• Non ci sono risultati.

L'opera teatrale di Kālidāsa: Abhijñānaśākuntala, Vikramorvaśīya e Mālavikāgnimitra. Traduzione italiana e commento

N/A
N/A
Protected

Academic year: 2021

Condividi "L'opera teatrale di Kālidāsa: Abhijñānaśākuntala, Vikramorvaśīya e Mālavikāgnimitra. Traduzione italiana e commento"

Copied!
203
0
0

Testo completo

(1)

1

Dipartimento di civiltà e forme del sapere,

Corso di Laurea in Orientalistica, Egitto e Vicino Oriente,

curriculum del Vicino Oriente

L’OPERA TEATRALE DI KĀLIDĀSA:

ABHIJÑĀNAŚĀKUNTALA,

VIKRAMORVAŚĪYA E MĀLAVIKĀGNIMITRA

Traduzione italiana e commento

Candidato:

Alberto RAGOSTA

Relatore: prof. Saverio SANI

(2)

2



  

Ad Anna Notabuono; a Mariaclara Ragosta; a Federica Casaccio; a Martina Moretti; a Martina Galatello; a Sara Croce e ad Alice Monaci; a Tommaso Gestri e a Laura Minelli;

a Costanza Mori;

ad Aironi, Antilopi, Castori e Lupi,

(3)

3

Contenuti

Introduzione ... 5

Chi era Kālidāsa?... 5

La lingua ... 11

La metrica ... 19

I personaggi dei drammi ... 34

Struttura dei drammi ... 51

Le fonti ... 60

Nota alla traduzione ... 63

Il riconoscimento di Śakuntalā ... 64

Personaggi del dramma ... 64

Prologo ... 65 Primo atto ... 66 Secondo atto ... 74 Terzo atto ... 80 Quarto atto ... 86 Quinto atto ... 94 Sesto atto... 100 Settimo atto ... 111

Urvaśī, colei che fu conquistata con il valore ... 120

Personaggi del dramma ... 120

Prologo ... 121 Primo atto ... 121 Secondo atto ... 126 Terzo atto ... 135 Quarto atto ... 142 Quinto atto ... 148 Mālavikā e Agnimitra ... 156

Personaggi del dramma ... 156

(4)

4 Intermezzo ... 157 Primo atto ... 159 Secondo atto ... 165 Terzo atto ... 169 Quarto atto ... 178 Quinto atto ... 187

Elenco dei termini sanscriti intraducibili ... 196

(5)

5

Introduzione

Chi era Kālidāsa?

Si sente talora dire che Kālidāsa sia al contempo famosissimo e sconosciutissimo. In India la sua opera è considerata di altissimo pregio e gli autoctoni tendono a identificare in lui l’immagine di un poeta nazionale, non diversamente da come fanno i Tedeschi con Goethe, gli Inglesi con Shakespeare o gli Italiani con Dante. Non stupisce dunque se attorno alla sua figura sia nato un gran numero di aneddoti e leggende. Ora è chiaro che, per accostarci alla sua figura con uno sguardo che voglia definirsi scientifico, è necessario spogliarla di tutte quelle sovrastrutture non fondate su basi certe e vedere cosa rimane. Il problema nasce proprio qui: non ci rimane alcunché o quasi. Risulta dunque evidente che, se si vuole analizzare la questione sperando di cavarne qualche risultato, si debba operare altrimenti.

Se non possiamo escludere del tutto la tradizione, giacché la tradizione è tutto quello che possediamo, proviamo a fruirne, pur con la dovuta cautela che questo passaggio presuppone. La leggenda narra che Kālidāsa, di origine brahmanica, sarebbe rimasto orfano all’età di appena sei mesi e sarebbe stato allevato da un bovaro. La principessa di Varāṇasī, intanto, rifiutava tutti i pretendenti, non ritenendoli abbastanza colti, così, per vendetta nei suoi confronti, un consigliere del padre, anch’egli rifiutato, portò al cospetto della principessa il giovane bovaro, dicendogli di restare in silenzio. Colpita dalla bellezza del giovane e ritenendo che il suo silenzio fosse indice di saggezza, la principessa accettò di sposarlo. Quando però la cosa, a causa di un errore di pronuncia di lui, venne fuori, Kālidāsa si ritrovò a dover affrontare l’ira della principessa. Il giovane bovaro pensò allora di invocare la dea Kālī, la quale gli trasmise miracolosamente tutte le conoscenze di cui aveva bisogno. Ciò non gli evitò in ogni caso la maledizione della principessa, che gli predisse una morte per mano femminile. Quando poi Kālidāsa si trovò al servizio del re di Ujjayinī (odierna Ujjain, in Madhya Pradesh) Vikramāditya, il sovrano, bandì un concorso nel quale si sarebbe dovuta completare una strofa di cui il re aveva scritto la prima metà. Kālidāsa vi riuscì facilmente, ma una sua amante, per impossessarsi del ricco premio, uccise Kālidāsa e lo sotterrò, affermando di essere lei l’autrice. Il re scoperse tutto, fece dissotterrare il cadavere e, per la disperazione, si gettò sulla pira.

Per quel che riguarda i luoghi, tutte le opere di Kālidāsa sono effettivamente ambientate in un’area geografica che corre dall’attuale Madhya Pradesh fino allo Himālaya attraversando l’Uttar Pradesh, ragion per cui non si vede perché non si debba ritenere che l’autore sia effettivamente vissuto nei luoghi che racconta. Anzi, a questo proposito mi si consenta di ricordare che nel Meghadūta (“La nuvola messaggera”), un suo poemetto sul quale ci soffermeremo in seguito, alla strofa XXX inizia un’attenta descrizione della città di Ujjayinī che va avanti per una decina di strofe. Ovviamente nulla vieta che la leggenda non sia originale, ma si sia ispirata proprio a questo passo; ciò tuttavia non diminuirebbe affatto la nostra possibilità di avallarla, ma, al contrario, le

(6)

6

conferirebbe credibilità, basandosi su una fonte diretta quale potrebbe essere un’opera dello stesso Kālidāsa. Io, però, prediligo non sbilanciarmi e preferisco parlare di Kālidāsa come di un poeta vissuto fra Madhya Pradesh e Uttar Pradesh, mentre non ritengo di poterne individuare la città d’origine. Affermo ciononostante che con tutta certezza egli conosceva Ujjayinī e che probabilmente ci è anche vissuto, ma credo anche di poter dire che egli abbia molto viaggiato in tutta l’India e in modo particolare nell’India del nord. Le sue conoscenze geografiche si dimostrano infatti approfondite e il suo spirito di osservatore raffinato.

Molto più difficile è legare al nome di Kālidāsa un’epoca. Dobbiamo anzitutto valutare un’iscrizione ritrovata a Mandasor1 e celebrante la costruzione di uno stūpa, la quale potrebbe supporre Kālidāsa, giacché le linee 14 e 15 sembrerebbero essere state scritte alla luce del Ṛtusaṃhāra. L’iscrizione è datata esplicitamente al 467-468 d. C. e, se effettivamente di citazione si tratta, è segno che il Ṛtusaṃhāra circolava già. Questa la traduzione inglese che viene data nell’Epigraphia indica: «(14) When the season, in which the young lotus is fatigued with the load of the bodies of bees, and the sāl tree looks charming, had come, when wives were being tormented by the fire of love, their dear husbands having been away from home: (15) When groves were assuming fresh splendour (with their trees) being waved by the breezes, neither very hot nor very cold, with intoxicated cuckoos just commencing their sweet notes, and with the young leaves looking reddish like the lips of charming women;». Le strofe 14 e 15 della parte dedicata alla stagione delle piogge del Ṛtusaṃhāra sono così tradotte da Baldissera2: «(14) Le api dal ronzio grato all’orecchio / fuggono, bramando il nettare, / lo stelo di loto ha perso fiore e foglia, / e, ignare, ai pavoni danzanti / si posano sugli occhi della coda, / credendoli boccioli di loto blu. / (15) Le tempie lucide come loti splendenti / di elefanti selvaggi che barriscono senza posa, / infuriati al tuonare delle prime nuvole, / ruscellano un umore che attrae sciami d’api». Sicuramente c’è una ripresa di temi, però parlare di citazione mi sembra eccessivo. Possiamo tuttavia immaginare che l’autore dell’iscrizione abbia utilizzato come fonte proprio Kālidāsa, pur senza averne prova. Costituisce forse indizio più valido un altro elemento, ricavabile all’interno di un altro poemetto, il Raghuvaṃśa, ed è la lotta che, nel quarto canto, Raghu intraprende con alcune popolazioni di Unni, le quali effettivamente si affacciarono nel quinto secolo in India. Potrebbe pertanto trattarsi di un’immagine per riflettere una situazione contemporanea all’autore. Anche in questo caso, però, siamo lontani dal poter parlare di prova.

La menzione epigrafica più antica di Kālidāsa risale in ogni caso al 634, in un’iscrizione rinvenuta ad Aihole3, in Karnataka, che ci permette di fissare un terminus ante quem. Nell’ultima linea dell’iscrizione l’autore, tale Ravikīrti, afferma di aver raggiunto lo stesso livello di Bāravi e Kālidāsa. Si tratta certamente di una prova inconfutabile di come Kālidāsa fosse ormai ritenuto uno dei più grandi autori indiani, al punto da essere usato come termine di paragone, ma non ci dice nulla su quanto tempo prima egli fosse vissuto.

