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Caratterizzazione delle cellule B in pazienti con immunodeficienza comune variabile.

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Academic year: 2021

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INDICE

INTRODUZIONE

pag.4

La memoria immunologica pag.4

Il centro germinativo pag.6

Generazione di cellule B di memoria dipendenti dal centro germinativo pag.7 Generazione di cellule B di memoria indipendenti dal centro germinativo pag.8 Generazione di cellule B di memoria T-indipendenti pag.8

Eterogeneità delle cellule B di memoria pag.9

Cellule produttrici di anticorpi: plasmablasti e plasmacellule pag.10

Immunodeficienza Comune Variabile IDCV pag.11

Epidemiologia pag.14

Basi genetiche dell’ IDCV pag.14

Mutazioni di CD19, CD20, CD21 e CD81 pag.14

Mutazioni di TACI. Pag.15

Mutazioni di BAFF-R pag.17

Mutazioni di ICOS Pag.17

Mutazioni di Msh5 e altri geni implicati nella riparazione del DNA pag.18

Studi di associazione genome-wide pag.18

Immunopatologia pag.19

Difetti delle cellule B pag.19

Difetti delle cellule T pag.19

Difetti dell'immunità innata pag.20

Quadro clinico pag.20

(2)

2

Lupus Eritematoso Sistemico pag.23

Epidemiologia e storia naturale. Pag.23

Eziopatogenesi. Pag.24

Fattori genetici pag.24

Fattori ambientali pag.25

Fattori endocrini pag.26

Fattori immunologici pag.26

Diagnosi di laboratorio pag.27

Generale pag.27

Immunologico pag.28

Anticorpi anti-nucleo pag.28

Anticorpi anti-DNA pag.29

Anticorpi anti-ENA pag.29

Anticorpi anti-C1q pag.30

Altri autoanticorpi pag.32

Artrite Reumatoide (AR) pag.34

Anatomia patologica pag.34

Patogenesi pag.35

Decorso clinico pag.37

Diagnosi di Artrite Reumatoide (AR) pag.38

Fattore reumatoide pag.39

Gli anticorpi anti-proteine/peptidi citrullinati (ACPA). Pag.39 -

(3)

3

SCOPO DELLA TESI

pag.43

PAZIENTI E METODI

pag.44

Pazienti pag.44

Analisi fenotipica dei linfociti circolanti pag.44

Prelievo di sangue periferico e purificazione di PBMC pag.45

Stimolazione dei PBMC pag.46

Studio della funzionalità dei linfociti B pag.46

Studio della funzionalità T pag.46

Test ELISA per la determinazione delle citochine nei surnatanti di coltura pag.47

Determinazione degli anticorpi anti ds-DNA pag 47

Determinazione degli anticorpi anti C1q pag 48

Ricerca anticorpi anti peptidi citrullinati (ACPA) nei pazienti con AR pag.49

Analisi statistica pag.49

RISULTATI

pag.50

Tipizzazione ed Analisi della funzionalità T in pazienti con IDCV pag.50 Tipizzazione ed Analisi della funzionalità B in pazienti con IDCV pag.56 Analisi della memoria immunologica in pazienti con malattie autoimmuni pag.61

DISCUSSIONE

Pag.63

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4

INTRODUZIONE

LA MEMORIA IMMUNOLOGICA

Le risposte immuni originano dall’incontro di un individuo con un antigene esogeno, generalmente un agente infettivo. Il soggetto infettato risponde rapidamente con la produzione di anticorpi specifici per i determinanti antigenici dell’immunogeno e con la espansione e differenziazione di linfociti T specifici per l’antigene, regolatori ed effettori (Janeway et al. 2001). Questi ultimi comprendono sia linfociti che producono citochine, che linfociti capaci di uccidere le cellule infette (killer). In genere la risposta immune iniziale è sufficiente a controllare ed eradicare l’infezione; il ruolo principale del sistema immunitario è infatti quello di montare una risposta in grado di eliminare gli agenti infettivi dall’organismo (Shanker, 2010).

In seguito alla risposta iniziale, il soggetto immunizzato sviluppa uno stato di memoria immunologica: nel caso di un nuovo incontro con il medesimo microrganismo (o con uno strettamente correlato), si verifica una risposta secondaria. Questa generalmente consiste in una risposta anticorpale più rapida, di maggiore entità e fatta di anticorpi con maggiore affinità per l’antigene e più efficaci nell’eliminare l’agente infettivo (Cerutti et al. 2011). Allo stesso tempo si assiste ad una risposta T similmente più rapida ed efficace. In sintesi dopo un’infezione con un dato patogeno, il soggetto si viene a trovare in una condizione immunitaria in cui è protetto da eventuali successive infezioni. Nella maggior parte dei casi la protezione è garantita da anticorpi ad alta affinità in grado di eliminare rapidamente l’agente reintrodotto. Questo è il principio su cui si basa la vaccinazione.

Una cellula B matura può essere attivata dall’incontro con un antigene che esprime epitopi riconosciuti dalle immunoglobuline di superficie. Il processo di attivazione può essere di tipo diretto, quando l’antigene lega contemporaneamente più recettori di membrana (cross-linkage), o di tipo indiretto, quando dipende dalla interazione con una cellula T helper dotata della medesima specificità (attivazione per affinità) (Van Leeuwen et al.2009).

Ogni cellula B esprime immunoglobuline con la stessa regione variabile; affinché avvenga un cross-linkage dei recettori di membrana è necessario che l’antigene contenga epitopi ripetitivi. Questa caratteristica non è comune tra gli antigeni proteici semplici, mentre è presente nei polisaccaridi

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5 capsulari di molti microrganismi patogenicamente rilevanti (pneumococchi, streptococchi meningococchi) e nei virus, che esprimono plurime copie di proteine dell’envelope.

L’attivazione per affinità consente alle cellule B di montare una risposta contro quegli antigeni incapaci di legare più recettori di membrana contemporaneamente: l’antigene legato all’immunoglobulina di membrana viene in questo caso trasportato all’interno della cellula per endocitosi, e frammentato in peptidi nel comparto microsomiale/endosomiale del linfocita; i peptidi sono in seguito caricati sulle molecole di classe II del complesso maggiore di istocompatibilità ed espressi sulla superficie della cellula. I complessi MHC/peptidi divengono un ligando per i recettori espressi dai linfociti T helper CD4+; l’interazione tra questi due tipi cellulari porta infine all’attivazione del linfocita B attraverso molecole di membrana (es. CD40L) o citochine prodotte dal linfocita T affine. In questo tipo di attivazione, quindi, il legame dell’antigene all’immunoglobulina di membrana non comporta una attivazione cellulare, ma porta alla espressione di un ligando per la cellula T; l’attivazione del linfocita B deriva in questo caso principalmente dall’interazione con il linfocita T, e non dal legame con l’antigene.

Dopo l’attivazione, un linfocita B si prepara a dividersi e differenziarsi in una plasmacellula o in una cellula della memoria. In questa fase si assiste alla risposta anticorpale primaria. Le cellule della memoria invece producono anticorpi solo dopo una nuova esposizione, nella cosiddetta risposta anticorpale secondaria; questa è caratterizzata da maggiore entità e rapidità, è costituita da anticorpi con maggiore affinità per l’antigene, ed è dominata dalla produzione anticorpi di isotipo IgG, IgA o IgE, a differenza della risposta primaria, in cui l’isotipo dominante è IgM.

La divisione e la differenziazione a plasmacellule è in questo caso un processo largamente controllato dall’interazione del linfocita B attivato con il linfocita T, attraverso l’espressione di CD40L e la produzione di citochine come IL-4, IL-5, IL-6, IL-2.

La differenziazione dei linfociti B a cellule B della memoria si verifica in strutture specializzate della milza e dei linfonodi, i centri germinativi. Anche il processo attraverso il quale si aumenta l’affinità dell’anticorpo avviene nel centro germinativo; si tratta della maturazione dell’affinità, ed è il risultato della ipermutazione somatica accompagnata dalla selezione positiva delle cellule con il recettore più affine all’antigene.

Inoltre una linfocita B, pur continuando ad esprimere la stessa regione variabile della catena pesante dell’immunoglobulina di membrana, durante la maturazione può cambiarne la regione costante. In

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6 questo modo, una cellula che esprime il recettore di classe IgM o IgD, può differenziarsi in una cellula che esprime recettori IgG, IgA o IgE. Da questa possono poi originare plasmacellule che secernono anticorpi della stessa classe. Questo processo porta alla produzione di anticorpi con effetti biologici differenti, ma che conservano la stessa specificità di legame. Quando è accompagnato dalla maturazione dell’affinità, il cambio dell’isotipo porta alla sintesi di anticorpi in grado di eliminare molto efficacemente il patogeno durante eventuali reinfezioni. Questi due fenomeni associati garantiscono l’elevata efficacia degli anticorpi prodotti nelle risposte immuni secondarie.

