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Gli Interferoni di Tipo I e di Tipo II inibiscono sia la secrezione basale di CXCL8 sia quella indotta dal Tumor Necrosis Factor-α in colture primarie di tireociti umani

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INDICE

1.

 

INTRODUZIONE...3

 

1.1   AUTOIMMUNITÀ E MALATTIE AUTOIMMUNI... 3  

1.1.1   Malattie tiroidee autoimmuni (AITD)...6  

1.2   LE CHEMOCHINE...10  

1.2.1   Il sistema chemochinico...10  

1.2.2   Fisiopatologia delle chemochine nelle patologie infiammatorie...13  

1.2.3   CXCL8...15  

  1.3 CITOCHINE PRO-INFIAMMATORIE: IFN-α, IFN-β, IFN-γ e TNF-α...18  

1.3.1   IFN-α...18  

1.3.2   IFN-β...20  

1.3.3   IFN-γ...21  

1.3.4   TNF-α...24  

1.4   LE TRASDUZIONI DEL SEGNALE IFN-MEDIATE...28  

1.4.1   La via del segnale Jak/STAT...28  

1.4.2   La via NF-κB...31  

1.5   LE COLTURE CELLULARI...33  

1.5.1   Conservazione delle cellule...39  

1.5.2   Scongelamento delle cellule...40  

1.5.3   Vantaggi derivanti dall’uso delle colture cellulari...41  

1.5.4   Svantaggi derivanti dall’uso delle colture cellulari...41  

1.6   IL DOSAGGIO IMMUNOENZIMATICO...42  

1.6.1   Anticorpi monoclonali...42  

1.6.2   Tecnica del doppio anticorpo: elisa...44  

2.

 

SCOPO DELLO STUDIO

... 46

 

3.

 

MATERIALI E METODI... 47

 

3.1   COLTURA PRIMARIA DI TIREOCITI UMANI...47  

3.2   FASI OPERATIVE DELLA TRIPSINIZZAZIONE...51  

3.3   CONTEGGIO DELLE CELLULE CON LA CAMERA DI BURKER...52  

3.4   SAGGI DI SECREZIONE DI CXCL8 SUI SUPERNATANTI DI TIREOCITI UMANI IN COLTURA IN CONDIZIONI BASALI E DOPO INCUBAZIONE CON INTERFERONS DI TIPO I E DI TIPO II...54  

3.5   SAGGI DI SECREZIONE DI CXCL8 SUI SUPERNATANTI DI TIREOCITI UMANI IN COLTURA DOPO STIMOLO CON IL SOLO TNF-α O IN COMBINAZIONE CON INTERFERONS DI TIPO I E DI TIPO II...54  

(2)

3.6   DETERMINAZIONE DEI LIVELLI SIERICI DI CXCL8 IN PAZIENTI AFFETTI DA MALATTIA DI

GRAVES (GD)...55  

3.6.1   Elisa per CXCL8...55  

3.7   ANALISI STATISTICA...58  

4.

 

RISULTATI

... 59

 

4.1   SECREZIONE DI CXCL8 DA PARTE DI TIREOCITI UMANI...59  

4.2   MODULAZIONE DA PARTE DI INTERFERONS DI TIPO I E DI TIPO II DELLA SECREZIONE DI CXCL8, BASALE E INDOTTA DA TNF-α...60  

4.3   CONFRONTO DEI LIVELLI SIERICI DI CXCL8 IN PAZIENTI AFFETTI DA MORBO DI GRAVES E SOGGETTI SANI....63  

5.

 

DISCUSSIONE E CONCLUSIONI

... 64

 

(3)

1. INTRODUZIONE

1.1 AUTOIMMUNITÀ E MALATTIE AUTOIMMUNI

Il sistema immunitario dei vertebrati e quindi dell'uomo, è una straordinaria rete integrata di mediatori chimici e cellulari sviluppatasi nel corso dell’evoluzione per difendere l’organismo da qualsiasi forma di insulto chimico, traumatico o infettivo all’integrità dell’organismo stesso. Una caratteristica fondamentale del sistema immunitario è quindi la capacità di distinguere tra le strutture endogene o esogene che non costituiscono un pericolo e che dunque possono o devono essere preservate (self) e le strutture endogene o esogene che invece si dimostrano nocive per l’organismo e che devono quindi essere eliminate (non-self). Per “autoimmunità” si intende un fenomeno caratterizzato da una risposta immune rivolta contro antigeni “self”. Tale termine non è sinonimo di malattie autoimmuni, anche se il fenomeno interviene sempre nella patogenesi di queste forme morbose, con un’ampia varietà di manifestazioni cliniche [1].

Normalmente, il sistema immunitario produce minime quantità di autoanticorpi, cioè di anticorpi rivolti contro gli antigeni self, che servono proprio per mantenere ed esaltare la capacità di discriminare tra self e non self; nonostante questo, tali autoanticorpi non generano alcun quadro clinico. La capacità di discriminazione, caratteristica peculiare del sistema immunitario, prende il nome di “tolleranza”. L’autoimmunità risulta pertanto essere il prodotto finale del mancato funzionamento di uno o più meccanismi che regolano la tolleranza immunologica [2,3].

Gli antigeni che stimolano la produzione di autoanticorpi sono i più svariati, sia per struttura chimica (lipidi, proteine, acidi nucleici, cromatina, complessi macromolecolari) sia per localizzazione cellulare (membrana, citoplasma, nucleo) e tissutale [4,5].

Spesso le strutture che fungono da autoantigeni (o antigeni self) sono rappresentate da molecole dotate di importanti proprietà funzionali, quali gli enzimi; a volte le molecole autoantigeniche, prima di divenire tali, vengono modificate dal punto di vista strutturale da processi biochimici e metabolici diversi, quali per esempio quelli che si realizzano in corso di infezioni, proliferazione cellulare o morte cellulare per apoptosi [6,7].

L’autoimmunità si può sviluppare sia come fenomeno isolato, sia nell’ambito di specifiche sindromi cliniche, e può essere osservata anche in individui altrimenti sani, in particolar modo negli anziani [4]; inoltre, fenomeni di autoreattività si possono sviluppare nel corso di numerose patologie infettive. L’espressione dell’autoimmunità può essere autolimitante, come nel corso di processi infettivi, o persistente. In entrambe le condizioni vi è la tendenza a sviluppare un’autoreattività nei

(4)

Il termine autoimmunità si riferisce pertanto alla presenza di anticorpi o linfociti T in grado di rispondere contro autoantigeni; ciò non comporta che lo sviluppo di una reattività contro il self debba avere necessariamente conseguenze patologiche [1].

Attualmente si pensa che tre meccanismi principali siano responsabili del mantenimento della selettiva mancanza di reattività agli antigeni self:

- sequestro degli autoantigeni, che li rende inaccessibili al sistema immunitario; - incapacità specifica di rispondere (tolleranza) delle cellule T e B;

- limitazione della reattività potenziale da parte di meccanismi regolatori.

Tali meccanismi permettono all’ospite di generare una risposta nei confronti di una vasta gamma di antigeni estranei, precludendo quella diretta contro gli autoantigeni, che potrebbe avere conseguenze patologiche [4]. L’alterazione di questi processi fisiologici, secondaria alla stimolazione da parte di agenti esogeni, generalmente batteri o virus, o ad alterazioni intrinseche delle cellule del sistema immunitario (Tabella 1), può predisporre allo sviluppo dell’autoimmunità [5].

Le cause di insorgenza di autoimmunità possono pertanto essere diverse e sono riassunte nella tabella seguente:

A. Mimetismo molecolare B. Stimolazione superantigenica ESOGENE

C. Azione adiuvante batterica

A. Alterazione della presentazione dell'antigene

B. Aumentata attività delle cellule T helper (es: produzione di citochine) C. Aumentata funzione delle cellule B

D. Difetti di apoptosi

E. Squilibrio nella produzione di citochine ENDOGENE

F. Alterazioni nell'immunoregolazione

Tabella 1. Meccanismi di insorgenza di autoimmunità.

Le malattie autoimmuni sono manifestazioni morbose conseguenti ai fenomeni di autoimmunità. L’insorgenza di una malattia autoimmune dipende dallo sviluppo o meno di un danno tissutale correlabile all’insorgenza di processi autoimmunitari. Il carattere distintivo di una patologia autoimmune è legato al fatto che il danno tissutale è causato da una reazione immunologica dell’organismo contro i propri tessuti. Per classificare una malattia come autoimmune è necessario dimostrare che la risposta immunitaria contro un autoantigene è responsabile della patologia osservata, in altre parole è necessario dimostrare il ruolo patogenetico del processo autoimmune [4].

(5)

Una determinata condizione morbosa può essere considerata come autoimmune se risponde ai seguenti cinque criteri:

1. Dimostrazione di risposte autoimmunitarie umorali e/o cellulo-mediate.

2. Riconoscimento di uno specifico antigene verso cui le risposte autoimmunitarie sono rivolte. 3. Induzione di una risposta autoimmunitaria contro lo stesso antigene nell’animale da

esperimento.

