2.3.4 Apollonio Rodio ... 24 2.3.5 Euripide ... 25 2.3.6 Catullo ... 25 2.4 Augusto e l’Eneide. ... 26 2.5 Didone nell’Eneide ... 30 2.5.1 Interpretazione storica... 31

2.5.2 Didone nel libro I ... 33

2.5.3 Didone nel libro IV ... 33

CAPITOLO 3 Didone ed Enea 36

3.1 Libro I ... 36

3.2 Libro II ... 41

3.3 Libro III ... 44

3.4 Libro IV ... 47

CAPITOLO 4 Il successo del mito di Didone 57

4.1 Didone in Europa... 58

4.2 Ecclesiastici e moralisti ... 59

4.2.1 Tertulliano ... 60

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4.2.3 Didone in chiave allegorica ... 63

4.3 Il teatro in Spagna: i sostenitori di Virgilio. ... 68

4.4 La Crónica general ... 71

4.5 La Auracana ... 75

4.5.1 I motivi della presenza di Didone ne La Araucana ... 79

4.6 La difesa di Didone come tema letterario spagnolo ... 82

4.6.1 Cristóbal de Virués... 84

4.6.2 Gabriel Lobo Lasso de la Vega ... 86

4.6.3 Álvaro Cubillo de Aragón ... 88

CAPITOLO 5 Elisa Dido 93

5.1 La vita di Cristóbal de Virués ... 93

5.2 L’opera letteraria di Virués ... 95

5.2.1 Le tragedie di Virués ... 96

5.3 Elisa Dido: il riassunto ... 102

5.3.1 Acto primero ... 102

5.3.2 Acto segundo ... 106

5.3.3 Acto tercero ... 108

5.3.4 Acto cuarto ... 110

5.3.5 Acto quinto... 112

5.4 Giustino, Virgilio e Virués ... 115

5.4.1 I testi a confronto ... 116

CAPITOLO 6 Dido y Eneas 124

6.1 La vita di Guillén de Castro... 124

6.2 Il teatro di Guillén de Castro ... 125

6.3 Dido y Eneas: il riassunto ... 128

6.3.1 Jornada primera ... 128

6.3.2 Jornada segunda ... 131

6.3.3 Jornada tercera ... 134

6.4 Da Virgilio a Guillén de Castro ... 137

BIBLIOGRAFIA 149

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CAPITOLO 1 IL MITO DI DIDONE

La formazione della leggenda di Didone è indubbiamente un problema affascinante per il significato che la regina ha assunto in letteratura diventando fonte d’ispirazione per autori di diverse epoche e generi letterari. Inoltre, documentare l’origine di questo mito si presenta come una sfida assai ardua, data la mancanza assoluta di documenti originali. Infatti non ci è rimasta alcuna testimonianza fenicia scritta su Cartagine, città che ha avuto una grande importanza ed influenza nel mondo antico. Secondo A.M. Panaro, Cartagine possedeva delle biblioteche1. Ma, siccome il mondo greco-romano era indifferente verso qualsiasi prodotto dello spirito che non fosse il proprio, al momento della conquista di Cartagine da parte di Scipione Emiliano, che rase al suolo l’intera città, nessuno si preoccupò di salvaguardare i testi e i documenti cartaginesi. Andò così probabilmente distrutto il prodotto di parecchi secoli di civiltà fenicia in Africa, mentre l’esiguo materiale scampato alla devastazione della città andò disperso tra i re africani alleati.2

Non avendo una sufficiente conoscenza del mondo e della società cartaginese, per trattare l’origine del mito di Didone mi sono basato sui lavori di A.M. Panaro e di P. Bono e M.V. Tessitore3, verificando, laddove possibile, le loro fonti primarie.

1.1 Il mito fenicio: Timeo di Tauromenio

Il nucleo originario del mito è di matrice fenicia, tratta principalmente della fondazione di Cartagine e si differenzia dalla storia presente nell’Eneide di Virgilio, più famosa e più seguita dagli autori successivi, perché Enea, personaggio principale dell’epopea virgiliana, non è neanche nominato. La versione fenicia ha come protagonista assoluta Elissa/Didone, nome fenicio il

1 A.M. Panaro, I precedenti del IV libro dell’Eneide. La formazione della leggenda di Didone, in “

Giornale italiano di filologia” cita S.Gsell, Historie ancienne de l’Afrique du nord I, Paris 1913, p.331: «Lorsque Carthage disparut, en 146, les bibliothèques que l’incendie épargna échurent à des rois indigènes.».

2

A.M. Panaro, op. cit., IV, 1, pp. 8.

3

P. Bono, M.V. Tessitore, Il mito di Didone. Avventure di una regina tra secoli e culture, Mondadori, 1998.

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4 primo, suo adattamento africano l’altro, regina astuta ed abile, pronta a morire per restare fedele al dovere verso la sua città e al giuramento di castità fatto dopo la morte del marito. Questa è la Didone che ci è stata tramandata dal greco Timeo di Tauromenio, vissuto tra IV e III secolo a.C., nelle Storie, il suo grande lavoro in 38 libri sull’Occidente greco, in cui ne delinea la storia dalle origini mitiche fino all’epoca a lui contemporanea.

Secondo quanto sostiene A.M. Panaro, la città di Tiro fu distrutta da Alessandro nel 332 a.C., quando Timeo era ancora giovane. Tenendo conto del menzionato disprezzo greco e romano per la cultura barbara, poco o nulla è rimasto delle biblioteche e dei documenti fenici. Se i documenti relativi alla fondazione della colonia di Cartagine esistettero a Tiro, quindi almeno fino al 332 a.C., è probabile che di essi si avesse notizia e che Timeo, data la sua età, abbia avuto la possibilità di conoscere e raccogliere tradizioni e notizie. Ciò sarebbe stato possibile per due motivi: il primo è che Cartagine, colonia di un popolo che conosceva la scrittura dal XII secolo, aveva certo raccolto documenti sulla propria storia, così come era successo a Tiro; l’altro è che Timeo, nato in Sicilia, zona allora d’influenza cartaginese, era sicuramente in grado di conoscere simili documenti. Inoltre Tiro, nell’anno in cui fu assediata da Alessandro, fu aiutata da Cartagine che si limitò a rifornire la città via mare, senza mai interessarsi ad operazioni guerresche. Quando Tiro stava per cadere, buona parte degli abitanti se ne andò in Africa. I profughi di Tiro portarono con loro i tesori e i documenti più preziosi per non abbandonarli alla distruzione, ma soprattutto perché, dato che Cartagine rappresentava la loro unica salvezza, testimoniavano il loro legame con la città africana. In questo frangente il rapporto fra le due città era presente, concreto, e qualche tempo dopo, dovevano essere venuti alla luce anche i documenti comprovanti la data e le circostanze della fondazione della città di Cartagine, sia gli originali cartaginesi, sia quelli salvati da Tiro. Queste notizie dovettero giungere quindi anche in Sicilia, non solo nelle zone sottoposte all’influenza fenicia, ma anche nei porti greci, con i quali Tiro aveva avuto rapporti commerciali. Di conseguenza è possibile affermare che Timeo, quando si accinse a scrivere la sua opera, si trovasse nelle condizioni di conoscere gli avvenimenti, fra cui la fondazione di Cartagine, e fosse meglio informato degli storici

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5 precedenti. La conquista di Alessandro aveva reso nuovamente attuali avvenimenti remoti, facendo convergere su di essi l’attenzione generale.

Secondo A.M. Panaro la testimonianza di Timeo è da considerare attendibile per una serie di motivi: la sua narrazione è troppo minuziosa e manca del tutto di particolari leggendari o mitici proprio perché deriverebbe da documenti realmente esistiti o considerati tali dallo scrittore; per consultare questi documenti, di cui conosceva l’esistenza, Timeo aveva la possibilità di recarsi nella città con un viaggio anche allora non lungo, su di una rotta molto battuta da navi commerciali fenicie; infine, Timeo pensava che mentire sulla storia fosse scorretto, di conseguenza non è lecito pensare che possa aver inventato una storia fantastica su di un avvenimento così rilevante come la fondazione di Cartagine4.

I Greci e i Latini erano soliti creare leggende sulla fondazione di molte città, specialmente di quelle di una certa importanza, come, ad esempio, quella di Virgilio sulla fondazione di Roma. Queste leggende avevano credito solo quando non esistevano notizie storiche. Abbiamo visto che questa non era la situazione di Cartagine, la cui origine era attestata da documenti che esistevano e che erano conosciuti. Inoltre la verità del mito di Didone è provata dal fatto che esso era accolto anche in Africa, dove ebbe una vigorosa diffusione.