Il centro germinativo

I centri germinativi sono la struttura istologica dedicata alla generazione e selezione delle cellule B che producono anticorpi ad alta affinità (McHeyzer-Williams et al. 2001). La maturazione di affinità è il processo per cui cellule produttrici di anticorpi a bassa affinità oppure cellule autoreattive sono “superate” nella competizione per la sopravvivenza dalle B che producono anticorpi a più alta affinità. I processi che si svolgono nel centro germinativo sono estremamente efficienti, grazie al microambiente che facilita i contatti e gli spostamenti delle cellule, e la generazione di plasmacellule e di cellule di memoria avviene entro una settimana dall’incontro con l’antigene. I centri germinativi si formano nel centro dei follicoli linfatici, strutture costituite da cellule B naive IgM+IgD+ e da una rete di cellule follicolari dendritiche e circondate dalla zona ricca di cellule T.

Comprendono una zona scura che contiene cellule B in attiva proliferazione, che vanno incontro a ipermutazione somatica, e una zona chiara in cui le cellule B sono selezionate sulla base della loro affinità per l’antigene. Nella descrizione classica del centro germinativo, è riconosciuta da tempo l’esistenza di due stadi diversi di differenziazione delle cellule B: centroblasto e centrocita. Il centroblasto risiede nella zona scura e si differenzia nel più piccolo centrocita entrando nella zona chiara. Dati più recenti indicano una marcata somiglianza fra i 2 tipi cellulari che sono molto simili morfologicamente e dal punto di vista dell’espressione genica. Centroblasto e centrocita non costituiscono fenotipi diversi promossi da stimoli ambientali ma piuttosto stadi evolutivi della cellula B legati all’espressione temporalmente controllata di un programma intrinseco alla cellula.

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7 Il passaggio dalla zona scura a quella chiara, il ricircolo fra le due zone e la differenziazione delle B dopo il passaggio nel centro germinativo sono controllati da un complesso network di segnali che attivano o reprimono nelle cellule B specifici programmi trascrizionali. Quando la cellula B naive lega l’antigene, vengono indotti specifici modulatori della trascrizione. MYC ha un’espressione bimodale: è indotto precocemente, è soppresso nelle B della zona scura ed è transitoriamente riespresso in un subset di B della zona chiara che rientreranno nella zona scura. L’espressione del repressore trascrizionale BCL-6 è critica per la formazione del centro germinativo (infatti cellule B deficitarie di BCL-6 non entrano nel follicolo) ed è dimostrabile inizialmente in un piccolo subset di cellule B naive che hanno interagito con l’antigene e la cellula T (De Silva et al. 2015).

Generazione di cellule B di memoria dipendenti dal centro germinativo

Nelle risposte B T-dipendenti, la cellula B in proliferazione, attivata dall’antigene, può differenziare a plasmacellula extrafollicolare a vita breve, cellula B di memoria indipendente dal centro germinativo o cellula B di memoria dipendente dal centro germinativo. Nel periodo pre-centro germinativo, la cellula B comincia ad andare incontro a switch isotipico (ad es. a IgG) ma non a permutazione somatica. Alla periferia del centro germinativo, nei linfonodi o nella milza, le cellule B presentano complessi peptide-MHC alle cellule T helper follicolari, cellule T CD4+ che esprimono il recettore per chemochine CXCR5 e BCL6. Le cellule B che legano l’antigene a più alta affinità restano legate più a lungo alla cellula T, ricevono più “aiuto” e hanno maggiori probabilità di evolvere a cellule B del centro germinativo. Il primo modello proposto per spiegare la selezione delle cellule a maggior affinità si basava sulla competizione per l’antigene. Secondo questo modello, le cellule B a più alta affinità sequestrerebbero l’antigene privando quindi le altre cellule della stessa specificità ma di minore affinità degli stimoli che provenendo dal BCR sono indispensabili per la sopravvivenza. Dati sperimentali recenti indicano invece che la competizione per l’aiuto della cellula T è il fattore critico per la selezione. Un’affinità superiore comporta una maggior “cattura “ di antigene, una più alta densità di complessi MHC-peptide sulla membrana e quindi una maggior possibilità di attrarre la cellula T helper follicolare. La visualizzazione di questo processo in vivo ha infatti mostrato come la cellula T helper follicolare pattugli le cellule B del centro germinativo, formando contatti più numerosi e duraturi con le cellule B che hanno la più alta densità di complessi MHC-peptide sulla membrana. Alle stesse conclusioni porta il difetto di cellule B nel centro germinativo osservato in topi deficitari di SAP, proteina associata all’attivazione la cui

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8 carenza accorcia la durata del contatto T-B. L’interazione fra la cellula B e la T avvengono attraverso ICOS della T e ICOS ligand sulla B, cui segue l’espressione di CD40 ligand sulla T follicolare che può a questo punto fornire help alla B anche attraverso il CD40. La cellula B che ha ricevuto più “aiuto” dalla T è programmata per andare incontro ad un maggior numero di cicli di proliferazione quando rientra nella zona scura, accumulando così un maggior numero di mutazioni (De Silva et al. 2015).

Generazione di cellule B di memoria indipendenti dal centro germinativo

Il segnale derivante dal contatto con la cellula T attraverso il CD40 è sufficiente a indurre la differenziazione a cellula di memoria ma non a cellula del centro germinativo. Per avviare la B su questo cammino evolutivo, è importante la presenza nell’ambiente di citochine quali IL-21, che upregola BCL-6 nella B, e un contatto prolungato con la T. Dal momento che in questa fase pre-centro germinativo la B va incontro a class switch ma non a permutazione somatica, il repertorio delle cellule B di memoria indipendenti dal centro germinativo corrisponde a quello iniziale delle B, con qualche possibile selezione determinata dall’interazione (breve!) con le cellule T. La generazione di queste cellule B di memoria consente di mantenere un’ampia gamma di cellule B antigene-specifiche, che assicuri la produzione di uno spettro adeguato di anticorpi (Kurosaki et al. 2015).

Generazione di cellule B di memoriaT- indipendenti

Le cellule B della zona marginale e follicolari appartengono al subset B2, che origina nel midollo osseo e rappresenta il principale subset sia nell’uomo che nel topo. In passato si riteneva che le cellule di memoria potessero originare esclusivamente da risposte immuni T-dipendenti (quindi ad antigeni proteici) che implicavano il centro germinativo e coinvolgevano cellule B2. Dati recenti mostrano invece che anche le cellule B1 possono generare cellule di memoria durante risposte immuni T-indipendenti. Le cellule B1 sono un subset di cellule B mature, autorinnovantesi, più abbondanti nelle sierose ma presenti anche nella milza. Riconoscono antigeni self ma anche antigeni batterici comuni e sono responsabili della produzione degli anticorpi naturali di classe IgM. e si suddividono in un subset B1a (CD5+) e un subset B1b (CD5-). Entrambi i subset possono dare origine a cellule B di memoria. E’ stato dimostrato che un glicolipide derivato da Francisella

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9 tularensis induce cellule B di memoria B1a (IgM+) che persistono nella cavità peritoneale in modo T-indipendente. Alla ristimolazione com l’antigene, il signalling attraverso BCR e TLR4 determina la migrazione di queste cellule di memoria nella milza, dove ha luogo la differenziazione a plasmacellule (Yang et al. 2012). In modo del tutto analogo, nella risposta immune a Streptococcus pneumoniae si generano cellule di memoria che mantengono molte delle caratteristiche delle B1b naive da cui derivano e sono anch’esse localizzate nella cavità peritoneale.

Non è ancora chiaro se le cellule B di memoria T-indipendenti siano in grado di rispondere più rapidamente all’antigene o se il loro vantaggio rispetto alle naive consista solo nell’espansione clonale che aumenta la frequenza di B con una determinata specificità.

Eterogeneità delle cellule B di memoria.

Durante la risposta immune ad un antigene si generano diversi tipi di cellule di memoria in modo strettamente regolato dal punto di vista spaziale e temporale. Le cellule B di memoria presentano alcune differenze, legate almeno in parte all’isotipo della immunoglobulina di membrana che esprimono, e molte caratteristiche condivise (Kurosaki et al. 2015).

Le cellule di memoria IgM+ si comportano in modo diverso rispetto alle IgG+ al momento della ri-esposizione all’antigene. Le IgG+ differenziano rapidamente a plasmablasti, mentre le IgM+ rientrano nel centro germinativo e vanno incontro ad ulteriori cicli di proliferazione e probabilmente di selezione. Sembra comunque che anche alcune IgG+ di memoria possano rientrare nel centro germinativo: il fattore che determina il comportamento della B di memoria sembra essere l’espressione di due recettori di membrana, il CD80 e il PDL2. Le B CD80+PDL2+ differenziano rapidamente a plasmablasti quando sono riesposte all’antigene, mentre le B CD80PDL2- rientrano nel centro germinativo.