4. Riproduzione, nell’animale da esperimento, di lesioni corrispondenti a quelle riscontrate in patologia umana.

5. Trasporto passivo della malattia mediante il siero contenente gli autoanticorpi o mediante le cellule immunocompetenti o auto-reattive.

Le forme morbose che si caratterizzano per l’intervento di un meccanismo autoimmunitario possono essere suddivise in tre gruppi principali:

a. Forme organo specifiche: sono caratterizzate da una risposta autoimmunitaria umorale e/o cellulo-mediata rivolta verso costituenti antigenici dei singoli organi, e da alterazioni, organiche o funzionali, limitate pressoché esclusivamente agli organi verso cui le risposte autoimmunitarie sono rivolte. Esempi di malattie autoimmuni organo specifiche sono la tiroidite di Hashimoto e il morbo di Basedow-Graves.

b. Forme non-organo specifiche: sono caratterizzate dalla perdita della tolleranza nei confronti di costituenti antigenici dell’organismo diffusamente distribuiti e da alterazioni anatomo-istologiche estese a diversi organi o tessuti.

c. Forme intermedie: in queste non è stato possibile dimostrare con sicurezza l’organo specificità dell’autoantigene ovvero, accanto a risposte autoimmunitarie organo specifiche, coesistono risposte rivolte verso autoantigeni diffusamente distribuiti e le lesioni sono estese a più organi e tessuti.

La diagnosi delle malattie autoimmuni spesso risulta difficile sulla base del solo quadro clinico e, per questo motivo, risultano di grande aiuto indagini di laboratorio mirate a mettere in evidenza gli autoanticorpi.

(6)

1.1.1 Malattie tiroidee autoimmuni (AITD)

La tiroide è uno degli organi bersaglio di fenomeni di autoimmunità, infatti le malattie tiroidee autoimmuni (AITD) sono le più comuni malattie autoimmunitarie che si sviluppano nell’uomo. Le AITD hanno una patologia multifattoriale e sono caratterizzate da una reattività del sistema immunitario nei confronti di antigeni della tiroide. Il risultato finale è quindi la produzione di anticorpi che si legano a differenti siti di legame e causano una patologia infiammatoria distruttiva o un’autoimmunità antirecettore [8]. Le AITD comprendono due differenti entità cliniche: la Tiroidite di Hashimoto e il morbo di Basedow-Graves [9-11]. Da un punto di vista istopatologico sia il morbo di Basedow-Graves sia la Tiroidite di Hashimoto sono caratterizzati da una infiltrazione linfocitaria della tiroide, la quale risulta in una distruzione tissutale [12,13]. Proprio questa infiltrazione linfocitaria della ghiandola tiroidea è una delle caratteristiche anatomo-patologiche principali delle malattie tiroidee autoimmuni. L’infiltrato infiammatorio è principalmente caratterizzato dalla presenza di cellule mononucleate, inclusi linfociti T, linfociti B e macrofagi [8,14]. I linfociti sono responsabili di diversi effetti infiammatori, tra cui la secrezione di citochine e la produzione di autoanticorpi da parte della tiroide [8,15]. Le caratteristiche dell’infiltrato infiammatorio dipendono da vari fattori, tra cui lo stadio della malattia, la terapia utilizzata e soprattutto dal tipo di AITD; infatti mentre nel morbo di Basedow-Graves l’infiltrato a livello tiroideo è di lieve entità e causa la produzione di anticorpi diretti contro il recettore della tireotropina, la tiroide di pazienti affetti da tiroidite di Hashimoto mostra un infiltrato molto più grave, che può eventualmente portare alla distruzione dei follicoli tiroidei, con conseguente sviluppo di ipotiroidismo [16,17]. Come per la maggior parte delle malattie autoimmuni, la suscettibilità è determinata da una combinazione di fattori genetici e ambientali; la perdita della tolleranza immunologica a livelli multipli è indicativa del meccanismo con cui si verificano queste interazioni [8]. L’infiltrato cellulare a volte si organizza in centri germinativi, che assumono caratteristiche simili ai centri germinativi linfonodali [14,18,19]. I linfociti intratiroidei sono la causa principale della patogenesi delle AITD, ma il meccanismo di reclutamento linfocitario a livello della tiroide è solo parzialmente conosciuto. È risaputo che questo meccanismo fa parte di un processo “multistep” che comprende adesione e migrazione attraverso l’endotelio, il passaggio attraverso l’interstizio e infine il movimento verso le cellule follicolari della tiroide [20,21].

L’extravasazione leucocitaria coinvolge l’azione combinata di molecole di adesione, come selectine e integrine, e fattori chemotattici, rappresentati principalmente dalla chemochine (Fig. 1) [22].

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Fig. 1 Tappe della migrazione leucocitaria all’interno dei tessuti attraverso l’endotelio. L’azione di selectine, integrine e fattori chemotattici, che agiscono sui loro recettori leucocitari, genera diversi meccanismi di ingresso; il risultato è la migrazione di subset leucocitari tessuto-specifici.

Ogni effetto patogenetico che si sviluppa durante la patologia riveste probabilmente un ruolo secondario nella successiva amplificazione della risposta autoimmune. Ad esempio, il danno che si verifica a livello del follicolo tiroideo, mediato dall’azione di linfociti T e citochine, potrebbe esporre l’enzima tireoperossidasi sulla membrana apicale dei follicoli agli anticorpi anti-Tireoperossidasi (TPO) che potrebbero quindi legarsi all’auto-antigene e fissare il complemento (Fig. 2) [18,23].

(8)

Fig. 2 Meccanismi di danno alla cellula follicolare della tiroide (TFC) nel corso di processi autoimmuni [24].

Nelle AITD vi è un aumento delle cellule T attivate circolanti e il tessuto tiroideo risulta infiltrato da cellule T, sia CD4+ che CD8+. Le citochine che vengono secrete dalle cellule immunitarie infiltranti inducono anche l’espressione di molecole di superficie della cellula tiroidea e questo porta a:

 reclutamento di cellule immunitarie (es.: molecole di adesione);

 induzione della secrezione di citochine da parte delle stesse cellule tiroidee;  produzione di ossido nitrico;

 riduzione della produzione di ormone tiroideo attraverso l’inibizione della sintesi del recettore del TSH (TSH-R), di TPO e di Tireoglobulina (Tg) [24].

È stato dimostrato che nelle malattie tiroidee autoimmuni l’infiltrato linfocitario e le cellule endoteliali supportano un’aumentata espressione di varie molecole di adesione [25] e inoltre che l’infiltrato infiammatorio, in particolare linfociti T e macrofagi, producono e secernono molte citochine, come le interleuchine (IL-1, IL-2, IL-6 e IL-10), l’Interferone-γ (IFN-γ) e il Tumor Necrosis Factor-α (TNF-α) [26-32]. Comunque, il ruolo specifico di queste molecole nella patogenesi delle AITD è ancora oggetto di dibattito e inoltre è necessario sottolineare che le cellule follicolari tiroidee producono anch’esse diversi tipi di citochine (Fig. 3) [33-37].

Negli ultimi anni è stato proposto che le chemochine possano partecipare nell’insorgenza e mantenimento del processo infiammatorio, che infine porta allo sviluppo della malattia autoimmune tiroidea [16,38].

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1.2 LE CHEMOCHINE

1.2.1 Il sistema chemochinico

Il termine chemochine si riferisce a un particolare sottogruppo di citochine dotate di attività chemotattica. In particolare, le chemochine sono una famiglia di peptidi pro-infiammatori di basso peso molecolare, strutturalmente correlati e caratterizzati da una significativa omologia nella loro sequenza amminoacidica. La funzione principale attribuibile alle chemochine è appunto il reclutamento dei leucociti a livello del sito infiammatorio [39], ma successivamente sono stati identificati diversi ruoli nei quali sono coinvolte le chemochine, tra cui la crescita tumorale, l’angiogenesi e l’organo sclerosi [40,41]. Le chemochine vengono prodotte nel sito infiammatorio sia da cellule infiltranti che dalle cellule residenti, in risposta all’esposizione di fattori endogeni ed esogeni. Il reclutamento di diversi tipi di cellule in differenti tessuti ed organi eseguito dalle chemochine è una tappa fondamentale per la maturazione e il passaggio di cellule T attraverso gli organi immunitari, ed è proprio per questo che le chemochine svolgono un ruolo fondamentale nell’immunità, proteggendo l’organismo da agenti infettivi. Le chemochine però possono determinare l’insorgenza di effetti dannosi e pericolosi, attraverso il mantenimento e l’amplificazione di reazioni immunitarie croniche, specialmente nelle situazioni in cui l’agente infettivo non è rapidamente eliminato [38]. Quindi, attraverso l’induzione e l’amplificazione della risposta cronica autoimmune, le chemochine sono in grado di sostenere reazioni immunitarie, le quali sono responsabili dell’insorgenza della malattia autoimmune.

