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"Profili processuali nel coordinamento tra separazione e divorzio alla luce della legge sul divorzio breve."

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Academic year: 2021

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PREMESSA

Il presente lavoro nasce con l’intento di mostrare l’interesse pres-soché immediato che ho avuto per il diritto processuale civile, nel caso specifico per la materia del processo di famiglia. La tematica da me ana-lizzata è quanto mai attuale, poiché si tratta di un problema che ancora non ha visto una risoluzione, anche se sono state tentate varie autorevoli vie per cercare di arginarlo: mi riferisco al fenomeno di contemporanea pendenza dei processi di separazione e divorzio, dunque alla necessità di individuare una modalità di coordinamento tra gli stessi, tenendo sem-pre a mente che siamo in sem-presenza di due processi distinti, aventi oggetti distinti. Ciò che mi prefiggo è di effettuare una panoramica attenta e precisa riguardo l’argomento e le possibilità avanzate da dottrina e giu-risprudenza, in assenza di una specifica soluzione legislativa che dica come comportarsi sul punto, tutto ciò inserito nel vasto e molteplice con-testo dell’esperienza della separazione e del divorzio, in costante evolu-zione e in continuo dialogo tra loro. In ragione di ciò è a mio parere inevitabile partire dalle solide basi offerte dal diritto sostanziale relati-vamente ai due istituti e agli effetti loro propri, per poi addentrarsi nel vivo della questione e considerare il problema dal punto di vista proces-suale, quindi le difficoltà che comporta e gli istituti che intacca, assieme alle soluzioni offerte da più parti, infine è doveroso volgere uno sguardo al futuro, cercando di scrutare, in una prospettiva “de iure condendo”, quali saranno le prossime sorti della tematica, e considerando anche la recente novella in materia di unioni civili e convivenze, la legge del 20 maggio 2016 n. 76.

Più approfonditamente, la mia tesi tenta di raggiungere l’obbiet-tivo di descrivere un aspetto che ritengo tanto affascinante quanto com-plicato: il legame che intercorre tra il diritto e il processo. Cinque anni

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fa lessi un libro che mi toccò, ma che non riuscii a comprendere piena-mente; anche rileggendolo oggi so con certezza che qualcosa mi sfugge, che qualcosa mi sfuggirà sempre, ma so anche che ogni volta che lo andrò a rileggere sarò assistita da occhi differenti e più consapevoli: quel libro è “Il mistero del processo”, di Salvatore Satta, cioè una raccolta di cinque saggi che Satta scrisse tra il 1949 e il 1958. Uno di essi, “La tutela del diritto nel processo”, ha suscitato più degli altri la mia atten-zione. Egli avvia lo scritto affermando che da qualche tempo nel conte-sto processuale aleggia una certa tristezza, “un’intima angoscia”, che può ben trovare la propria spiegazione nella tutela che viene apprestata nei confronti del diritto all’interno del processo. Ebbene Satta ritiene che il diritto, così come il processo, stiano attraversando una crisi, e in modo molto intuitivo egli sottolinea come la crisi in realtà sia propria dell’in-dividuo, in quanto il processo altro non è che un’astrazione, una perso-nificazione per rappresentare invece un’attività propriamente umana, nella specie un’attività svolta da un giudice, quindi saremo in presenza di una crisi della figura del giudice. Di seguito egli procede ad affrontare un’analisi limpida, scomposta in due parti, del giudice, spiegando me-glio cosa si intenda con la sua crisi. Tale saggio venne letto durante il Congresso internazionale di diritto processuale civile che si tenne a Fi-renze nel 1950, e l’autore si curò di sottolineare il motivo per cui veniva affrontato un simile tema in una tale occasione: “Quella naturale scis-sione che il processo comporta fra il diritto e la sua tutela, e che in tempi tranquilli la coscienza facilmente compone nella certezza di una fonda-mentale verità, oggi ha generato in una dissociazione (mutuo il termine dalla psichiatria) fra diritto e processo, con la fatale conseguenza che il processo non ci appare più in funzione del diritto, ma il diritto in fun-zione del processo, e il processo ormai come l’unica sconsolata realtà nella quale si risolve quella vana astrazione che si chiama diritto. È di fronte a questo dramma di spiriti e di cose, che noi processualisti, noi

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che nel fondo dell’anima sentiamo sempre nel processo un valore, vo-gliamo che sia ancora un valore, ci poniamo oggi il problema della tu-tela del diritto nel processo. Questa formula acquista in tal senso, come si vede, una diversa portata, prende quasi il significato di tutela del di-ritto contro il processo. Il che sarebbe, per la verità, il più strano tema che un congresso di processualisti potrebbe proporsi, se non apparisse chiaro che solo con la tutela del diritto si salva il processo, e quella che noi chiamiamo tutela del diritto è in realtà tutela del processo.” La com-plementarietà che emerge tra diritto e processo in queste parole mi ha sempre colpita, e certamente al termine dei miei studi riesco a compren-dere meglio, anche se non ancora del tutto, la rilevanza della sua portata. Il processo è uno strumento fondamentale per il diritto, per la sua tutela, e solo attraverso la tutela del processo possiamo ottenere la tutela del diritto, e viceversa. Si tratta di uno schema semplice, circolare, ma la crisi di cui parlava Satta forse, solo forse, era fondata e continua a pro-filarsi ai giorni nostri, nel momento in cui scriviamo le leggi, ma anche, non in secondo luogo, nel momento in cui andiamo ad apprestare tutela in un tribunale, rendendo un giudizio.

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CAPITOLO I

INTRODUZIONE SU ELEMENTI DI NATURA SOSTANZIALE

1. Evoluzione storica dei due istituti: la nascita della significativa legge n. 898/70.

Era il 1° dicembre 1970 quando la storia italiana fu segnata da un importante evento nella vita personale e pubblica dei cittadini: l’in-troduzione della legge sul divorzio.

La legge 898/70, “Disciplina dei casi di scioglimento del matri-monio”, la cosiddetta legge Fortuna-Baslini, dalla collaborazione tra i due deputati Loris Fortuna, deputato del Partito Sociale Italiano e Anto-nio Baslini, deputato del Partito Liberale Italiano, certamente ebbe il merito di dare un contenuto di modernità al nostro ordinamento che in passato aveva mostrato plurime difficoltà nell’accogliere questo fonda-mentale passo in avanti. Prima della sua emanazione infatti l’unica so-luzione possibile a fronte dell’indissolubilità del matrimonio era data dalla facoltà dei coniugi di chiedere la separazione personale come ri-medio per fatti che avessero reso intollerabile la convivenza o avessero recato pregiudizio ai figli, oltre al procedimento di annullamento del matrimonio facendo appello alla Sacra Rota Romana, previsto per cause specifiche come dolo, errore, incapacità, simulazione, impotenza ed omosessualità ma allo stesso tempo molto lungo e costoso. E’ tuttavia interessante notare come già prima dell’introduzione del divorzio, es-sendo il codificatore del 1940 di stampo più liberale che cattolico, tra-mite il disposto di cui all’articolo 1891 delle disposizioni di attuazione

1 Art 189 Disp. Att. C.p.c “Provvedimenti relativi alla separazione personale dei

co-niugi”: “L’ ordinanza con la quale il presidente del tribunale o il giudice istruttore dà i provvedimenti di cui all’articolo 708 del codice costituisce titolo esecutivo. Essa con-serva la sua efficacia anche dopo l’estinzione del processo finché non sia sostituita con

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del codice di procedura civile fosse possibile instaurare una sorta di di-vorzio di fatto tra i coniugi che una volta ottenuti i provvedimenti del procedimento di separazione nella fase presidenziale decidevano di fer-marsi e non proseguire nella fase di merito, rendendo stabili e inalterati gli effetti di quei primi provvedimenti e creando così una separazione duratura nel tempo.