Le cellule di memoria IgG+ di diverso isotipo differiscono nell’espressione di fattori di trascrizione che condizionano la sopravvivenza di cellule B di memoria di un determinato isotipo. L’espressione di questi fattori di trascrizione è causata dall’esposizione a citochine: ad es. nel topo l’interferone gamma induce l’espressione di T-bet e lo switch isotipico a cellule B di memoria IgG2a + (Nguyen et al. 2012).

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10 Al momento non è stata dimostrata l’esistenza di cellule di memoria IgE+. Si ritiene che risposte IgE ad alta affinità che implicano il reclutamento di cellule di memoria si realizzino grazie a cellule di memoria IgG1+ che vanno incontro a switch isotipico e si differenziano a plasmacellule producenti IgE.

Caratteristiche comuni a tutte le cellule B di memoria sono la longevità e l’ampiezza e rapidità di risposta alla ri-esposizione all’antigene, che sono le caratteristiche fondamentali della protezione dalle infezioni offerta dall’immunità adattativa e sono alla base del successo delle procedure di vaccinazione. La durata della sopravvivenza di una cellula B di memoria non è definita. E’ stato dimostrato che la persistenza dell’antigene non è necessaria alla loro esistenza, ma è necessaria l’espressione del BCR, influenzata da fattori di trascrizione quali T-bet. Le IgM+ persistono più a lungo delle IgG+, probabilmente grazie alla capacità di auto rinnovamento delle IgM+; non si può escludere che siano importanti anche segnali di sopravvivenza che differiscono fra i due tipi cellulari. Nel topo, le cellule di memoria IgM+ sono più dipendenti da BAFF ed APRIL rispetto alle IgG+. La riattivazione delle B di memoria dipende strettamente dall’help delle cellule T ed in particolare delle follicular helper T di memoria. Queste cellule T si riattivano rapidamente a seguito della presentazione dell’antigene da parte delle cellule B ed acquistano la capacità di fornire help alle cellule B di memoria adiacenti. In questo modo cellule B di memoria esprimenti un BCR IgG ad alta affinità possono essere selezionate e differenziarsi a plasmablasti in sede extra-follicolare. In parallelo, cellule di memoria IgM+ possono rientrare nel centro germinativo, andare incontro a ipermutazione somatica e switch di classe, contribuendo così alla generazione T-dipendente di anticorpi IgG ad alta affinità.

Cellule produttrici di anticorpi: plasmablasti e plasmacellule

La produzione di anticorpi è uno dei meccanismi effettori più importanti del sistema immune ed è alla base del successo della maggior parte delle procedure di vaccinazione. Gli anticorpi sono prodotti da popolazioni rare di cellule B differenziate in modo terminale, i plasmablasti (cellule producenti anticorpi capaci di dividersi e dotate della capacità di migrare e di evolvere a plasmacellule) e le plasmacellule (cellule producenti grandi quantità di anticorpi, incapaci di dividersi e derivate dai plasmablasti) (Nutt et al. 2015). Per la generazione di plasmablasti e plasmacellule, è necessario che il programma trascrizionale della cellula B sia silenziato e sia indotto un nuovo trascrittoma, orientato alla produzione di quantità massive di immunoglobuline e

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11 di recettori/mediatori che consentano la localizzazione e la sopravvivenza in nicchie specializzate del midollo osseo.

I segnali necessari a indurre la differenziazione a plasmablasto e plasmacellula non sono completamente chiari e coesistono tuttora teorie deterministiche e stocastiche sul destino delle cellule B. E’ possibile che l’evoluzione a cellula produttrice di anticorpi dipenda dai segnali di attivazione che la cellula riceve dal BCR (quindi legati all’affinità per l’antigene) o dal signalling di cellule T e citochine. In questo contesto, potrebbe essere rilevante la divisione asimmetrica, che dota le cellule figlie di un corredo diverso di trascritti. Nell’evoluzione a plasmablasto e plasmacellula potrebbero invece giocare un ruolo più importante le caratteristiche della singola cellula B rispetto ai segnali ambientali, suggerendo quindi un meccanismo di tipo stocastico.

Una parte dei plasmablasti evolve a plasmacellule, che nel soggetto normale sono principalmente localizzate nel midollo osseo. La localizzazione nel midollo osseo dipende, fra gli altri, dal signaling di CXCL12 attraverso CXCR4; i segnali provenienti da chemochine infiammatorie che utilizzano invece come recettore il CXCR3 promuovono la localizzazione dei plasmablasti ai siti di infiammazione. La permanenza nel midollo osseo e l’evoluzione a plasmacellula sono legati all’attività di recettori quali VLA4, CD44 e CD28 e all’espressione di specifici fattori di trascrizione. Nel midollo osseo le plasmacellule sono ospitate in un numero finito di nicchie, costituite da cellule stromali ed ematopoietiche, fra le quali sembra essenziale l’eosinofilo, produttore di APRIL ed IL-6 (Chu et al. 2013). Il numero di nicchie di sopravvivenza nei tessuti infiammati è invece variabile perché dipende dall’estensione del processo infiammatorio. Al contrario del midollo osseo, in cui la plasmacellula sopravvive per tempi lunghi (forse per molti decenni o in qualche caso per tutta la vita dell’individuo) le plasmacellule nei tessuti scompaiono con la risoluzione della flogosi (Hiepe et al. 2016).

Immunodeficienza Comune Variabile (IDCV)

L’immunodeficienza comune variabile (IDCV) costituisce un insieme di condizioni accomunate da un difetto primitivo degli anticorpi (ipogammaglobulinemia) che riguarda due diversi isotipi (Chapel et al. 2008; Mouillot et al. 2010). E’ la forma di immunodeficienza primitiva più comune dopo il deficit selettivo di IgA ed ha una base genetica tuttora poco chiara, anche se negli ultimi anni il difetto genico alla base della malattia è stato individuato in una minoranza di casi.

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12 Il difetto immunologico fondamentale è la mancata produzione di immunoglobuline da parte delle cellule B, ma possono coesistere anche difetti delle cellule T e di altri comparti del sistema immune; spesso la coesistenza di questi altri difetti identifica dei subset di pazienti con manifestazioni cliniche particolari.

Dal punto di vista clinico, la caratteristica fondamentale dei pazienti affetti da IDCV è l’aumentata suscettibilità alle infezioni,specie del tratto respiratorio ma anche gastrointestinale. Le complicanze non infettive sono però frequenti e includono malattie autoimmuni (in particolare ematologiche: citopenie), enteropatie, malattia granulomatosa, linfoproliferazione e neoplasie.

Essendo una malattia rara ed estremamente eterogenea, le conoscenze sui meccanismi di malattia sono aumentate lentamente, ma negli ultimi anni sono stati fatti molti passi in avanti sia per quanto riguarda l’individuazione dei difetti genici che nell’approccio terapeutico ai pazienti.

La diagnosi di IDCV è fondamentalmente una diagnosi d’esclusione: si considerano affetti i soggetti di età superiore ai 2 anni in cui si dimostra una riduzione dei livelli di IgG (al sotto di 2 SD dalla concentrazione media dei soggetti normali di pari età) associata ad una riduzione di IgM o IgA, all’assenza di isoemagglutinine e/o ad una scarsa risposta ai vaccini, una volta che siano state escluse altre cause di ipogammaglobulinemia (Conley et al. 1999).

Anche se questi criteri non sono ancora stati modificati, nella letteratura scientifica esiste già consenso riguardo ad alcune modifiche. L’età minima di insorgenza dovrebbe essere portata a 4 anni, per tenere conto dell’ipogammaglobulinemia transitoria dell’infanzia(Chapel and Cunningham-Rundles, 2009; Cunningham-Rundles, 2010). La riduzione dei livelli di IgG necessaria per la diagnosi potrebbe esser fissata in 4,5 g/L. Una stratificazione dei pazienti a seconda dei livelli potrebbe essere utile perché solo in quelli con IgG>1,5 g/l è consigliabile valutare la risposta ai vaccini (Cunningham-Rundles, 2010).

La IDCV fa parte del gruppo delle sindromi da immunodeficienza, caratterizzate da un insieme di segni e sintomi dovuti a un deficit del funzionamento del sistema immunitario che si traduce in una aumentata suscettibilità alle infezioni in termini di frequenza, durata e gravità, in un maggior rischio di sviluppare alcuni tipi di neoplasie e aumento delle manifestazioni autoimmuni. Sotto questa definizione sono incluse più di 150 patologie con eziologia diversa e con pattern fenotipici diversi, distinte in forme primitive o congenite e secondarie o acquisite.

Le forme primitive sono caratterizzate da alterazioni geniche e si possono manifestare già in età neonatale ed infantile o più tardivamente, nell'età adulta.