Al momento sono state identificate quattro famiglie di chemochine, nominate CXC, CC, C e CX3C, in base alla posizione dei residui cisteinici nella loro porzione N-terminale. I nomi storici delle chemochine sono stati sostituiti da una nomenclatura sistematica, adottata a partire dall’anno 2000 (2000, International Union of Pharmacology) [42,43] (Tabella 2).

Le chemochine CXC (α-chemochine) presentano i due residui cisteinici nell’estremità N-terminale separati da un amminoacido (X), mentre le chemochine CC (β-chemochine) mostrano le due cisteine giustapposte. Per quanto riguarda le chemochine C (γ-chemochine) si può osservare la presenza di una sola cisteina nella porzione N-terminale; infine le chemochine CX3C (δ- chemochine) presentano i due residui di cisteina separati da tre amminoacidi. La maggior parte delle chemochine umane appartengono alle famiglie CXC e CC [39]; le α-chemochine agiscono principalmente su macrofagi e neutrofili mentre le β-chemochine esercitano la loro azione preferibilmente su macrofagi, eosinofili, basofili e linfociti.

(11)

La più importante chemochina della famiglia CC è la “monocyte chemoattractant protein 1” (MCP- 1), detta anche “chemokine ligand CCL-2”, che è un potente chemiotattico per i monociti, per le cellule dendritiche, per le cellule T di memoria e per i basofili. Altre chemochine CC includono la cosiddetta “macrophage inflammatory protein”: MIP-1α (CCL-3), MIP-1β (CCL-4) e RANTES (CCL-5). Per quanto concerne le chemochine CXC, un sottogruppo di esse è coinvolto nell’attrazione di leucociti polimorfonucleati nel sito di infiammazione, mentre un altro sottogruppo è rappresentato da chemochine tra cui troviamo la CXCL9, CXCL10 e CXCL11. Per quanto riguarda il primo sottogruppo, il membro principale è rappresentato dall’Interleuchina-8 (IL-8 o CXCL8); questa chemochina è conosciuta inoltre per la sua capacità di attivare i monociti e di dirigere il reclutamento di queste cellule nel sito di lesione vascolare [44]. La caratteristica principale delle chemochine Interferon-γ inducibili invece è l’interazione esclusiva con due varianti dello stesso recettore, conosciuto con il nome di CXCR3 (CXCR3-A e CXCR3-B). Della terza famiglia di chemochine CX3C, la “fraktalkine” (CX3CL-1) è l’unico membro. Il dominio di CX3CL-1 è fuso a un residuo “mucin-like” e a regioni transmembrana e citoplasmatiche, formando pertanto un recettore di adesione cellulare in grado di arrestare le cellule immunitarie durante la loro migrazione fisiologica. Un enzima, l’enzima convertente il TNF-α, è in grado di determinare il clivaggio di CX3CL-1 dalla membrana cellulare, consentendo alla citochina di agire come agente chemiotattico solubile. Le linfoactine (XCL1e XCL2), sono i due membri della quarta famiglia, esse possiedono un singolo residuo cisteinico e sono attive su linfociti T e sulle cellule Natural Killer (NK).

Il messaggio codificato dalle chemochine è mediato da specifici recettori di superficie costituiti da sette domini transmembrana accoppiati a proteine-G; al momento il sistema recettoriale delle chemochine comprende venti differenti recettori a cui si legano circa cinquanta ligandi. Quindi generalmente un recettore lega più di una chemochina e una chemochina si lega a più di un recettore. Ad oggi sono stati identificati sette recettori per le CXC (CXCR1-CXCR7), undici per le CC (CCR1-CCR11) , uno per la CX3CL1 (CX3CR1) e uno per le linfoactine (XCR1) [42,43,45]. Il legame delle chemochine al recettore attiva una cascata di segnali che determinano riarrangiamento, cambiamento di forma e movimento cellulare di actina [46].

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1.2.2 Fisiopatologia delle chemochine nelle patologie infiammatorie

Il termine chemochine deriva dalla fusione di due parole di origine anglosassone, ossia “chemotaxis” e “cytokines”. L’attività chemotattica di queste molecole riveste un ruolo di notevole importanza sia per quanto riguarda il mantenimento dell’omeostasi, sia per la regolazione nel corso dello sviluppo dei processi infiammatori. Proprio questi ultimi coinvolgono una serie di processi complessi che comportano la fuoriuscita dei leucociti dal circolo sanguigno in seguito a interazioni specifiche tra cellule endoteliali e i leucociti stessi (Fig. 4) [47,48]. Le chemochine pro-infiammatorie si rendono inoltre responsabili del processo di ricircolazione di diversi tipi cellulari, come ad esempio linfociti, macrofagi, mastociti ed eosinofili, dal sangue al tessuto e viceversa fino al sistema linfatico, contribuendo al mantenimento del processo infiammatorio [46].

Fig. 4 Rappresentazione del ruolo delle chemochine, generate in un sito di infiammazione

Queste evidenze sperimentali sono state confermate da diversi studi che hanno messo in evidenza un aumento della secrezione delle chemochine durante il processo infiammatorio a livello di diversi organi [47]. Il principale stimolo alla secrezione di chemochine è rappresentato dalle citochine

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pro-infiammatorie, di cui fanno parte IFN-γ, TNF-α, IL-1, LPS e alcune proteine virali. A questo processo partecipano inoltre l’IL-4 e alcuni prodotti secreti dai linfociti Th-1 e Th-2.

Un altro importante ruolo svolto dalle chemochine, in particolar modo quelle appartenenti alla famiglia CXC, è quello della regolazione dell’angiogenesi; queste molecole infatti possono avere sia un’azione stimolatoria che inibitoria nei confronti del processo angiogenetico. Tale azione è correlata alla loro conformazione strutturale, in particolare alla presenza o assenza del tripeptide acido glutammico-leucina-arginina (ELR) nella porzione N-terminale del primo redisuo cisteinico. A questo proposito le citochine CXC possono essere suddivise in chemochine angiogenetiche (ELR) e chemochine angiostatiche (non-ELR) [49]. Il motivo ELR è un dominio strutturale importante per l’attività angiogenetica in quanto esso determina la specificità di legame della chemochina al recettore. Quando il motivo non-ELR della chemochina angiostatica CXCL4 è sostituito con un motivo ELR, la nuova molecola acquisisce la capacità di legare il “recettore angiogenetico” CXCR2, come CXCL8 e altre chemochine angiogeniche [50].

Fra le chemochine angiogenetiche la più rappresentativa è senza dubbio CXCL-8, mentre fra quelle angiostatiche CXCL10, CXCL9 e CXCL11 [51]. L’espressione di queste chemochine ad elevata attività angiostatica è significativamente stimolata dall’IFN-γ. Altre citochine quali TNF-α e IL-1 sono i principali stimoli alla produzione di chemochine CXC di tipo ELR. Gli interferoni e le citochine possono quindi essere considerati segnali specifici per la produzione di chemochine CXC dotate sia di attività angiostatica (non-ELR) che angiogenetica (ELR) [51,52].

Le chemochine CXC non-ELR CXCL10 e CXCL9 inibiscono in particolare l’angiogenesi indotta dalle chemochine ELR. In modelli sperimentali murini si è osservato inoltre che CXCL10 e CXCL9 svolgono un ruolo importante nella regolazione della crescita tumorale [52]. Questi risultati suggeriscono che tali chemochine possano essere utili nella terapia di tumori solidi e che l’attività angiogenetica totale del tumore sia regolata dall’equilibrio tra chemochine angiostatiche ed angiogenetiche [53,54].

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1.2.3 CXCL8

 

CXCL8 (o IL-8) è una chemochina con una forte attività pro-infiammatoria, appartenente alla famiglia CXC [39,55], caratterizzata dalla presenza di due cisteine nella porzione N-terminale separate da un amminoacido (X). Come già detto, le chemochine CXC possono essere suddivise in due sottoclassi in base al loro ruolo nella regolazione del processo angiogenetico; quindi possono essere identificate le chemochine CXC ELR (dotate di proprietà angiogenetica) e le chemochine CXC non-ELR (dotate di attività angiostatica). A questo riguardo, CXCL8 appartiene alla classe CXC di tipo ELR (Fig. 5).

Fig. 5 Ruolo angiogenetico di CXCL8.