In altri ordinamenti la strada intrapresa fu differente dalla nostra. In Inghilterra l’istituto del divorzio venne introdotto con il “Ma-trimonial Causes Act” del 1857, ed era sottoposto ad un controllo eccle-siastico dato che veniva amministrato dalla Chiesa d’Inghilterra, inoltre si trattava di una procedura molto costosa alla quale solo la classe bene-stante poteva accedere. Con il “Matrimonial Causes Act” del 1937 il divorzio divenne poi accessibile anche alle donne. Infine con il “Matri-monial Causes Act” del 1973 troviamo la disciplina definitiva che pre-vede il divorzio per adulterio, comportamenti irragionevoli, scomparsa di due anni, separazione consensuale e separazione giudiziale2.

In Germania invece il divorzio venne introdotto assieme al ma-trimonio civile nel 1875 nel Deutsches Reich (Regno Tedesco). Un passo importante si ebbe con la riforma del 1976 che vide il passaggio dal divorzio per colpa al divorzio per disgregazione; come ulteriori cause per presentare domanda di divorzio nell’ordinamento tedesco tro-viamo il fallimento della società coniugale, il venire meno della comu-nione matrimoniale e la ferma volontà di non ricomporla, la separazione di un anno di mensa e di letto. Dopo tre anni di separazione è possibile ottenere il divorzio anche senza il consenso del coniuge e senza la di-chiarazione dei motivi suddetti.3

altro provvedimento emesso dal presidente o dal giudice istruttore a seguito di nuova presentazione del ricorso per separazione personale dei coniugi.”

2 Art 1: “Divorce on breakdown of marriage”, Part I, “Divorce, nullity and other

mat-rimonial suits”, Matmat-rimonial Causes Act, 1973.

3 T. M PAVESE, Studi sociali e giuridici, Parte Seconda:“Regime della famiglia: sul

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Un illustre esempio, e per il nostro ordinamento molto significa-tivo, è offerto dal Codice Napoleonico o Code civil des Français, pro-mulgato nel 1804 da Napoleone Bonaparte e destinato ad avere una forte influenza nel resto dell’Europa del tempo, tanto che nel 1809 entrò in vigore nel Regno di Napoli, attraverso l’impegno di Gioacchino Murat, molto vicino all’idea del Codice in quanto marito di Carolina Bonaparte e quindi cognato di Napoleone.

Il Code Napoléon si caratterizzò per essere un testo estrema-mente moderno e innovatore, voce dello spirito illuminista che aveva animato gli anni passati. In questo contesto venne dunque introdotto l’istituto del divorzio e del matrimonio civile, istituti che nel nostro or-dinamento non tardarono di ricevere critiche da parte di varie correnti politiche conservatrici nonché del clero. Ne derivò una mancata appli-cazione della norma, con un numero di divorzi ottenuti pressoché nullo, anche perché i giudici venivano minacciati di scomunica qualora aves-sero reso possibile lo scioglimento del matrimonio, inoltre le condizioni per richiederlo erano molto pesanti: nel caso di divorzio consensuale, oltre il consenso dei genitori occorreva il consenso dei nonni, e se questi risultavano defunti, era necessario allegare l’atto di morte.

A seguito dell’Unità d’Italia si assistette ad alcuni tentativi d’in-troduzione di una legge sul divorzio: inizialmente nel 1878, da parte del deputato Salvatore Morelli, poi nel 1892 per opera dell’onorevole Villa, ancora nel 1902, durante il Governo di Giuseppe Zanardelli, venne pre-sentato un disegno di legge per il divorzio in caso di sevizie, adulterio, condanne gravi ed altro; ma in tutti questi casi non si raggiunse l’appro-vazione.

Al termine della prima guerra mondiale si ebbe un dibattito a riguardo tra socialisti e Partito popolare italiano, fino ad arrivare all’av-vento di Mussolini e alla presa di posizione contraria sancita attraverso la stipulazione con la Chiesa dei Patti Lateranensi, nel 1929.

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Il secondo dopoguerra rappresentò il momento per analizzare nuovamente l’argomento e, dopo un primo tentativo realizzato nel 1954 da Luigi Renato Sansone con l’elaborazione del cosiddetto “piccolo di-vorzio”, esperibile tuttavia solamente in presenza di alcune circostanze: laddove uno dei coniugi fosse scomparso senza lasciare traccia, in caso di condanna a lunga pena detentiva, nel caso in cui il coniuge straniero avesse contratto divorzio all’estero, in presenza di malattia di mente, dinanzi a lunghe separazioni tra i coniugi o a tentato omicidio del co-niuge. Esso non andò tuttavia a buon fine, si approdò allora nel 1969 ad un progetto di legge presentato dal deputato socialista Loris Fortuna e alla formazione di una Lega italiana per l’istituzione del divorzio (LID). Fu così che, con i due progetti di legge presentati prima da Fortuna, poi anche da Baslini, il 1° dicembre 1970 venne approvata la legge che prese il nome di “Disciplina dei casi di scioglimento di matrimonio”, e l’Italia fece un grande passo in avanti.

La fazione antidivorzista ancora presente cercò tuttavia di far sentire la propria voce tramite la richiesta di referendum per l’abroga-zione del divorzio depositata presso la Corte di Cassal’abroga-zione nel gennaio del 1971. L’esito del Referendum, che si tenne il 12 maggio 1974, rivelò un’Italia pronta ad evolversi verso le forme richieste ad un paese demo-cratico e scelse quindi di mantenere il divorzio, anche se le percentuali delle votazioni, 59, 26% contrari e 40, 74% a favore dell’abrogazione della legge, mostrarono che esisteva ancora una rilevante componente di chi si opponeva al nuovo istituto e quindi si schierava per la sua abro-gazione.

Una volta superato l’ostacolo referendario, le tappe che scandi-rono la vita della separazione e del divorzio fuscandi-rono molteplici, in linea con l’esigenza di un continuo adattamento alla realtà sociale: già nel corso dell’anno successivo con la legge n. 151/1975 si ebbe un’impor-tante riforma del diritto di famiglia, destinata a mutare per sempre la concezione di famiglia che si aveva prima di allora e il ruolo delle parti

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familiari: tale legge ebbe infatti il merito di introdurre una serie di im-portanti innovazioni tra cui il passaggio dalla potestà del marito alla po-testà condivisa tra i coniugi, l’introduzione del concetto di eguaglianza coniugale, la nascita del regime patrimoniale della famiglia, con la scelta tra separazione dei beni o comunione legale, la modifica della separa-zione per colpa con la separasepara-zione per intollerabilità della prosecusepara-zione della convivenza. Successivamente vennero emanate le riforme che ri-guardarono più da vicino l’istituto divorzile nel 1978 e nel 1987; quest’ultima fu molto significativa avendo gettato le basi per poter assi-milare i due procedimenti, permettendo d’impiantare le norme previste per il procedimento di divorzio all’interno del precedente giudizio di se-parazione.

Infine le riforme del nuovo millennio che investirono la materia furono la legge n. 80/2005 e legge n. 263/2005, ancora la legge sull’ “affido condiviso” n. 54/2006, la legge n. 219/2012 e il dlg n. 154/2013 in materia di filiazione, la legge n. 162/2014 avente ad oggetto la nego-ziazione assistita, fino ad arrivare alla legge n. 55/2015: la legge sul di-vorzio breve.

2. Caratteristiche sostanziali della separazione e del divorzio.

Separazione e divorzio da sempre hanno intrecciato tra loro rap-porti molto peculiari: concepiti in modo autonomo fin dalla loro inziale elaborazione normativa per poi proseguire nello svolgimento concreto dei procedimenti, nonché nei contenuti propri dei diversi provvedimenti, presentano tuttavia un aspetto di dialogo continuo, a significare che l’esistenza dell’uno è, almeno nel nostro ordinamento, ancora stretta-mente legata all’esistenza dell’altro.

Prima di soffermarci sulle problematiche sollevate alla luce di questo rapporto dal diritto processuale, è necessario, giacché tra diritto sostanziale e processuale deve almeno teoricamente essere rispettata

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un’idea di complementarietà, analizzare più approfonditamente le carat-teristiche che i due istituti presentano sul piano del diritto sostanziale, per poi considerare i riflessi che la disciplina ha proiettato sulle regole del processo.