Dell’opera di Timeo ci sono giunti solo frammenti, tra i quali ce ne è rimasto un solo riguardo il mito della regina cartaginese, che è comunque sufficiente per ricostruire una prima versione della storia. Questa è la sua traduzione dal greco:

Theiosso, Timeo dice che nella lingua fenicia questo è il nome di Elissa, è la sorella di Pigmalione, re dei Tiri, da cui si dice che Cartagine sia stata fondata in Libia.

Essendo stato ucciso suo marito da Pigmalione, dopo aver posto le ricchezze su una nave, fuggì con alcuni concittadini, e dopo aver affrontato molte difficoltà approdò in Libia, e (dai Libi) fu chiamata Didone dagli abitanti del luogo, a causa del suo molto errare.

Dopo aver fondato la città di cui si è parlato, poiché il re dei Libi voleva prenderla in moglie, lei lo rifiutò, ma essendo costretta dai concittadini, fingendo che lei avrebbe portato a compimento le promesse sacre a cui si era impegnata

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6 con un giuramento, dopo aver preparato un grande rogo vicino alla casa, e dopo averlo acceso, dalla sua casa si gettò su di esso5.

Timeo esordisce presentandoci Elissa, specificando che il suo nome nell’originale lingua fenicia è Theiosso, precisazione che, come vedremo, non sarà accolta né da Giustino, né da Virgilio. Egli la descrive come sorella di Pigmalione, re dei Tiri, e come colei che fonderà in Libia la città di Cartagine.

Poi Timeo racconta della sua fuga con alcuni concittadini, dovuta al fatto che suo fratello Pigmalione aveva ucciso suo marito, di cui non è fatto il nome. Elissa, dopo aver caricato su una nave le sue ricchezze, salpa e, dopo aver affrontato molte difficoltà, approda in Libia. Lì gli abitanti, a causa del suo molto errare, la rinominarono Didone, il nome con cui è conosciuta tutt’oggi. Notiamo la scarsità di dettagli e l’assenza di passaggi che colleghino un’azione all’altra. Non viene fatta alcuna menzione della modalità della fondazione della città o dell’andamento della sua costruzione.

Timeo passa direttamente all’episodio del suicidio della regina. L’interesse che il re della Libia, il cui nome è omesso, mostra di avere nei confronti di Didone, chiedendola in moglie, non è corrisposto dalla regina cartaginese, che non vuole acconsentire al matrimonio. Così Didone fa preparare un rogo, fingendo di dover portare a compimento delle promesse sacre a cui si era impegnata, vi si getta e muore. Il motivo del suicidio non è ben esplicitato, mentre sarà ben spiegato da Giustino.

Infine, qui non vi è traccia di Enea, e non avrebbe motivo di esserci, secondo quello che riporta il frammento.

1.2 I dati storici di Giustino

Esistono rifacimenti più tardi della prima versione del mito, tra cui il più importante è quello scritto da Giustino nel III secolo sulla base delle Storie

Filippiche di Pompeo Trogo (I secolo a.C.). Lo storico, vissuto tra la fine del II e

5

Frammento 23 in Fragmenta Historicorum Graecorum, a.c. di C. Müller, 1841, Minerva GmbH, 1975, vol.1, p. 197; anche in G.A. Mansuelli, Lo storico Timeo di Tauromenio, Casa editrice Prof. Riccardo Pàtron, 1957-58, pp. 14-15.

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7 gli inizi del III secolo d. C., è uno scrittore cristiano e diventerà poi molto popolare in Spagna, essendo l’unico autore antico che si sia occupato delle origini mitiche di quella terra6. Giustino, nell’Epitome delle Storie di Pompeo, racconta di una Didone ancora fortemente radicata nella tradizione culturale dell’Oriente semitico, una protagonista partecipe della sacralità che accompagna la funzione regale, e che sarà, secondo lui, venerata dopo la sua morte.

Riporto in seguito la traduzione dall’ Epitome7

della parte relativa alla regina cartaginese:

Gli abitanti di Tiro in questo modo presero origine sotto gli auspici di Alessandro e, con la loro parsimonia e con la fatica nel guadagnare, in breve divennero potenti. Prima della strage dei padroni, quando abbondavano sia di ricchezze sia di popolazione, mandarono i loro giovani in Africa e fondarono Utica. Nel frattempo in Tiro morì il re Mutto, che aveva lasciato come eredi il figlio Pigmalione e la figlia Elissa, fanciulla di grande bellezza. Ma il popolo affidò il regno a Pigmalione, che era ancora proprio un ragazzo. Elissa dal canto suo sposò Acherba, suo zio materno, sacerdote di Ercole, che occupava, dopo il re, la seconda carica. Questi aveva grandi ricchezze, ma nascoste, e per paura del re aveva riposto l’oro non in casa bensì sotto terra: benché di ciò nessuno fosse informato con certezza, tuttavia ne circolava la voce. E Pigmalione, eccitato da tale diceria, dimenticando ogni diritto umano, uccise senza nessun riguardo di affetto suo zio, che era anche suo cognato. Elissa per molto tempo serbò odio al fratello a causa di tale delitto; ma alla fine, dissimulato il suo risentimento, mentre mostrava un volto pacato, in silenzio preparò la fuga, prendendo come compagni alcuni dei principali cittadini, che ella riteneva avessero uguale odio verso il re e lo stesso desiderio di fuggire. Allora si recò con inganno dal fratello e finse di volersi trasferire da lui, affinché la casa del marito non rinnovasse più in lei, desiderosa di dimenticare, l’insopportabile immagine del lutto e affinché non si presentasse più ai suoi occhi ciò che le ricordava il suo dolore. Pigmalione ascoltò molto volentieri le parole della sorella, credendo che con lei sarebbe venuto in casa sua anche l’oro di Acherba. Ma Elissa sul far della sera fece salire sulle navi con tutte le sue ricchezze i servi mandati dal re per il trasloco e, avanzatasi in alto mare, li costrinse a gettare in acqua i sacchi di sabbia che essa aveva imbarcato al posto del denaro. Allora piangendo con voce di lutto si mise a chiamare Acherba; a pregarlo di accettare di buon grado le ricchezze che egli aveva lasciato; di accogliere come offerte funebri, quei beni che erano stati la causa della sua morte. Poi si volse agli stessi servitori dicendo che, quanto a lei, ella aveva già da tempo desiderato la morte, ma che anche su di loro

6 Questa sua popolarità in Spagna influirà su un aspetto del mito di Didone nella letteratura

spagnola, che analizzeremo successivamente.

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Giustino, Storie Filippiche: epitome da Pompeo Trogo, a cura di Luigi Santi Amantini Rusconi, 1981, pp. 344-349.

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8 incombevano crudeli tormenti e spietati supplizi, poiché avevano sottratto all’avidità del tiranno le ricchezze di Acherba, per il cui sperato possesso il re aveva commesso il suo delitto. Avendoli così atterriti tutti, li accolse come compagni della sua fuga. Si congiunsero ad essi le schiere di membri del Consiglio che si erano preparati per quella notte e così, rinnovati i sacrifici ad Ercole, di cui Acherba era stato sacerdote, si recarono in esilio a cercare nuove sedi. Dapprima sbarcarono nell’isola di Cipro, dove il sacerdote di Giove, con sua moglie e con i suoi figli, per ammonimento degli dèi, si offrì come compagno ed alleato a Elissa, dopo aver pattuito che l’onore del sacerdozio sarebbe toccato a lui e ai suoi discendenti per sempre. Questa condizione fu accolta come un manifesto presagio. Era usanza dei Ciprioti mandare le fanciulle prima delle nozze in determinati giorni sulla spiaggia a esercitare il meretricio, per procurarsi il denaro della dote e per fare libagioni a Venere per l’onestà che avrebbero mantenuto in seguito8. Elissa ordinò di rapire almeno ottanta di queste fanciulle e di imbarcarle sulle navi affinché i giovani potessero contrarre matrimonio e la città avere discendenza. Intanto Pigmalione, venuto a conoscenza della fuga della sorella, si preparava a tenerle dietro con empia guerra: ma, convinto a fatica dalle preghiere della madre e dalle minacce degli dèi, desistette. Infatti, poiché indovini ispirati gli predicevano che avrebbe subìto castighi se avesse impedito lo sviluppo di una città nata sotto i migliori auspici del mondo, in questo modo fu concesso ai fuggitivi il tempo di riprendere fiato. Pertanto Elissa, giunta in un golfo dell’Africa, si procurò l’amicizia degli abitanti di quel luogo, lieti per l’arrivo di stranieri e per il reciproco commercio. Poi, comprato tanto terreno quanto poteva essere coperto con una pelle di bue, nel quale potesse far ristorare i compagni stanchi per la lunga navigazione, fino alla partenza, fece tagliare la pelle in sottilissime strisce e così occupò uno spazio maggiore di quello che aveva chiesto: perciò poi quel luogo fu chiamato Birsa (pelle). Accorsero quindi gli abitanti dei luoghi vicini che, con la speranza del guadagno, portavano molte merci da vendere ai forestieri e si stabilivano colà, sicché dal concorso di uomini nacque come una città. Anche gli ambasciatori degli Uticensi portarono loro doni come a loro consanguinei e li esortarono a fondare una città là dove avevano ottenuto in sorte una sede. Ma anche gli Africani furono presi dal desiderio di trattenere gli stranieri. E così, per consenso di tutti, fu fondata Cartagine, essendosi stabilito un canone annuo per il suolo della città. Nel gettare le prime fondamenta, fu trovata una testa di bue, ciò che era auspicio di una città prospera ma travagliata e per sempre schiava. Perciò la città fu trasferita altrove e anche lì fu trovata una testa di cavallo, indicante che quel popolo sarebbe stato bellicoso e potente: ciò attribuì alla città una sede contrassegnata da buoni auspici. Allora gli abitanti dei dintorni accorsero alla fama della nuova città e in breve la popolazione e lo Stato divennero grandi. Poiché le risorse di Cartagine erano floride per il buon esito delle sue imprese, il re dei Massitani, Iarba, fece venire a sé dieci dei principali cittadini cartaginesi e chiese in moglie Elissa sotto