CXCL8 è in grado di legarsi con elevata affinità di legame a due recettori di membrana accoppiati a proteine G, CXCR1 e CXCR2 [39,55,76,77]; da ciò dipende lo specifico effetto biologico di questa chemochina. CXCR1 e CXCR2 sono stati i primi recettori di citochine ad essere descritti e rappresentano inoltre gli unici recettori conosciuti per citochine CXC di tipo ELR. Dati sperimentali indicano che sia CXCR1 che CXCR2 sono coinvolti nella risposta angiogenetica mediata da CXCL8 [56-60]. Data la tipica ridondanza del sistema recettoriale chemochinico, CXCR1 e CXCR2 non legano esclusivamente CXCL8. CXCR1 interagisce anche con CXCL6, mentre CXCR2 è in grado di legare anche CXCL1, CXCL2, CXCL3, CXCL5, CXCL6 e CXCL7 [16].

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batteri, virus e loro prodotti, citochine pro-infiammatorie come IL-1 e TNF, condizioni ipossiche e tumorigenesi [61-66]. Sono stati osservati elevati livelli di CXCL8 in un gran numero di condizioni infiammatorie ed autoimmuni: psoriasi [67], artrite reumatoide [68-70], diabete [71], sindrome acuta da distress respiratorio [72] ed encefalite [73].

La tiroide, essendo uno dei principali bersagli dei processi autoimmunitari, è particolarmente coinvolta nei meccanismi di infiltrazione leucocitaria, condizione in cui le chemochine svolgono un importante ruolo di regolazione del processo infiammatorio.

Nel 1992, Weetman et al dimostrarono per la prima volta che una chemochina, ossia la CXCL8, veniva secreta da cellule follicolari di tiroide umana in coltura [74]. Nella Tabella 3sono indicate le chemochine secrete dalle cellule tiroidee, per ciascuna i recettori, i principali fattori stimolatori della secrezione e le principali popolazioni cellulari target dell’azione chemiotattica. I tireociti secernono ciascuna chemochina in risposta ad uno specifico o ad una specifica combinazione di fattori stimolatori [75].

Tabella 3 Chemochine CXC secrete da cellule tiroidee.

Nonostante le ampie e diffuse ricerche in questo campo, il ruolo fisiopatologico delle chemochine secrete dai tireociti umani rimane solo parzialmente conosciuto, infatti il ruolo di CXCL8 nella ghiandola tiroidea è ancora ben lontano dall’essere stabilito. L’elevata organizzazione dell’infiltrato presente nella tiroide di pazienti affetti da AITD suggerisce che diverse chemochine siano coinvolte in un processo di riorganizzazione “multistep”, per questo la secrezione di CXCL8 indotta da specifiche citochine pro-infiammatorie può risultare importante per la determinazione della natura delle cellule infiltranti il tessuto tiroideo. Studi recenti suggeriscono inoltre un possibile ruolo di CXCL8 nell’omeostasi tiroidea. E’ stato dimostrato che il gene di CXCL8 è regolato positivamente dallo ioduro in quanto dopo coltura di 48h di cellule follicolari tiroidee in mezzo contenente sia TSH bovino che ioduro a varie concentrazioni, l’espressione dell’mRNA per CXCL8 aumenta in modo dose-dipendente [78]. Inoltre anche il TSH è capace di indurre la produzione di CXCL8 a

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livello pre-translazionale in fibrociti di pazienti con morbo di Graves (GD) che esprimono il recettore del TSH. Il fatto che due regolatori cardine della crescita e della funzione della ghiandola tiroide (iodio e TSH) modulino l’espressione di CXCL8, suggerisce appunto che CXCL8 possa avere un ruolo nell’omeostasi tiroidea [79].

Come già detto, Weetman et al. furono i primi ad investigare la secrezione di CXCL8 da parte dei tireociti; la base di partenza era rappresentata dal fatto che patologie autoimmuni della tiroide, come il morbo di Graves e la Tiroidite di Hashimoto, sono caratterizzate da infiltrazione del tessuto tiroideo da parte di cellule mononucleate. Un fattore in grado di poter espandere questa popolazione autoreattiva è la secrezione di Interleuchina-6 (IL-6) da parte delle cellule della tiroide [80], ma questa condizione non può essere ritenuta responsabile per l’iniziale accumulo di linfociti a livello della ghiandola tiroidea. Data l’attività chemotattica di CXCL8 sia nei confronti dei neutrofili che dei linfociti, e considerando l’extravasazione e la migrazione linfocitaria un fondamentale “step” iniziale nell’autoimmunità, Weetman e collaboratori hanno voluto investigare se le cellule tiroidee fossero in grado di produrre oltre a IL-6 anche IL-8.

Da questi studi è emerso che cellule di tiroide in coltura, sottoposte ad appropriate condizioni sperimentali, sono in grado di secernere CXCL8; una condizione di particolare interesse è rappresentata dal fatto che TNF-α presenta un’azione di stimolazione sui tireociti per quanto riguarda la secrezione di IL-8, mentre un'altra citochina pro-infiammatoria di notevole rilevanza, ossia IFN-γ, esplica un’azione di tipo inibitorio sulla produzione di CXCL8.

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1.3 CITOCHINE PRO-INFIAMMATORIE: IFN-α, IFN-β, IFN-γ e TNF-α

1.3.1 IFN-α

Per contrastare l'infezione virale, le cellule umane hanno sviluppato una formidabile ed integrata rete di difesa che comprende risposte immunitarie innate ed adattative. Nel tentativo di impedire la replicazione e la diffusione virale o l’infezione persistente della cellula, molte di queste misure di protezione, in realtà, implicano l'induzione della morte cellulare programmata o apoptosi. Una volta che il virus ha invaso la cellula, si innesca una risposta mediata dalle difese dell’ospite che coinvolge l'induzione di una famiglia di citochine note come IFNs (Interferoni). Gli IFNs sono stati scoperti circa 50 anni fa da Isaacs e Lindenmann, i quali osservarono che colture cellulari infettate da virus producevano una proteina in grado di reagire con le cellule, rendendole resistenti all’infezione da parte di altri virus [81]. Infatti il termine Interferone deriva proprio dalla capacità di queste citochine di inteferire con l’infezione virale. Tuttavia ulteriori studi hanno dimostrato che gli IFNs hanno anche un ruolo importante nel ridurre la crescita tumorale e nella modulazione delle risposte immunitarie. Essi sono classificati come di tipo I o di tipo II.

Gli IFNs di tipo I svolgono molteplici funzioni: inibiscono la replicazione virale, potenziano l’espressione delle molecole del complesso maggiore di istocompatibilità (MHC) di classe I, stimolano lo sviluppo di linfociti T helper (Th) 1 e promuovono il sequestro dei linfociti ai linfonodi, favorendo l’attivazione di queste cellule da parte dell’antigene.

Esistono numerosi tipi di IFNs di tipo I, tutti caratterizzati da una significativa omologia strutturale e codificati da geni appartenenti a un unico cluster posto sul cromosoma 9. Nell’uomo, la famiglia degli IFNs di tipo I comprende IFN-α (ulteriormente suddivisibile in differenti sottotipi), IFN-β, IFN-ε, IFN-κ e IFN-ω. Sono stati scoperti 24 geni sul cromosoma 9 codificanti per una quindicina di IFN-α maturi il cui P.M. è di circa 20 kDa. Le proteine sono costituite da 166 aa tra cui cisteine che stabilizzano la struttura ad α-elica formando ponti disolfuro (Fig. 6). L’IFN-α è prodotto principalmente dalle cellule dendritiche plasmacitoidi, dai fagociti mononucleati e dai linfociti B e T. Numerosi studi hanno dimostrato che l’IFN-α ha un ruolo importante nell’inibire la replicazione virale, promuovendo la sintesi di molte proteine antivirali tra cui la 2’-5’ oligoadenilato sintetasi (2’-5’-OSA), l’endoribonucleasi L (RNasi L), proteine della famiglia Mx, proteine della famiglia APOBEC3 [82]. Inoltre l’IFN-α può attivare varie cellule immunitarie, cellule NK, cellule NKT, cellule dendritiche e linfociti T [83,84].

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Fig. 6 Struttura dell’Interferon-α.

Effetto degli IFNs di tipo I su cellule NK e CD8+

E’ noto che gli IFNs di tipo I potenziano l’espressione delle molecole MHC di classe I e che i linfociti CD8+ riconoscono l’antigene legato a tali molecole [84]. Attraverso la capacità di aumentare l’espressione di queste proteine, l’IFN-α potenzia quindi il riconoscimento degli antigeni virali (che si legano a MHC di classe I sulle cellule infettate), con un conseguente potenziamento dell’azione dei CTL CD8+, causando quindi le effettive reazioni immunitarie antivirali. L’IFN-α potenzia anche l’attività citotossica delle cellule NK.

IFNs di tipo I e cellule dendritiche (DC)

Le cellule dendritiche sono le più potenti e importanti cellule presentanti l’antigene (APC). Cellule dendritiche mature possono essere generate a partire da monociti usando una combinazione di molecole, tra cui l’INF-α, che sembra quindi essere fondamentale per l’induzione della maturazione di queste cellule [85]. Le cellule dendritiche sono anche in grado di produrre livelli biologicamente rilevanti di IFNs di tipo I e, in particolare, precursori delle cellule dendritiche specializzate possono rilasciare grandi quantità di queste citochine in risposta ad infezioni virali [86].