1

Epigraphia indica, vol. 27, pp. 12-18

2 F. Baldissera, A. Schwarz, “La ronda delle stagioni”, Milano, 1983, p. 97 3

(7)

7

Anche datare Kālidāsa a partire dalla datazione del sovrano Vikramāditya non è semplice, giacché vikrama vale semplicemente “valore” e lo stesso nome “Vikramāditya” non è tanto un nome di re, quanto un epiteto assegnato a vari sovrani a titolo esclusivamente onorifico. La tradizione indiana lo data al primo secolo a. C., quando egli sconfisse gli invasori Saci. Quella vittoria, che costituisce l’inizio della cosiddetta “era del valore”, su cui ancor oggi si basa il calendario ufficiale nepalese, è datata al 57 a. C., benché nulla di concreto si sappia in proposito. Un’altra possibilità vede Vikramāditya da ascrivere al quarto secolo d. C., identificandolo con Candragupta II (357-413), con Kumāragupta (413-455) o con Skandagupta (455-467) o forse perfino con tutti e tre, ipotizzando che Kālidāsa abbia servito alla corte di più sovrani.

Proseguendo sulla linea delle ipotesi, si potrebbe perfino arrivare a immaginare l’esistenza di più autori con lo stesso nome (“Kālidāsa” vuol dire semplicemente “servo di Kālī”). In realtà le fortissime somiglianze fra i tre drammi mi sembrano difficili da ascrivere a tre autori diversi, ma per quel che riguarda i poemetti la situazione è più complessa e potrebbe lasciar spazio a dubbi. Cercando di trarre delle conclusioni, io penso che non si possa assegnare a Kālidāsa un’epoca troppo anteriore alla data della sua prima menzione epigrafica ad Aihole: se avallassimo l’ipotesi del primo secolo a. C., dovremmo spiegarci perché si siano attesi quasi settecento anni prima di redigere un’epigrafe con il nome di Kālidāsa. Certo, nulla vieta che sia stata prodotta qualche epigrafe non ancora rinvenuta, ma sette secoli non sono in nessun caso un intervallo cronologico trascurabile. E, pure ammettendo che qualche epigrafe sia stata comunque redatta, il fatto che noi non abbiamo trovato alcunché lascia pensare che la quantità di tali epigrafi fosse estremamente ridotta e, se davvero così fosse stato, ci sarebbe da spiegarsi come mai il nome di Kālidāsa non sia stato dimenticato, dopo tutto questo tempo. Qualcuno potrebbe obiettare che le opere di Kālidāsa sono firmate e che la loro diffusione potrebbe aver garantito la memoria dell’autore. È vero, ma è anche vero che la mancanza di riscontri epigrafici dovrebbe essere riflesso del fatto che nemmeno le opere manoscritte erano diffuse e questo non sarebbe possibile, se consideriamo ciò che di Kālidāsa viene detto ad Aihole e come in quell’iscrizione egli venga tenuto di conto come poeta di grandissima fama. Che poi l’iscrizione di Mandasor e la descrizione della lotta con gli Unni possano costituire ulteriori indizi ad avallare l’ipotesi del quarto o quinto secolo, questo non fa altro che aumentare la nostra fiducia in merito.

Le opere attribuite a Kālidāsa sono in totale sette. In parte le abbiamo già citate, ma conviene elencarle compiutamente. Esse sono le seguenti:

• Meghadūta, ossia “la nube messaggera”, un poemetto di un totale di centosedici strofe. Il protagonista, uno yakṣa, ossia una sorta di semidio, si ritrova ad essere esiliato da Kubera, il dio alle cui dipendenze egli si trova, per aver lasciato incustodito il giardino che gli era stato affidato; l’esilio lo costringerà a star lontano dalla mitica città di Alaka, sullo Himālaya, per un tempo di un anno. Dalla destinazione del suo esilio lo yakṣa affida un messaggio d’amore a una nuvola, affinché lo porti alla sua amata, che si trova sul monte Rāmagiri. Tutto questo non è però che un espediente letterario: lo yakṣa, infatti, onde evitare che la nube sbagli strada, le descrive minuziosamente il percorso che essa dovrà

(8)

8

compiere, per cui il Meghadūta potrebbe essere senza riserve definito un poema geografico. Non si tratta di un caso isolato all’interno della letteratura indiana: esiste un intero genere, quello dei sandeśakāvya, ossia dei poemi-messaggio, che ebbe un’ampia fioritura non solo in sanscrito (per fare un solo esempio, potrei citare il poemetto che apre la tradizione letteraria in lingua malayāḷam, ossia l’Uṇṇunīlisandēśam) e che trovò terreno fertile anche nell’India meridionale, ove si diffusero, nel quadro della letteratura tamiḻ, i cosiddetti āṟṟuppaṭai, ossia, alla lettera, “indicazione stradale”, poemetti nei quali, con l’espediente di dover narrare ad alcuni aedi erranti (tipici dell’India dravidica) la strada per giungere presso qualche generoso signore disposto a far loro da patrono, si indugia in ampie descrizioni geografiche.

• Ṛtusaṃhāra, ossia “l’avvicendarsi delle stagioni”, poemetto composto di sei parti per un totale di centotrentaquattro strofe. Anche qui la descrizione delle sei stagioni di cui consta l’anno indiano non è altro che un espediente letterario per narrare il sentimento amoroso e il suo evolversi di stagione in stagione. Leggendo l’opera, si ha l’impressione che l’amore, nonostante il continuo mutarsi dell’ambiente esterno, in un modo o nell’altro riesca sempre a prevalere, mai smorzato né dai freddi né dalla pioggia. Si potrebbe forse approfondire, ma non è forse questa la sede per farlo, il rapporto che intercorre fra questo poema e la tradizione tamiḻ del caṅkam, nella quale il tiṇai designa appunto il legame fra l’ambiente esterno e il paesaggio interiore.

• Raghuvaṃśa, ossia “la stirpe di Raghu”; il poema conta diciannove canti per un totale di mille e cinquecentosessantacinque strofe. Vi vengono narrate le vicende di una mitica dinastia che avrebbe regnato sul Magadha, sottomettendo il mondo. Il primo sovrano di cui si parla è Dilīpa, il quale, assieme alla moglie Sudakṣiṇā, si reca presso l’eremita Vaśiṣṭha perché gli propizi la nascita di un erede. L’eremita spiega a Dilīpa che il concepimento non ha luogo perché il sovrano ha mancato di rispetto a Surabhi, una vacca celeste. Onorando la vacca dell’eremita per ventuno giorni, al termine dei quali si mostra pronto perfino a farsi sbranare da un leone per lei, il re riesce ad annullare la maledizione e la moglie concepisce Raghu. Raghu, salito al trono, compie una serie di campagne militari che spaziano dall’India meridionale all’Asia centrale (fra cui appunto quella contro gli Unni). Dopodiché è sul trono il figlio Aja, che sposa Indumatī, principessa del Vidarbha, alla morte della quale anche lui sceglie di compiere il suicidio per inedia. Sale sul trono il figlio Daśaratha, il quale, avendo ucciso per errore un figlio di un eremita durante una caccia, viene punito e per diecimila anni non riesce ad avere un erede. Alla fine di questo periodo dalla prima moglie, Kauśalyā, nasce Rāma, incarnazione del dio Viṣṇu, dalla seconda, Kaikeyī, nasce Bharata e dalla terza, Sumitrā, nascono i gemelli Lakṣmaṇa e Śatrughna. Vengono a questo punto descritte le imprese di Rāma e dei suoi fratelli, di cui la più nota è quella che lo vede opposto al demone Rāvaṇa, colpevole di averne rapito la moglie Sītā. Sītā ha poi due gemelli, Kuśa e Lava. Kuśa ha a sua volta per figlio Atithi dalla moglie Kumudvatī, cui lascia il trono morendo in battaglia contro il gigante Durjaya. Seguono le vicende, succintamente descritte, degli altri sovrani della dinastia, ossia, in ordine: Niṣadha, Nala, Nabhas, Paṇḍarīka, Kṣemadhanva, Devānīka, Ahīnagu, Pāriyātra, Śila, Unnabha, Vajraṇābha, Śaṅkhana, Vyuṣitāśva, Viśvasaha, Hiraṇyanābha, Kauśalya, Brahmiṣṭa, Putra,

(9)

9

Puṣya, Dhruvasandhi, Sudarśana e Agnivarṇa; quest’ultimo sovrano, appagato dalle conquiste dei suoi predecessori, si abbandona ai piaceri offertigli dalle donne dell’harem, suscitandone le gelosie e non mostrandosi pressoché mai in pubblico. Muore tuttavia di malattia senza aver visto la nascita di un figlio e la discendenza viene salvata solo dalla scoperta, dopo la sua morte, della gravidanza della sua moglie legittima.

• Kumārasambhava, ossia “la nascita di Kumāra”; il poema consta di diciassette canti per un totale di mille e novantasei strofe. Kumāra è il figlio di Śiva e di Pārvatī e gran parte dell’opera è proprio dedicata agli amori fra le due divinità. Tārakāsura, un demone, ottiene la benedizione di non poter essere ucciso da nessuno fuorché da un figlio del dio Śiva, ritenendo così di essere al sicuro, perché il dio è troppo impegnato nella meditazione per potersi lasciar distratte dalle grazie di una figura femminile. Pārvatī riesce tuttavia a far innamorare di sé Śiva solo al prezzo di grandi sforzi e severe penitenze. Il dio che nasce dalla loro unione prende nome Kumāra, conosciuto anche come Kārthikeya o, nel mezzogiorno dravidico, come Murukaṉ (anche se in realtà si tratta di un dio autoctono assimilato al pantheon settentrionale). Narra fra l’altro una leggenda che Kālidāsa avrebbe composto Kumāsambhava, Meghadūta e Raghuvaṃśa dopo un viaggio attraverso l’India. Al suo ritorno sua moglie gli avrebbe chiesto: «Asti kaścit vāgviśeṣaḥ?», e cioè “C’è qualche miglioramento (nella tua capacità) di poetare?”; Kālidāsa le avrebbe allora risposto realizzando in pochi anni un poemetto per ciascuna delle parole che la moglie aveva pronunciato: asti è infatti la prima parola del Kumārasambhava, vāc è il termine con il quale inizia il Raghuvaṃśa e kaścit è l’incipit del Meghadūta.