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13 Sulla base della componente del sistema immunitario coinvolta, le immunodeficienze primitive vengono classificate in:

-Sindrome da alterazioni del sistema dei fagociti -Sindrome da alterazioni del Complemento -Sindromi da alterazioni dei linfociti B -Sindrome da alterazioni dei linfociti T

-Sindrome da alterazioni combinate di linfociti B e T.

Le immunodeficienze secondarie od acquisite sono le forme più frequenti nell'età adulta. La principale causa e’ la malnutrizione, seguita dalle infezioni, in particolare l'infezione virali (HIV, HTLV-1 o Virus T-linfotropico di tipo 1, morbillo), infezioni parassitarie (per esempio malaria nei bambini africani), i trattamenti chemio e radioterapici, le terapie con immunosoppressori per trapianti o malattie autoimmuni, metastasi e leucemie, malattie che provochino perdite di proteine, in corso di diabete, insufficienza renale cronica, insufficienza epatica, sindrome di Down e splenectomia.

Le possibili cause di ipogammaglobulinemia che devono essere escluse per poter formulare la diagnosi di IDCV sono molteplici; le principali sono:

A- Aumentata perdita:

B- Ridotta produzione: sindrome di Good (associazione di timoma e immunodeficienza) o altre immunodeficienze primitive quali:

1- Agammaglobulinemie come la agammaglobulinemia di Bruton, legata al sesso e dovuta ad una mutazione della tirosinchinasi BTK; agammaglobulinemie autosomiche recessive dovute a mutazioni nella catena pesante. In queste forme mancano completamente sia le cellule B in periferia che tutte le classi di immunoglobuline. Esistono però alcune mutazioni della BTK che consentono una minima trasmissione del segnale dal recettore di membrana delle cellule B, permettendo quindi la sopravvivenza di alcune cellule ed una minima produzione di anticorpi.

2- Difetti di ricombinazione che compromettono la sintesi di catene alfa e gamma, come si osserva nella sindrome da iper-IgM.

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Epidemiologia

Non ci sono dati precisi sulla prevalenza della IDCV ma si stima che sia compresa fra 1:10000 e 1:100000 abitanti. Le variazioni fra casistiche diverse sono probabilmente più rappresentative dell’efficacia dei sistemi di screening e della maggior conoscenza della malattia che non di una reale differenza di prevalenza fra popolazioni diverse. L’età di insorgenza dei sintomi è tipicamente bimodale, con due picchi nella prima e terza decade di vita (Cunningham-Rundles and Bodian, 1999). Il ritardo medio nella diagnosi è di 7,46 anni in una coorte europea di pazienti (Chapel et al. 1999) e di 8.9 anni in una coorte italiana (Quinti et al., 2007) e non si è assistito negli ultimi anni a nessuna riduzione significativa di questo valore. Sono quindi state lanciate campagne di informazione, al fine di ridurre il ritardo nella diagnosi e consentire una terapia in fase precoce di malattia, che possa prevenire almeno alcune delle complicanze.

Basi genetiche dell’IDCV

La IDCV è sporadica in circa il 90% dei casi, mentre nel 10% si osserva una familiarità. I primi studi che hanno dimostrato mutazioni associate alla malattia risalgono al 2003. Da allora, sono stati condotti numerosi studi su singoli geni cha hanno identificato mutazioni di geni codificanti recettori della famiglia del TNF (TACI e BAFF-R), componenti del recettore CD19 (CD19, CD21 e CD81) e del CD20. Sono stati anche identificati polimorfismi di geni coinvolti nel metabolismo del DNA (MSH5, MSH2, MLH1, RAD50, e NBS1). In seguito, sono stati condotti anche studi di associazione genome-wide (Yong et al. 2011).

Mutazioni di CD19, CD20, CD21 e CD81.

Il CD19 è coespresso con CD21 (entrambi antigeni di membrana specifici delle cellule) e con CD81 e CD225 sulla membrana delle cellule B mature. Il CD21 non comprende un domain intracellulare ed è legato al CD19; CD 19, CD81 e CD225 sono proteine transmembranarie che trasmettono un segnale insieme al B cell receptor, riducendo così la soglia di trasmissione del segnale a seguito del legame con l’antigene. In questo complesso recettoriale, CD21 costituisce un elemento di collegamento con l’immunità innata,essendo il recettore per il frammento C3d del complemento. Sono stati descritti casi di IDCV associati a mutazioni che provocano la mancata produzione di CD19. Questi soggetti hanno un numero normale di cellule B e sono in grado di formare centri germinativi, ma hanno un numero ridotto di cellule di memoria CD27+. Il difetto consiste

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15 nell’attivazione delle cellule B, in cui è stato dimostrato un ridotto influsso di Ca2+. Un quadro

clinico e immunologico simile è stato osservato in alcuni casi di deficit di CD81.

Le mutazioni del CD20 (peraltro descritte in un solo soggetto con riduzione dei livelli di IgG ma normali livelli di IgA e IgM) provocano un quadro simile dal punto di vista immunologico. Il CD20 è un antigene di differenziazione espresso dalle pre-B alle B mature ma perso dalle plasmacellule. Fa parte di un complesso di membrana che regola il trasporto del calcio e questo spiega il fenotipo simile osservato nelle mutazioni di CD19, CD20, CD81 e CD225: in tutti questi casi la patogenesi della IDCV è verosimilmente legata ad una compromissione dell’attivazione della cellula B legata ad alterato influsso di Ca2+

L’attivazione e maturazione della cellula B a seguito dell’impegno del recettore immunoglobulinico sono infatti strettamente dipendenti dal flusso di ioni calcio. E’ noto che, a seguito di crosslinking del recettore della cellula B, si ha fosforilazione della fosfolipasi Cgamma2 (PLCgamma2) da parte di Syk e Btk. La PLCgamma2 induce la generazione di inositolotrifosfato che provoca una transitoria liberazione di calcio intracellulare e un più sostenuto influsso di Ca2+ attraverso i canali

del calcio. In modelli murini, il deficit di PLCgamma2 influenza lo sviluppo delle cellule B al livello di B transizionali, riducendo la risposta anticorpale e la formazione di cellule di memoria. Mutazioni di TACI.

TACI e i suoi ligandi.

TACI appartiene alla famiglia dei recettori del TNF insieme al recettore per B cell activating factor (BAFF) e al B cell maturation antigen (BCMA). I ligandi di TACI sono BAFF ed APRIL, due membri della famiglia del TNF (Zhang Y et al., 2015). BAFF è prodotto da cellule mieloidi (monociti, macrofagi, neutrofili e cellule dendritiche) ma anche da cellule stromali, cellule B e T attivate; la sua produzione è regolata dagli estrogeni e da alcune citochine fra cui IFN alfa e gamma e TGFbeta. A livello di centro germinativo, il BAFF prodotto dalle cellule T helper follicolari ha un ruolo importante nella sopravvivenza di cloni B ad alta affinità. BAFF è prodotto come proteina di membrana che viene poi liberata dall’azione di una proteasi (furina) formando omotrimeri. Sia la forma di membrana che quella solubile sono attivi nell’indurre proliferazione delle cellule B, ma la forma trimerica solubile ha effetti molto più marcati. APRIL è anch’essa una proteina transmembranaria prodotta da cellule mieloidi ma la quota che rimane sulla membrana è, a differenza di BAFF, assolutamente minima. Come nel caso di BAFF, APRIL solubile forma

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16 omotrimeri, capaci anche di legarsi a eparansolfato-proteoglicani. Questi ultimi costituiscono una sorta di piattaforma strutturale per la polimerizzazione di APRIL, evento che potrebbe modificare l’attività della molecola. APRIL è anche capace di formare eterotrimeri con BAFF, che sono più frequentemente trovati nel siero di pazienti affetti da alcune malattie autoimmuni come artrite reumatoide e lupus sistemico. L’attività biologica degli eterotrimeri è inferiore agli omotrimeri ed è stato quindi ipotizzato che rappresentino un meccanismo di regolazione degli elevati livelli di BAFF osservati in queste malattie.

TACI è espresso dalle cellule B di memoria CD27+ (ma anche da alcune CD27-), da plasmacellule, monociti, cellule dendritiche e da una parte di cellule B naive nel sangue circolante e nelle tonsille. L’espressione di TACI è regolata da molti fattori ed si modifica in modo continuo. L’attivazione di TLR4, TLR7 o TLR9 come la stimolazione via CD40 ligand aumentano l’espressione di TACI, mentre IL-21 la riduce; anche l’attivazione della cellula B attraverso il B cell receptor aumenta l’espressione di TACI. TACI può anche essere “staccato” dalla membrana cellulare ad opera di una disintegrina e convertito in molecola solubile. Essendo capace di legare BAFF ad APRIL anche in fase fluida, antagonizza il signalling di questi due mediatori rappresentando quindi un meccanismo di controllo della loro attività.