Il punto di partenza è rappresentato da ciò che in realtà è il punto di arrivo, il fine di separazione e divorzio: mentre la prima ha come obiettivo la sospensione o la modificazione dei diritti e doveri nascenti dal matrimonio, il secondo si prefigge invece l’estinzione degli effetti giuridici derivanti dal matrimonio. Gli effetti sono diversi perché la se-parazione è prodromica rispetto al momento del divorzio, essa possiede il compito di preparare le parti spiritualmente e giuridicamente alla fase successiva, mentre il divorzio rappresenta la maturazione dell’ultima volontà che si esplica nel porre fine al rapporto matrimoniale. L’ele-mento in comune è dato dalla crisi familiare, si badi bene, una crisi fa-miliare che presenta comunque presupposti differenti per il suo verifi-carsi. Ai sensi dell’articolo 151, 1° comma del codice civile il presup-posto sostanziale per richiedere la separazione giudiziale con ricorso da parte di uno dei due coniugi si ravvisa nel realizzarsi di fatti:” tali da rendere intollerabile la prosecuzione della convivenza; o da recare grave pregiudizio all’educazione della prole”. L’ampio concetto di “in-tollerabilità della convivenza” è stato inteso da dottrina e giurisprudenza in due modi: secondo una concezione soggettivistica sarebbe precluso al giudice di entrare nel merito nella valutazione dei comportamenti ostativi alla prosecuzione del rapporto matrimoniale; secondo invece una concezione oggettivistica, peraltro espressione dell’orientamento prevalente, è rimessa al giudice la valutazione obiettiva dei parametri sociali e del fatto posto in essere da uno dei coniugi come intollerabile ai fini della prosecuzione del matrimonio. Accanto a queste imposta-zioni si affianca poi una tesi intermedia che ritiene il giudice legittimato ad operare una valutazione di merito non tenendo conto della

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zione sociale del fatto, ma dell’accordo stipulato dai coniugi sull’indi-rizzo della vita familiare; in questa interessante lettura assumono rile-vanza gli specifici valori che le parti hanno deciso di fare propri piutto-sto che il sentire comune della società, ad esempio l’obbligo di fedeltà può assumere un significato più o meno forte a seconda dell’indirizzo matrimoniale che è stato personalmente scelto. Infine il secondo presup-posto riguardante il grave pregiudizio arrecato all’educazione della prole acquista una valenza particolarmente oggettiva nella misura in cui per ottenere la separazione in questo specifico caso non è necessario di-mostrare una diretta incidenza sull’intollerabilità della convivenza tra i genitori.

La separazione può anche assumere le forme di una separazione consensuale, in questo caso vi è accordo tra i coniugi all’ottenimento della stessa e dal punto di vista del diritto sostanziale esso è un negozio bilaterale di diritto familiare. Il momento finale è dato dal decreto di omologazione e prima di esso ciascun coniuge può revocare il proprio consenso all’accordo.

Ai sensi dell’articolo 3 n. 1 l. a), b), c), d) e 2 l. a), b), c), d), e), f), g) della legge n. 898/1970, la legge sul divorzio, le ipotesi tassative che permettono a uno dei due coniugi di presentare con ricorso domanda di divorzio sono: “Accertamento giudiziale di fatti aventi una particolare rilevanza penale, commessi dall’altro coniuge; condanna all’ergastolo ovvero ad una pena superiore ad anni quindici, anche con più sentenze, per uno o più delitti non colposi, esclusi i reati politici e quelli commessi per motivi di particolare valore morale e sociale: in merito a tale previ-sione si rileva come la ratio consista nel considerare la prolungata inter-ruzione della convivenza tra i coniugi, causata dallo stato di detenzione in cui si trova colui che ha commesso il reato, mentre appare discutibile l’esclusione per i reati di natura politica dato che sembrerebbe emergere dalla norma una minore natura riprovevole dell’azione commessa; con-danna a pena detentiva per incesto, per delitti contro la libertà sessuale

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o per induzione, costrizione, sfruttamento o favoreggiamento della pro-stituzione: in tal caso invece la ratio si individua nel carattere particolar-mente disdicevole dei fatti commessi; condanna a qualsiasi pena per omicidio volontario di un figlio, per tentato omicidio, lesioni personali aggravate, violazione degli obblighi di assistenza familiare, maltratta-menti in famiglia o circonvenzione di incapace in danno del coniuge o di un figlio: si tratta di comportamenti che possono ragionevolmente provocare un’insanabile frattura nella vita coniugale, giacché essi sono commessi in danno di uno o più componenti della famiglia; condanna a qualsiasi pena detentiva prevista ai sensi dell’articolo 564 del codice pe-nale o degli articoli 519, 521, 523, 524 del codice pepe-nale ovvero per induzione, costrizione, sfruttamento o favoreggiamento della prostitu-zione; assoluzione del coniuge per vizio totale di mente per uno dei de-litti previsti nelle lettere b) e c) del numero 1 del presente articolo quando il giudice competente a pronunciare il divorzio accerta l’inido-neità del convenuto a mantenere o ricostituire la convivenza familiare; ininterrotta separazione legale di durata non inferiore a un anno (prima della legge n. 55/2015 “..durata non inferiore a tre anni”): la decorrenza dell’anno ha avvio, sia nella separazione consensuale sia giudiziale, dal momento in cui i coniugi compaiono dinanzi al Presidente del Tribunale, e l’eventuale riconciliazione durante il procedimento, con la conse-guente infondatezza della domanda di divorzio, è eccepita normalmente dalla parte, non essendo il giudice tenuto ad accertarla ; conclusione del procedimento penale promosso per i delitti previsti dalle lettere b) e c) del numero 1 del presente articolo con sentenza di non doversi procedere per estinzione del reato quando il giudice competente a pronunciare lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio ritiene che nei fatti commessi sussistano gli elementi costitutivi e le condizioni di punibilità dei delitti stessi; conclusione del procedimento penale per incesto con sentenza di proscioglimento o di assoluzione che dichiari

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non punibile il fatto per mancanza di pubblico scandalo; coniuge stra-niero, che ha ottenuto all’estero l’annullamento o lo scioglimento del matrimonio o ha contratto all’estero nuovo matrimonio: con tale previ-sione si vuole evitare una disparità di trattamento del coniuge italiano rispetto al coniuge estero, infatti quest’ultimo ha la possibilità di rico-struirsi una vita familiare a seguito dello scioglimento del precedente matrimonio all’estero mentre il coniuge italiano dovrebbe attendere il decorso del periodo di separazione personale per presentare domanda di divorzio, quindi in via eccezionale l’ordinamento permette al coniuge italiano di presentare immediatamente allo scioglimento del matrimonio all’estero domanda di divorzio in Italia, perché questo produca effetti ai fini dell’ordinamento italiano; mancata consumazione del matrimonio: di chiara derivazione canonistica e considerato da parte della giurispru-denza un indice meramente sintomatico dell’insussistenza della comu-nione spirituale tra i coniugi; rettificazione dell’attribuzione di sesso compiuta da uno dei due coniugi”: si tratta di una previsione per certi versi ambigua e superflua giacché, prima della legge n. 76/2016, sem-brava lasciare intendere che in assenza della proposizione di domanda di divorzio il matrimonio sarebbe potuto proseguire tra persone dello stesso sesso, e d’altra parte era già previsto come effetto automatico alla rettificazione di sesso di uno dei coniugi la cessazione degli effetti civili del matrimonio, ai sensi della legge n. 164/1982.

I presupposti sostanziali richiesti sono dunque differenti a se-conda che si voglia presentare domanda di separazione ovvero domanda di divorzio, ed addentrandosi nell’analisi le differenze continuano a ma-nifestarsi, questa volta sotto un profilo ancora più lampante: gli effetti.

Gli effetti di separazione e divorzio si possono suddividere in due grandi insiemi: gli effetti nei confronti dei coniugi e gli effetti nei confronti dei figli. All’interno di ciascuno di essi distinguiamo poi gli effetti personali e gli effetti patrimoniali. E’ molto interessante notare come mentre per quanto riguarda i primi, gli effetti nei confronti dei

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coniugi, si ravvisano diversità di contenuto dei provvedimenti che pos-sono essere emanati in sede di separazione o di divorzio, per quanto ri-guarda invece i secondi abbiamo una disciplina speculare, a sottolineare come l’interesse del figlio sia un interesse supremo, che non consente distinzioni di trattamento tra i provvedimenti che possono scaturire da due procedimenti seppur diversi e risente per sua natura di una tutela immediata e stabile, data la vicenda traumatica che il figlio si trova a dover affrontare.