8 La prostituzione sacra era una pratica rituale in onore della dea Afrodite/Venere, soprattutto,

ma non solo, presso i babilonesi. Ogni donna doveva una volta nella vita andare al tempio e unirsi con un uomo straniero, il primo che le gettasse del denaro, obolo sacro di cui non importava l’entità. P. Bono, M.V. Tessitore, op. cit., p. 17.

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9 minaccia di guerra. Gli ambasciatori ebbero timore di riferire ciò alla regina e si comportarono con lei con astuzia cartaginese, dicendole che il re chiedeva qualcuno che insegnasse a lui e agli Africani costumi di vita più civili; ma chi si sarebbe potuto trovare, che volesse lasciare i consanguinei e passare in mezzo ai barbari che vivevano come bestie selvatiche? Furono allora rimproverati dalla regina, poiché essi rifiutavano una vita più aspra per la salvezza della patria, alla quale, se la situazione lo esigesse, si era debitori della vita stessa: ma essi le rivelarono le ingiunzioni del re, dicendo che, se ella voleva provvedere alla città, doveva fare essa stessa quanto comandava agli altri. Presa da questo inganno, a lungo invocò il nome del marito Acherba con molte lacrime e compassionevole lamento; infine rispose che sarebbe andata dove la chiamava il destino suo e della città. Per far ciò prese tre mesi di tempo e, fatto innalzare nella parte più remota della città un rogo, come per placare l’ombra del marito e per offrirgli sacrifici funebri prima delle nozze, uccise molte vittime, prese una spada, salì sul rogo e così, guardando verso il popolo, disse che sarebbe andata a nozze come essi le avevano ordinato, e si tolse la vita con la spada. Finché Cartagine fu invitta, ella fu adorata come una dea.

1.2.1 Giustino e Timeo a confronto

Risaltano subito alcune differenze fra questo testo e quello timaico, che dimostrano come Giustino non segua del tutto la versione di Timeo. Questo probabilmente è accaduto perché Giustino, epitomatore di Pompeo Trogo, ha ripreso le affermazioni di Trogo senza risalire all’originale: l’opera di Giustino riflette quella di Pompeo, che a sua volta si era servito di Timeo, cosicché quest’ultimo diventa per Giustino solo una fonte lontana, di terza mano.

Notiamo subito come la versione di Giustino sia molto più dettagliata, percorrendo passo per passo ogni tappa della storia di Didone, risultando molto più lineare ed esauriente. Già dall’inizio troviamo una differenza sostanziale con la versione di Timeo: mentre quest’ultimo anticipa subito che Didone fonderà Cartagine, nella versione di Giustino abbiamo un antefatto, nel quale è accennato a come Tiro diventò una città ricca, e che già in passato furono inviati in Africa alcuni tra gli abitanti tirii, i quali fondarono la città di Utica.

Solo dopo Giustino presenta la bellissima Elissa, figlia del re Mutto9 e sorella di Pigmalione, al quale, morto il padre, fu affidato il regno quando era ancora molto

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10 giovane. Elissa sposò Acherba10, zio materno e sacerdote di Ercole, secondo in carica dopo il re.

Giustino inserisce poi una sequenza completamente assente nella versione di Timeo: Acherba era molto ricco, ma per timore del re nascondeva le sue ricchezze fuori di casa, sotto terra ma, anche se nessuno sapeva con certezza il luogo esatto, se ne parlava in giro.

Se in Timeo il motivo dell’uccisione di Acherba da parte di Pigmalione è omesso, in Giustino è collegato alla bramosia per le ricchezze dello zio e cognato. Timeo a questo punto narra brevemente la fuga di Elissa da Tiro e il suo arrivo in Africa in queste poche parole:

[…]Essendo stato ucciso suo marito da Pigmalione, dopo aver posto le ricchezze su una nave, fuggì con alcuni concittadini e, dopo aver affrontato molte difficoltà approdò in Libia, […]11

Giustino aggiunge anche tutta la preparazione alla fuga: Elissa odia il fratello per il delitto, ma dissimula i suoi sentimenti e prepara in silenzio la fuga, chiamando a parteciparvi alcuni maggiorenti della città, che avendo lo stesso sentimento di odio nei riguardi del re, avevano come lei desiderio di fuggire. Poi si rivolge con un inganno al fratello, chiedendogli di andare a trasferirsi a casa sua per non rinnovare il suo dolore restando nella dimora in cui aveva vissuto con il marito, e questi è ben contento di accoglierla, pensando che con lei sarebbero venute anche le ricchezze di Acherba. Ma, al primo calare della sera, Elissa manda alle navi, con tutte le ricchezze, i servi che suo fratello aveva incaricato del trasloco. Quindi avviatasi in mare fa gettare in acqua i sacchi pieni di sabbia che aveva fatto imbarcare fingendo che fossero pieni di ricchezze, e piangendo invoca il marito Acherba perché le accolga come offerta propiziatoria, dato che erano state la causa della sua morte. Poi avvisa i servi che il re certamente si sarebbe vendicato su di loro, giacché avevano contribuito a fargli perdere ricchezze da lui molto ambite, e li convince così a partire con lei quella notte. Partirono, dopo aver offerto sacrifici ad Ercole, di cui Acherba era sacerdote. Abbiamo dunque una

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Virgilio lo chiama Sicheo, ma comunque indica il principe fenicio Sicherba, sacerdote di Melqart/Ercole, padrone di grandi ricchezze e sposo di Didone.

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11 donna che vince in furbizia il fratello giovane ed avido. L’organizzazione della fuga è perfetta, con due categorie di aiutanti: i notabili del consiglio, o senatori, ed i servi mandati dal fratello re.

Viene introdotto il tema dell’inganno: Elissa mente al fratello, mostrandogli affetto, nonostante l’assassinio del marito l’abbia portata ad odiarlo; inganna i servi mandati da suo fratello, costretti a seguirla nella fuga; finge un’offerta al marito morto, alla quale seguirà un vero sacrificio propiziatorio.

Giustino descrive anche il viaggio che ha portato Elissa fino in Africa: la prima tappa è nell’isola di Cipro, dove il sacerdote di Giove si offre di seguirla con la moglie ed i figli, dopo aver pattuito che l’onore del sacerdozio toccherà a lui ed ai suoi discendenti. Questo viene considerato un presagio, come se l’accordo col sacerdote fosse una garanzia religiosa al viaggio mitico della futura regina. Inoltre Elissa arricchisce la sua compagnia di almeno ottanta fanciulle che fa rapire perché, sposandosi con i giovani partiti con lei da Tiro, procurino discendenza alla città che aveva in animo di fondare. Sono fanciulle che in alcuni giorni stabiliti venivano mandate sulla spiaggia a praticare la cosiddetta prostituzione sacra12, per procacciarsi la dote e per fare libagioni a Venere in nome di una futura onestà. Per A.M. Panaro13 il riferimento alla prostituzione sacra in Cipro sarebbe una variazione di origine prettamente greca: una tradizione cartaginese non avrebbe mai ammesso che le progenitrici della stirpe, considerate probabilmente le capostipiti delle tribù cartaginesi, non fossero di origine tiria.

La storia torna poi a Pigmalione che ha l’intenzione di seguire la sorella per vendicarsi, ma è fermato dalle preghiere della madre e dagli dèi che per bocca degli auguri lo diffidano a porre ostacoli alla fondazione di una città.