TACI esercita diversi effetti sulle cellule B: ne promuove l’apoptosi (specie delle B del centro germinativo), inibisce la reazione del centro germinativo e la proliferazione B sopprimendo l’espressione di ICOS ligand sulle B, ma ne promuove anche la differenziazione a plasmacellule promuovendo l’espressione di Blimp.

TACI influenza anche l’ipermutazione somatica e lo switch di classe esercitando un effetto regolatorio sulla maturazione di affinità delle immunoglobuline. Nei topi knock out per TACI, le cellule B del centro germinativo vanno incontro ad un numero maggiore di cicli replicativi, raggiungendo un numero maggiore di mutazioni e dando luogo alla produzione di anticorpi con maggiore affinità per l’antigene. Nel topo è stato dimostrato anche che TACI, legando MyD88 e attivando la via di NF-kB, induce la trascrizione dei geni codificanti le regioni costanti degli anticorpi e l’espressione dell’enzima AID (activation induced cytidine deiminase). La stimolazione via TLR7 o TLR9, oppure l’attivazione del B cell receptor o del CD40 (quindi la costimolazione T) hanno un effetto sinergico con TACI sullo switch di classe.

TACI è fondamentale nella risposta ad antigeni T indipendenti di tipo 1 e 2, mediata soprattutto dalle cellule B della zona marginale e dalle cellule B1, che esprimono alti livelli di TACI. Anche la

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17 risposta ad antigeni T-dipendenti è influenzata da TACI: se nelle prime fasi della risposta, probabilmente per l’effetto sulla reazione del centro germinativo, anche i topi knock out per TACI sviluppano livelli anticorpali simili agli animali normali, nelle fasi successive il titolo anticorpale è molto più basso. Il meccanismo alla base di questa ridotta produzione di anticorpi in assenza di TACI è probabilmente l’apoptosi della plasmacellule dovuta all’espressione di BIM, che non è repressa da APRIL e BAFF per la mancanza di TACI. TACI regola quindi il numero di plasmacellule promuovendo attraverso Blimp-1 la maturazione delle B a plasmacellule e le mantiene in vita riducendo l’espressione della proteina pro-apoptotica BIM.

Mutazioni di TACI.

Mutazioni di TACI sono presenti in circa il 8,9% dei pazienti con IDCV. Sono state identificate diverse mutazioni di TACI, localizzate nella porzione extracellulare, transmembranaria o intracellulare, nella maggior parte dei casi a carico di un singolo allele ma circa un quinto dei casi bi-alleliche. La frequenza di mutazioni monoalleliche nei parenti sani di soggetti con IDCV suggerisce che in eterozigosi TACI possa essere un gene predisponente alla malattia. Tutti i soggetti con mutazioni bialleliche presentano invece deficit anticorpali, frequentemente associati a linfoproliferazione e a manifestazioni autoimmuni.

Mutazioni di BAFF-R

Mutazioni di BAFF-R sono state finora descritte in due soggetti, fratello e sorella; in entrambi la mutazione consiste in una delezione che compromette la sintesi della regione transmembranaria della proteina e porta ad una mancata espressione di BAFF-R in membrana. In entrambi i soggetti c’era riduzione dei livelli di IgG e IgM e linfopenia, caratterizzata da numero ridotto di cellule B della zona marginale e delle cellule di memoria; il quadro è suggestivo di un arresto maturativo delle cellule B a livello di cellule B transizionali.

Mutazioni di ICOS

ICOS appartiene ad una famiglia di molecole costimolatorie sulla membrana delle cellule T, che include CD28, CTLA-4 e PD-1, tutte capaci di legare ICOS ligand, espresso sulle cellule presentanti l’antigene incluse le cellule B. ICOS è espresso sulle cellule T attivate ed è implicato nella differenziazione delle T e nella produzione di citochine; fornisce inoltre segnali necessari alla produzione di anticorpi T-dipendenti. ICOS è importante per l’espansione clonale di Th2 effettori e fornisce segnali essenziali per la differenziazione delle T helper follicolari, critiche per la reazione

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18 del centro germinativo. La stimolazione di ICOS, infine, porta alla produzione di IL-10, importante per la proliferazione delle B e la differenziazione a B di memoria e a plasmacellule.

Sono state descritte diverse mutazioni di ICOS nei soggetti affetti da IDCV. La mutazione più frequente è un’estesa delezione; il secondo tipo di mutazione descritta è la delezione di una singola base che introduce uno stop codon su mRNA; entrambi i tipi di mutazione portano alla mancata espressione di ICOS sulle cellule. Dal punto di vista immunologico, nei soggetti portatori di queste mutazione il numero di cellule B naive è normale, ma le B di memoria class-switched sono ridotte. Il compartimento T mostra alterazioni diverse nei due tipi di mutazione. Nella delezione estesa, il numero di cellule T naive e di memoria è normale e non ci sono deficit nella produzione di citochine a seguito di stimolo con mitogeni o via TCR, ad eccezione di una ridotta produzione di IL-17 e IL-10. Nella mutazione puntiforme, le cellule T di memoria ed effettrici sono ridotte ed anche la produzione di citochine dopo stimolazione è deficitaria.

Mutazioni di Msh5 e altri geni implicati nella riparazione del DNA

Mutazioni nei geni codificanti Msh5 (proteina con un ruolo nella riparazione dei “mismatch” di DNA) e in altri geni codificanti proteine implicate nella riparazione del DNA sono state descritte nei soggetti con IDCV. A differenza delle altre mutazioni fin qui riportate, queste ultime sono presenti anche in soggetti affetti da deficit di IgA, una forma di immunodeficienza molto più frequente della IDCV.

Studi di associazione genome-wide

Poiché la maggior parte dei casi di IDCV sono sporadici, un importante contributo alla comprensione delle basi genetiche della malattia può provenire da studi di associazione su tutto il genoma utilizzando SNPs (single nucleotide polymorphisms). I primi studi di questo tipo hanno dimostrato un’associazione con la regione HLA (Orange JS, et al). Recentemente, un’ampia casistica di pazienti affetti da IDCV è stata tipizzata per una serie di SNPs selezionati per la loro associazione a malattie autoimmuni (Li 2015). E’ stata identificata un’associazione con il locus che codifica CLEC16, una lectina espressa su cellule dendritiche, cellule B e natural killer. Il potenziale ruolo di mutazioni in questa regione genetica è stato dimostrato sviluppando topi knock out per CLEC16: questi animali hanno un numero ridotto di cellule B e producono livelli elevati di IgM. Anche se il modello di knock out non riproduce completamente il fenotipo della IDCV, si dimostra

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19 comunque il coinvolgimento di CLEC 16 in circuiti immunoregolatori che possono essere rilevanti per l’immunodeficienza.

Immunopatologia

La IDCV è caratterizzata da alterazioni sia di tipo fenotipico che funzionale del sistema immune, innato e adattativo, che interessano principalmente ma non esclusivamente le cellule B.

Difetti delle cellule B

Il numero totale delle cellule B periferiche è lievemente ridotto nel 40-50% dei pazienti con IDCV. In alcuni, il numero può essere aumentato, in particolare in quelli che presentano infiltrazione linfoide policlonale negli organi e manifestazioni autoimmuni. In circa il 10% dei pazienti le cellule B sono ridotte o assenti, ed in questi la progressione di malattia è più rapida. L’ipogammaglobulinemia che caratterizza la IDCV è causata dal difetto di differenziazione delle cellule B a plasmacellule e cellule di memoria. La deplezione di plasmacellule negli organi linfoidi (midollo, tessuto linfatico associato all’intestino e linfonodi) è stata dimostrata da numerosi studi. Difetti delle cellule T

I pazienti con IDCV senza trattamento spesso presentano l'inversione del rapporto CD4/CD8 che sembra essere dovuto ad un decremento della quota CD4+ mentre la conta CD8+ sembra essere normale nella maggior parte dei pazienti (Giovannetti A, et al. 2007). Da questo studio è emerso che la maggior parte dei pazienti presenta multiple anormalità legate tra loro delle cellule T, la severità delle quali si rifletteva in una perdita parallela di linfociti T naive CD4+. Nella maggior parte dei pazienti con IDCV era presente una forte associazione tra il livello di CD4+ naive e le caratteristiche cliniche. È stato studiato in parallelo anche l'output timico, utilizzando come marcatore il CD3: in un subset di pazienti è presente una riduzione della produzione timica e un’alterazione del TCR dei linfociti T CD4 e CD8, in accordo con la perdita di linfociti T CD4+ naive. Valutando la produzione di citochine e i markers di attivazione, è stato osservato che i pazienti con IDCV avevano un elevato stato di attivazione legato però ad un parallelo aumento del turnover e dell'apoptosi dei linfociti T CD4+. Infine, lo studio ha comparato i profili di alterazione dei linfociti T naive CD4+ con la classificazione delle IDCV basata sulle switched memory B-cell con una concordanza del 58,8%.