Osserviamo anzitutto gli effetti nei confronti dei coniugi all’in-terno della separazione. Al termine del procedimento il presidente del tribunale o il giudice istruttore, a seconda della fase in cui ci troviamo, vanno ad emanare una serie di provvedimenti aventi ad oggetto la rego-lamentazione dei rapporti personali e patrimoniali tra i coniugi. I rap-porti personali a seguito del provvedimento mutano nel senso che muta lo status attribuito ai coniugi, i quali diventano coniugi separati; ciò im-plica che tramite la separazione non si riacquista lo status libero, do-vendo per esso attendere il termine del procedimento divorzile. L’effetto personale principale è rappresentato dalla cessazione della coabitazione e da esso scaturiscono successivamente una serie di ulteriori effetti, di-sciplinati in norme sparse all’interno del codice civile: in primo luogo, ai sensi dell’articolo 232, 2° comma del codice civile, la presunzione di concepimento durante il matrimonio, dunque presunzione di paternità del marito, che tuttavia non opera rispetto al figlio nato oltre trecento giorni dalla pronuncia di separazione giudiziale o dalla omologazione di separazione consensuale, ovvero dalla data di comparizione dei coniugi avanti al giudice quando gli stessi sono stati autorizzati a vivere separa-tamente nelle more del giudizio di separazione; ai sensi dell’articolo 156 bis del codice civile, la possibilità per la moglie separata di continuare a utilizzare il cognome del marito, tuttavia, su richiesta di quest’ultimo, il giudice può vietarne l’uso quando questo risulti gravemente

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zievole, ovvero può vietarne l’utilizzo quando per la moglie risulti gra-vemente pregiudizievole; la non applicazione della causa di non punibi-lità ai sensi dell’articolo 649 del codice penale con riguardo ai delitti contro il patrimonio: infatti a seguito della separazione personale è pos-sibile per il coniuge offeso presentare domanda di querela per quella categoria di reati contro l’altro coniuge, salvo i delitti contro il patrimo-nio commessi con violenza alle persone; infine in dottrina si dibatte circa la permanente vigenza durante la separazione degli obblighi coniugali ex articolo 143 del codice civile: in vista della sospensione dell’obbligo di coabitazione, secondo l’opinione prevalente, devono ritenersi sospesi anche gli obblighi di fedeltà e di assistenza morale, mentre in presenza di figli minori il dovere di collaborazione nell’interesse della famiglia permane, allo stesso modo i doveri di assistenza materiale e di contribu-zione ai bisogni della famiglia i quali possono essere tuttavia modificati e determinati dalle statuizioni del giudice.

Gli effetti patrimoniali sono altrettanto importanti nel quadro fa-miliare così mutato dalla separazione personale. Essa determina infatti l’estinzione della comunione legale tra i coniugi. Al contrario la separa-zione non incide su aspetti quali il fondo patrimoniale e l’impresa fami-liare, così come sulla tutela previdenziale: infatti il coniuge separato, se titolare del diritto all’assegno di mantenimento, ha diritto alla pensione di reversibilità nonché al trattamento di fine rapporto e all’indennità per il caso di morte. Un ulteriore effetto patrimoniale è rappresentato dall’obbligo di un coniuge di corrispondere all’altro un assegno di man-tenimento determinato dal giudice in relazione alle circostanze e ai red-diti dell’obbligato, ai sensi dell’articolo 156, 1° e 2° comma del codice civile.4 E’ molto rilevante la valutazione che deve compiere il giudice

4 Art. 156 c.c “Effetti della separazione sui rapporti patrimoniali tra i coniugi”: “Il

giudice, pronunziando la separazione, stabilisce a vantaggio del coniuge cui non sia addebitabile la separazione il diritto di ricevere dall’altro coniuge quanto è necessario al suo mantenimento, qualora egli non abbia adeguati redditi propri.

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circa la mancanza di adeguati redditi propri della parte richiedente l’as-segno, la quale deve essere commisurata al tenore di vita goduto dai co-niugi durante la coabitazione, deve quindi risultare una disparità di trat-tamento economico tale da non rendere più possibile per uno dei coniugi di mantenere lo stesso tenore di vita precedente alla separazione perso-nale. In merito ai confini della valutazione posta in essere dal giudice si è pronunciata la giurisprudenza andando a precisare i parametri di valu-tazione giudiziale. Emergono come elementi da considerare: le poten-zialità economiche complessive dei coniugi durante il matrimonio; gli incrementi reddituali ottenuti dal coniuge obbligato nelle more del giu-dizio di separazione; tutte le circostanze di fatto apprezzabili in termini economici; l’eventuale accordo tra i coniugi circa la possibilità per uno dei due di non lavorare.

Gli effetti nei confronti dei coniugi assumono un contenuto di-verso all’interno del divorzio. Ancora una volta distinguiamo tra effetti personali e patrimoniali che scaturiscono dal provvedimento emanato. Per quanto attiene agli effetti personali, l’effetto cardine del divorzio è dato dall’estinzione del vincolo coniugale, il divorzio porta allo sciogli-mento del rapporto matrimoniale quindi alla completa riacquisizione dello status di persona libera; tuttavia è previsto a carico della ex- mo-glie il divieto temporaneo di nuove nozze. A differenza della separa-zione, il divorzio fa perdere la possibilità alla moglie di continuare ad utilizzare il cognome del marito, tuttavia dietro apposita istanza il tribu-nale può autorizzare alla conservazione dello stesso qualora sussista un interesse della moglie o dei figli meritevole di tutela. Infine il divorzio non fa perdere la cittadinanza allo straniero che l’abbia acquistata attra-verso matrimonio con un cittadino italiano.

L’entità di tale somministrazione è determinata in relazione alle circostanze e ai redditi dell’obbligato.”

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Soffermandoci invece sugli effetti patrimoniali tra i coniugi no-tiamo come ancora una volta assisno-tiamo allo scioglimento della comu-nione legale e stavolta anche, dove non vi siano figli minori di età, all’estinzione del fondo patrimoniale. Ulteriori conseguenze di natura patrimoniale sono la nascita dei diritti che ciascuno degli ex- coniugi può vantare nei confronti dell’altro, laddove vengano integrati i presup-posti richiesti dalla legge. Essi sono: il diritto all’assegno postmatrimo-niale, o assegno divorzile; il diritto alla pensione di reversibilità; il di-ritto all’assegno successorio; il didi-ritto ad una percentuale dell’indennità di fine rapporto percepita dall’altro coniuge. In questo ambito un ruolo di primo piano è rivestito dall’assegno divorzile, disciplinato ai sensi dell’articolo 5 della legge sul divorzio. Il nomen diverso dall’assegno di mantenimento in caso di separazione e la disciplina normativa presente in una sede apposita fanno fin da subito comprendere come separazione e divorzio abbiano di fatto contenuti diversi, e già nella dimensione so-stanziale si percepisca quella autonomia che poi si avvertirà chiaramente anche all’interno delle dinamiche del processo. La legge dispone che qualora il tribunale a seguito delle proprie valutazioni riconosca come presupposto oggettivo la mancanza di mezzi adeguati e l’impossibilità di procurarseli da parte di uno dei coniugi, il coniuge più facoltoso sia obbligato a corrispondere all’altro un assegno da somministrare perio-dicamente. Si tratta di un obbligo avente, secondo l’opinione oramai concorde di dottrina e giurisprudenza, una funzione puramente assisten-ziale5 nei confronti del coniuge che si ritiene a seguito del divorzio vedrà un apprezzabile deterioramento della propria condizione economica; in passato tuttavia esisteva una tesi che attribuiva all’assegno una natura composita, potendo derivare la sua attribuzione dalla valutazione anche di uno solo tra i criteri delle condizioni economiche dei coniugi, le ra-gioni della decisione e il contributo personale ed economico di ciascun

5 Orientamento consolidato dall’entrata in vigore della riforma sul diritto di famiglia

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coniuge alla conduzione familiare e alla formazione del patrimonio. Circa il quantum dell’assegno, il giudice ancora una volta ha il compito di affidarsi ad alcuni parametri legislativi: le ragioni della decisione; il contributo personale ed economico apportato da ciascun coniuge; la du-rata del matrimonio. La vita dell’assegno divorzile può tuttavia essere interrotta da alcuni eventi: la morte di uno dei coniugi; il passaggio a nuove nozze da parte del coniuge beneficiario; la sopravvenienza, in fa-vore del coniuge beneficiario, dei mezzi adeguati al mantenimento del tenore di vita matrimoniale; il peggioramento delle condizioni economi-che del coniuge obbligato, tali da non consentire più nemmeno allo stesso il mantenimento del precedente tenore di vita.