IFN-α e autoimmunità

L’IFN-α viene utilizzato in clinica come farmaco nel trattamento delle epatiti B e C e nel trattamento di tumori solidi ed ematologici [87-89]. A causa delle proprietà immunomodulatorie, possono verificarsi come effetti collaterali fenomeni di autoimmunità, quali tiroiditi autoimmuni con ipo- o iper-tiroidismo, dovuti ad una maggiore reattività o a disregolazione dell’immunità

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indotta dallo stesso IFN [90,91]. L’effetto principale dell’IFN-α è la stimolazione della citotossicità cellulare, causata essenzialmente dall’up-regolazione dell’espressione della perforina nelle cellule T e NK [92], sostenuta da soppressione della risposta immunitaria Th2 e dall’aumento di quella mediata da Th1 [93,94]. Comunque, gli effetti dell’IFN-α sul sistema immunitario sono controversi poichè è stato dimostrato che essa sopprime la produzione di citochine Th1, importanti per l’eliminazione del virus HCV [95,96]. Nei pazienti trattati con IFN, l’attivazione della risposta immunitaria è fondamentale per lo sviluppo della patologia tiroidea. Infatti, gli IFNs possono avere effetti diretti sulla ghiandola tiroidea modulando l’espressione aberrante degli antigeni di istocompatibilità sulle cellule tiroidee e favorendo un microambiente citochinico che può causare il danno immuno-mediato del tessuto tiroideo [97,98]. Ciò è confermato dalla positività agli anticorpi tiroidei, soprattutto anticorpi anti tireoglobulina (TgAbs), in pazienti trattati con IFN-α [99]. L’associazione tra AITD e l’uso farmacologico di IFN-α suggerisce quindi che alti livelli di IFN-α endogeno possano essere associati a patologie tiroidee autoimmuni.

1.3.2 IFN-β

 

L’IFN-β, anch’esso appartenente agli IFNs di tipo I, è una molecola immunostimolatoria capace di indurre l’espressione di molecole MHC di classe I, di aumentare l’attività dei linfociti T citotossici, di stimolare lo sviluppo di linfociti Th1, di attivare le cellule NK e di indurre l’attività dei macrofagi. Inoltre, come altre citochine di classe I, promuove l’attivazione e il differenziamento delle cellule dendritiche. E’ prodotta da molti tipi cellulari, tra i quali i fibroblasti, e per tale ragione è definita anche “Interferone fibroblastico”. L’unico gene codificante l’IFN-β è localizzato sul cromosoma 9. Il P.M. della glicoproteina è superiore ai 20 kDa. Mostra un’omologia di sequenza con l’IFNα: è costituita da 166 aa, è ricca in cisteine, ma possiede un unico ponte disolfuro e presenta una struttura secondaria ad α-elica (Fig. 7).

IFN-β e autoimmunità

L’interferon-β rappresenta un’alternativa terapeutica potenziale al trattamento dell’epatite virale cronica in quanto sono stati riportati minori effetti collaterali rispetto al trattamento con IFN-α [100]. Viene inoltre utilizzato come farmaco nel trattamento della Sclerosi Multipla (MS), una patologia infiammatoria cronica del SNC [101].

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Gli IFNs di tipo I sono coinvolti direttamente nella patogenesi di patologie autoimmuni sistemiche: è noto che l’immunoterapia mediante l’uso di IFNs può indurre autoimmunità; immuno-complessi circolanti possono causare la produzione di IFNs; studi hanno inoltre riportato alti livelli di espressione dei geni regolati da IFN in pazienti con autoimmunità sistemica. Infine, polimorfismi nei geni associati agli IFNs correlano con un aumentato rischio di patologie autoimmuni [102].

Fig. 7 Struttura dell’Interferon-β.

1.3.3 IFN-γ

 

L’IFN-γ, ossia l’interferone di maggiore interesse per la patologia tiroidea, appartiene alla classe II ed è anche detto “Interferon immunitario”. È una citochina infiammatoria riconosciuta per le sue proprietà antivirali e immunomodulatorie. Esso è prodotto in particolar modo dai linfociti T attivati solo dopo l’azione di mitogeni esterni e dalle cellule NK. L’IFN-γ possiede caratteristiche differenti rispetto alle altre due citochine (Fig. 8): è costituito da 143 amminoacidi e codificato da un unico gene, contenente 3 introni, che è localizzato sul cromosoma 12. Un’altra caratteristica peculiare dell’IFN-γ è quella di essere instabile a pH acido. Il suo monomero consiste di un “core” di sei α-eliche e di una estesa sequenza non-“folded” nella regione C-terminale [103,104].

L’IFN-γ rappresenta il principale fattore di attivazione macrofagica, la quale determina un’incrementata distruzione dei microrganismi intracellulari. L’IFN-γ potenzia, inoltre, la fagocitosi, inducendo uno “switch” isotipico delle immunoglobuline a favore della sottoclasse IgG. Aumenta, infine, l’attività citotossica delle cellule NK e dei linfociti T .

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Fig. 8 Struttura dell’Interferon-γ.

IFN-γ prodotto dalle cellule CD8+

Nei primi anni ’80 diversi studi hanno dimostrato l’abilità di cellule T citotossiche di produrre IFN-γ, insieme ad altre citochine, in risposta al riconoscimento dell’antigene. Negli anni successivi, studi rivolti a questo argomento hanno confermato la produzione di IFN-γ da parte di cellule CD8+ virus-specifiche, ma hanno anche indicato che il ruolo dell’IFN-γ risulta particolarmente evidente in modelli di infezione virale dove l’abilità citotossica delle cellule CD8+ non veniva espressa.

IFN-γ e cellule NK

Le cellule NK possono essere considerate sia “target” dell’azione dell’IFN-γ, sia produttrici di questa citochina. In seguito alla scoperta che gli IFNs di tipo I sono in grado di incrementare l’attività delle cellule NK in vitro, un effetto simile è stato descritto anche per l’IFN-γ [105]. Studi più recenti hanno confermato che popolazioni di linfociti arricchite con cellule NK producono IFN- γ in risposta a diversi stimoli, sia esogeni che endogeni, incluso il fattore stimolante delle cellule NK, l’IL-12 [106] e l’IL-18.

IFN-γ, Cellule dendritiche (DC) e presentazione dell’antigene

La comprensione del ruolo dell’IFN-γ nella biologia delle cellule dendritiche è piuttosto recente e ancora in evoluzione. Monociti umani presenti nel sangue periferico differenziano in cellule presentanti l’antigene in seguito alla loro coltura con GM-CSF e IL-4; l’aggiunta di IFN-γ durante la differenziazione delle DC sposta il “pathway” di differenziazione verso la formazione di macrofagi [107], e questo può essere parzialmente dovuto alla produzione endogena di M-CSF e IL-6. L’IFN-γ stimola l’espressione sulle APC delle molecole MHC di classe I e II e di molecole costimolatorie. Nei topi con una ridotta espressione di molecole MHC di classe II sulle DC, si è osservato che il trattamento con IFN-γ era in grado di correggere questo difetto [108]. In colture di

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DC derivate da sangue umano, l’IFN-γ si è dimostrato capace di aumentare anche in questo caso l’espressione di molecole MHC di classe II, inibendo però allo stesso tempo l’espressione di altri recettori di membrana ritenuti comunque importanti per il processo di presentazione dell’antigene [109]. In particolare la secrezione di IL-12 è un importante marcatore dell’attivazione delle DC e diversi studi hanno dimostrato che, in determinate condizioni, l’esposizione a IFN-γ consiste in un pre-requisito fondamentale per la produzione ottimale di questa citochina [110].

IFN-γ e le chemochine

La scoperta della prima chemochina risale alla fine degli anni ’80 con il riconoscimento dell’IL-8. A quel tempo gli immunologi consideravano ancora l’IFN-γ quasi esclusivamente come induttore della difesa immunitaria contro virus e batteri intracellulari. Nonostante ciò, come prologo dell’era chemochinica, nel 1985 uno studio sembrò dimostrare l’induzione da parte di IFN-γ in cellule umane di un trascritto codificante una proteina chiamata γIP-10 (CXCL10), che mostrava omologia di sequenza con il “platelet factor 4” (PF4, CXCL4) [111].

IFN-γ e malattie autoimmuni

Negli anni’80 la proteina ricombinante IFN-γ è diventata disponibile per gli esperimenti in vivo. Fu reso noto che l’IFN-γ era in grado di indurre l’espressione dei geni MHC di classe II da parte di quelle cellule che erano normalmente classe II negative [112,113]. E’ stato quindi proposto che questa espressione aberrante degli MHC di classe II poteva risultare in una “cross-presentazione” di auto-antigeni, sfuggendo ai meccanismi di tolleranza periferica, con successivo sviluppo di malattie autoimmuni.