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20 e virus dei CD4+ dei pazienti con IDCV mostrando che la funzione CD4+ è compromessa solo in risposta ad antigeni batterici (Perreau et al. 2014)

Difetti dell’immunità innata

In soggetti con IDCV e’ stato descritto un deficit delle cellule Natural Killer (NK) (riduzione quantitativa e funzionale), importanti componenti del SI poiché svolgono attività di regolazione mediante citochine oltre all’attività citotossica.

I polimorfonucleati dei pazienti con IDCV mostrano una risotta espressione di CD11b, CD16b e CD15, suggerendo che ci possono essere difetti della loro maturazione. Inoltre mostrano un calo nella capacità fagocitaria e nella produzione di ROS (Casulli et al. 2014)

Per quanto riguarda i monociti, questi in IDCV risultano essere fortemente attivati (Barbosa et al. 2012), con aumento della produzione di ROS e alti livelli di HLA-DR.. I pazienti con IDCV hanno invece, bassi livelli di cellule dendritiche e quelle residue hanno un'aumentata espressione delle molecole costimolatorie CD80 e CD 83.

Quadro clinico

L'esordio classico di malattia avviene con infezioni recidivanti quali otiti ( piu’ frequenti nei bambini) ed infezioni delle vie aeree (sinusiti, riniti, bronchiti e polmoniti) spesso causate da piogeni quali Haemophilus influenzae, Streptococcus pneumoniae, Streptococcus pyogenes,

Moraxella catarralis. Il polmone rappresenta il “tallone d'Achille” nella maggior parte dei pazienti con IDCV e si associa spesso a bronco pneumopatia cronica ostruttiva (BPCO) ed asma, con la costante presenza di secrezioni bronchiali che possono causare bronchiectasie. Possono presentarsi all’ esordio riesacerbazioni cutanee da infezione del virus Varicella Zoster.

Altrettanto frequenti (25%) sono le infezioni gastrointestinali che si manifestano con diarrea cronica, nausea, dolore addominale, gonfiore e perdita di peso fino a veri e propri quadri di malassorbimento. I patogeni più frequentemente implicati nelle infezioni gastroenteriche sono la Giardia lamblia, il Campylobacter e la Salmonella species.

Una quota significativa di pazienti puo’ presentare una patologia infiammatoria cronica intestinale quale Morbo di Crohn, rettocolite ulcerosa, iperplasia linfoide nodulare, enteropatia proteino-disperdente, linfoangectasia intestinale, malattia granulomatosa intestinale.

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21 Nel 10-22% dei casi si possono presentare infezioni ricorrenti delle vie respiratorie con associazione di malattia granulomatosa polmonare, caratterizzata dalla presenza di lesioni simil-sarcoidee. Le lesioni granulomatose possono essere presenti in altri come per esempio nel fegato e nei reni; tale coinvolgimento è indice di prognosi sfavorevole. La TC ad alta risoluzione rappresenta l’indagine strumentale fondamentale per la valutazione e il follow-up dell’ interessamento polmonare.

Altre manifestazioni sono: la presenza di febbre o febbricola ricorrente, linfoadenopatie dei distretti superficiali (laterocervicali, sopraclaveari, ascellari, inguinali) e profondi (linfonodi mediastinici, retroperitoneali, etc), epatomegalia, splenomegalia, bronchiectasie, epilessia, infezioni cutanee come la candidiasi cutanea cronica, le sepsi.

Più recentemente è stata riportata anche un alta incidenza di infezione da Helicobacter pylori (41%) associata a gastrite cronica attiva ed infezioni del tratto urogenitale da Mycoplasma hominis e Ureaplasma urealyticum. Complicanze infettive più rare osservate in singoli pazienti, riportate in letteratura, sono: meningite da H. influenzae, S. Pneumoniae, Listeria, osteomielite, artrite settica, parotite recidivante, pioderma gangrenoso, ascessi cerebrali da Nocardia, infezioni cutanee da anaerobi, ascesso polmonare da Cryptococcus neoformans, miocardite virale, infezione intestinale da Cytomegalovirus, polmonite da Mycobacterium avium, encefalite da virus del morbillo, infezione articolare da Mycoplasma, ascessi muscolari da E. coli e Bacteroides, aplasia eritroide da Parvovirus B19, infezione gastrointestinale da Histoplasma capsulatum.

In associazione ai sintomi e ai segni clinici sopra riportati, possono essere presenti concomitanti malattie autoimmuni, come la Porpora Trombocitopenica Idiopatica (ITP) e l’ anemia emolitica autoimmune (AIHA); a seguire possono essere presenti l’ Artrite Reumatoide (AR), l’ AR giovanile, la sindrome di Sjogren (SS), la Cirrosi biliare primitiva (CBP), Alopecia, anemia perniciosa, tiroidite autoimmune, neutropenia autoimmune, sindrome nefrosica, Lupus Eritematoso Sistemico (LES), Vasculiti, Dermatomiosite (DM), malattia celiaca, Polineuropatia assonale sensitivo-motoria, diabete mellito tipo 2, morbo di Addison, sarcoidosi. Queste patologie, in particolare ITP e AIHA, possono manifestarsi molti anni prima che il paziente presenti un corteo sintomatologico riferibile a IDCV.

I pazienti con IDCV hanno un aumentato rischio di sviluppare neoplasie: il 23 e il 100% di sviluppare linfoma Non-Hodgkin, 50% di sviluppare carcinoma gastrico, a seguire Linfoma di Hodgkin, Macroglobulinemia di Waldestrom, adenocarcinoma del colon.

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Tabella 1. Complicanze infettive in pazienti da IDCV

Diagnosi

Attualmente i criteri di diagnosi della IDCV sono quelli riportati dalla Società Europea per lo studio delle Immunodeficienze (ESID) nel 2014 (http://esid.org/Working-Parties/Registry/Diagnosis-criteria) che prevedono:

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23 Rispetto ai precedenti criteri elaborati nel 1999, è posto un accento maggiore sulle manifestazioni cliniche e sulla familiarità per immunodeficienza, che diventano necessarie per formulare una diagnosi “possibile” di IDCV, analogamente a quanto è stato stabilito per i parametri elaborati da Ameratunga et al nel 2013.

LUPUS ERITEMATOSO SISTEMICO (LES)

Il termine “lupus” è stato usato sin dal medioevo per definire le malattie ulcerative del volto. Ai primi del ‘900 fu osservato che alle manifestazioni cutanee potevano associarsi lesioni in altri organi come rene, cuore, articolazioni e così alla malattia fu aggiunto l’aggettivo ‘sistemico’. Nel 1948 Hargraves e coll. scoprirono le cellule LE, poi fu identificato il fattore LE e successivamente gli anticorpi anti nucleo. Queste scoperte ebbero un’importanza fondamentale nella storia del lupus eritematoso sistemico (LES). Infatti, esse rivelarono la natura autoimmune della malattia, fornendo peraltro un notevole contributo anche sul piano diagnostico.

Oggi il LES può essere definito come una malattia a patogenesi autoimmune e ad eziologia ancora sconosciuta, verosimilmente multifattoriale, cioè determinata da fattori ambientali (agenti infettivi, fisici e chimico-farmacologici) che scatenano una risposta immunitaria contro il self in soggetti geneticamente predisposti.

La malattia è molto variabile nella sua presentazione clinica ed è caratterizzata nel suo decorso da esacerbazioni e remissioni (Doria et al. 2007).

Epidemiologia e storia naturale.

La malattia colpisce soprattutto le donne (Tabella 2), con un rapporto femmine/maschi di 9/1, in giovane età (dai 25 ai 40 anni).

La mortalità è maggiore nei soggetti con interessamento del rene e del sistema nervoso centrale. Negli ultimi 40 anni la sopravvivenza è notevolmente aumentata: infatti, mentre nel 1950 era del 49% a 5 anni, studi recenti mostrano una sopravvivenza superiore all’80-90% a 10 anni.

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Tabella 2. Incidenza del LES

Rapporto M/F 1/9

Picco d'insorgenza Età fertile

Prevalenza -Caucasici -Asiatici -Afro-Caraibici 15-67/100.000 abitanti -20.3/100.000 -48.8/100.000 -207/100.000 Incidenza 1.8-7.6/100.000/anno Eziopatogenesi.

Il LES è una malattia multifattoriale in cui sono coinvolti fattori genetici, ambientali, ormonali ed immunologici (Pisetsky et al. 2008).

a) Fattori genetici

La suscettibilità genetica del LES è suggerita dai risultati di numerosi studi di aggregazione familiare, con una più alta incidenza tra i parenti di primo grado dei soggetti affetti, rispetto alla popolazione generale (Deng et al. 2010).

Tra gli alleli HLA di classe II i più importanti sembrano essere i DR e i DQ; in effetti, in molte popolazioni il LES è associato al DR2 e al DR3, mentre l’aplotipo esteso HLA A1, B8 e DR3 è frequente solo nella popolazione caucasica di origine nordeuropea.