Nonostante l’assegno divorzile rappresenti certamente il cardine degli effetti patrimoniali tra i coniugi all’interno del provvedimento di divorzio, vi sono altri rilevanti effetti da prendere in considerazione. Il diritto alla pensione di reversibilità si realizza nel momento in cui il co-niuge obbligato decede, dunque al coco-niuge superstite beneficiario pre-cedentemente dell’assegno divorzile spetterà una tutela specifica data dalla corresponsione di una pensione di reversibilità, per evitare che quest’ultimo venga a trovarsi in stato di bisogno a seguito della morte dell’ex- coniuge. La pensione verrà corrisposta o totalmente ovvero, nel caso di concorrenza con altro coniuge superstite o con altro parente cui la legge riconosca il medesimo diritto, pro quota. In particolare sono tre i presupposti che permettono al coniuge superstite di maturare la pen-sione di reversibilità: l’anteriorità del rapporto di lavoro; la mancata ce-lebrazione di nuove nozze; la titolarità dell’assegno divorzile. In quest’ultimo senso è nato un contrasto interno alla giurisprudenza se-condo cui una prima opinione, quella peraltro prevalente, riteneva do-vesse sussistere in capo al richiedente una titolarità in concreto, espressa tramite un apposito provvedimento giudiziale; una seconda tesi si schie-rava invece dalla parte di una titolarità in astratto, il richiedente doveva cioè semplicemente integrare i presupposti sostanziali previsti dalla

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legge per poter ottenere il diritto alla pensione di reversibilità. Tale con-trasto è stato sanato con legge n. 263/2005, che ha preferito la tesi della titolarità in concreto. In caso di morte o di passaggio a nuove nozze del beneficiario il diritto si estingue; nel caso in cui vi siano più beneficiari, il diritto si consolida a favore dei rimanenti.

L’assegno successorio risponde alla medesima ratio della pen-sione di reversibilità e anch’esso per poter essere corrisposto deve ve-dere l’integrazione di determinati presupposti sostanziali: la titolarità dell’assegno divorzile; la mancata celebrazione di nuove nozze; lo stato di bisogno. Essendo lo stato di bisogno inteso come impossibilità di sod-disfare le essenziali e primarie esigenze esistenziali ne consegue che l’assegno successorio possiede una natura alimentare, e la sua attribu-zione al coniuge beneficiario è rimessa strettamente alla discrezionalità del giudice. Anche in questo caso alcune vicende fanno estinguere il di-ritto: il passaggio a nuove nozze e il venire meno dello stato di bisogno.

Da ultimo il coniuge più bisognoso può vedersi riconosciuto un ulteriore diritto: la percentuale dell’indennità di fine rapporto. Essa rpresenta un riconoscimento del contributo personale ed economico ap-portato dall’ex- coniuge alla formazione del patrimonio individuale e comune. I presupposti sostanziali da rispettare sono: la mancata celebra-zione di nuove nozze e la titolarità dell’assegno divorzile, non essendo in questo caso necessario integrare il presupposto dello stato di bisogno, giacché esso rappresenta un diritto in capo al beneficiario che abbia per-cepito l’indennità e non dev’essere attribuito discrezionalmente dal giu-dice. Ma quando si deve considerare l’eventuale percepimento dell’in-dennità? Il dibattito in merito ha portato alla luce un’interpretazione am-bigua: considerato il dato letterale espresso all’articolo 12 bis, legge sul divorzio, sembrerebbe possibile maturare l’indennità anche in un mo-mento antecedente alla presentazione della domanda di divorzio, po-trebbe quindi maturare in costanza di matrimonio ovvero durante il

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dizio di separazione o nelle more tra giudizio di separazione e presenta-zione della domanda di divorzio. Ora il problema che una tale interpre-tazione comporta non è di poco conto: il coniuge beneficiario verrebbe a percepire due volte l’indennità, prima e dopo il giudizio di divorzio, creando inoltre la situazione ingiusta nei confronti del coniuge lavora-tore di dover fronteggiare l’eventuale futura pronuncia di divorzio con una quota in funzione di accantonamento a favore dell’altro.6

Se, come abbiamo potuto osservare, si verifica una distinzione piuttosto forte nei contenuti dei provvedimenti di separazione e divorzio in merito agli effetti nei confronti dei coniugi, al contrario si torna ad unità di disciplina per quanto attiene agli effetti nei confronti dei figli. I figli sono destinatari di provvedimenti che possiedono il medesimo con-tenuto sia che vengano emanati all’esito di un procedimento di separa-zione sia all’esito di un procedimento di divorzio. L’unicità della disci-plina risponde all’esigenza di tutelare il supremo interesse del figlio, un interesse che all’interno dei procedimenti si delinea sotto vari aspetti e mostra un ruolo che col tempo ha acquisito una maggiore centralità. I genitori devono mantenere con il figlio, almeno in linea teorica, gli stessi identici rapporti che intrattenevano prima della rottura del nucleo fami-liare. Non si dovrebbe registrare quella spaccatura che invece è inevita-bile nei rapporti tra i genitori. Tuttavia è ben chiaro come sia impensa-bile una perfetta coincidenza tra prima e dopo, ecco allora che gli effetti che si producono nei confronti del figlio cercano di tutelare al massimo una stabilità e certezza nei rapporti che questo intrattiene con entrambi i genitori, pur andando a incidere sull’equilibrio della vita familiare che, in ogni caso, era già spezzato da tempo.

Il giudice andrà ad esaminare la questione emanando dopo at-tente conclusioni tre tipologie di provvedimenti: l’affidamento del figlio

6 Per tale motivo l’interpretazione estensiva derivante dalla lettera dell’articolo 12 bis

della legge sul divorzio è stata censurata dalla Corte di Cassazione e da una consolidata giurisprudenza di merito, che la Corte Costituzionale ha successivamente accolto con sentenza del 19 novembre 2002, n. 463.

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minore; la determinazione di un assegno di mantenimento a favore del figlio; l’assegnazione della casa familiare.

La materia dell’affidamento dei figli minori è in realtà una ma-teria di ampio respiro che non può mai essere tralasciata data la sua par-ticolare delicatezza. Il traguardo che è stato raggiunto nel nostro ordina-mento nel 2006 con legge n. 54, “Disposizioni in materia di separazione dei genitori e affidamento condiviso”, è a ben vedere un traguardo lento rispetto alla disciplina che in altri ordinamenti europei non ha tardato ad arrivare. Come avviene spesso, in Italia si ottengono significativi passi in avanti dal punto di vista normativo quasi sempre in ritardo, arrivando di conseguenza non tanto a gioire per il traguardo raggiunto quanto ad uniformarsi ad una disciplina già presente in altri ordinamenti più avan-zati del nostro. Tale importante riforma ha finalmente introdotto anche nel nostro ordinamento il cosiddetto “diritto alla bigenitorialità”, già ri-conosciuto in fonti sovranazionali quali la Convenzione di New York sui diritti del fanciullo (articolo 9, 3° comma)7 e la Carta di Nizza (arti-colo 24, 3° comma)8: il diritto cioè del figlio minore a mantenere rap-porti equilibrati e continuativi con entrambi i genitori e ricevere cura, educazione ed istruzione da ciascuno di essi. Appare tuttavia evidente come una tale rottura con il passato non debba essere letta in termini per così dire matematici, non dobbiamo cioè pensare all’affidamento condi-viso come a una ripartizione matematicamente perfetta tra il tempo pas-sato con l’uno e l’altro genitore. Il giudice dovrà valutare, alla luce del caso concreto, l’effettivo interesse del minore all’affido congiunto, ed operare una ripartizione del tempo a disposizione di ciascun genitore che

7 “Gli Stati parti rispettano il diritto del fanciullo separato da entrambi i genitori o da

uno di essi, di intrattenere regolarmente rapporti personali e contatti diretti con en-trambi i suoi genitori, a meno che ciò non sia contrario all’interesse preminente del fanciullo.”