Passiamo poi all’arrivo di Elissa in Africa ed alla fondazione della città. Elissa stabilisce cordiali rapporti commerciali con gli abitanti del luogo, allo scopo di far riposare i naviganti fino alla partenza, e chiede di comprare la quantità di terreno che possa essere toccata da una pelle di bue. Avendo fatto tagliare la pelle in strisce molto sottili, occupa molto più spazio di quanto se ne poteva pensare. Perciò quella località venne chiamata Byrsa, cioè pelle. Molti abitanti dei luoghi

12

Vedi nota 8, p. 8.

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12 vicini si stabiliscono là per impiantare commerci con i forestieri. Sia gli abitanti di Utica, che si sono presentati con doni propiziatori, sia gli africani, esortano i nuovi venuti a restare e a fondare una città. Scavando le fondamenta trovano un teschio di bue, indice di una città prospera, ma travagliata e schiava, quindi riprovano a una certa distanza, e trovano la testa di un cavallo, ad indicare una città bellicosa e potente. Questi dettagli mancano in Timeo, e A.M. Panaro14 pensa addirittura che gli episodi delle due teste siano chiaramente un’inserzione tardiva al racconto già formato. Giustino afferma prima che il luogo dove sorse la città fu acquistato mediante l’astuzia della pelle di bue e chiamato Byrsa, ma prosegue dicendo che, cominciati gli scavi e trovata una testa di bue, si cambiò il luogo di fondazione e si scavò altrove. Insomma, la posizione della città sarebbe stata mutata all’ultimo momento a causa di un cattivo presagio.

In Giustino non è fatta menzione del cambiamento di nome di Elissa in Didone, fatto che al contrario è rimarcato in Timeo, ed unico particolare che è presente nella versione più antica e non in quella più recente.

A questo punto, mentre Timeo accenna solamente al re dei Libi, senza neanche nominarlo, e alle sue intenzioni di sposare Elissa, Gustino parla esplicitamente di Iarba, re dei Massitani, che esprime a dieci tra i più importanti cittadini di Cartagine la sua intenzione di sposare la regina Elissa, su minaccia di guerra. Ma i cittadini, non osando comunicare la proposta alla regina, la ingannano, riferendole che Iarba aveva espresso il desiderio di avere qualcuno che insegnasse a lui e agli africani costumi di vita più civili, e che però nessuno di loro se la sente di andare in mezzo a quei barbari. In questo modo inducono la regina a reagire ricordando loro il dovere che tutti i cittadini avevano nei riguardi della patria. Quindi, forti della posizione in cui l’hanno tratta con l’inganno, i maggiorenti le rivelano le reali intenzioni del re, esortandola a fare lei stessa quanto raccomanda agli altri di fare in nome della patria. Quindi torna il tema dell’inganno, come se fosse una caratteristica insita nelle loro origini, che si sono portati dietro da Tiro fino a Cartagine, un inganno dietro l’altro.

Ed eccoci all’episodio del suicidio: Elissa, in lacrime, invoca il marito Acherba, e fa sapere che avrebbe adempiuto ai suoi doveri di regina solo dopo tre mesi.

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13 Terminati i quali, avendo fatto innalzare in una parte remota della città un rogo per offrire sacrifici all’ombra del marito prima delle nozze, un giorno sale sul rogo dicendo al popolo che andrà a nozze come essi desiderano, e si toglie la vita con la spada. Ancora con un inganno, questa volta presente anche in Timeo, la regina arriva al suicidio. Ci sono due differenze fra le due versioni in merito a questo passaggio: il luogo del rogo, vicino alla casa della regina in Timeo, nella parte più remota della città in Giustino; nella versione greca la regina si suicida gettandosi sul rogo, mentre in quella latina con una spada15.

Un’ultima ma importante differenza è quella in merito alla natura divina di Didone. Della divinizzazione della regina fa menzione solo Giustino, secondo il quale finché durò Cartagine ella fu onorata come una dea, prima fondatrice, e poi protettrice della città, quindi la dea più importante del luogo16.

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Secondo A.M. Panaro la differenza del suicidio sarebbe un’altra modificazione legata alle differenza di costume: questo perché il costume greco era più mite rispetto a quello fenicio relativamente a questo aspetto. Per un fenicio o per un cartaginese l’idea di un sacrificio umano per mezzo del fuoco non era per nulla raccapricciante, visto che questo genere di sacrificio era tra loro diffuso, e tale rimase finché non lo si proibì, pur senza riuscire ad eliminarlo completamente. Contrariamente erano rari i suicidi con la spada. In ogni caso resta stabilito che una morte violenta era cosa abbastanza normale per i Cartaginesi, usi a sacrificare i loro stessi figli, mentre doveva ripugnare fortemente a un animo greco. Per lui questo è un altro indizio per capire che tra i due racconti non c’è una corrispondenza completa, bensì presentano discordanze significative. Timeo non avrebbe inventato il mito di Didone, aggiungendovi inoltre un simile orrendo particolare, ma è più probabile che sia stato Giustino ad apportare alcune modifiche al racconto, seguendo quello che la sua tradizione culturale gli suggeriva. A.M. Panaro, op.cit., pp. 14-15.

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Ma questo, secondo Panaro, non sarebbe possibile perché centinaia di stele portano il nome di Tanit, dea cartaginese, probabile versione punica di una importantissima dea fenicia. Inoltre Didone sarebbe in genere identificata con la dea Astarte se seguiamo l’attendibile etimologia timaica del nome della regina: Didone significa «colei che va attorno, l’errante»; tale appellativo è appunto quello della Astarte navigante, cioè protettrice dei marinai. Quindi Didone non fu mutata in una vera dea nuova, dal momento che non è identificabile con la dea celeste Tanit. Si può invece pensare che abbia avuto un culto secondario accanto ad Astarte, e che non ne sia stata soltanto un’ipostasi. Se così fosse , il suo mito dovrebbe corrispondere ad uno di quelli della dea, ma non si trova nei miti che riguardano la dea una morte per fuoco che giustifichi la leggenda cartaginese. Nella religione fenicia possiamo trovare la morte per rogo di un dio come sacrificio per il popolo, ma mai volontario. Come già detto, erano diffusi sacrifici umani consumati col fuoco, e questo fa pensare che la tragedia della morte volontaria di un dio, ricordata dal rogo, doveva essere piuttosto la trasfigurazione mitica di un’iniziale vittima umana, oppure la trasfigurazione mitologica degli avvenimenti, dovuta magari ad esigenze poetiche. Riguardo al rogo di Didone, è invece riconosciuta l’abitudine cartaginese di sacrificare i generali che non avevano avuto fortuna o dei quali in qualche modo si era resa precaria l’esistenza. Si raggiungeva così un doppio scopo, quello di liberarsi di un avversario politico, o comunque di un personaggio in disgrazia, e, nello stesso tempo, di assicurarsi, mediante l’apoteosi, un protettore in cielo. Così il rogo di Didone ci appare sotto una luce nuova. Poiché la religione fenicia non contemplava simili specie di leggende, e non ne esiste nemmeno un esempio, il rogo non si riferisce ad una

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14 Le due versioni di Timeo e Giustino sono più simili di quanto le differenze evidenziate possono far sembrare. Le due varianti del mito presentano la stessa spina dorsale: Didone e Pigmalione sono fratelli; lui le uccide il marito; lei fugge e fonda Cartagine; un re africano la vuole in moglie; lei rifiuta e si suicida. Quindi una stessa chiave di lettura, quella di una Didone casta, pura, che preferisce la morte piuttosto che concedersi ad un re straniero, una donna che fino alla fine rispetta il suo onore e quello del marito.

dea. Poteva esserci la reminescenza della morte violenta della fondatrice della città oppure di un sacrificio per impetrare la protezione degli dèi patrii. Seguendo quindi la storia fenicia, il finale della leggenda appare sensato e giustificato: non la sopravvivenza di un antico mito, ma una necessità storica cui una città che si avviava ad essere grande non poteva restare insensibile. Didone quindi, il cui mito non trova riscontro nei miti fenici finora conosciuti e il cui culto, anche se esisteva, non era il principale della città, non poteva essere una dea, o almeno tale non era nella opinione dei Fenici.La conclusione di Panaro è quindi quella di interpretare l’affermazione di Giustino nel suo senso letterale. Se infatti gli avvenimenti furono volontariamente alterati, l’assimilazione ad una dea, senza dare particolarmente importanza alla figura in sé, dovette avvenire naturalmente. Così si raggiungevano due scopi: si nobilitava l’eroina fondatrice, e con lei la città, e si disperdevano i sospetti sulla sua fine. La morte di Didone, alla luce di queste argomentazioni, si può considerare quantomeno logica. Fondata la colonia, contro la volontà della madre patria, si rendeva necessario, per i traffici e per la sicurezza, ristabilire con essa amichevoli relazioni. Queste trattative dovevano essere più facili a condursi senza la regina, che costituiva un ostacolo notevole. Da ciò potrebbe derivare la sua sparizione avvenuta in modo da non urtare il sentimento del popolo, dando nello stesso tempo lustro alla città. Così la regina dopo la sua morte, fu assimilata alla dea che ricordava più espressamente Tiro, da dove venivano i coloni cartaginesi, cioè ad Astarte, la dea protettrice di Tiro. Essa veniva così a costituire per l’avvenire il punto di contatto tra la colonia e la madre patria.Singolari coincidenze esistevano quindi nelle due figure, non solo riguardo al nome ma come, per esempio, le peregrinazioni e i rapporti con Tiro, che probabilmente favorirono l’identificazione delle due figure, non al punto che l’una si confondesse con l’altra. A.M. Panaro, op.cit., pp. 23-26.