Al di fuori del sistema HLA, i geni codificanti proteine complementari e recettori del complemento hanno un impatto importante sulla malattia, agendo sui meccanismi di clearance delle cellule apoptotiche e dei complessi immuni. I deficit congeniti di C1q, C4 e C2, per quanto molto rari, conferiscono infatti un rischio elevatissimo di sviluppare LES. Anche le variazioni del numero di

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25 copie di C4A (che varia da 2 a 6) possono essere rilevanti: un basso numero di copie del gene determina bassi livelli di C4 circolante e predispone al LES. Il danno da immunocomplessi si realizza soprattutto attraverso il reclutamento di cellule infiammatorie mediato dai recettori per Fcγed il polimorfismo di questi recettori (in particolare di FcγRIIA e FcγRIIB) è associato al LES e secondo alcuni studi alla severità di malattia ed in particolare all’impegno renale. Un altro gene coinvolto nella clearance degli immunocomplessi è ITGAM/CD11, codificante il recettore per C3b: anche il suo polimorfismo è associato alla malattia.

Nel LES, come nell’artrite reumatoide e nel diabete tipo I, si riscontra inoltre con aumentata frequenza una mutazione puntiforme del PTPN22 (Tyrosine-protein phosphatase non- receptor type 22), che influenza l’attivazione mediata dall’antigene del recettore di cellule T e B.

Si associano al LES anche polimorfismi di fattori di trascrizione come STAT4, IRF5 e IRF8 (coinvolti nella produzione di interferoni), di molecole costimolatorie come CTLA4 e TNFSF4, di molecole coinvolte nel signalling del recettore delle cellule B come BLK, LYN e BANK1 (Deng et al. 2010).

b) Fattori ambientali

L’ipotesi eziologica più accreditata prevede che fattori ambientali intervengano nell’indurre il LES in individui geneticamente suscettibili. I principali fattori esogeni coinvolti sono quelli infettivi, i farmaci e le radiazioni ultraviolette (UV).

Tra gli agenti infettivi, i virus sono i principali sospettati come agenti eziologici del LES, ma come in molte altre malattie autoimmuni vi sono solo evidenze indirette del loro coinvolgimento.

E’ stato dimostrato che numerosi farmaci possono indurre la malattia: quelli più frequentemente implicati sono la procainamide e l’idralazina. La variante clinica di lupus che i farmaci possono provocare viene definita “lupus da farmaci”.

Infine, come è stato recentemente osservato nei modelli murini, l’esposizione a raggi UV sembra alterare la struttura del DNA aumentandone l’immunogenicità.

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26 c) Fattori endocrini

A suffragio dell’importanza eziopatogenetica dei fattori endocrini, in particolare degli ormoni sessuali, stanno i rilievi epidemiologici e demografici che dimostrano la netta prevalenza del LES nel sesso femminile, in modo particolare nell’età fertile.

d) Fattori immunologici

Nel LES sono state descritte numerose anomalie del sistema immunitario. Il risultato finale di queste alterazioni è la produzione di autoanticorpi che sono reattivi verso antigeni propri dell’organismo.

A questo proposito, sono state avanzate alcune ipotesi, ognuna delle quali non esclude necessariamente le altre.

Una prima ipotesi prevede che i linfociti B siano stimolati in modo aspecifico, cioè subiscano un’attivazione policlonale.

Una seconda ipotesi suggerisce che la risposta immune sia direttamente stimolata dagli autoantigeni e quindi T-dipendente.

Nel LES si ritrovano due tipi di autoanticorpi:

1) diretti verso antigeni posti sulla superficie delle cellule

2) diretti verso antigeni circolanti con produzione di immunocomplessi circolanti (ICC) che si depositano nei tessuti causando infiammazione attraverso l’attivazione del complemento ed il richiamo di cellule fagocitiche. Le lesioni renali, cutanee, polmonari, sierose e probabilmente quelle del SNC sono prodotte da tale meccanismo.

I meccanismi patogenetici descritti sopra trovano conferma nelle lesioni istologiche, nei reperti immunoistochimici e nei test di laboratorio caratteristici del LES.

Il LES è un prototipo di malattia autoimmune in cui un ampio spettro di autoanticorpi, rivolti contro numerose specificità antigeniche, è associato ad una grande varietà di manifestazioni cliniche (Tabella 3).

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Tabella 3. Autoanticorpi e manifestazioni cliniche

Manifestazioni Percentuale cumulativa

Articolari(Artrite/artralgia) 90% Ematologiche -linfopenia -leucopenia -piastrinopenia -anemia emolitica 80% 50% 20% 10-15% Neuropsichiatriche 25-50% Febbre 40-80% Cutanee -lupus acuto -lupus discoide -lupus subacuto 65% 40% 15% 10% Polmonari -pleurite -polmonite 40% 10% Renali -proteinuria -sindrome nefritica 31% 28% Cardiache -pericardite -miocardite -endocardite 10-50% 10-15% 5% Laboratorio -ANA -anti-nucleosoma -anti-nDNA -anti-nRNP -anti-Sm -anti-SSA -anti-fosfolipidi 96% 72% 70% 35% 15% 30% 38% Diagnosi di laboratorio. a) Generale

Oltre alle alterazioni bio-umorali che accompagnano i vari impegni d’organo nei pazienti affetti da LES vi sono alcuni reperti patologici che nel loro insieme delineano un quadro caratteristico della malattia e possono essere quindi utili per la diagnosi.

Tra gli indici di flogosi, la VES è costantemente elevata ed in molti pazienti rientra nella norma con la remissione clinica della malattia. La PCR è invece normale anche nei pazienti in fase attiva e

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28 aumenta solo nel caso di complicanze infettive. La PCR è quindi utile nella diagnosi differenziale della febbre nei pazienti con LES. Infatti, se la febbre è dovuta alla malattia la PCR è normale o poco aumentata, se è dovuta ad una complicanza infettiva la PCR è sempre elevata.

Un’ipergammaglobulinemia policlonale che interessa una o più classi immunoglobuliniche si osserva nell’80% dei pazienti. Il fattore reumatoide è aumentato nel 14% dei casi e le crioglobuline di tipo misto IgG-IgM si possono osservare nell’11% dei casi. Comune è anche il riscontro di immunocomplessi circolanti e la riduzione dei livelli di complemento sierico spesso in concomitanza con le fasi di attività della malattia.

b) Immunologico

Anticorpi anti nucleo

Gli autoanticorpi antinucleo (ANA) sono positivi nel 96% dei casi. La positività per gli ANA non è specifica del LES e può essere rilevata anche in altre connettiviti, in malattie infettive e nel 3-5% dei soggetti normali. Il test di screening per gli ANA è l’immunofluorescenza indiretta (IFI) su sezioni di fegato e di rene di ratto. Attualmente le sezioni tessutali sono state sostituite da linee cellulari; la più usata è quella che deriva da carcinoma laringeo umano (Hep-2). Il test per la determinazione degli ANA soffre di un certo margine di soggettività nella lettura ed i titoli anticorpali possono variare tra i diversi laboratori in relazione al tipo di substrato utilizzato (Bizzaro et al. 2004).

La positività degli ANA è caratterizzata da diversi quadri fluoroscopici. Su tessuto i quadri distinguibili sono cinque: omogeneo, punteggiato a fini grani, punteggiato a grossi grani, periferico e nucleolare.

Quando vengono impiegate le colture cellulari i quadri fluoroscopici sono più numerosi in considerazioni soprattutto della maggior ricchezza di antigeni nucleari. I più comuni sono: punteggiato a grossi grani, punteggiato a fini grani, nucleolare, a punti luminosi, omogeneo, di membrana (a granuli o diffuso) e centromerico.

Il pattern fluoroscopico può essere utile dal punto di vista diagnostico, ma non esiste una stretta associazione tra questo e precise specificità anticorpali; inoltre più pattern possono essere dimostrati

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29 in uno stesso siero a diluizioni diverse. I quadri ANA di più frequente riscontro nel LES sono l’omogeneo ed il membranoso presenti tra il 90-100% dei casi.

Oltre alla determinazione degli ANA va sempre eseguita la ricerca degli anticorpi anti-DNA e degli anti-ENA (Extractable Nuclear Antigens: antigeni nucleari estraibili).