8 “Ogni bambino ha diritto di intrattenere regolarmente relazioni personali e contatti

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risenta del concetto di “collocamento prevalente” presso uno dei geni-tori, in ragione del mantenimento di stabilità dell’”habitat domestico”9 del minore e delle sue abitudini di vita. La potestà genitoriale viene eser-citata dunque da entrambi i genitori che prendono di comune accordo le decisioni per il figlio. Niente toglie che il giudice opti per l’affidamento esclusivo nel caso in cui uno dei genitori manifesti una grave inidoneità sul fronte educativo, in tal caso la titolarità della potestà genitoriale spetta a entrambi, mentre l’esercizio della stessa solo al genitore affida-tario.

Dal punto di vista patrimoniale anche il figlio è destinatario di un assegno di mantenimento proporzionato al reddito e periodico, deter-minato considerando: le attuali esigenze del figlio; il tenore di vita go-duto dal figlio in costanza di convivenza con entrambi i genitori; i tempi di permanenza presso ciascun genitore; le risorse economiche di en-trambi i genitori; la valenza economica dei compiti domestici e di cura assunti da ciascun genitore. L’assegno è previsto anche per i figli mag-giori non ancora autosufficienti, nonché per i figli magmag-giori portatori di handicap grave.

Un ulteriore provvedimento che il giudice è chiamato ad ema-nare riguarda l’assegnazione della casa familiare. Prima della riforma del 2006, la norma del 1975 stabiliva che il giudice assegnasse la casa familiare al genitore affidatario della prole, in modo da rendere il più stabile possibile la conduzione della vita del minore precedente alla se-parazione o al divorzio. Invero già prima della riforma la giurisprudenza aveva effettuato delle interpretazioni in senso estensivo dell’istituto sot-tolineando come: la casa familiare non comprendesse solo l’immobile ma anche i mobili che la corredano; il diritto di attribuzione della stessa si configurasse come un diritto personale di godimento; l’assegnazione

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della casa familiare potesse essere disposta sia nel caso avesse ad og-getto un diritto reale, sia nel caso avesse ad ogog-getto un diritto personale. A seguito della novella sull’affidamento condiviso, ai sensi dell’articolo 155 quater del codice civile, il giudice è chiamato ad operare una diffe-rente valutazione, sempre tuttavia osservando la stella polare dell’inte-resse supremo del figlio. Egli dovrà, tenendo conto del fatto che nella maggior parte dei casi il figlio sarà affidato ad entrambi i genitori, deci-dere comunque come allocare la casa familiare, e lo farà guardando al luogo in cui il figlio intrattiene le più stabili e frequenti relazioni. Dove non vi siano figli poi, l’assegnazione della casa familiare assume la ratio di componente “in natura” dell’assegno di mantenimento a favore del coniuge debole. Il diritto all’assegnazione della casa familiare cessa quando: l’assegnatario non abita la casa familiare; l’assegnatario cessa di abitare stabilmente nella casa familiare; l’assegnatario instaura una convivenza more uxorio all’interno della casa familiare; l’assegnatario contrae nuovo matrimonio.

Sul piano sostanziale un istituto meritevole di attenzione è poi certamente l’addebito. L’addebito è presente esclusivamente nella sepa-razione, giacché si può richiedere solo la separazione con addebito e non anche il divorzio, tuttavia non dobbiamo pensare ad esso come a un ele-mento totalmente slegato dal divorzio, dato che qualora si ottenga una sentenza di separazione personale con addebito verso uno dei coniugi, questo produrrà riflessi anche in sede di divorzio con implicazioni note-voli, come si avrà modo di vedere, anche sul piano processuale.

L’addebito è disciplinato ai sensi dell’articolo 151, 2° comma del codice civile, dove si afferma che dietro richiesta di uno dei coniugi il giudice può addebitare la separazione all’altro. La natura dell’adde-bito, aspetto che lo rende agli occhi moderni istituto probabilmente ob-soleto, risiede nella logica di sanzione morale nei confronti del coniuge che abbia tenuto un comportamento contrario ai doveri imposti dal

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trimonio. Si tratta di una formula vaga che nel corso del tempo ha legit-timato il ricorso ad esso per situazioni tra loro molto eterogenee: viola-zione dell’obbligo di fedeltà, maltrattamento del coniuge o della prole, ingiurie o denigrazioni, amicizia morbosa con persona dello stesso sesso, abbandono ingiustificato della residenza familiare. La richiesta dell’addebito è quindi condizionata da percezioni e convinzioni spesso soggettive, e il giudice ha discrezionalità nello stabilire se addebitare o meno la separazione. Pure all’interno di confini molto labili, il giudice si muove valutando con precisi parametri se sia possibile accogliere la richiesta della parte: la violazione degli obblighi matrimoniali deve in-fatti essere cosciente, volontaria e grave. Il giudice effettuerà una valu-tazione globale e una comparazione dei comportamenti di entrambi i co-niugi. Ecco allora che l’addebito non potrà essere attribuito qualora, no-nostante la tenuta del comportamento nocivo, esso non rappresenti l’ef-fettiva causa di allontanamento dei coniugi, o ancora laddove l’equili-brio matrimoniale fosse già stato messo in pericolo e la convivenza fosse già da tempo intollerabile. L’addebito cioè non può diventare uno stru-mento in mano al coniuge per scaricare sull’altro la propria rabbia o il proprio rancore. È tuttavia possibile addebitare la separazione anche ad entrambi i coniugi.

La tematica dell’addebito ha portato con sé dispute sul piano so-stanziale e processuale: possono essere passibili di addebito i comporta-menti tenuti dai coniugi dopo che è stata pronunciata sentenza di sepa-razione personale? Secondo parte della giurisprudenza sì, è possibile ad-debitare la tenuta di un certo comportamento anche se questo si verifica successivamente alla sentenza che autorizza a vivere separati; tuttavia la ragione pratica porta ad obiettare e ad affermare che così come è sospeso l’obbligo di coabitazione, allo stesso modo devono ritenersi sospesi gli altri obblighi derivanti dalla coabitazione, uno tra tutti l’obbligo di fe-deltà. Ci si è inoltre domandati se, una volta ottenuta separazione con-sensuale o giudiziale, si possa chiedere l’attribuzione dell’addebito e

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dunque mutare il titolo della separazione. L’idea di considerare separa-zione e addebito come un binomio inscindibile, da sempre presente nel nostro ordinamento, ha portato la giurisprudenza prevalente ad opporsi fermamente a una tale possibilità. Tuttavia questo atteggiamento rigido è passibile certamente di critiche: sul piano pratico uno dei coniugi può venire a conoscenza solo dopo la sentenza di separazione di fatti che rendano comprensibile presentare domanda di addebito; dal punto di vi-sta processuale si può lamentare un’eccessiva rigidità nel considerare da buona parte della giurisprudenza l’esistenza di un legame inscindibile tra giudizio di separazione giudiziale e di addebito; in sede di separa-zione consensuale deve inoltre ritenersi possibile la volontà dei coniugi di accordarsi circa la determinazione dell’addebito a carico di uno solo di loro o entrambi.