• Abhijñānaśākuntala, ossia, “Il riconoscimento di Śakuntalā”, dramma in sette atti considerato dai nativi come la massima espressione drammatica della letteratura sanscrita. Il termine “dramma” ci serve per indicare qualcosa che non è ascrivibile né alla commedia né alla tragedia: i due generi, concepiti in seno alla letteratura greca e giunti a noi come rigidamente divisi, sono invece considerati un’unica cosa in ambito indiano, per cui un dramma in cui non sia presente sia la parte comica che quella, per così dire, più seria non è concepibile. La storia d’amore di Śakuntalā, figlia di una ninfa e di un eremita, e del re Duṣyanta viene desunta da Kālidāsa dal Mahābhārata, il grande poema epico indiano. L’amore fra i due sboccia nell’eremo dove lei vive e nel quale lui sconfina per caso durante una caccia. Avendo però, distratta dall’amore, mancato di ospitalità ai danni dell’irascibile eremita Durvāsas, Śakuntalā viene maledetta: l’uomo che ama la dimenticherà. Durvāsas, impietosito dalle suppliche delle amiche di lei, accetta di alleviare la maledizione: a Duṣyanta tornerà la memoria se Śakuntalā gli avrà mostrato il suo anello con il sigillo regio. Il re torna al suo palazzo e la dimentica, ma la ragazza, scoperto di essere incinta, va da lui, ma non può, avendolo perso in un fiume, mostrargli l’anello. Il re non la riconosce e la scaccia. Le ninfe amiche della madre la portano via, mentre un pescatore ritrova l’anello, alla cui vista il sovrano, ritrovata la memoria, si pente del suo gesto quando ormai è troppo tardi. Gli sarà concesso di ritrovare l’amata e il bambino che lei intanto ha partorito solo dopo aver combattuto al fianco degli dèi la battaglia contro le forze demoniache.

• Vikramorvaśīya, ossia “Urvaśī, colei che fu conquistata con valore”, dramma in cinque atti narrante la storia d’amore tra il re Purūravas e la ninfa Urvaśī. Anche qui Kālidāsa desume

(10)

10

la storia da una fonte esterna: nel Ṛgveda infatti c’è un inno dialogato (RV X, 95) in cui Purūravas prova a persuadere Urvaśī a non allontanarsi nonostante il decreto divino che permette al re, un mortale, di stare con una ninfa non sia stato rispettato. Kālidāsa ci racconta invece tutt’altro: il re avrebbe salvato la ninfa dalle grinfie dei demoni e i due si sarebbero così innamorati. Affrontando la gelosia della propria regina (argomento, questo, che nell’Abhijñānaśākuntala era apparso solo pallidamente, mentre nel Mālavikāgnimitra sarà centrale), il re riesce a ottenerla in sposa grazie a un evento all’apparenza negativo: un errore durante una rappresentazione teatrale (era infatti compito delle ninfe recitare davanti agli dèi) commesso di fronte al dio Indra da parte di Urvaśī aveva fatto sì che ella venisse bandita dal cielo fino al momento in cui Purūravas avesse visto in volto il figlio che ella gli avrebbe dato. A questo punto Kālidāsa inserisce il monologo più lungo della sua opera teatrale: nel quarto atto, che costituisce quasi un’unità a sé, Urvaśī, entrando in un bosco sacro non permesso alle donne, viene trasformata in pianta rampicante e Purūravas si mette a cercarla, interrogando gli animali del bosco, finché non le sarà restituita da un intervento magico. Urvaśī nasconde a Purūravas la sua gravidanza e partorisce in segreto, ma il figlio, dopo molti anni, si presenta ormai adulto a corte. Indra, allora, stabilisce di rinviare il ritorno di Urvaśī al cielo al momento della morte di Purūravas come premio per il valore mostrato da quest’ultimo nella lotta contro i demoni.

• Mālavikāgnimitra, dramma in cinque atti nel quale viene narrata la storia d’amore fra una serva, Mālavikā, e il re Agnimitra. Di tutto il corpus drammatico di Kālidāsa, questo è l’unico dei tre drammi a non presentare alcun elemento fantastico e perfino il re Agnimitra è ascrivibile a un preciso contesto cronologico, giacché sappiamo che ha regnato sul regno del Magadha fra il 149 e il 141 a. C. e pertanto, se accettiamo la datazione di Kālidāsa al quarto secolo, dobbiamo immaginare che egli stesse narrando un episodio avvenuto mezzo millennio prima. Ovvio dunque che, se da una parte gli eventi non venivano sentiti così remoti da doverli narrare inserendovi elementi fantastici, sembra difficile poter leggere il dramma come se fosse un libro di storia. Mālavikā fa invaghire di sé il sovrano durante una tenzone che vede opposto il suo maestro di arte drammatica e un altro maestro. La cosa giunge alle orecchie della regina e della favorita del sovrano, le quali fanno imprigionare Mālavikā e la sua amica, poi liberate da uno stravagante ma efficace stratagemma del buffone di corte. Alla fine l’intreccio viene sciolto grazie al riconoscimento da parte di due serve giunte dal regno del Vidarbha, recentemente conquistato dall’esercito di Agnimitra: Mālavikā è salutata infatti da costoro come principessa, in quanto sorella del cugino del re di quel paese. Il suo esilio era dovuto al fatto che il fratello aveva tentato invano di usurpare il trono, costringendo Mālavikā alla fuga. Saputo che la ragazza è di stirpe regale, la regina e la favorita accettano Mālavikā fra le spose del sovrano.

A mio avviso ogni tentativo di stabilire una cronologia relativa delle opere di Kālidāsa si è mostrata poco convincente. Su base letteraria si è affermato che il Mālavikāgnimitra sarebbe la prima opera mentre l’Abhijñānaśākuntala l’ultima, perché indice di un autore più maturo, ma io non credo che si possa parlare di altro fuorché di velleitarie congetture: non è infatti assolutamente necessario che un autore debba scrivere le sue opere migliori per ultime (sempre che si possa stabilire

(11)

11

scientificamente cosa sia migliore). L’ordine con il quale pertanto io ho tradotto le tre opere qui raccolte non è legato ad alcuna pretesa cronologica.

La lingua

La prima cosa che risalta all’occhio aprendo un testo in lingua originale dei drammi di Kālidāsa è l’impiego di due differenti lingue all’interno dello stesso testo senza che questo costituisca problema alcuno: alcuni personaggi infatti parlano sanscrito e altri parlano una sua evoluzione, il cosiddetto pracrito. Dei passi pracriti vengono poi rigorosamente fornite traduzioni estremamente letterali in sanscrito, sulle quali ci soffermeremo fra poco con i dovuti esempi. Per adesso basti notare come i dialoghi avvengano fra personaggi i quali, pur comprendendo ambo i codici, ne usano sempre uno solo. In altre parole, la conversazione avviene come se i personaggi parlassero la stessa lingua, ma in realtà le lingue usate sono due. Ciò che se ne deduce è che questo, più che un modo per riprodurre più fedelmente la realtà linguistica dei parlanti, sia un semplice adeguamento a una convenzione. Nella realtà, infatti, anche nelle situazioni di diglossia, chi parla due lingue, per esempio una lingua letteraria e un dialetto, tende a usare la prima nei contesti formali e il secondo nei contesti informali, ricorrendo però a continui prestiti per sopperire alle carenze lessicali. Peraltro sembrerebbe insolito, se ammettessimo che Kālidāsa voglia riprodurre una situazione reale, che i parlanti pracrito e i parlanti sanscrito non abbiano mai difficoltà di intercomprensione.

Ulteriore prova che si tratta solo di una convenzione è la rigida divisione fra i personaggi che parlano sanscrito e quelli che parlano pracrito: la scelta segue infatti regole ben precise, apprese le quali non sarà difficile neanche per il lettore meno esperto indovinare a partire da un testo tradotto quali personaggi parlassero una lingua e quali l’altra. Tutti i personaggi femminili, a prescindere dal loro grado di istruzione e dalla loro casta, parlano infatti sempre pracrito, mentre i personaggi maschili parlano pracrito solo se il loro livello di istruzione è basso, come nel caso dei servi e del buffone, il quale, pur appartenendo alla casta brahmanica, non si comporta come tale, mentre tutti gli altri personaggi maschili, ossia i religiosi, il sovrano e gli uomini della corte, come artisti, generali e ministri, usano il sanscrito.

L’unica eccezione di rilievo è costituita dalla figura dell’eremita Kauśikī, unico personaggio femminile a parlare sanscrito in tutto il corpus drammatico di Kālidāsa. Kauśikī, che svolge all’interno del Mālavikāgnimitra il ruolo della confidente personale della regina Dhāriṇī, viene presentata come un personaggio di cultura, giacché le viene assegnato il compito di dirimere la controversia fra i due maestri di arte drammatica Haradatta e Gaṇadāsa, ma questo non giustifica la scelta di farla parlare in sanscrito, se solo pensiamo al fatto che anche negli altri drammi appaiono eremite che parlano solo in pracrito e perfino la dea Aditi, nonostante la sua divinità, non si esprime mai in sanscrito. Per spiegare l’eccezione di Kauśikī dobbiamo probabilmente far riferimento al fatto che il Mālavikāgnimitra è ambientato in una corte più realistica di quelle in cui sono ambientati gli altri due drammi e, pertanto, anche meno idealizzata. È quindi possibile che all’epoca di Kālidāsa non mancassero donne, pur essendo una minoranza, che si esprimevano regolarmente in sanscrito e pertanto il poeta ne ha voluta raffigurare una.