Il concetto di un possibile ruolo dell’IFN-γ nella patogenesi autoimmune diventa più specifico dopo la descrizione del paradigma Th1/Th2 [114], in cui si indica l’IFN-γ come la citochina cardinale della risposta immunitaria di tipo Th1.

In conclusione è stato dimostrato che l’IFN-γ gioca un ruolo critico nei modelli di malattie infiammatorie acute e croniche. Mentre questo ruolo è comparabile a quello del TNF-α, gli anticorpi diretti contro l’IFN-γ, a differenza di quelli diretti contro il TNF-α, non hanno ancora trovato un loro specifico ruolo in termini clinici [115].

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1.3.4 TNF-α

Struttura e sintesi:

Il gene del TNF-α è presente in singola copia sul cromosoma umano 6, mentre nel topo si trova sul cromosoma 17 [116]. Il gene è costituito da quattro esoni e tre introni; un aspetto molto interessante è che più dell’80% della sequenza del TNF-α matura è codificata nel quarto esone. L’espressione del gene del TNF-α è regolata a livello trascrizionale da diversi fattori, inclusi NF-κB e il fattore nucleare delle cellule T attivate (NF-AT). Il TNF-α umano è espresso come una proteina di 233 amminoacidi del peso di 27 kDa (Fig. 9), che subisce poi un processo proteolitico per formare una molecola di 17 kDa e 157 amminoacidi. Esso è infatti sintetizzato come proteina associata alla membrana, con l’estremità N-terminale che rimane all’interno del citoplasma e una lunga estremità C-terminale esposta nell’ambiente extracellulare. Sulla membrana plasmatica, TNF è espresso come trimero e da ciascuna subunità di questa forma, una metalloproteasi associata alla membrana stacca un polipeptide di 17 kDa; tre di questi polipeptidi associati vanno a costituire la forma di secrezione del TNF di 51 kDa che assume una forma a tronco di piramide triangolare con ciascuna parete formata da una delle subunità. I siti di legame per il recettore si trovano alla base della piramide, il che permette alla citochina di legare tre recettori simultaneamente.

Fig. 9 Struttra del TNF-α.

Trasduzione del segnale:

TNF-α è una citochina pleiotropica la cui principale sorgente è costituita dai fagociti mononucleari attivati ma anche i linfociti T attivati, le cellule NK e i mastociti possono secernere questa citochina [117,118]. Esistono due distinti recettori transmembrana per TNF: il primo di 55 kDa, definito recettore di tipo 1 (TNFR1), anche conosciuto come p55 o p60, il secondo, di 75 kDa, definito

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recettore di tipo 2 (TNFR2), che a sua volta viene chiamato anche p75 o p80 (Fig. 10). Sia TNFR1 che TNFR2 contengono quattro sequenze ripetute ricche in cisteina nei loro domini extracellulari, determinando la formazione di strutture allungate che interagiscono con le scanalature laterali del trimero di TNF-α [119]. TNFR1 è costitutivamente espresso nella maggior parte dei tessuti dei mammiferi, mentre l’espressione di TNFR2 è finemente regolata e questo recettore viene tipicamente espresso sulla superficie delle cellule del sistema immunitario. Il legame di TNF-α su TNFR1 è considerato un meccanismo irreversibile, a differenza del legame del TNF-α con TNFR2, il quale ha una cinetica sia di formazione chedi dissociazione molto rapida. Comunque, sia TNFR1 che TNFR2 sono legati da TNF-α con elevata affinità. Il legame del TNF ai suoi recettori induce una gran varetà di risposte biologiche. Molte di queste stimolano l’infiammazione, altre trasducono segnali che portano alla morte cellulare per apoptosi. La scelta delle diverse risposte biologiche dipende dal particolare recettore attivato e dal tipo cellulare. Il TNFR1 può stimolare l’espressione genica o indurre apoptosi, due effetti distinti che sono innescati dal legame di diverse proteine adattatrici. Quando il trimero di TNF-α si lega al dominio extracellulare di TNFR1, si verifica il distacco di una proteina inibitoria, la “silencer of death domains” (SODD), dal dominio intracellulare di TNFR1. Questo dominio intracellulare viene quindi legato da una proteina adattatrice, cioè la “TNF receptor-associated death domain” (TRADD) [120], che a sua volta recluta ulteriori proteine adattatrici: la “receptor interacting protein-1” (RIP-1), che è una serin/treonin chinasi [121] e la “TNFR-associated factor 2” (TRAF2), che è una ligasi dell’ubiquitina E3 [122]. Questo complesso TRADD-RIP-1-TRAF2 viene quindi rilasciato dal TNFR1 e risulta coinvolto nell’attivazione di vie di segnalazione. Ad esempio, il reclutamento di MEKK-3 e “trasforming growth factor-beta-activated kinase” (TAK1) da parte di RIP-1 attiva il complesso IKK (“inhibitor of κB kinase”) che fosforila la proteina IκBα. La fosforilazione causa l’ubiquitinazione e la degradazione della stessa IκBα e quindi il rilascio di subunità di NF-κB, che risultano legate a IκBα in condizioni di non-stimolazione. Le subunità libere di NF-κB quindi si trasferiscono nel nucleo dove stimolano l’espressione genica [123-128]. La proteina TRADD può però legare un’altra proteina adattatrice, FADD, che porta invece all’apoptosi.

Sebbene TNFR1 sia ritenuto responsabile della maggior parte delle risposte cellulari al TNF-α (tra cui citotossicità, crescita cellulare, attivazione di NF-κB e “upregulation” dell’adesione e dei geni delle citochine), il “signaling” di TNFR2 gioca un ruolo importante nella proliferazione delle cellule linfoidi.

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Fig. 10 “Signaling” dei recettori del TNF-α.

Ruolo del TNF-α nell’infiammazione:

Il TNF-α è un potente agente pro-infiammatorio che regola molte sfaccettature della funzione macrofagica. Viene rapidamente secreto in seguito a traumi, infezioni o esposizione a lipopolisaccaride (LPS) di origine batterica; inoltre è stato dimostrato essere uno dei più abbondanti mediatori precoci nel tessuto infiammato [129]. Il TNF-α viene perciò considerato uno dei regolatori “master” della produzione di citochine pro-infiammatorie [130]. Oltre ad incrementare il rilascio di citochine pro-infiammatorie, il TNF-α stimola anche la trasduzione del segnale dei mediatori lipidici, come le prostaglandine e il PAF (“platelet activating factor”) [131]. Sulla base di questi ruoli, il TNF-α è stato proposto come un fattore centrale nel reclutamento e nell’attivazione delle cellule infiammatorie e inoltre si pensa svolga un ruolo critico nello sviluppo di molte malattie infiammatorie croniche (Fig. 11) [132].

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Fig. 11 Il TNF-α gioca un ruolo centrale nel mantenimento dell’infiammazione nelle patologie croniche.

Ruolo del TNF-α nell’attivazione dei macrofagi:

L’attivazione dei “Toll like receptors” (TLR) da parte di LPS o di altri componenti microbici rappresenta lo stimolo più efficace per indurre la produzione da parte dei macrofagi di TNF-α , il quale insieme ad altri fattori, determina l’attivazione dei macrofagi stessi. Inoltre l’IFN-γ prodotto da linfociti T e cellule NK potenzia ulteriormente la sintesi di TNF da parte dei macrofagi attivati. La stimolazione con TNF-α esogeno infatti attiva i macrofagi solo dopo uno stimolo iniziale da parte dell’IFN-γ poichè il TNF-α e l’IFN-γ mostrano un “cross-talk” a livello di TNFR1.