L’addebito produce due tipologie di effetti: ai sensi dell’articolo 156, 1° comma del codice civile, il coniuge al quale la separazione sia addebitata perde il diritto a ricevere l’assegno di mantenimento; ai sensi dell’articolo 548, 2° comma dello stesso codice, il coniuge al quale sia addebitata la separazione perde i diritti successori nei confronti dell’al-tro coniuge e ha diritto solamente ad un assegno vitalizio se, al momento dell’apertura della successione, godeva degli alimenti a carico del co-niuge deceduto.

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CAPITOLO II

LA LEGGE SUL DIVORZIO BREVE E IL DIFFICILE COORDINAMENTO CON GLI ASPETTI DI NATURA

PROCES-SUALE

1. Accorciamento dei tempi ma aumento della possibilità di pendenza contemporanea dei procedimenti di separazione e divorzio.

Il 6 maggio 2015 venne approvata dal Parlamento la legge n. 55, successivamente pubblicata in Gazzetta Ufficiale l’11 maggio 2015. Tale importante legge recò il nome di “Disposizioni in materia di scio-glimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio nonché di comunione tra i coniugi.” Il disposto della normativa si presentò parti-colarmente conciso, essendo composto da soli tre articoli, ma allo stesso tempo intenso per il significato innovativo che si apprestava ad intro-durre.

Il primo articolo afferma che il tempo per presentare domanda di divorzio a partire dall’avvenuta comparizione dei coniugi innanzi al Pre-sidente del tribunale è ridotto da tre anni a dodici mesi nel caso di sepa-razione giudiziale, mentre nel caso di sepasepa-razione consensuale il periodo di tempo previsto è di sei mesi. Ciò implica che i coniugi trascorrano oggi un lasso di tempo di separazione significativamente ridotto rispetto al passato, ed in virtù di questo assunto si è arrivati a parlare di legge sul “divorzio breve”10.

10 Art 1 l. 55/2015: “Al secondo capoverso della lettera b), del numero 2), dell’articolo

3 della legge 1° dicembre 1970, n. 898, e successive modificazioni, le parole: <<tre anni a far tempo dalla avvenuta comparizione dei coniugi dinanzi al presidente del tribunale nella procedura di separazione personale anche quando il giudizio conten-zioso si sia trasformato in consensuale>> sono sostituite dalle seguenti: <<dodici mesi

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Il secondo articolo inserisce poi un ulteriore elemento di novità riguardante questa volta l’istituto della comunione legale. In esso si esprime il mutamento del momento in cui si scioglie la stessa: non più, come per opinione in passato prevalente, con il passaggio in giudicato della sentenza di separazione giudiziale o con l’ottenimento del decreto di omologa nella separazione consensuale, ma, nel primo caso, al mo-mento in cui il presidente del tribunale autorizza i coniugi a vivere se-parati, nel secondo caso, alla data di sottoscrizione del processo verbale di separazione consensuale dei coniugi dinanzi al presidente, purché omologato. Inoltre segue un ulteriore inciso secondo il quale l’ordinanza con la quale i coniugi sono autorizzati a vivere separati è comunicata all’ufficiale dello stato civile ai fini dell’annotazione dello scioglimento della comunione.11 Viene dunque introdotto un secondo comma all’ar-ticolo 191 del codice civile, arginando i rischi connessi all’antica disci-plina: la riforma sul diritto di famiglia del 1975, nell’introdurre la co-munione legale ai sensi del suddetto articolo, non aveva infatti stabilito il dies a quo dal quale far decorrere gli effetti dello scioglimento della comunione legale, ed aveva di conseguenza generato interpretazioni contrastanti: una prima tesi sostenuta dalla giurisprudenza, peraltro pre-valente, consisteva nell’attribuire al provvedimento di scioglimento della comunione efficacia ex nunc dal passaggio in giudicato della sen-tenza di separazione giudiziale o dal decreto di omologa in caso di se-parazione consensuale , allora gli effetti prodotti da questo non retroa-givano al momento di presentazione della domanda di separazione,

dall’avvenuta comparizione dei coniugi innanzi al presidente del tribunale nella pro-cedura di separazione personale e da sei mesi nel caso di separazione consensuale, anche quando il giudizio contenzioso si sia trasformato in consensuale>>.

11 Art. 2, l. 55/2015: “All’articolo 191 del codice civile, dopo il primo comma è inserito

il seguente: <<Nel caso di separazione personale la comunione tra i coniugi si scioglie nel momento in cui il presidente del tribunale autorizza i coniugi a vivere separati, ovvero alla data di sottoscrizione del processo verbale di separazione consensuale dei coniugi dinanzi al presidente, purché omologato. L’ordinanza con la quale i coniugi sono autorizzati a vivere separati è comunicata all’ufficiale dello stato civile ai fini dell’annotazione dello scioglimento della comunione.>>”

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comportando l’immobilizzazione del patrimonio comune dei coniugi al-meno per la durata del primo grado di giudizio, potendo estendersi anche ad un secondo o terzo grado di giudizio, o meglio qualora un coniuge avesse in tale periodo effettuato acquisti o sottratto beni al patrimonio, tali azioni sarebbero ricadute nel regime di comunione legale andando ad incrementarlo o a pregiudicarlo.12 Ora, considerata la ratio dell’isti-tuto, si contrapponeva ad essa una seconda tesi che riteneva di dover considerare il dies a quo dal momento di presentazione della domanda di separazione personale, non riconoscendo significato alla possibilità di incidere su quel regime da parte dei coniugi che si apprestavano a condurre vite separate, sia dal punto di vista personale sia patrimoniale. Infine una terza ipotesi riteneva di dover far decorrere i predetti effetti dal momento di istaurazione dell’udienza presidenziale.13 Invero in ra-gione del secondo orientamento già si era espressa la Corte di Cassa-zione permettendo, a seguito dell’emanaCassa-zione di una sentenza di sepa-razione parziale riguardante lo status, di poter proseguire il giudizio sulle questioni accessorie, quindi rendendo possibile l’avvio della trat-tazione della divisione della comunione legale già all’interno del proce-dimento di separazione, prima di quanto previsto dall’originaria disci-plina.14

Attualmente il problema è stato risolto dalla legge in esame pre-cisando una volta per tutte il momento di decorrenza degli effetti del provvedimento di scioglimento della comunione legale tra i coniugi.

Il terzo ed ultimo articolo della legge sul divorzio breve concerne l’ambito temporale di applicazione dei precedenti due articoli: la nuova disciplina si applicherà infatti ai procedimenti di divorzio in corso al

12 Cass. 12 gennaio 2012, n. 324; 10 giugno 2005, n. 12293; 27 febbraio 2001, n. 2844;

18 settembre 1998, n. 9325; 2 settembre 1998, n. 8707; 7 marzo 1995, n. 2652; 17 dicembre 1993, n. 12523; 11 luglio 1992, n. 8463; 29 gennaio 1990, n. 560.

13 Tribunale di Milano, 20 luglio 1995. 14 Cass. Civ. n. 4757/2010.

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momento di entrata in vigore della presente legge, anche qualora il pro-cedimento di separazione, presupposto per la presentazione della do-manda di divorzio, sia ancora pendente al momento di entrata in vigore della stessa.15

L’aspetto che richiama maggiormente l’attenzione è dato certa-mente dal primo articolo della norma. Esso ha il merito d’introdurre nel nostro ordinamento un cambiamento di notevole portata, auspicato da tempo ma prima di allora mai raggiunto: la riduzione dei tempi per pre-sentare domanda di divorzio. In altri ordinamenti europei la disciplina era ben diversa dalla nostra, così prevista dalla legge sul divorzio non ancora riformata. In Francia si può divorziare immediatamente, senza la precedente fase di separazione, se la domanda viene proposta in modo consensuale tra le parti, altrimenti bisogna attendere due anni dalla se-parazione; in Germania si attende un anno se il divorzio è consensuale, se giudiziale si attendono tre anni; in Spagna una volta decorsi tre mesi dal matrimonio è possibile separare o divorziare, secondo la scelta per-sonale dei coniugi, elemento che rende particolarmente snello il pro-cesso; infine in Inghilterra si può divorziare trascorso un anno dal ma-trimonio e dopo due anni dalla separazione in caso di consenso tra i co-niugi, dopo cinque anni in caso di dissenso. L’analisi di alcuni dati pre-cedenti alla legge sul divorzio breve fa emergere una discrepanza tra i tempi medi per ottenere la sentenza di divorzio che variano da paese a paese: in Francia servivano circa 636 giorni, in Germania 321, in Spagna 283, in Inghilterra 180. In Italia erano necessari circa 676 giorni, ele-mento che connotava negativamente il nostro ordinaele-mento rispetto agli altri e richiedeva un intervento di modernizzazione.16

15 Art 3, l. 55/2015: “Le disposizioni di cui agli articoli 1 e 2 si applicano ai

procedi-menti in corso alla data di entrata in vigore della presente legge, anche nei casi in cui il procedimento di separazione che ne costituisce il presupposto risulti ancora pendente alla medesima data.”