(12)

12

Interessante è anche il caso dell’ufficiale della polizia nonché cognato del re che nel preludio del sesto atto dell’Abhijñānaśākuntala recupera l’anello che farà tornare la memoria al sovrano: costui infatti, nonostante il suo grado e nonostante la parentela, parla in pracrito. La cosa potrebbe essere spiegata considerandolo un personaggio originario della classe media che ha, per così dire, fatto carriera, pur rimanendo legato esclusivamente all’ambito militare, cosa che non gli ha permesso di apprendere la lingua della cultura.

Ultimo caso che mi preme citare è quello del figlio di Duṣyanta e Śakuntalā, che fa la sua comparsa nel settimo e ultimo atto dell’Abhijñānaśākuntala. Come ci sarebbe da aspettarsi da un bambino, egli si esprime in pracrito, ma capisce perfettamente le parole in sanscrito del padre. Un altro figlio di re, Āyus, che compare nel quinto atto del Vikramorvaśīya, in ragione del fatto che ormai è un adolescente, parla sanscrito come il padre, dal quale egli è destinato a ereditare il trono. Quello che dunque possiamo concludere è che, nelle corti, l’utilizzo della lingua sanscrita, ormai totalmente artificiale, venisse insegnata ai bambini a una certa età, affinché arrivassero all’adolescenza padroneggiandola perfettamente, pur non essendo parlanti nativi.

Esiste una sola eccezione alla regola per la quale chi parla in pracrito non si può esprimere in sanscrito. Nel quarto atto dell’Abhijñānaśākuntala Priyaṃvadā narra ad Anasūyā le modalità con le quali la notizia della gravidanza di Śakuntalā è giunta alle orecchie del padre: egli ha, durante un rituale sacrificale, udito una voce che parlava in sanscrito e lo faceva in metrica, e, alla richiesta di Anasūyā di riferirgliela, Priyaṃvadā lo fa in sanscrito. Negli altri casi, quando riportano le parole di un personaggio di lingua sanscrita, i personaggi parlanti pracrito utilizzano il pracrito; qui l’eccezione può essere dovuta alla volontà di conservare il metro, come anche all’intento di conferire dignità a una voce discesa dal cielo.

Per presentare al lettore cosa significhi in Kālidāsa la presenza del pracrito, mi è sembrato utile, anziché fare molti discorsi, presentare direttamente un passo in pracrito, mostrandone la relativa traduzione sanscrita fornita dall’autore. Il passo che intendo usare come esempio è l’inizio del secondo atto dell’Abhijñānaśākuntala, ove abbiamo un monologo di discreta lunghezza tenuto dal buffone di fronte al pubblico per lamentarsi dell’eccessiva passione che il sovrano dimostra nei confronti dell’attività venatoria.

Il testo pracrito (dal quale ho omesso i movimenti di scena, indicati in sanscrito) è il seguente: bho diṭṭhaṃ. edassa miaāsīlassa raṇṇo vaassabhāveṇa ṇivviṇṇo mhi. aaṃ mio aaṃ varāho aaṃ saddūlo tti majjhaṇṇe vi gimhaviralapāavacchāāsu vaṇarāīsu āhiṇḍīadi aḍavīdo aḍaviṃ. pattasaṃkarakasāāiṃ kaḍuāiṃ giriṇaījalāiṃ pīanti. aṇiadavelaṃ sullamaṃsabhūiṭṭho āhāro aṇḍīadi. turagāṇudhāvaṇakaṇḍidasaṃdhiṇo rattimmi vi ṇikāmaṃ saidavvaṃ ṇatthi. tado mahante evva paccūse dāsīe puttehiṃ sauṇiluddhaehiṃ vaṇaggahaṇakolāhaleṇa paḍibodhidohmi. ettieṇa dāṇiṃ pi pīḍā ṇa ṇikkamadi. tado gaṇḍassa uvari piṇḍiā saṃvutta. hio kila amhesu ohīṇesu tattahodo miāṇusāreṇa assamapadaṃ paviṭṭhassa tāvasakaṇṇaā saundalā ṇāma mama adhaṇṇadāe daṃsidā. saṃpadaṃ ṇaaragamaṇassa maṇaṃ kahaṃ vi ṇa karedi. ajja vi se taṃ evva cintaantassa acchīsu pabhādaṃ āsi. kā gadī. jāva ṇaṃ kidācāraparikkaṃ pekkhāmi. eso

(13)

13

bāṇāsaṇahatthāhiṃ javaṇīhiṃ vaṇapuphphamālādhāriṇīhiṃ parivudo ido evva āacchadi piavaasso. hodu. aṅgabhaṅgavialo via bhavia viṭṭhissaṃ. jai evvaṃ vi ṇāma vissamaṃ laheaṃ. Questa la traduzione sanscrita:

bho dṛṣṭam. etasya mṛgayāśīlasya rājño vayasyabhāvena nirviṇṇo'smi. ayaṃ mṛgo'yaṃ varāho'yaṃ śārdūla iti madhyāhne'pi grīṣmaviralapādapacchāyāsu vanarājīṣvāhiṇḍyate'ṭavīto'ṭavīm. patrasaṃkarakaṣāyāṇi kaṭūni girīnadījalāni pīyante. aniyatavelaṃ śūlyamāṃsabhūyiṣṭha āhāro bhujyate. turagānudhāvanakaṇḍitasaṃdhe rātrāvapi nikāmaṃ śayitavyaṃ nāsti. tato mahatyeva pratyūṣe dāsyāḥ putraiḥ śakunilubdhakairvanagrahaṇakolāhalena pratibodhito'smi. iyatedānīmapi pīḍā na niṣkāmati. tato gaṇḍasyopari piṇḍikā saṃvṛttā. hyaḥ kilāsmāsvavahīneṣu tatrabhavato mṛgānusāreṇāśramapadaṃ praviṣṭasya tāpasakanyanā śakuntalā nāma mamādhanyatayā darśitā. sāṃprataṃ manaḥ kathamapi na karoti. adyāpi tasya tāmeva cintayato'kṣṇoḥ prabhātamāsīt. kā gatiḥ. yāvattaṃ kṛtācāraparikramaṃ paśyāmi. eṣa bāṇāsanahastābhiryavanībhirvanapuṣpamālādhāriṇībhiḥ parivṛta ita evāgacchati priyavayasyaḥ. bhavatu. aṅgabhaṅgavikala iva bhūtva sthāsyāmi. yadyevamapi nāma viśramaṃ labheya.

Il passo è sufficientemente lungo per essere preso come campione. Alcuni fenomeni possono immediatamente essere notati anche dal lettore meno esperto: il testo sanscrito presenta molte meno “parole”: ottantatre contro centoundici. In realtà le parole non sono meno, ma l’abitudine grafica è diversa: in sanscrito si tende a risparmiare, quando si può, un carattere, unendo due parole quando la precedente termina e la seguente inizia per vocale oppure quando la seguente inizia per consonante e la precedente termina per una consonante (fatto salvo il caso di parola terminante in -aḥ derivato da -as seguita da parola iniziante in vocale). Le regole di sandhi, ossia di fonosintassi, risultano pertanto assai differenti. Se però superiamo quest’ostacolo, scopriamo sempre che, per ogni parola del testo pracrito, ne troviamo quasi sempre una in sanscrito di cui il termine pracrito è diretto discendente. Talora, come vedremo fra poco, alcune desinenze vanno incontro a fenomeni analogici, per cui essi non si corrispondono, ma questo non vale per le radici, che tendono a equivalersi.

Scorrendo il brano, ci si accorge abbastanza facilmente che alcuni suoni spariscono del tutto: l’unica sibilante che compare è s, la sonante ṛ lascia il posto a i o u e la nasale n si conserva solo davanti a un’altra dentale, mentre passa a ṇ in tutte le altre circostanze (perfino in posizione iniziale, là dove la fonetica del sanscrito non lo permetterebbe), divenendo di fatto un allofono di quest’ultima.

La cosa però che salta maggiormente all’occhio per un lettore che conosce il sanscrito è la presenza degli iati: la grafia devanagarica, quando infatti è impiegata per scrivere il sanscrito, si limita a usare gli akṣara vocalici in posizione iniziale, mentre per le posizioni interne si impiegano esclusivamente modificazioni agli akṣara consonantici. In pracrito, invece, possiamo trovare akṣara vocalici anche in posizione interna. La parola miaāsīlassa (la seconda dopo il primo daṇḍa, da me traslitterato con un punto) è per esempio scritta मअआसीलस e corrisponde al sanscrito

(14)

14

मृगयाशीलय. Già solo in questa parola possiamo osservare alcuni fenomeni fonetici di interesse. Il primo è il passaggio di ṛ a i, ragion per cui la velare g viene a trovarsi in posizione intervocalica e subisce una spirantizzazione (non diversamente da come avviene in molte lingue romanze, e.g. in romeno eu<ego) che giunge fino alla caduta. Anche la semiconsonante y, come avviene non di rado, finisce per cadere e questi due fenomeni provocano addirittura il contatto fra tre vocali (i-a-ā). Differentemente da come succederebbe in sanscrito, tuttavia, in pracrito non avvengono né fenomeni di fusione fra le vocali né riduzione delle vocali alte a semiconsonanti (un doppio iato come questo verrebbe risolto in sanscrito con un passaggio i-a-ā>yā), ma viene conservata la sillabazione originaria, con la formazione, appunto, di iati, all’incirca come avviene in alcune parlate toscane (e.g. in pisano amica>amia, la-casa>la-asa). Nella medesima parola possiamo trovare anche la semplificazione della sibilante palatale ś a sibilante dentale s, nonché il passaggio per un processo di assimilazione del nesso -sy- a -ss-, fenomeno a causa del quale si standardizza per i temi in -a un genitivo singolare -assa.