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CAPITOLO 2 Virgilio e l’Eneide

È con l’Eneide che la figura di Didone acquista importanza e fama a livello mondiale: in preda alla passione, la regina di questa versione romana si fa portavoce delle ragioni affettive di un rapporto interpersonale che non si cura delle conseguenze pubbliche. È questo un nodo importante, funzionale e poetico, della sua storia in Virgilio, che ha deciso di caratterizzarla così, differenziandola dalla protagonista della storia più antica, cui assomiglia solo in parte. È così che questa Didone, potente e sventurata, pericolosa e sconfitta, amante sincera e seduttrice, diventa una delle figure femminili simbolo nella letteratura.

2.1 La vita di Virgilio

Non si hanno molte notizie sul poeta e filosofo latino perché nessuna delle sue opere è autobiografica, non parla molto di sé nelle sue opere a differenza di altri autori, come per esempio Orazio. La sua biografia sarà raccolta in componimenti più tardi: la più famosa è quella di Elio Donato, grammatico del IV secolo d.C., maestro di San Girolamo, grande estimatore di Virgilio, che ha fatto sì che i suoi testi venissero studiati nelle scuole. Per ricostruire le tappe più importanti della vita di Virgilio mi sono basato sugli studi di Ettore Paratore17.

Quello che sappiamo è che Virgilio nasce il 15 ottobre del 70 a.C. ad Andes, l’odierna Pietole, in provincia di Mantova, cioè in quella regione che si chiamava allora Gallia Cisalpina, che corrisponde più o meno alla Pianura Padana.

Sulla famiglia non abbiamo notizie sicure. Pare che suo padre fosse un piccolo proprietario terriero arricchitosi tramite l’apicoltura, l’allevamento e l’artigianato, mentre la madre, di nome Magia Polla, era la figlia di un facoltoso mercante, Magio, al cui servizio aveva lavorato il padre del poeta.

Sappiamo che verso gli anni 58-51 compì vari studi: prima a Cremona presso la scuola di grammatica, conseguendo all'età di quindici anni la toga virile. Si

17 E. Paratore, Storia della letteratura latina, G.C. Sansoni editore, Firenze 1962; vedi anche

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16 trasferisce a Milano, dove studia retorica e poi verso il 50 a. C. a Roma, dedicandosi allo studio del greco, del latino, della matematica e della medicina. Qui frequenta la scuola del celebre maestro Marco Epidio, dedicandosi allo studio dell’eloquenza che gli sarebbe servito per intraprendere la carriera professionale di avvocato. In occasione però del suo primo discorso in pubblico, Virgilio, avendo un carattere molto riservato, non riesce nemmeno a introdurre una frase. Avendo dei difetti nella pronuncia, decide di abbandonare gli studi di oratoria, continuando però quelli di medicina, filosofia e matematica. Qui conobbe molti poeti e uomini di cultura e si dedicò alla composizione delle sue opere In questo ambiente conobbe molti poeti e uomini di cultura, tra cui, forse, lo stesso Ottaviano.

Virgilio vive in un periodo storico molto complesso, infatti, nel 44 a. C. muore Giulio Cesare in una congiura, poi si accende la rivalità tra Marco Antonio e Ottaviano. Nel 41 a.C., in seguito alla vittoriosa battaglia di Filippi in cui si scontrano l'esercito di Ottaviano e le forze di Bruto e Cassio, i triumviri spartivano ai veterani, secondo un precedente impegno, terre nella Gallia Cisalpina, ormai aggregata all’Italia. Vi andò di mezzo anche il podere di Virgilio che perse molte delle sue proprietà mantovane. La perdita lo segna tantissimo, e il poeta le ricorda sempre con una grande nostalgia. In occasione del suo rientro ad Andes, il poeta incontra dopo anni l'amico Asinio Pollione, generale di Ottaviano, che era accampato nel Veneto e aveva il compito di controllare per i triumviri tutto il territorio transpadano. Pollione riuscì ad ottenere per Virgilio la revoca dell’esproprio, forse intercedendo direttamente presso Ottaviano.

Nel 42 a.C., insieme al padre e agli altri suoi familiari, Virgilio si trasferisce in Campania. Nel suo soggiorno a Napoli egli frequenta la scuola epicurea dei celebri filosofi Filodemo e Sirone. Nel corso delle lezioni che si tengono nella scuola, conosce numerosi intellettuali, artisti e politici. É in quest'occasione che conosce due personaggi che resteranno suoi amici per tutta la vita e che saranno i responsabili della pubblicazione dell’Eneide, e cioè Vario Rufo e Plozio Tucca. Dal 42 al 39 a.C. scrive la sua prima opera, le Bucoliche, che gli procurano la simpatia di Ottaviano e di Mecenate, ministro della cultura di Ottaviano. Mecenate organizza circoli di intellettuali e poeti: oltre a Virgilio ci sono Orazio e

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17 Properzio. Virgilio diventa la figura di spicco, ed il rappresentante dell’ideologia augustea. Per l’intercessione di Mecenate, Virgilio era riuscito ad ottenere delle proprietà campane come risarcimento del danno subito in patria. Su suggerimento dello stesso Mecenate compone la sua seconda opera, le Georgiche, opera su commissione che nasce proprio all’interno dell’ideologia del principato: la celebrazione della vita agreste, la deprecazione delle contese civili e dei vizi della metropoli potevano essere interpretate come un contributo al programma moralistico e pacificatore e al ritorno delle tradizioni, che stavano a cuore al

princeps.

Perciò, quando Virgilio ebbe compiuto il poema, Augusto, reduce dall’Oriente, dalla vittoriosa spedizione militare di Azio, fu ben lieto d’essere il primo a conoscerlo dopo Mecenate e a dargli il suo plauso: nel 29 a.C. nella sua abitazione campana di Atella, Virgilio e Mecenate lo fecero conoscere integralmente al

princeps, dandosi il cambio nella lettura. Augusto sentì allora che Virgilio era il

maggior poeta del suo tempo e aveva ormai forze sufficienti ai temi più grandiosi. Perciò fu ben lieto di incoraggiarlo nel suo proposito di celebrare con un poema eroico la storia della sua gens e le sue recenti imprese vittoriose.

Ed è così che nasce l'Eneide, l’ultima opera letteraria di Virgilio composta tra il 29 a. C. e il 19 a. C. tra Napoli e la Sicilia.

Nel 19 a. C. Virgilio svolge un lungo viaggio tra la Grecia e l'Asia con l'obiettivo di conoscere i luoghi che descrive nell'Eneide e verificare alcuni particolari del poema e dargli tranquillamente l’ultima mano. Nella città di Atene il poeta incontra Augusto che in quel momento sta facendo ritorno dal suo viaggio nelle province orientali dell'Impero. Su consiglio dell'imperatore, decide di tornare con lui in Italia.. Durante una gita a Megarasi ammalò e aggravatosi durante il viaggio di ritorno Virgilio muore a Brindisi il 21 settembre di quello stesso anno. Fu sepolto nella prediletta Napoli.