Anticorpi anti-DNA

All’interno del gruppo degli anticorpi anti-DNA vi è una e distinzione tra gli anticorpi anti-DNA nativo o a doppia elica dsDNA) e gli anticorpi anti-DNA denaturato o a singola elica (anti-ssDNA). La specificità degli anticorpi anti-dsDNA può essere rappresentata dallo scheletro di desossiribosio e fosfato che rimane esposto nella doppia elica, come epitopo lineare o conformazionale, qualora gli anticorpi vadano ad inserirsi nelle tasche formatesi dal ripiegamento dell’elica. La specificità degli anticorpi anti-ssDNA può essere rappresentata, invece, dallo scheletro di desossiribosio e fosfato o dalle basi azotate. Queste 2 classi, tuttavia, pur essendo in parte sovrapposte dal punto di vista biochimico, sono completamente diverse dal punto di vista diagnostico e prognostico. Gli anticorpi anti-ssDNA, infatti, sono presenti al alti titoli nei pazienti con LES, ma non possono essere considerati anticorpi marker, poiché positivi anche in numerose altre condizioni. Gli anticorpi anti-dsDNA, al contrario, sono considerati anticorpi marker perché, pur essendo presenti a titoli più bassi rispetto agli anti-ssDNA, sono pressoché esclusivi del LES. Gli anti-dsDNA si determinano con l’IFI, utilizzando come substrato antigenico la Crithidia luciliae (un protozoo emoflagellato il cui kinetoplasto è ricco di DNA nativo e non complessato con istoni), con il metodo radioimmunologico (tecnica di Farr), od immunoenzimatico (Aarden et al. 1975; Haugbro et al. 2004).

Gli anticorpi anti-dsDNA sono rilevabili in circa il 50-70% dei pazienti con LES e sono presenti ad alti titoli nei pazienti con glomerulonefrite.

Anticorpi anti-ENA

Fra gli anticorpi contro antigeni nucleari estraibili (ENA), si distinguono specificità diverse di cui, nel contesto del LES, le più rilevanti sono: anticorpi Sm, anticorpi RNP, anticorpi anti-SSA e anticorpi anti-SSB (Damoiseaux et al. 2006). Gli anticorpi anti-Sm sono anticorpi diretti contro proteine complessate con almeno 6 molecole di RNA nucleare a basso peso molecolare. Sono specifici del LES, anche se presenti con frequenza non molto elevata. Gli anticorpi anti-RNP sono specifici per complessi ribonucleoproteici, costituiti da 2 proteine e un solo tipo di RNA ricco

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30 di uridina (U1RNA), che compone, in parte, anche l’antigene Sm. Sono presenti con maggiore frequenza rispetto agli anti-Sm, ma non sono specifici. Gli anticorpi anti-ENA possono essere determinati con metodiche di immunoblotting oppure con ELISA.Tra gli anticorpi anti-ENA, gli nRNP sono stati descritti mediamente nel 30% dei pazienti, gli Sm nel 15%, gli anti-Ro/SSA nel 40% e gli anti-La/SSB nel 20%.

Gli anticorpi anti-P ribosomiali sono presenti nel 5-15% del LES e correlano con l’attività di malattia, con il raro interessamento epatico e secondo alcuni studi anche con le manifestazioni neurologiche.

Anticorpi anti-C1q

Gli autoanticorpi anti C1q sono un tipo di anticorpi frequentemente riscontrati nel siero di soggetti affetti da Lupus Sistemico (Kouser et al. 2015). Sono presenti sopratutto nei pazienti con danno renale in corso di LES. Pertanto, il dosaggio nel siero di queste immunoglobuline costituisce un marker prognostico di malattia.

Il C1q è una glicoproteina di 460 Kda esamerica le cui subunità sono costituite da tre catene polipeptidiche che presentano all'estremità N-terminale una porzione con struttura similcollagene e al C-terminale un dominio globulare. La parte globulare della molecola interagisce con numerosi ligandi probabilmente riconoscendo dei cluster o pattern di cariche. I ligandi del C1q includono IgG, IgM, proteina C reattiva, HIV-1, HTLV, fosfatidilserina; attraverso la parte similcollagene lega serinproteasi quali C1r e C1s, attivando così la via classica del complemento, e riconosce anche recettori quali cC1qR (o calreticulina) e gC1qR. Ogni regione Fc ha un singolo sito di legame per C1qed ogni molecola di C1q deve legare almeno 2 Fc per essere attivata: questo spiega perché solo anticorpi legati all’antigene (quindi immunocomplessi) e non anticorpi liberi attivino la via classica del complemento. I 2 recettori del C1q hanno specificità e funzioni multiple. La calreticulina fa parte del complesso recettoriale CD91, di cui fa parte una catena beta transmembranaria coinvolta nel signalling. Il complesso C1q/cC1qR/Cd91 che si forma sulla superficie delle cellule apoptotiche può essere riconosciuto dalle cellule dendritiche immature. L’altro ligando che il C1q riconosce sulle cellule apoptotiche è la fosfatidilserina. La deposizione di C1q sulle cellule apoptotiche ne favorisce l’eliminazione ad opera di macrofagi e cellule dendritiche. Infatti in condizioni di deficit di C1q si osserva un accumulo di materiale apoptotico la cui clearance è marcatamente ridotta. Tale accumulo rende più probabile la fagocitosi delle cellule apoptotiche da parte di cellule dendritiche mature, capaci di presentare auto antigeni a cellule T autoreattive innescando meccanismi di risposta autoimmuni. Il C1q può essere coinvolto nel

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31 mantenimento della tolleranza al self anche attraverso altri meccanismi. Infatti, recettori per C1q sono presenti su cellule B mature e immature e il legame della proteina alla membrana delle cellule B favorisce la loro differenziazione e la produzione di IgM e IgG. Un ruolo più critico è quello esercitato sulle cellule dendritiche, di cui viene modulata la differenziazione e l’attivazione.

I rapporti fra C1q e autoimmunità sono quindi multipli e spiegano i quadri che si osservano in condizioni di deficit di questa proteina del complemento . I rarissimi soggetti che presentano un deficit in omozigosi di C1q sono affetti da una forma congenita e severa di lupus sistemico. Topi knock out per C1q riproducono perfettamente questo quadro, essendo caratterizzati da una glomerulo nefrite proliferativa da deposito di immunocomplessi e dalla produzione di autoanticorpi tipici del lupus. La ridotta clearance di materiale apoptotico e la disregolazione delle cellule dendritiche sono la causa di questo quadro di lupus congenito. Un altro meccanismo coinvolto è l’interferenza con la eliminazione delle cellule B autoreattive. Le B immature esprimono un complesso recettoriale formato da CR2, CD81 e CD19. Se il materiale apoptotico non ha sulla superficie una quantità sufficiente di frammenti del complemento (come si verifica in carenza di C1q) il recettore non viene impegnato e la cellula B autoreattiva non viene deleta.

Il sistema del complemento risulta coinvolto nello sviluppo del lupus eritematoso sistemico, in un duplice ruolo (Leffler et al. 2014). Da un lato la fissazione del complemento da parte di autoanticorpi e immunocomplessi induce danno, dall’altro la funzione del C1q nella rimozione di materiale apoptotico ha un ruolo protettivo nello sviluppo della malattia. In molti soggetti affetti da Lupus

sistemico si osserva infatti ipocomplementemia, legata al consumo di complemento da parte degli immunocomplessi. D’altra parte, soggetti con deficit in omozigosi di C1q sviluppano una sintomatologia simile al Lupus, provocata da una compromissione dei meccanismi di eliminazione delle cellule apoptotiche, con accumulo di autoantigeni che stimolano la produzione di autoanticorpi. Il C1q è esso stesso un auto antigene e gli autoanticorpi diretti contro il C1q possono produrre un effetto simile al deficit congenito, riducendo i livelli della molecola e creando un deficit acquisito.

Gli autoanticorpi anti-C1q nel LES sono diretti contro il dominio simil-collagene; sono principalmente IgG e in massima parte appartengono all'isotipo IgG1 ma sono prodotte anche IgG2,IgG4 e IgG3. Nei pazienti la prevalenza di autoanticorpi anti C1q oscilla tra il 20 e il 50% a seconda del metodo impiegato e dalla tipologia dei pazienti.

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32 I livelli più alti di anti-C1q si osservano nei soggetti con interessamento renale, in cui è presente una marcata ipocomplementemia.

In particolare, gli anticorpi anti-C1q sono associati a forme proliferative di nefrite con depositi di immunocomplessi sottoendoteliali. Gli autoanticorpi anti-C1q contribuiscono alla formazione e al mantenimento di questi depositi sottoendoteliali: legandosi ad immunocomplessi già depositati nella membrana basale del glomerulo renale, gli anticorpi anti-C1q ne aumentano la dimensione e ne amplificano la capacità di fissare il complemento incrementandone il potenziale patogeno.

Altri autoanticorpi

Nel lupus sono state descritte oltre 100 diverse specificità anticorpali. La Tabella 4 riporta la frequenza dei vari tipi di autoanticorpi nel lupus, in una variante di malattia indotta da alcuni farmaci e in una malattia autoimmune sistemica meno grave (la connettivite mista) che ha alcune caratteristiche cliniche a comune con il lupus ma è totalmente diversa per quanto riguarda le specificità anticorpali.

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