Il fenomeno di spirantizzazione colpisce anche le dentali, per cui la t di etasya passa a d in edassa o la forma bhavatu dà in pracrito hodu. In modo particolare, in quest’ultima forma è anche possibile osservare un passaggio di bh a h, fenomeno tutt’altro che ignoto al sanscrito e che in pracrito non fa altro che continuare. Per esempio, la radice verbale han, “uccidere”, “distruggere”, si realizza nella seconda classe e, pertanto, è soggetta a fenomeni apofonici. Alla terza persona singolare abbiamo dunque hanti, ma alla terza plurale la forma è ghnanti, con una conservazione in un contesto fonetico diverso di un gh originariamente ascrivibile anche alle altre forme del paradigma (per cui hanti<*ghanti).

I complessi nessi consonantici del sanscrito risultano semplificati, spesso con lo sviluppo di aspirate e retroflesse, come nel caso di dṛṣṭam>diṭṭhaṃ, oppure di madhyāhne>majjhaṇṇe. Interessante è anche lo sviluppo di dy>jj, che ritroviamo anche in adya>ajja: si tratta di un fenomeno di coalescenza per cui il tratto dentale si combina con un tratto medio-palatale, dando come risultato un’affricata dotata sia del tratto dentale sia di quello palatale (la grafia IPA infatti è [dȝ]) e che troviamo non di rado anche in altre lingue del mondo (cfr. italiano giorno<diurnu oppure oggi<hodie). In posizione iniziale lo y- tende a dare j-, come in yāvat>jāva e anche questo è un fenomeno che si ritrova anche altrove nelle lingue del mondo (cfr. italiano giovane<iuvene). Altri nessi dei quali conviene far notare lo sviluppo sono vy>vv, per esempio saidavvaṃ<śayitavyam, st>tth, come in asti>atthi, śy>kkh, come in paśyāmi>pekkhāmi, e kṣ>cch, come in acchīsu>akṣīṣu (considerato anche che, come già visto, ṣṭ dà ṭṭh, si può affermare che le sibilanti spesso producono, pur cadendo o venendo assimilate, un’aspirazione).

Proprio quest’ultimo caso ci permette di passare a parlare della morfologia. La forma acchīsu non è infatti tradotta in sanscrito con akṣīṣu, dalla quale tuttavia deriva, ma con akṣṇoḥ. Si può infatti parlare per il pracrito di una tendenza alla sparizione del duale, non diversamente da come avviene in greco moderno rispetto al greco antico. Lo strumentale plurale mostra tuttavia un’interessante desinenza -hiṃ (e.g. putraiḥ śakunilubdhakaiḥ diventa, in pracrito, puttehiṃ sauṇiluddhaehiṃ), che non si può spiegare come uno sviluppo della desinenza sanscrita -aiḥ e anche la forma di strumentale plurale degli altri temi, -bhiḥ, lascia dubbi in merito allo sviluppo in

(15)

15

anusvāra del visarga finale. Si potrebbe ipotizzare un’interferenza fra la desinenza -bhiḥ, estesasi per analogia a tutti i temi, e la desinenza di strumentale duale -bhyam. Si generalizzano e divengono vere e proprie desinenze alcune forme che in sanscrito erano meri allomorfi, come -o per il maschile singolare nominativo e -aṃ per il neutro in luogo rispettivamente di -aḥ e -am. Possiamo dunque sintetizzare come segue:

• il pracrito conserva la sillabazione sanscrita anche a costo di ammettere gli iati; • il pracrito tende a spirantizzare le occlusive intervocaliche;

• il pracrito prosegue il processo già in atto in sanscrito di sviluppo delle occlusive aspirate in fricative laringali sonore.

• il pracrito riduce il più possibile i nessi consonantici tramite coalescenze e assimilazioni; • il pracrito non conserva il duale;

• in pracrito agiscono analogie che colpiscono le desinenze;

• alcuni allomorfi del sanscrito assurgono in pracrito al rango di veri e propri morfemi.

Il sistema verbale pracrito non presenta particolari differenze rispetto a quello sanscrito, se si esclude una diffusione per analogia della prima classe (che, tuttavia, non porta alla sparizione i verbi atematici) e una generalizzazione della desinenza atematica -hi anche per la seconda persona singolare dell’imperativo tematico. Le differenze più importanti possono essere notate non tanto tra i verbi pracriti e quelli sanscriti usati in Kālidāsa, quanto fra il sistema verbale di Kālidāsa e il sistema verbale vedico.

In vedico il sistema verbale conta un presente, un imperfetto, un ottativo, un imperativo e un participio costruiti sul tema del presente, un aoristo (con relativo participio), un futuro (anch’esso con relativo participio e con un condizionale formato sul medesimo tema) e un perfetto (sul quale si costruiscono participio e piuccheperfetto), tutti coniugabili all’attivo come al medio in tutte le nove persone del paradigma sanscrito. A queste forme bisogna aggiungere un infinito, un participio perfetto passivo, un gerundio, un assolutivo e un ingiuntivo (formato sul tema del presente o, più spesso, su quello dell’aoristo) oltre a tutta una serie di coniugazioni derivate, come il passivo, il desiderativo, il causativo o l’intensivo.

Il complesso sistema del sanscrito vedico non può ovviamente preservarsi a lungo nemmeno in una lingua artificiale qual è il sanscrito classico. Il sistema del presente si conserva abbastanza bene, mantenendo inalterato il presente, l’ottativo, l’imperativo e il participio, ma perde l’imperfetto. Il sistema del perfetto e quello dell’aoristo invece scompaiono quasi del tutto. Unica formazione originata dall’aoristo che si mantiene è l’ingiuntivo, il cui uso è tuttavia relegato a quello di imperativo negativo, preceduto sempre dalla negazione mā. Il futuro mantiene bene l’indicativo, ma risulta molto indebolito al condizionale.

La scomparsa di tutti i tempi usati per l’indicazione del passato rende necessario l’impiego di una nuova formazione: il participio perfetto passivo, che, nonostante il nome, non deriva dal tema del perfetto ma è formato direttamente dalla radice verbale con l’aggiunta della desinenza -ta-, viene impiegato per rendere qualsiasi tipologia di passato. Il suo essere passivo porta tuttavia seco

(16)

16

alcuni accorgimenti sintattici: il participio deve infatti concordare con il complemento oggetto e non con il soggetto, anzi, il complemento oggetto diviene soggetto e va al nominativo, mentre il soggetto diviene complemento d’agente e viene posto allo strumentale. In altre parole si realizza una vera e propria costruzione passiva. Tuttavia, nel caso in cui il verbo sia intransitivo, il participio perfetto viene parimenti costruito, ma gli viene assegnato un significato attivo, non diversamente da come avviene nello sviluppo dell’italiano dal latino: il participio perfetto latino ha infatti significato passivo, ragion per cui esso non viene usato se il verbo è intransitivo, mentre in italiano lo si impiega ugualmente, assegnandogli però un significato attivo (si pensi per esempio all’italiano venuto, formazione peraltro analogica, giacché in latino un participio *ventus, -a, -um non esiste). Tornando al sanscrito, la conseguenza dell’uso attivo del participio perfetto originariamente passivo formato su radici di verbi intransitivi è che il soggetto concorderà con il participio stesso e sarà espresso al nominativo, diversamente dal soggetto logico del passato di un verbo transitivo. Quello che dunque viene a realizzarsi dal punto di vista sintattico al passato è un vero e proprio sistema ergativo-assolutivo, infatti:

Un sistema del genere, che alterna al presente e al futuro un sistema nominativo-accusativo e al passato un sistema ergativo-assolutivo, non è un caso unico fra le lingue del mondo e possiamo ritrovare una cosa analoga ad esempio in curdo. In linea teorica, potremmo parlare per il passato transitivo semplicemente di costruzione passiva, ma è anche vero che il passivo in una lingua è un tratto generalmente marcato e non regolare: lo si usa cioè molto meno dell’attivo e solo quando si vuole marcare colui che subisce l’azione rispetto a colui che la compie. In italiano, ad esempio, potrei dire sia “io ho letto un libro” sia “un libro è stato letto da me”, ma la prima frase, quella attiva, è molto più comune della seconda, benché siano entrambe corrette. Per questa ragione mi sembra più giusto parlare di sistema ergativo-assolutivo che di mera costruzione passiva.