In punto di morte Virgilio chiese agli amici, probabilmente Vario e Tucca, che lo assistevano di consegnargli il manoscritto dell’Eneide. Intendeva bruciarlo perché non l’aveva ancora limata, e ai suoi occhi l’opera a questo stadio era ancora grezza, indegna della sua gloria poetica e dell’argomento formidabile che essa trattava. Ma gli amici glielo nascosero, ed egli, nominando Vario e Tucca

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18 esecutori testamentari, prescrisse loro di non pubblicare nulla che egli avesse lasciato inedito. Ma l’Eneide era già notissima, sia pure a tratti, agli ambienti letterari dell’epoca. Per giunta ad Augusto stava troppo a cuore un poema che celebrava con tanto magistero d’arte la gloria sua e della sua casa. Pertanto egli dette disposizione a Vario perché pubblicasse l’Eneide, ma con religioso rispetto per lo stato del manoscritto, così come il poeta lo aveva lasciato. Vario eseguì l’ordine, e il poema, che già aveva avuto così vasta ripercussione quando l’autore vi lavorava ancora attorno, si affermò subito come la più alta opera poetica che mai la latinità avesse prodotto, oscurando definitivamente gli altri due capolavori di Virgilio.

2.2 L’ Eneide18

Una conoscenza generale della struttura, dello stile e di alcune fonti di ispirazione del poema virgiliano ci aiutano a capire il ruolo che il personaggio di Didone aveva allora, o quantomeno di avvicinarci alle intenzioni del poeta latino.

L’Eneide è un poema epico, considerato il più rappresentativo dell'epica latina, scritto da Virgilio nel I secolo a.C., tra il 29 a.C. e il 19 a.C. . Il poema racconta la storia di Enea, un principe troiano fuggito dalla città, dopo la conquista dei Greci, che arriva in Italia, dove diventa il precursore del popolo romano.

Alla morte di Virgilio il poema, composto da dodici libri, restò incompiuto; nel suo testamento aveva lasciato detto di bruciarlo nel caso non fosse riuscito a completarlo, ma Augusto si oppose personalmente e, a sua volta, ordinò a Vario, uno dei migliori amici del poeta, di curarne la pubblicazione. Il motivo della pubblicazione da parte dell'Imperatore era dovuto al fatto che Virgilio aveva scritto il poema con il proposito di realizzare un'opera capace di celebrare allo stesso tempo, sia i motivi ideali e le qualità morali che avevano contribuito alla costruzione dell'impero di Roma, sia la presunta discendenza divina della Gens

18

Virgilio, Eneide, introduzione di Antonio La Penna; traduzione e note di Riccardo Scarica, BUR, 2010; anche E. Paratore, Virgilio, G.C. Sansoni editore, Firenze 1961, pp. 283-355; vedi anche Publio Virgilio Marón, Eneida, Introducción, texto latino, traducción y notas de Luis Rivero García, Juan A. Estévez Sola, Miryam Librán Moreno, Antonio Ramírez de Verger, Consejo superior de investigación científicas Tirant Lo Blanch, Madrid 2009, pp. LII-CXIII.

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19

Iulia, ossia la famiglia cui apparteneva lo stesso Augusto, che in quel momento

era alla guida dell'Impero romano. Di qui, la scelta di Virgilio di narrare le mitiche vicende di Enea, figlio di Anchise e della dea Venere, il quale, oltre ad essere considerato "padre" dei Romani in quanto fondatore della città laziale di Albalonga, dalla quale sarebbero giunti i primi abitanti di Roma, veniva anche considerato, da parte della Casa Giulia, come il suo più celebre antenato.

Virgilio realizza così una profonda compenetrazione fra mito e storia, trovando ispirazione nell’epos storico ellenistico, cioè in poemi epici che comportavano celebrazioni di dinastie regnanti o nobili famiglie o narrazioni di fondazioni di città o storie di popoli.

2.3 Fonti e modelli

La stesura di un poema come l’Eneide presuppone lo studio di innumerevoli scritti fra testi storici, documenti e poemi epici. Io mi limiterò a citare solo alcuni tra quelli cui può aver attinto Virgilio, soprattutto quelli che potrebbero aver ispirato l’autore in merito all’episodio di Didone ed Enea.

2.3.1 Timeo

Per quanto riguarda il contesto dell’epica romana, Timeo potrebbe essere una valida fonte per l’autore latino. A quel tempo il suo testo era ancora disponibile per intero e non deve essere stato difficile per Virgilio conoscerlo. Questa è una possibilità, ma è ancor più probabile che l’influenza di Timeo sia indiretta, perché molti degli autori che hanno ispirato Virgilio potrebbero aver attinto a loro volta all’autore greco19

. Un esempio certo è quello di Ennio, che con i suoi Annales è uno dei poeti epici cui Virgilio fa riferimento20.

Come abbiamo visto, il frammento che tratta la storia di Didone non fa menzione alcuna di Enea. Quindi Timeo non è servito a Virgilio in merito alla storia

19

T.S. Brown, Timaeus and the Aeneid, in “Vergilius”, Fall, 1960, n. 6.

20

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20 d’amore tra i due personaggi. Virgilio potrebbe essersi ispirato proprio a Timeo in merito al futuro astio tra le città di Roma e Cartagine, perché, secondo lo storico greco, le due città furono fondate lo stesso anno, 38 anni prima della prima Olimpiade, nel 814 a.C., dando appunto luogo ad un sincronismo di ostilità secondo Brown21.

2.3.2 Nevio

Riguardo alla costruzione del genere epico Virgilio trovava nell’epica storica arcaica latina i modelli da cui prendere spunto, come il già citato Ennio, o come Nevio, che, con la sua archeologia inserita nel corso della narrazione del Bellum

Poenicum22, fu sicuramente tra i più importanti. È assodato, anche se in assenza di prove certe, che Nevio, elaborando il mito secondo le sue esigenze, sia stato il primo a scrivere di un soggiorno di Enea a Cartagine, e all’inimicizia insorta con Didone faceva risalire la causa delle grandi guerre puniche23. Non ci sono rimasti frammenti che accertino l’incontro fra la regina cartaginese ed Enea, mentre ci è rimasto un frammento (un attestato del Servius Danielinus), che accerta come Nevio ricordasse insieme Anna, Didone e il loro padre24. È probabile che questa testimonianza appartenesse ad un episodio dell’origine di Roma, raccontata da Nevio, e quindi alla sosta di Enea a Cartagine.

Ma l’indizio più importante è un altro: nel I secolo a.C. due eruditi previrgiliani, Varrone e Ateio il Filologo, conoscevano una leggenda dell’amore fra Didone ed Enea, a cui Ateio dedicava addirittura un libro25. Per essere più precisi, pare che Varrone avrebbe sostenuto, forse nel perduto De Familiis Troianis, che non Didone ma Anna si era innamorata di Enea e per lui si era uccisa gettandosi nel rogo26. Questo non esclude la presenza di Enea a Cartagine, così come non

21

T.S. Brown, op. cit., pp. 5-9.

22

S. Mariotti, Il Bellum Poenicum e l’arte di Nevio, Angelo Signorelli editore, 1966.

23 P. Bono, M.V. Tessitore, op. cit., pp. 7 e 22; Virgilio, op. cit, p. 25. 24

Serv. Dan. Ad Aen 4, 9: «cuius fliliae fuerint Anna et Dido, Naevius dicit.», Mariotti S., op. cit., fr. 7, p. 99.

25 Si tratterebbe di uno scritto del I secolo a.C., An amaverit Didun Aeneas, P. Bono, M.V.

Tessitore, op. cit., nota 23, pp.23-24.

26

Serv. Dan. Ad Aen 4, 682: «Varro ait non Didonem sed Annam amore Aeneae impulsam se supra rogum interemisse», Mariotti S., op. cit., nota 47, pp. 37-38; ma anche Servio, Ad Aen, V, 4:

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21 esclude una sua avventura amorosa, che anche se non riguarda Didone, bensì la sorella Anna, avrebbe comunque potuto ispirare Virgilio. Doveva trattarsi quindi di un episodio noto già prima di Virgilio, e quindi la leggenda dell’incontro doveva essere stata creata da Nevio.

La storia d’amore si colloca perfettamente nel contesto dell’origine di Roma, inserita nel racconto della lotta contro la città che le era rivale per la supremazia nel Mediterraneo: questo amore infelice tra i capostipiti dei due grandi popoli come fonte della loro ostilità. L’episodio della sosta dell’eroe che nel suo viaggio avventuroso viene ospitato da una regina che si innamora di lui rappresenta la ripresa di un modulo omerico presente nell’Odissea, che certamente fu per Nevio modello e fonte d’ispirazione.

Proprio a Nevio si tende ormai ad attribuire la fusione originale della leggenda di Enea con quella di Didone, mentre la discendenza dei Romani dall’eroe troiano era una leggenda già conosciuta.

Antonio La Penna27 ci indica alcune possibili vie che hanno fatto raggiungere la leggenda dell’eroe troiano a Roma, leggenda che verrà successivamente collegata a quella della fondazione dell’imponente città.