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1.4 LE TRASDUZIONI DEL SEGNALE IFN-MEDIATE

1.4.1 La via del segnale Jak/STAT

I membri della famiglia dei recettori per citochine di tipo I e II attivano vie di trasduzione del segnale che coinvolgono enzimi definiti chinasi Janus (Jak) e fattori di trascrizione definiti STAT (Signal Transducers and Activators of Transcription). Lo studio di queste vie ha messo in evidenza come il legame delle citochine ai recettori sia direttamente connesso all’attivazione trascrizionale di geni bersaglio. La caratterizzazione della via Jak/STAT venne effettuata nel corso dello studio della trasduzione del segnale da parte degli IFNs. La via Jak/STAT rappresenta una cascata di segnalazione il cui ruolo, conservato nell’evoluzione, include la proliferazione cellulare e l’emopoiesi (Fig. 12). Le chinasi Janus (Jak), in riferimento alla divinità romana con due volti poiché in queste proteine sono presenti due distinti domini chinasici dei quali solo uno è attivo, appartengono ad una famiglia di proteine tirosin-chinasi non recettoriali di circa 130 kDa, comprendenti Jak1, Jak2, Jak3 e TYK2 (proteina tirosin-chinasi-2 non recettoriale). Le STATs sono fattori di trascrizione citoplasmatici latenti che si attivano dopo il reclutamento di un complesso recettoriale attivato. Sono state identificate sette proteine STAT, da STAT1 a 6, tra cui STAT5A e STAT5B, che sono codificate da geni distinti. Inoltre, sono state individuate diverse isoforme di varie STATs. Evolutivamente conservata negli organismi eucarioti, dai lieviti agli esseri umani, la segnalazione Jak/STAT sembra essere un precoce adattamento per facilitare la comunicazione intercellulare, sviluppatasi con una miriade di altri eventi di segnalazione cellulare. Questa co-evoluzione ha dato vita a pathways di segnalazione ligando-specifici che regolano finemente l’espressione genica. Inoltre, le vie di segnalazione Jak/STAT sono regolate da una vasta gamma di stimoli intrinseci e ambientali, che possono aggiungere plasticità alla risposta di una cellula o del tessuto [133,134]. Il meccanismo della via del segnale Jak/STAT è ben caratterizzato e relativamente semplice, con solo pochi componenti principali. Una varietà di ligandi tra cui citochine, ormoni e fattori di crescita e i loro recettori stimolano il pathway Jak/STAT. L’attivazione intracellulare si verifica quando il legame con il ligando induce la multimerizzazione delle subunità del recettore. Per alcuni ligandi, come Epo (eritropoietina) e GH (ormone della crescita), le subunità del recettore sono vincolate come omodimeri, mentre per altri, come IFNs e ILs (interleuchine), le subunità del recettore sono eteromultimeri. Le forme inattive di Jak sono associate non covalentemente ai domini citoplasmatici dei recettori per citochine di tipo I e II. Quando due molecole recettoriali si aggregano in seguito al legame alla citochina, le Jak associate al recettore si attivano fosforilandosi reciprocamente e fosforilando anche i residui di tirosina nella

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porzione citoplasmatica del recettore. Alcuni dei residui di fosfo-tirosina vengono riconosciuti e legati da particolari domini definiti SH2 (Src Homology 2) presenti nelle proteine STAT monomeriche del citoplasma. I sette STATs portano un residuo di tirosina conservato vicino il C-terminale, che è così fosforilato da Jak. I residui di fosfo-tirosina della STAT attivata sono in grado di legare il dominio SH2 di un’altra molecola di STAT, formando un dimero che si stacca dal recettore e trasloca al nucleo, dove si lega a sequenze di DNA specifiche presenti nelle regioni promotrici dei geni responsivi alle citochine, attivandone la trascrizione. Il ciclo si può ripetere, con nuove proteine STAT che, legandosi al recettore per le citochine, si fosforilano, dimerizzano e traslocano al nucleo. Differenti Jaks e STATs sono attivati da molteplici ligandi. La specificità delle risposte alle molte citochine esistenti a fronte di un numero comunque limitato di Jak e STAT è probabilmente dovuto al fatto che distinte sequenze amminoacidiche dei diversi recettori per le citochine determinano differenti e specifici legami e attivazioni di diverse combinazioni di Jak e STAT. In effetti, diversi domini SH2 presenti nelle proteine STAT riconoscono selettivamente strutture costituite da residui di fosfo-tirosina e da sequenze amminoacidiche adiacenti. Inoltre molti recettori per citochine di tipo I e II sono omodimeri formati da due diverse catene polipeptidiche ognuna delle quali lega una Jak diversa. Per esempio, gli ormoni come il GH, Epo e TPO (Trombopoietina) generalmente stimolano l'attivazione di JAK2 oltre a STAT3 e STAT5. Ne consegue che, pur essendo limitato il numero di Jak e STAT, è possibile la generazione di un numero molto maggiore di combinazioni diverse, inducendo specifiche attività biologiche.

Le citochine e i loro recettori sono i più importanti attivatori del pathway Jak/STAT. Gli IFNs di tipo I e di tipo II si legano a diversi recettori e attivano l’espressione di distinti geni. Il recettore per gli IFNs di tipo I, IFN-α e IFN-β, è costituito da due subunità, INFAR1 e INFAR2, che formano un eterodimero dopo stimolazione con Interferon [135,136]. Questo avvia l'attivazione di due tirosin-chinasi della famiglia Janus, Jak1 e TYK2, seguita dalla fosforilazione delle proteine STAT1 e STAT2 [137]. Le STATs fosforilate poi si dissociano dagli eterodimeri recettoriali e si legano ad IRF9/p48, un membro della famiglia dell’IRF (Interferon Regulatory Factor-9), formando un importante fattore genico trimerico dell'Interferon noto come complesso ISGF3 (fattore di trascrizione-3 stimolato dall’Interferon). Questo complesso trasloca nel nucleo e si lega a specifici elementi noti come ISREs (elementi di risposta stimolati dall’Interferon), siti specifici nei promotori di ISGs (geni stimolati dall’Interferon), avviando in tal modo la trascrizione di numerosi geni inducibili dall’Interferon che sono coinvolti nella sopravvivenza e proliferazione cellulare, nell’azione antivirale ed, in particolare modo, nella risposta immunitaria.

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regolano la fosforilazione del residuo di tirosina in posizione Tyr701 di STAT1, il più importante fattore di trascrizione attivato dall’IFN-γ, ma non di STAT2. STAT1 fosforilato omodimerizza formando il complesso GAF-AAF, trasloca nel nucleo e si lega agli elementi GAS (Sito Attivato dall’IFN-γ), presenti nei promotori dei geni regolati dall’IFN-γ (ISGs). Jaks attivata dall’IFN-γ regola anche, attraverso un intermedio non ancora conosciuto, l'attivazione della subunità catalitica (p110) di PI3K. L'attivazione di PI3K in ultima analisi, determina l'attivazione a valle del PKC-Delta (Protein Chinasi-C-PKC-Delta), che a sua volta regola la fosforilazione della Ser727 di STAT1. La fosforilazione della serina non è essenziale per la traslocazione di STAT1 nel nucleo o per il legame di STAT1 al DNA, ma è necessaria per la piena attivazione trascrizionale.

Dei centinaia degli ISGs conosciuti, alcuni hanno solo ISREs o solo elementi GAS nei loro promotori, mentre altri hanno entrambi gli elementi [133].

Come la via del segnale dell’IFN-γ, anche l’IFN-α e l’IFN-β possono portare alla formazione del complesso GAF-AAF e legare l'elemento regolatore GAS [135].

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1.4.2 La via NF-κB

Gli IFNs producono i loro effetti biologici attraverso la modificazione dell’espressione genica, in particolare attraverso l’induzione dei geni della famiglia ISGs. Essi sono coinvolti nella degradazione delle proteine intracellulari in peptidi antigenici e contribuiscono al trasporto di questi peptidi nel reticolo endoplasmatico dove si legano alle molecole del complesso MHC di classe I o di classe II. Oltre ad essere attivati dalle vie di trasduzione del segnale Jak/STAT, ISGs sono anche regolati dal “pathway” del fattore nucleare kappa B (NF-κB) (Fig. 13).

Gli IFNs, dopo essersi legati al proprio recettore, fan sì che STAT3 agisca come un adattatore per collegare la PI3K alla subunità del recettore stesso. Tutto ciò, è necessario per l’attivazione di NF-κB ed il suo successivo legame ai promotori di ISGs.

NF-κB è una proteina nucleare, trovata solo nelle cellule che trascrivono i geni per la catena leggera delle immunoglobuline, che interagisce con un sito definito della regione enhancer della catena kappa delle immunoglobuline [138]. La famiglia dei fattori di trascrizione NF-κB regola l’espressione genica legandosi a siti κB nei loro promotori. I geni regolati da NF-κB giocano un ruolo importante nell’immunità, nell’infiammazione, nella crescita e nella sopravvivenza cellulare. Nei mammiferi la famiglia NF-κB comprende proteine correlate a NF-κB (p105 trasformata in p50), RelA (p65) e cRel. P50 manca di un dominio di attivazione trascrizionale e, come omodimero, funziona da repressore. Al contrario, p65 e cREL hanno un dominio attivatore della trascrizione e quindi, quando complessati con p50, sono in grado di attivare la trascrizione stessa. Nella maggior parte dei casi NF-κB è legato a proteine inibitrici IκB nel citoplasma delle cellule non stimolate. Molte citochine promuovono la dissociazione dei complessi NF-κB/IκB inattivi, attraverso la fosforilazione della serina e la degradazione di IκB, inducendo la traslocazione nel nucleo di NF-κB ed il suo legame al DNA. La degradazione delle proteine inibitrici IκB richiede l'attivazione delle IKB chinasi (IKK), un complesso multiproteico costituito dalle subunità catalitiche IKKa e IKKb e dalla subunità regolatoria IKKγ/NEMO [139].