Gli stravolgimenti avvenuti all’interno del sistema del passato in sanscrito sono essenzialmente dovuti a una tendenza già presente in sanscrito vedico: l’annullamento delle differenze aspettuali. L’aspetto si può definire come il rapporto dell’azione rispetto al tempo. In greco, per esempio, l’aoristo è definito come il tempo delle azioni momentanee, il perfetto come l’espressione di un presente inteso come risultato di un’azione passata e l’imperfetto come un’azione continuata nel passato. In latino l’annullamento della differenza fra aoristo e perfetto ha fatto confluire le due forme in un unico tempo (il perfetto, appunto), che racchiude sia forme derivate da un antico perfetto a raddoppiamento (e.g. momordi, dedi, pepuli, cecini etc.) sia forme derivate da un aoristo sigmatico (e.g. vixi, scripsi, rexi, risi etc.) sia, per finire, forme originatesi da un aoristo

Soggetto del verbo intransitivo Soggetto logico del verbo transitivo

Complemento oggetto logico del

verbo transitivo

Caso nominativo (assolutivo)

Caso strumentale (ergativo)

(17)

17

asigmatico (e.g. vīdi, cēpi, fēci, lēgi etc.). Ciò che ha permesso la conservazione in greco dei tre sistemi del passato è senz’altro l’aspetto, perché le differenze di significato fra le tre forme venivano avvertite dai parlanti e nessuna veniva percepita come superflua (anche se poi in greco moderno il perfetto scompare, sostituito da una forma perifrastica). In latino, se la perdita della percezione della differenza fra aoristo e perfetto ha cancellato dal paradigma la compresenza dei due tempi, altrettanto non è accaduto con l’imperfetto, che si conserva vitale in tutte le lingue romanze moderne. Le lingue germaniche, invece, sono andate incontro a una sparizione anche dell’imperfetto, con la conservazione di un unico preterito, cui si è aggiunto solo in seguito un passato composto. Ancora facendo l’esempio delle lingue romanze, il passato prossimo e il passato remoto, spesso privati di una reale distinzione, sono andati incontro a una vicendevole sovrapposizione, a causa della quale talora è prevalso l’uno (come ad esempio in Italia meridionale o in America Latina), talora l’altro (come in Italia del nord o in Francia).

Tutti questi esempi mi servono per dire che, in fin dei conti, in sanscrito è avvenuta una cosa analoga: il prevalere di una costruzione originariamente sentita come passiva (ma poi evidentemente non più, come ho già ampiamente mostrato) ha provocato la perdita quasi totale dell’imperfetto, del perfetto e dell’aoristo. L’unico verbo che conserva, all’interno dell’opera drammatica di Kālidāsa, ancora abbastanza bene tutte e tre le forme è il verbo “essere”, reso in sanscrito dalle due radici as (per un presente di seconda classe asti e per l’imperfetto āsīt) e bhū (per un aoristo atematico abhūt, per il perfetto babhūva e per il futuro bhaviṣyati, anche se non di rado la si usa anche per la formazione di un presente di prima classe bhavati). Non mi è stato possibile trovare nemmeno un imperfetto o un aoristo che non derivasse da queste radici. Mi è però stato possibile reperire alcune forme di perfetto. Siamo nel settimo e ultimo atto dell’Abhijñānaśākuntala e il re Duṣyanta si rivolge a Mātali, il messaggero degli dèi, il quale sta per introdurlo al cospetto della coppia divina formata da Aditi e Mārīca. Nel breve spazio di una quartina il sovrano impiega ben tre perfetti: prāhuḥ, suṣuve e cakre. La prima forma è in realtà un composto della radice ah, usata esclusivamente al perfetto e raramente presente qua e là all’interno dell’Abhijñānaśākuntala, traducibile con “predissero”. La seconda forma è un medio dalla radice su (da cui un presente di quinta classe sunoti), che vale “spremere”, “stillare” e quindi “produrre”, “generare”, di cui qui abbiamo una terza singolare media, per cui “si generò”. La forma cakre è ancora una terza singolare media, dalla radice kṛ, “fare”, per cui “fece per sé”, “stabilì per sé”. Inutile dire che questi perfetti, a differenza della costruzione participiale di cui ho detto sopra, possono reggere regolarmente un accusativo.

Il fatto che, se si escludono quelli derivati dalle radici bhū e ah, tutti i perfetti presenti in Kālidāsa si concentrano quasi soltanto (c’è per esempio un caso di una forma jagāma nell’ultimo passo poetico pronunciato dal ciambellano nel quinto atto, ma si tratta di sporadiche eccezioni) in quest’unica quartina fa riflettere sulla percezione della lingua sanscrita al tempo della composizione dei tre drammi: benché infatti si continuassero a recitare e, anzi, a conoscere a memoria i Veda, nessuno usava più quella lingua, nemmeno nelle corti o nei contesti ufficiali. Pur essendo già all’epoca non più parlata come prima lingua, il fatto che il sanscrito venisse ampiamente utilizzato e compreso come seconda lingua lo rendeva quasi una lingua viva, il che lo esponeva a una seppur lenta evoluzione. Se d’altronde il perfetto fosse stato di uso comune come

(18)

18

lo era in epoca vedica, perché mai non disseminarlo ovunque? È evidente che, se l’autore ha deciso di concentrarlo proprio qui, è perché intendeva conferire a questo passo un sapore particolarmente aulico, giustificabile d’altronde con il fatto che il re Duṣyanta è in procinto di presentarsi al cospetto di una coppia divina.

La conservazione dei perfetti di bhū e ah può essere abbastanza agevolmente spiegata. In primo luogo, bhū è un verbo di per sé peculiare, perché è il verbo che vale “essere”: esso è per sua natura privo di un significato intrinseco, ma, accompagnato con un sostantivo o un aggettivo, si limita al valore di copula, permettendo al soggetto di legarsi a ciò che a esso è riferito. Questa sua peculiarità può senz’altro aver favorito la conservazione di forme altrimenti destinate a scomparire, a cominciare dal perfetto per arrivare all’aoristo e perfino all’imperfetto della radice sinonimica as; si noti, fra l’altro, che anche nel passo da me citato in pracrito c’è una forma di imperfetto āsi da āsīt, cosa che testimonia la sua conservazione anche al di là del sanscrito. Il verbo ah ha invece resistito peggio del perfetto di bhū, ma molto meglio di tutti gli altri verbi. La ragione è probabilmente da ricercarsi nel fatto che questa radice, avendo esclusivamente il perfetto, non era sottoposta alla pressione di altre forme che potevano farle, per così dire, concorrenza.

Per quel che riguarda l’imperativo negativo, esistono due differenti modi per esprimerlo e non sembra di poter rilevare particolari differenze di significato. In ambo i casi viene utilizzata la negazione mā (preferita a na in questa peculiare accezione e in poche altre), ma talora troviamo un ingiuntivo aoristo, mentre altrove si utilizza un mero imperativo. C’è un esempio della prima tipologia di imperativo negativo nel quarto atto del Mālavikāgnimitra (ma ve ne sono molti altri) quando il buffone finge di essere stato punto da un serpente e il sovrano, che conosce il piano, recita la parte dell’amico consolatore, dicendogli: «Mā kātaro bhūḥ» e, poco sotto: «Mā bhaiṣīḥ», ossia, rispettivamente, “non essere preoccupato” e “non temere”. La forma bhūḥ è infatti ingiuntivo aoristo atematico da bhū (il cui aoristo alla seconda persona singolare è infatti abhūḥ), mentre la forma bhaiṣīḥ è un aoristo sigmatico da bhī, verbo generalmente realizzato al presente nella terza classe come bibheti (l’aoristo alla seconda singolare è abhaiṣīḥ, con la radice flessa al grado vṛddhi). Nel terzo atto del Vikramorvaśīya troviamo tuttavia fra le labbra di Urvaśī espressioni come: «Mā … samarthayasva» e come: «Mā … vismara». Le due forme sono rispettivamente una seconda persona singolare media da sam-arth, radice realizzata nella decima classe, e vi-smṛ, che invece si realizza nella prima classe. Bisogna tuttavia far notare che le forme che abbiamo preso in esame non vengono pronunciate direttamente da Urvaśī, che parla pracrito e dice rispettivamente samatthehi e visumarehi. Queste due forme sono tuttavia semplici imperativi, caratterizzati dalla desinenza -hi (che, come abbiamo già detto, è generalizzazione analogica di una desinenza che in sanscrito era usata soltanto per i verbi atematici). Ora c’è da chiedersi se la scelta di tradurre il pracrito utilizzando l’imperativo sia una mera scelta stilistica per adeguarsi alla forma pracrita o sia piuttosto una specifica volontà da parte dell’autore. Io credo che la verità sia da porsi nel mezzo: da una parte c’è certamente una volontà di tradurre parola per parola il testo pracrito, ma è anche vero che la traduzione sanscrita deve essere corretta. Se così non fosse, ci sarebbe da chiedersi perché la forma samatthehi è stata tradotta con il medio samarthayasva e non con l’attivo samarthaya. Senza dubbio l’imperativo negativo formato con

(19)

19

l’ingiuntivo aoristo era percepito come più corretto, ma non ci sarebbe da stupirsi se esso iniziasse a venir sostituito dall’imperativo, giacché, se il primo è una forma ormai desueta, confinata a questo esclusivo uso e derivata da una forma a sua volta desueta, come l’aoristo, il secondo è di impiego assai ampio.

La metrica

Una delle cose che si notano già a colpo d’occhio osservando una qualsiasi pagina dell’opera drammatica di Kālidāsa è l’impiego del metro. Anzi, si potrebbe quasi dire che la metrica sia persino più importante della prosa, la quale si limita ad introdurla e a farle, per così dire, da contorno, legando le diverse parti in versi. Addentrandosi tuttavia più a fondo nella lettura, ci si avvede ben presto che esistono due diverse tipologie di impiego della poesia. Alcune parti, infatti, sono in metrica perché così ci aspettiamo che siano: se un personaggio, per esempio, sta cantando una canzone, è normale che lo faccia in metrica, come è normale che si esprima in poesia se sta componendo dei versi. Ci sono tuttavia molte altre sezioni che sono in metrica senza alcuna apparente giustificazione: un personaggio che per esempio descrivesse un paesaggio potrebbe farlo in metrica, così come potrebbe parlare in versi un innamorato che lodasse la propria donna. Io, ritenendo inutile e persino insensato tradurre la metrica, ho preferito rendere le parti in versi come se fossero in prosa. Mi sono tuttavia curato di inserire, nel caso della prima tipologia, delle barre trasversali per indicare al lettore non tanto dove comincia un verso e dove ne termina un altro (cosa peraltro vanificata dall’impossibilità di preservare nel passaggio dal sanscrito all’italiano l’ordine delle parole), quanto piuttosto il fatto che, in quella specifica circostanza, il personaggio si sta esprimendo con un canto o sta recitando una poesia.