Una prima possibilità è che la leggenda fosse già nota agli Etruschi: su vasi e statuette, datati tra VII ed IV secolo a.C., troviamo raffigurati Enea ed i suoi familiari, in episodi legati alla fuga da Troia. Questo però non basta ad attestare la conoscenza della leggenda di Enea che arriva nel Lazio, e che sarà il capostipite della dinastia che fonderà la gloriosa città.

Una seconda possibilità è quella che riconduce a testimonianze letterarie antiche che fanno supporre in Lavinio la presenza di tradizioni che connettevano la città con i troiani: ad esempio La Penna cita Timeo e Varrone, che conoscevano un culto dei Penati a Lavinio, anche se nessuno dei due specifica che sia stato Enea ad averli portati lì con sé da Troia per fondare la città.

Lavinio, però, non era il solo tramite attraverso cui i Romani potevano aver notizia di una migrazione di Enea e dei Troiani nel Lazio e della fondazione di Lavinio da parte di Enea: tutto ciò si collocava nella lunga e vasta fioritura di «sane sciendum Varronem dicere, Aeneam ab Anna amatum», P. Bono, M.V. Tessitore, op. cit., nota 23, pp. 23-24.

27

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22 leggende relative a fondazioni di città che si sviluppò dalla colonizzazione greca dall’VIII secolo a.C. in poi, che ebbe come eroi principali Eracle ed Odisseo, ma che vede protagonisti anche Enea e qualche altro eroe troiano che portano alla fondazione di alcune città nell’Occidente.

Un’ultima ipotesi avanzata da La Penna è quella della via di diffusione della leggenda che si dipartiva dalla Sicilia nel corso del III secolo a.C.. Durante la prima guerra punica la città siciliana di Segesta aveva cacciato i Cartaginesi e aveva giustificato l’alleanza con Roma richiamandosi alla comune origine troiana, fondata su un’antica tradizione locale. Inoltre, siccome durante la seconda guerra punica la religione romana subì violente scosse, furono introdotte nuove divinità protettrici, tra cui Venere, che era già considerata madre di Enea, e quindi la diffusione del suo culto veniva connessa con la migrazione dell’eroe.

A sostegno di ciò c’è il collegamento delle origini della città con la migrazione di Enea nel Bellum Poenicum di Nevio: quest’ultimo includeva nella narrazione della prima guerra punica quella del viaggio di Enea, e nella parte dedicata ai Troiani dava rilievo alla protezione di Venere ed alla presenza autorevole di Anchise che arrivava fin nel Lazio28.

Virgilio nella sua opera decide di rielaborare l’innesto tra il mito della fondazione di Roma da parte dei Troiani e la storia della principessa fenicia fuggita da Tiro in Africa, facendone un episodio che non celebra un singolo momento della storia di Roma, bensì un episodio che illustra una sola tra le vicende di Enea che diventano epica dello stato romano. Certo un episodio importante, che rappresenta un momento fatale, perché è in gioco l’intero destino di Roma, la sua stessa esistenza futura. L’amore della regina cartaginese, il dolore e la disperazione di una vicenda carica di connotazioni storiche e politiche: minacciando la missione di Enea, quell’amore viene a significare la potenza che avrebbe messo in serio pericolo la città che gli esuli troiani sono chiamati a fondare, e la sua tragica conclusione è, come in Nevio, la radice dell’odio e dei conflitti tra i discendenti di Didone e di colui che l’ha abbandonata.

28

Nevio, Bellum Poenicum: «postquam avem aspexit in templo Anchisa, sacra in mensa Penatium ordine ponuntur; immolabat auream victimam pulchram», Mariotti S., op. cit., fr. 17, p. 102.

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23 Per Virgilio, il modello arcaico latino di Nevio è importante anche perché costituisce un precedente nel proposito di accoppiare in un solo poema i due esemplari omerici, l’Odissea e l’Iliade. Infatti nel Bellum Poenicum29

Nevio narra, come nell’Iliade, di una guerra, ma introduce, all’inizio o, più probabilmente, in un excursus, una narrazione odissiaca del viaggio di Enea.

2.3.3 Omero

Lo stesso episodio di Didone potrebbe essere stato ispirato dalla vicenda omerica di Ulisse e Calipso: abbiamo la sosta dell’eroe presso una ninfa che si innamora di lui e che non vuole farlo andare via, fino a quando non è costretta a farlo da un intervento divino. Certo l’episodio fu tratteggiato rapidamente da Nevio, così come rappresentava una parte ben ristretta dell’Odissea. Le proporzioni che Virgilio conferisce a questa vicenda sono ben altre come già detto.

Virgilio fa un grande balzo nel processo di concentrazione, riunendo nell’Eneide i due poemi omerici. I dodici libri che compongono il poema latino si possono infatti dividere in due blocchi a livello tematico: i libri dall’I al VI trattano il viaggio di Enea, corrispondendo così all’Odissea; i libri dal VII al XII descrivono la guerra nel Lazio, corrispondendo all’Iliade. Chiaramente non si tratta di una corrispondenza assoluta, anche perché è risaputa la libertà con cui Virgilio faceva riferimento alle sue fonti. Come i poeti latini contemporanei, egli mirò a un’opera nuova, con ispirazione, qualità e caratteristiche proprie, tale da competere con i capolavori di Omero, da mettersi al loro fianco più che al loro seguito. Si comporta senza lasciarsi vincolare da regole strette, scomponendo in blocchi, selezionando e ricomponendo in un disegno proprio. Non c’è dubbio che Virgilio rimandi continuamente il lettore a singole parti e a singoli passi dei testi omerici, ma è altrettanto certo che egli vuole segnare, nello stesso tempo, la grande distanza: ciò che sembra importare a Virgilio non è che il nuovo testo appaia più bello, più affinato del testo di riferimento, ma che si presenti attualizzato, ricaricato di un’energia capace di esprimere i sentimenti, i gusti, le esigenze del suo tempo. Possiamo quindi notare alcune tra le differenze più significative:

29

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24 Virgilio inverte l’ordine dei poemi omerici, in quanto cronologicamente l’Iliade, dove è narrata la guerra di Troia, viene prima dell’Odissea, dove il protagonista Ulisse è uno degli eroi greci di ritorno dalla guerra; la suddivisione in due metà non è esente dall’introduzione di episodi relativi al poema omerico non corrispondente. Per esempio Virgilio sposta nella sua prima parte un intero blocco dall’Iliade, cioè la narrazione dei giochi funebri; è differente lo scopo delle due guerre. Nell’Iliade, la guerra di Troia porta alla distruzione di una città, mentre la parte iliadica dell’Eneide vede nascere dallo scontro una nuova città, che sarà inoltre dominatrice del mondo; l’Odissea racconta il viaggio come ritorno a casa, mentre nella parte odissiaca dell’Eneide il viaggio è una fuga da casa alla ricerca di un’altra patria; sono diversi i valori di cui i personaggi e l’azioni sono portatori. Nel sistema omerico dei valori dominano l’onore e la gloria del guerriero, nel sistema virgiliano emergono e predominano pietas, giustizia e clemenza. Il coraggio, l’onore militare e la gloria restano saldi, ma Virgilio vuole che la nuova etica dei rapporti umani abbia una sua validità anche in guerra, senza che per questo la guerra venga considerata di per sé barbarie.

2.3.4 Apollonio Rodio

Un altro modello importantissimo per Virgilio è sicuramente la Medea di Apollonio Rodio, il più famoso ed importante poeta alessandrino del III secolo a.C., autore delle Argonautiche, un poema epico in quattro libri che narra del viaggio degli Argonauti, dalla Grecia alla Colchide, alla conquista del vello d’oro. Il terzo libro è tutto dedicato all’amore di Medea e Giasone, ed ha ispirato Virgilio.

La figura di Didone è molto vicina a quella di Medea, principessa della Colchide, che si innamora di Giasone e che per aiutarlo a riconquistare il vello d’oro si macchia di orribili delitti, tradendo il padre Eeta, fuggendo insieme ai Greci ed uccidendo il fratello Assirto.

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25

2.3.5 Euripide

Medea è anche la protagonista della tragedia di Euripide, che Virgilio sicuramente conosceva. Le Argonautiche finiscono nel momento in cui, concluso l’avventuroso viaggio di ritorno, Giasone è di nuovo in patria ed ha sposato Medea, anche se per due volte egli è stato sul punto di abbandonarla. Euripide aveva invece messo in scena un momento successivo della storia, quando i due si sono stabiliti a Corinto, dopo che Medea ha provocato la morte di Peleo, lo zio usurpatore che aveva mandato Giasone in Colchide sperando che morisse nell’impresa. Ripudiata dal marito che vuole sposare la figlia del re, condannata da quest’ultimo all’esilio, Medea dimostra ancora una volta la forza della sua passione che diventa vendetta feroce, facendo morire prima la nuova sposa del re e poi anche i figli avuti da Giasone. Medea e Didone sono quindi accomunate dall’amore per un uomo straniero, lontano da casa e bisognoso d’aiuto, che le porta a dimenticare ogni ritegno e ad andare anche contro gli interessi della propria comunità, finendo sole ed disperate al momento dell’abbandono.