Mentre le normali funzioni di NF-κB sono necessarie per un'adeguata risposta immunitaria innata e adattativa, la disregolazione di NF-κB può portare a malattie infiammatorie e tumorigenesi. Per esempio, l’attività costitutiva di NF-κB determina iper-espressione di geni pro-infiammatori, associata a molte malattie infiammatorie acute e croniche tra cui colite ulcerosa, artrite reumatoide, e malattia di Crohn. Inoltre, l’alta attività costitutiva di NF-κB è stata riscontrata anche in molte linee cellulari tumorali ed in alcuni tipi di tumori, tra cui leucemia mieloide acuta e cronica, leucemia linfatica acuta, mieloma multiplo, carcinoma della prostata, cancro ovarico, e cancro della

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sopprimono efficacemente l'attività di NF-κB, proteggendo ed alleviando sintomi infiammatori, ed inducendo l'apoptosi delle cellule tumorali. Per questo motivo, NF-κB rappresenta un interessante target per la terapia delle malattie infiammatorie e autoimmuni, ma anche per il tumore [140-142].

Fig. 13 La via del segnale NF-κB.

               

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1.5 LE COLTURE CELLULARI

La coltura cellulare è un metodo che consente la crescita di cellule umane o animali separatamente dall’organismo che le ha generate in supporti di plastica, vetro, membrane; le colture sono mantenute in vita per tempi anche molto lunghi, seguendo gli accorgimenti sperimentali più appropriati. Le cellule si moltiplicano in vitro, per una o più generazioni, avendo però perduto l’architettura del tessuto e, di solito, avendo subito un certo grado di differenziazione. Esistono due grosse categorie di colture cellulari: le colture primarie e le linee cellulari. Le prime, derivano direttamente per dissociazione di tessuti di varia origine (sia embrionali che adulti); le linee cellulari, invece, sono gruppi di cellule morfologicamente uniformi che possono essere propagate in vitro per un tempo indefinito.

Ottenere colture cellulari partendo dai tessuti di organismi superiori è un’operazione complessa in quanto tali tessuti mostrano una spiccata eterogeneità (cioè presentano tipi cellulari diversi tra loro). Generalmente i protocolli di isolamento prevedono una prima fase di separazione dei diversi tipi cellulari presenti nel tessuto, demolendo la matrice extracellulare e le giunzioni intercellulari che le mantengono unite. A tale scopo, il tessuto viene incubato con enzimi proteolitici (collagenasi, tripsina) dissociando le singole cellule mediante tecniche meccaniche. Alla fase di dissociazione segue la fase di separazione. Per separare i vari tipi cellulari da una sospensione cellulare mista si può procedere in vari modi:

 Separando le cellule in base alle loro dimensioni o al loro peso, centrifugandole a bassa velocità con l’ausilio di sostanze che possono anche essere stratificate in gradienti a diversa densità;

 Sfruttando la diversa attitudine dei diversi tipi cellulari ad aderire su superfici di vetro o plastica;

 Marcando le cellule con anticorpi coniugati e separando le cellule marcate da quelle non marcate;

 Utilizzando terreni di coltura selettivi che favoriscano la crescita solo di alcuni tipi cellulari e/o aggiungendo al terreno di coltura ormoni che favoriscono la crescita di determinati tipi cellulari.

La sospensione cellulare, così ottenuta, viene posta in “coltura”, cioè trasferita in un contenitore di vetro o di plastica, a fondo piatto (capsula di Petri, fiasca ecc.) con un terreno liquido, contenente miscele di sostanze organiche ed inorganiche che sono necessarie per il sostentamento delle cellule. In queste condizioni, le singole popolazioni cellulari costituenti la sospensione, hanno la possibilità

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substrato, di cambiare forma e distendersi grazie ad una nuova organizzazione del citoscheletro. Dopo un periodo di tempo variabile, quindi, inizia la divisione mitotica e si sviluppa una coltura primaria. L’adesione ad un supporto rigido è indispensabile per la crescita delle cellule normali (dipendenza dall’ancoraggio). Le colture primarie vengono mantenute cambiando il terreno due o tre volte in una settimana. Quando la superficie di crescita non risulta più sufficiente alla sistemazione di nuove cellule figlie la coltura si definisce confluente. A causa dell’inibizione da contatto, in una coltura confluente, le moltiplicazioni cessano e si ha, per questo motivo, un rallentamento del metabolismo, con conseguente accumulo di prodotti tossici. Esiste, quindi, una cinetica di crescita che comprende quattro fasi (Fig. 14):

Fig. 14 La cinetica di crescita delle colture cellulari in vitro.

1. Fase di latenza: in cui le cellule si riprendono dallo “shock” della subcoltura. In tale fase è presente un aumento dell’attività cellulare ma è assente la crescita;

2. Fase esponenziale: vie è un aumento esponenziale del numero di cellule ed un’elevata attività metabolica. Il numero delle cellule raddoppia ad ogni divisione, ma il tempo che impiegano a far ciò è caratteristico di ciascuna linea cellulare;

3. Fase stazionaria: non è presente nessun incremento della crescita a causa dell’accumulo di prodotti tossici e della mancanza sia delle sostanze nutritive che dello spazio necessario per lo sviluppo;

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Per permettere alle cellule di continuare a crescere è, quindi, necessario procedere con periodiche sostituzioni del mezzo di coltura con terreno fresco. A tale scopo, si utilizza un procedimento indicato come tripsinizzazione (Fig. 15), che consente di staccare le cellule dal substrato al quale sono adese, risospenderle in soluzione ed infine, trapiantarle in mezzo fresco ossia, ricco di tutti quei componenti necessari alle cellule per le loro attività metaboliche (vitamine, sali inorganici, proteine e costituenti serici). Il distacco delle cellule dal substrato d’adesione è reso possibile dall’impiego di un particolare enzima proteolitico, la tripsina, che digerisce il materiale glicoproteico presente sulla membrana cellulare, responsabile dell’adesione, senza distruggere o uccidere le cellule. Aliquote di sospensione cellulare così ottenute vengono utilizzate per iniziare una coltura secondaria.

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Le cellule in coltura tendono a mantenere alcune caratteristiche del tessuto di origine, ad esempio: sottili ed allungate (simil-fibroblastiche) o poligonali e tendenti a formare fogli (simil-epitelioidi). Le cellule di una coltura primaria generalmente possono essere passate in serie diverse volte. Questo processo può portare alla selezione di alcuni tipi di cellule che diventano predominanti. Si dice, in questo caso, che la coltura primaria ha dato origine ad un ceppo cellulare. Queste cellule crescono in monostrato, hanno inibizione da contatto e una forte dipendenza dai fattori di crescita del siero presente nel terreno di coltura. Dopo un certo numero di passaggi queste cellule vanno incontro ad un processo detto di senescenza cellulare in quanto effettuano in coltura un numero di cicli limitato (inferiore alle 10 duplicazioni). Durante la moltiplicazione, di un ceppo cellulare alcune cellule possono andar incontro ad alterazioni: cambiano morfologia, crescono più velocemente e possono dare inizio ad una coltura partendo da un numero minore di cellule. Il clone derivato da queste cellule costituisce una linea cellulare, che ha una possibilità di vita illimitata (immortalizzazione), detta anche continua, la quale risente meno dell’inibizione da contatto e della dipendenza dai fattori di crescita.

Il mantenimento delle cellule in coltura richiede alcune condizioni di laboratorio che mimano nel miglior modo possibile l’ambiente in vivo, cioè uno stato fisiologico simile a quello all’interno dell’organismo vivente. All’interno dell’organismo, le funzioni vitali (nutrizione, controllo di pH, protezione, mantenimento della temperatura, ecc.) sono regolate nei tessuti da differenti sistemi di controllo. Una volta che le cellule sono nel terreno di coltura, queste funzioni devono essere sostituite dal medium e dall’incubatore a CO2, una camera chiusa al cui interno sono ricreate, nei limiti del possibile, le condizioni fisiologiche dei tessuti in cui le cellule vivevano prima dell’isolamento. Le colture cellulari richiedono condizioni chimico-fisiche ottimali che comprendono:

 elementi nutritivi di base (glucosio, amminoacidi, sali minerali);  fattori di adesione e di crescita (presenti nel siero);

 stabilità di pH e di temperatura;  ambiente sterile;

 tensione gassosa (5% di CO2).

La temperatura (T) è uno dei parametri più importanti per il mantenimento delle cellule di organismi viventi. Infatti, nell’organismo, la temperatura è mantenuta entro limiti molto stretti. Le cellule dei mammiferi possono sopportare l’ipotermia (dimostrato dal fatto che possono essere conservate congelate) anche se la loro attività metabolica è notevolmente disturbata, ma non possono sopportare l’ipertermia. Anche piccoli aumenti di temperatura, per brevi periodi, possono far morire le cellule. Per cui le cellule coltivate richiedono un controllo di temperatura rigoroso

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