Una caratteristica della seconda tipologia di impiego della metrica è il fatto che essa venga utilizzata esclusivamente per i personaggi che parlano sanscrito. I personaggi che parlano in pracrito utilizzano sempre la prosa, a meno che la loro volontà di esprimersi in versi non sia in qualche modo palesata (ma, in questo caso, rientreremmo nella prima tipologia). Vederne alcuni esempi ci permetterà di focalizzare meglio la differenza fra le due tipologie.

Un buon esempio della prima tipologia ci viene offerto nel prologo dell’Abhijñānaśākuntala, ove l’attrice intona un canto in lingua pracrita per l’arrivo dell’estate, rispondendo a un distico pronunciato in sanscrito dal regista, il quale, invitando l’attrice a cantare, le offre uno spunto lodando a sua volta la bella stagione. Basta scorrere il testo di poche righe ed ecco che il regista afferma, in poesia, di essere rimasto affascinato dal canto della donna, distraendosi al pari del re Duṣyanta durante l’inseguimento di un’antilope: non è qui necessario l’utilizzo della metrica e pertanto dobbiamo ascrivere questo passo alla seconda tipologia. Nel terzo atto della medesima opera è invece Śakuntalā a comporre una poesia per il re e a farlo in pracrito, poesia che sarà prontamente completata dal re con l’aggiunta di un altro distico in sanscrito. Nel quinto atto troviamo, ancora in pracrito, un canto realizzato fuori scena dalla cantante Haṃsapadikā e nel sesto a recitare versi in pracrito sono le due giardiniere, che compiono offerte al dio dell’amore Kāma. L’uso della poesia in pracrito può essere rintracciata anche nel Vikramorvaśīya, quando al secondo atto il re legge in pracrito una lettera in versi di Urvaśī, e nel Mālavikāgnimitra, quando

(20)

20

Mālavikā canta nel corso del secondo atto una quartina nell’ambito della tenzone fra i due maestri di arte drammatica di corte. Come si può ben notare, tutti questi passi sono sempre ascrivibili alla prima tipologia.

Se invece sfogliamo ad esempio il lungo monologo che copre quasi interamente il quarto atto del Vikramorvaśīya e che viene pronunciato dal sovrano, possiamo contare all’incirca quaranta strofe per un totale che si aggira attorno ai duecentocinquanta versi. Le singole strofe sono intervallate da brevi porzioni prosaiche le quali non superano che di rado le due o tre righe e sono sempre ascrivibili alla seconda categoria, come se il re parlasse spontaneamente in versi. La volontà dell’autore di addolcire i passaggi continui fra la prosa e la poesia emerge se ci soffermiamo sull’utilizzo di parole o espressioni che si ripetono spesso prima delle strofe e che servono per introdurle, di cui la più frequente è senz’altro tatha, ma abbiamo anche kutaḥ, kathamiva, ataśca etc.

I metri impiegati sono molteplici e io qui proverò a illustrarli. Anzitutto abbiamo l’anuṣṭubh, che troviamo ad esempio all’inizio del primo atto dell’Abhijñānaśākuntala, sulle labbra dell’auriga: kṛṣṇasāre dadaccakṣustvayi cādhijyakārmuke

mṛgānusāriṇaṃ sākṣātpaśyāmīva pinākinam Oppure nel preludio del terzo atto:

kā kathā bāṇasaṃdhāne jyāśabdenaiva dūrataḥ huṃkāreṇva dhanuṣaḥ sa hi vighnānapohati

Come possiamo notare da questi due soli esempi, si tratta di un tipo di verso che potremmo ascrivere a una metrica isosillabica, giacché ogni verso è composto sempre di sedici sillabe. Individuare all’interno dei versi una regola metrica precisa per quel che riguarda la posizione delle lunghe e delle brevi risulta più complesso: possiamo in generale dire che la terzultima sillaba è sempre lunga mentre quartultima e penultima sono brevi, la seconda sillaba e la terza sillaba non possono essere entrambe brevi e infine le sillabe dalla quinta alla settima non possono costituire un anfibraco.

Il numero di occorrenze di questo tipo di distici all’interno delle opere di Kālidāsa è abbastanza elevato, giacché abbiamo un totale di ventinove occorrenze nell’Abhijñānaśākuntala, altrettante nel Mālavikāgnimitra e diciassette nel Vikramorvaśīya.

Occorre invece in tutto il corpus di Kālidāsa una volta sola la triṣṭubh. Siamo nell’Abhijñānaśākuntala, nel quarto atto, e a parlare è Kāśyapa, il quale però sta palesemente compiendo un atto particolare che giustifica l’impiego di questo metro: egli infatti sta benedicendo Śakuntalā in procinto di partire e lo stesso autore, nell’indicare i movimenti di scena, specifica che si tratta di un metro del Ṛgveda. Applicando le tipologie di cui abbiamo parlato sopra, possiamo dire che questo caso vada ascritto alla prima tipologia. Il testo recita così:

(21)

21

samidvantaḥ prāntasaṃstīṇadarbhāḥ apaghnanto duritaṃ havyagandhai- rdaitānāstvāṃ vahnayaḥ pāvayantu

Questo metro, anche se non più usato all’epoca di Kālidāsa, era il metro di impiego più ampio negli inni vedici e pertanto veniva sentito come particolarmente arcaico e solenne. I versi sono sempre endecasillabi e terminano con una sequenza breve-breve-lunga-breve-lunga-ancipite. Si può anche osservare che seconda, terza e quarta sillaba (ma quest’ultima non sempre) sono lunghe, mentre prima e quinta possono essere sia lunghe che brevi.

Altro metro di uso abbastanza raro è l’Indravajrā, di cui abbiamo due sole occorrenze nell’Abhijñānaśākuntala e una nel Mālavikāgnimitra. Il primo caso è questa quartina pronunciata dal padre Kāśyapa alla fine del quarto atto dell’Abhijñānaśākuntala:

artho hi kanyā parakīya eva tāmadya saṃpreṣya parigrahītuḥ jāto mamāyaṃ viṣadaḥ prakāmaṃ pratyarpitanyāsa ivāntarātmā

Ecco poi le parole del ciambellano, nel quinto atto del medesimo dramma, quando paragona il re al sole, a un vento che soffia continuamente e al serpente cosmico Śeṣa:

bhānuḥ sakṛdyuktaturaṅga eva rātriṃdivaṃ gandhavahaḥ prayāti śeṣaḥ sadaivāhitabhūmibhāraḥ ṣaṣṭhāṃśavṛtterapi dharma eṣaḥ

E, infine, nel quinto atto del Mālavikāgnimitra, queste le parole di lode spese per il giovane Vasumitra, vincitore sui Greci della Battriana, dal ciambellano:

naitāvatā vīravijambhitena cittasya no vismayamādadhāti

yasyāpradhṛṣyaḥ prabhavastvamucchair- vahnerapāṃ dagdhurivorujanmā

Questo tipo di verso si dimostra essere uno sviluppo del precedente, perché possiede parimenti la serie finale breve-breve-lunga-breve-lunga-ancipite su un verso di undici sillabe complessive. Possiamo però anche notare che in tutti i dodici versi riportati abbiamo una sequenza nelle prime cinque sillabe lunga-lunga-breve-lunga-lunga.

Sono sempre basati su endecasillabi anche altri metri: l’upajāti, la śālinī e la rathoddhatā. Fra di essi, il primo è il metro che conta il maggior numero di occorrenze: dodici nell’Abhijñānaśākuntala, cinque nel Vikramorvaśīya e sei nel Mālavikāgnimitra, per un totale di ventitré occorrenze totali. Gli altri metri non contano invece nemmeno un’occorrenza nel Vikramorvaśīya, quattro per la

(22)

22

śālinī (una nell’Abhijñānaśākuntala e tre nel Mālavikāgnimitra), mentre la rathoddhatā appare una sola volta all’interno dell’Abhijñānaśākuntala.

Ecco due occorrenze dell’upajāti tratte dalle ultime battute del primo atto del Vikramorvaśīya: a pronunciarle sono rispettivamente l’auriga e il sovrano:

adaḥ surendrasya kṛtāparādhān prakṣipya daityān lavaṇāmburāśau vāyavyamastraṃ śaradhiṃ punaste mahoragaḥ śvabhramiva praviṣṭam eṣā mano me prasabhaṃ śarīrāt pituḥ padaṃ madhyamamutpatantī surāṅganā karṣati khaṇḍitāgrāt sūtraṃ mṛṇālādiva rājahaṃsī

Uso come esempio per l’Abhijñānaśākuntala una strofa del secondo atto pronunciata dal sovrano con la quale egli, paragonando gli asceti a gemme preziose, mette definitivamente a tacere il desiderio del generale di andare a caccia.