2.3.6 Catullo

Un’altra figura femminile che appartiene al paradigma della donna abbandonata è Arianna, figlia di Minosse, re di Creta. La sua storia è già narrata nelle

Argonautiche, ma è al carme 64 di Catullo a cui Virgilio si rifà. L’eroe ateniese

Teseo si reca a Creta per uccidere il Minotauro, liberando la città greca dall’obbligo di inviare ogni anno un tributo di vittime umane al mostro metà uomo e metà toro30. Arianna si innamora di lui, lo aiuta nel suo compito, permettendogli di uscire dal labirinto dove è rinchiuso il mostro, e infine fugge con lui, che però l’abbandona addormentata nell’isola di Nasso. Qui viene vista

30

Altre versioni del mito vorrebbero che il tributo avvenisse ogni 3 o 9 anni. P. Grimal, Enciclopedia della Mitologia, Garzanti, 1990, p. 424.

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26 dal dio Dioniso31 che la rapisce e la porta in cielo trasformandola nella costellazione di Arianna.

Un’altra volta emergono il tema dell’amore per lo straniero, il cedimento a una passione che si dimostra più forte di ogni altro affetto e che sconfina nella follia, il tradimento della comunità, inteso sia come dimenticanza degli obblighi verso di essa che come azione specifica di danneggiamento, l’abbandono da parte dell’amato, il dolore di vedersi tradita da chi dovrebbe esserle grato. Tutto questo sfocia in un lamento che accomuna ancor di più Arianna e Didone, in quanto dà voce a sentimenti, impulsi ed emozioni molto simili: il richiamo ai giuramenti e all’amore condiviso, il ricordo dell’aiuto prestato e del prezzo che questo ha comportato, l’angoscia di chi ha anteposto l’amore ad ogni altra cosa e che senza quell’amore non ha più nulla, la consapevolezza di non poter tornare indietro, per arrivare infine al desiderio di vendetta ed alla maledizione dei traditori.

Medea, Arianna e Didone sono quindi evidentemente legate dalle tematiche appena trattate, ed è altrettanto evidente come Virgilio sia stato ispirato da Apollonio Rodio, Euripide e Catullo.

2.4 Augusto e l’Eneide.

Come già accennato precedentemente, c’è una stretta relazione fra l’intento celebrativo che Virgilio ha dato al suo poema e il suo rapporto con Augusto. Il contesto in cui scrive Virgilio è in generale quello del vittorioso ordine romano che cerca di assimilare il mondo ellenistico, riadattandone e facendone propria la tradizione culturale, ma sempre cercando di distinguersene e di affermare la legittimità della conquista e la superiorità dei valori dei conquistatori. Più specificamente, il contesto è quello della conclusione delle guerre civili che per tanti anni avevano scosso la repubblica, e del fondarsi del governo imperiale di Ottaviano, rinominato Cesare Augusto in seguito alla vittoriosa battaglia di Azio. Virgilio è praticamente il cantore ufficiale dell’era augustea, il poeta dell’imperatore. Il rapporto tra il poeta e l’uomo politico è però più complesso: c’è

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Chiamato anche Bacco è essenzialmente, in epoca classica, il dio della vite, del vino, e del delirio mistico. P. Grimal, op. cit., pp. 167-172.

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27 chi sottolinea un’adesione del primo quasi servile al potere; c’è chi vede nel costante accordo di Virgilio con la visione del futuro imperatore un segno della sua grandezza, un segno della capacità di riconoscere immediatamente la grandezza di Ottaviano; c’è chi vede una coincidenza di intenti ed interessi più definita, riferibile al pervenire di entrambi ad una maggiore adesione agli ideali repubblicani; altri vi hanno visto un processo graduale di accettazione e condivisione da parte di Virgilio del disegno di Ottaviano, col mutare anche delle strategie e delle modalità di gestione del potere di quest’ultimo, che stava passando a una politica più moderata rispetto al passato.

Elogi e ringraziamenti riferiti ad Augusto sono già presenti nelle due opere precedenti all’Eneide, nelle Bucoliche, ma soprattutto nelle Georgiche, quando Virgilio già faceva parte del circolo di Mecenate, ed era quindi vicino all’imperatore. Tenendo conto di questo e della possibilità che Virgilio ed Ottaviano si siano conosciuti nella scuola di Marco Epidio32, non è da escludere che i due siano legati da una lunga amicizia ed ammirazione reciproca.

L’Eneide nasce nella gioia della vittoria di Azio, in un clima di speranza per una pace finalmente ristabilita, anche se forse il progetto per un poema epico era già presente nella sua mente da tempo. Durante le celebrazioni del 29 a.C. sfilano per le strade di Roma prigionieri e principi sconfitti, nel circo si svolgono giochi di gladiatori, per la prima volta si vedono l’ippopotamo e il rinoceronte, e soprattutto, dopo circa due secoli, viene chiuso il tempio di Giano33, evento simbolico che sanciva un periodo di pace. L’Eneide quindi può essere interpretata come narrazione delle origini gloriose di Roma e del suo rifondatore Cesare Augusto, oltre che come trasfigurazione della storia nazionale elevata nella sfera del mito. È chiaro adesso come questo poema non sia solo una scelta compositiva autonoma di Virgilio, un poeta che ammirava l’opera di Ottaviano e che voleva misurarsi col modello omerico, ma come Virgilio sia stato motivato e sostenuto nel lungo processo di scrittura da Augusto, che ha fatto un’esplicita richiesta

32 Vedi p. 16. 33

È uno degli dei più antichi del pantheon romano. Le sue leggende sono unicamente romane e collegate a quelle delle origini della città. Gli si attribuisce in particolare un miracolo che salvò Roma dalla conquista sabina. Per commemorare questo miracolo, si decise di lasciare sempre aperta, in tempo di guerra, la porta del tempio di Giano, affinché il dio potesse, in qualunque momento, accorrere in aiuto dei Romani. La si chiudeva soltanto se la pace regnava sull’Impero di Roma. P. Grimal, op. cit., pp.304-305.

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28 all’amico poeta. L’imperatore non smetterà mai di chiederne notizia, di sollecitarne la conclusione e di pretenderne la pubblicazione anche contro la sua volontà. Infatti, durante la stesura del poema, Virgilio non voleva che i suoi versi fossero letti prima che lui stesso li ritenesse pronti, in quanto mirava alla perfezione formale. Era talmente consapevole della difficoltà del compito che si era assunto che cercava di approfondire con studi filosofici e storici ogni argomento che potesse entrare nella complessa tessitura del poema. Per procedere alla revisione definitiva del poema, decise di visitare i luoghi in esso descritti, organizzando un viaggio di tre anni in Grecia e in Asia minore, e solo la sua morte ne impedirà la realizzazione. Così come il viaggio, anche l’Eneide resterà incompleta. È noto come il poeta, prima di partire, abbia chiesto all’amico Vario di bruciare l’opera, se a lui fosse successo qualcosa. Lasciò inteso anche nel testamento che non venisse pubblicato niente di ciò che egli stesso aveva già pubblicato. Per fortuna, direi, le sue volontà non furono rispettate: l’Eneide fu pubblicata così come l’aveva lasciata Virgilio, ed è, ancor oggi, spesso letta in quella chiave d legittimazione storico-epica che l’imperatore aveva desiderato, anche se sicuramente non è l’unica.

Appurata l’influenza augustea sul poema, vediamo come Virgilio l’ha messa in atto34. Innanzitutto, narrando e spiegando le origini di Roma, riesce a dare nello stesso tempo un modello etico, religioso, politico per la comunità e specialmente per l’élite politica: questa funzione di archetipo etico viene conferita ad Enea, primo padre della patria e primo e più alto modello per i cittadini romani, ed è caratterizzata dalla sacralità del re, cioè dalla stretta unità di compiti sacerdotali, prestigio morale e autorità politica. Virgilio ha plasmato il suo protagonista secondo il modello dei primi re di Roma, specialmente di Romolo e di Numa. Il modello, che rientra in quello antico dei fondatori di città o di stirpi o di popoli, si può accostare anche a quello dei fondatori di religioni. Augusto è colui che realizza il modello nel modo più pieno, proprio perché a Roma, in assenza della formazione di una casta sacerdotale, era l’élite politica ad assolvere le funzioni religiose. Questa carica di pontifex maximus veniva attribuita a vita e, più che permettere di svolgere compiti sacrali, dava ancora più potere politico

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