śamapradhāneṣu tapovaneṣu gūḍhaṃ hi dāhātmakamasti tejaḥ sparśānukūlā iva sūryakāntā stadanyatejo'bhibhavādvamanti

E infine un esempio dal quarto atto del Mālavikāgnimitra, quando il re, parlando con il buffone, gli descrive l’atteggiamento delle donne innamorate:

kārtsnyena nirvarṇayatuṃ ca rūpa- micchanti tatpūrvasamāgatānām na ca priyeṣvāyatalocanānāṃ samagrapātīni vilocanāni

Si tratta, come si può ben vedere, di un tipo di metro endecasillabico con la solita sequenza finale già vista per altri metri analoghi, ma che può presentare nelle prime cinque sillabe o una sequenza lunga-lunga-breve-lunga-lunga (come per l’Indravajrā) oppure una sequenza breve-lunga-breve-lunga-lunga.

La śālinī appare nell’Abhijñānaśākuntala quando il ciambellano, nel quinto atto, annuncia che le ninfe hanno preso con sé Śakuntalā dopo che il sovrano l’ha ripudiata:

strīsaṃsthānaṃ cāpsarastīrthamārā- dukṣipyaināṃ jyotirekaṃ jagāma

(23)

23

Tre casi si riscontrano, come abbiamo detto, nel Mālavikāgnimitra. Il primo caso è nel terzo atto, quando il re ringrazia Bakulāvalikā per il suo ruolo di messaggera d’amore, riconoscendone l’importanza:

bhāvajñānāntaraṃ prastutena pratyākhyāne dattayuktottareṇa vākyeneyaṃ sthāpitā sve nideśe sthāne prāṇāḥ kāmināṃ dūtyadhīnāḥ

Un altro esempio può essere reperito ancora nel terzo atto, quando il re paragona la sua favorita, che lo sta per colpire con una cintura, a un temporale sulle montagne del Vindhya:

bāṣpāsārā hemakāñcīguṇena śroṇībimbādavyapekṣācyutena

caṇḍī caṇḍaṃ hantumabhyudyatā māṃ vidyuddāmnā megharājīva vindhyam

L’ultimo esempio ci fa scorrere l’opera fino al quinto atto, quando, poco prima che il ciambellano annunzi l’ingresso delle due serve che riconosceranno in Mālavikā una principessa, il sovrano riconosce la dignità dell’albero di aśoka:

nāyaṃ devyā bhājanatvaṃ na neyaḥ satkārāṇāmīdṛśānāmaśokaḥ

yaḥ sāvajño mādhavaśrīniyoge puṣpaiḥ śaṃsatyādaraṃ yatprayatne

La serie di questo endecasillabo è sempre la seguente: lunga-lunga-lunga-lunga-lunga-breve-lunga-lunga-breve-lunga-ancipite. La presenza di due sole sillabe brevi contro nove lunghe (la sillaba finale è pronunciata sempre lunga, non diversamente da come accade nella metrica greca e latina) rende il ritmo di questo verso particolarmente lento.

L’unico caso di verso in metro rathoddhatā si trova nel settimo atto dell’Abhijñānaśākuntala, quando il re, incontrato il bambino che poi scoprirà essere suo figlio, lo incita, credendolo di casta brahmanica, a non nuocere agli animali:

evamāśramaviruddhavṛttinā saṃyamaḥ kimiti janmatastvayā sattvasaṃśrayasukho'pi dūṣyate kṛṣṇasarpaśiśuneva candanam

La caratteristica di questo endecasillabo è la sua serie nella quale prevalgono le brevi, giacché abbiamo: lunga-breve-lunga-breve-breve-breve-lunga-breve-lunga-breve-ancipite.

Passiamo adesso ai versi dodecasillabi. La tipologia più usata è certamente il vaṃśastha, che conta quattordici occorrenze nell’Abhijñānaśākuntala, una nel Mālavikāgnimitra e sette nel

(24)

24

Vikramorvaśīya. Per l’esempio del Mālavikāgnimitra, dobbiamo andare al terzo atto, quando il re dichiara che l’unione di due persone che non si amano parimenti non dà gioia:

anāturotkaṇṭhitayoḥ prasidhyatā samāgamenāpi ratirna māṃ prati parasparaprāptinirāśayorvaraṃ śarīranāśo'pi samānurāgayoḥ

Un esempio per l’Abhijñānaśākuntala potrebbe essere quello contenuto nel preludio del quarto atto, quando, dall’esterno, Durvāsas maledice Śakuntalā, colpevole di non averlo degnamente ricevuto:

vicintayantī yamananyamānasā tapodhanaṃ vetsi na māmupasthitam smariṣyati tvāṃ na sa bodhito'pi sa- nkathāṃ pramattaḥ prathamaṃ kṛtāmiva

Per il Vikramorvaśīya, riporto le parole del sovrano alla vista della regina, giunta da lui per riconciliarsi.

anena kalyāṇi mṛṇālakomalaṃ vratena gātraṃ glapayasyakāraṇam prasādamākāṅkṣati yastavotsukaḥ sa kiṃ tvayā dāsajanaḥ prasādyate

Anche qui lo schema è abbastanza facile da individuare e non presenta eccezioni: breve-lunga-breve-lunga-lunga-breve-breve-lunga-breve-lunga-breve-ancipite.

L’altro verso di dodici sillabe usato da Kālidāsa è il drutavilambita, che conta tre occorrenze nel Mālavikāgnimitra, quattro nel Vikramorvaśīya e cinque nell’Abhijñānaśākuntala. Partendo proprio da quest’ultimo, riporto una strofa pronunciata dal re nel sesto atto, quando, confidandosi con il buffone, commenta un proverbio secondo il quale le disgrazie troverebbero sempre un forellino per passare:

munisutāpraṇayasmṛtirodhinā

mama ca muktamidaṃ tamasā manaḥ manasijena sakhe prahariṣyatā

dhanuṣi cūtaśaraśca niveśitaḥ

Nel secondo atto del Vikramorvaśīya troviamo un altro esempio, quando il re percepisce la presenza di Urvaśī:

na sulabhā sakalendumukhī ca sā kimapi cedamanaṅgaviceṣṭitam abhimukhīṣviva kāṅkṣatasiddhiṣu vrajati nirvṛtimekapade manaḥ

(25)

25

Nel Mālavikāgnimitra il metro drutavilambita è utilizzato per esempio nel quarto atto, quando il re cerca di persuadere l’amata a vincere i freni che ella ha imposto al proprio sentimento per timore di offendere la regina:

visṛja sundari saṅgamasādhvasaṃ tava cirātprabhṛti praṇayonmukhe parigṛhāṇa gate sahakāratāṃ tvamatimuktalatāvaritaṃ mayi

Anche qui possiamo facilmente individuare uno schema, che si ripete sempre: breve-breve-breve-lunga-breve-breve-lunga-breve-breve-lunga-breve-ancipite. Ne emerge dunque un ritmo particolarmente veloce, caratterizzato dal tribraco in prima posizione seguito da due dattili e da un anfimacro.

I versi di tredici sillabe contano un numero molto ridotto di occorrenze, ragion per cui potremo citare tutti i casi. Il metro praharṣiṇī conta due occorrenze nell’Abhijñānaśākuntala una nel Mālavikāgnimitra. Partendo da quest’ultima opera, riscontriamo una quartina di questo tipo nell’ultima battuta pronunciata dalla donna eremita nel primo atto:

jīmūtastanitaviśaṅkibhirmayūrai- rudgrīvairanurasitasya puṣkarasya nirhādinyupahitamadhyamasvarotthā māyūrī madayati mārjanā manāṃsi

I due casi dell’Abhijñānaśākuntala sono riscontrabili entrambi nel sesto atto e sono entrambi pronunciati da Mātali. La prima quartina viene proclamata dall’esterno, quando ancora il messaggero degli dèi non si è manifestato, mentre la seconda spiega al sovrano perché Indra richiede l’aiuto del sovrano e non interviene da solo:

eṣa tvāmabhinavakaṇṭhaśoṇitārthī śārdūlaḥ paśumiva hanmi ceṣṭamānam ārtānāṃ bhayamapanetumāttadhanvā duṣyantastava śaraṇaṃ bhavatvidānīm sakhyuste sakila śatakratorajayya- stasya tvaṃ raṇaśirasi smṛto nihantā ucchettuṃ prabhavati yanna saptasapti- stannaiśaṃ timiramapākaroti candraḥ

Lo schema è il seguente: lunga-lunga-lunga-breve-breve-breve-breve-lunga-breve-lunga-breve-lunga-ancipite.

Lo rucirā è un metro che appare una volta nel Mālavikāgnimitra e una volta nell’Abhijñānaśākuntala: nel primo caso siamo nel quarto atto, quando il sovrano parla con Irāvati,

Riferimenti

Documenti correlati

Family planning services have been fundamental in order to slow population growth by improving reproductive health of women and men and enabling them to choose the

Analizzando le attività fluviali è emerso come la maggior parte degli operatori turistici più rilevanti del settore svolgano attività di navigazione turistica

Foreign journalists who could fly to Saigon with a presentation letter of any newspaper of the world were “immediately appointed Major of the United States Army in order to go,

Per quanto riguarda la traduzione che dell’Elena di Euripide ha fatto Caterina Barone, ho avuto l’occasione di poterne visionare e analizzare due differenti versioni:

c) Il seguente esempio rappresenta uno dei rarissimi casi del Kaktus Kid in cui il traduttore deve tener in considerazione l’illustrazione, composta non solo

bianchi» della Romania sono oltre 350 mila: sono i figli delle donne che lavorano come badanti in Italia e in Spagna, i due Paesi che attualmente necessitano maggiormente di

Il mio lavoro di traduzione non è stato svolto seguendo dall’inizio alla fine una strategia traduttiva ben precisa come possono essere quelle descritte da