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Finalmente si approdò al cambiamento desiderato da tempo e si passò da tre anni dal momento della sentenza di separazione, sia in caso di divorzio consensuale sia giudiziale, ad un anno o sei mesi, distin-guendo questa volta a seconda che la domanda fosse presentata in forma giudiziale o consensuale. Prima però di arrivare all’attuale testo di legge è interessante osservare l’iter legislativo che determinò il risultato che conosciamo oggi. Infatti la Camera dei Deputati in data 29 maggio 2014 approvò il primo disegno di legge in materia, derivante da sei progetti che, seppure in modo differente, si prefiggevano il medesimo obiettivo: l’accorciamento dei tempi per il divorzio. Il DDL C. 831 e il DDL C. 1053 prevedevano entrambi la riduzione dei termini per proporre la do-manda di divorzio da tre anni a un anno, ma non aggiungevano altro; il DDL C. 892 introduceva invece una distinzione tra separazione giudi-ziale e consensuale, dove per la prima occorreva attendere un anno men-tre per la seconda solamente sei mesi; un’ulteriore distinzione fu propo-sta dai DDL C. 1288 e C. 1938 che differenziarono tra la separazione in presenza di figli minori, con il termine di un anno, e la separazione in assenza di figli minori, con il termine di sei mesi; l’ ultimo progetto, il DDL C. 2200 prevedeva invece il termine di due anni nel caso di sepa-razione con figli minori, e il termine di un anno se la sepasepa-razione avve-niva in assenza di figli minori. I sei DDL vennero unificati dalla Com-missione Giustizia della Camera in un unico DDL, andando a distin-guere le ipotesi di separazione con figli minori, per le quali era previsto il termine di un anno e tutte le altre ipotesi, per le quali era invece pre-visto il termine di sei mesi. La Camera dopo aver approvato il testo lo trasmise al Senato e in data 5 giugno 2014 venne assegnato alla Com-missione Giustizia con nome DDL S. 1504. In questa sede l’innovativo contenuto venne ulteriormente modificato, ricevendo una sorta di sem-plificazione; la Commissione andò infatti ad espungere alcuni nodi pro-blematici quali la decorrenza del dies a quo per proporre la domanda di divorzio dal deposito del ricorso, preferendo ritornare alla disciplina

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previgente che utilizzava come riferimento temporale l’udienza presi-denziale, anche se, secondo alcuni, il mantenimento del termine decor-rente dal deposito del ricorso avrebbe finalmente permesso un “benefico

effetto di territoriale omogeneità applicativa”17, dato che le singole

am-ministrazioni spesso adottano termini diversi per la fissazione dell’udienza presidenziale (non sempre 90 giorni come detta la norma del 2005), in questo modo si sarebbe garantita uniformità facendo de-correre il momento predetto da una data certa e governata dalle parti invece che dal momento incerto stabilito dalle amministrazioni territo-riali; bisogna poi rilevare come la disposizione non tenesse conto di quelle ipotesi in cui le parti non si presentano dinanzi al presidente del tribunale perché arrivano ad una soluzione concordata della crisi: il ri-ferimento va alla negoziazione assistita e all’accordo diretto dei coniugi davanti al sindaco o all’ufficiale di stato civile da questi delegato, intro-dotta nel nostro ordinamento con legge n. 162/2014, ma della quale in tale circostanza il legislatore sembra essersi dimenticato, non indivi-duando un preciso dies a quo verso cui fare riferimento, stando così le cose, si ritiene che il momento di inizio della decorrenza del termine per presentare la domanda di divorzio debba coincidere con il raggiunto ac-cordo delle parti, certificato dai rispettivi difensori, e ratificato dal pub-blico ministero nei casi in cui si rinvenga la sua competenza, ovvero con la sottoscrizione dell’accordo innanzi al sindaco o all’ufficiale di stato civile; ulteriormente, nel caso di contemporanea pendenza dei procedi-menti di separazione e divorzio, si eliminò la possibilità di assegnare entrambe le cause al medesimo giudice; da ultimo, in Senato si discusse anche circa un’eventuale introduzione del “divorzio diretto”, emenda-mento destinato a non essere approvato per la sua portata particolar-mente rivoluzionaria.

17 F.DANOVI, “Al via il <<divorzio breve>>: tempi ridotti ma manca il

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Una volta emendato, il DDL fu approvato in Senato il 18 marzo 2015 con 228 voti favorevoli su 250 votanti, trasmesso poi alla Camera e dopo un breve vaglio in Commissione Giustizia, fu approvato anche in questa sede con 398 voti favorevoli su 426 votanti.

Ora, alla luce dei contenuti della normativa e dell’ampia mag-gioranza con la quale il disegno di legge è stato accolto, è inevitabile notare le esigenze a cui la riforma è andata incontro. Il numero sempre crescente dei divorzi e l’aumento delle convivenze mostrano anzitutto precise tendenze sociali. Il legislatore non può non tenere conto dei mu-tamenti insiti nella società e modellare il diritto a seconda delle indica-zioni che essa costantemente offre. E’ inoltre significativo il fatto che si sia arrivati a parlare di un “diritto alla separazione”18, laddove nel pre-sentare la relativa domanda non è necessario allegare fatti costitutivi dell’intollerabilità della convivenza, questo perché è sufficiente un sem-plice mutamento soggettivo, il venire meno dell’affectio coniugalis per permettere al richiedente di ottenere la separazione, così come è suffi-ciente un mero atto di riconciliazione per ritirare la domanda; allo stesso tempo, nel caso del divorzio, sarà necessario dimostrare la presenza di alcuni presupposti di legge, come l’avvenuto passaggio in giudicato della sentenza e la decorrenza del periodo di ininterrotta separazione tra i coniugi. Le peculiari caratteristiche delle domande processuali in esame fanno ben comprendere le particolarità dei contenuti che il giu-dice andrà a trattare, e mostrano un legame inscindibile con aspetti tipici dell’ambiente nel quale viviamo e prendiamo le nostre scelte. Tramite l’approvazione della legge sul divorzio breve si è dunque giunti ad un adeguamento del diritto alle esigenze della società, e questo è certa-mente un traguardo non indifferente, anche se è avvenuto con un certo ritardo.

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Se sono rilevanti le motivazioni sociali che hanno spinto alla for-mazione della legge, sono altrettanto degne di attenzione le motivazioni giuridiche sottese all’elaborazione della stessa: si voleva ottenere “la riduzione della conflittualità tra i coniugi, la deflazione delle cause di

separazione e divorzio e la riduzione dei costi del divorzio.”19 In questo

modo i tempi si sarebbero accorciati ma sarebbe comunque rimasto uno spazio di valutazione ai coniugi circa la scelta che si accingevano a porre in essere.

Certamente la riforma rappresentò un tassello fondamentale per delineare la regolamentazione dei rapporti matrimoniali e il contesto nel quale essa venne ad esistenza non poteva essere più maturo, tuttavia una modifica della disciplina sostanziale del diritto di famiglia non può non essere accompagnata da una consequenziale quanto necessaria modifica del diritto processuale di famiglia, ma il nostro legislatore, in questa come in altre ipotesi, ha tralasciato di considerare le dinamiche di con-tinua relazione tra i due ambiti e quindi ha generato problemi di coordi-namento.

L’aspetto di maggiore impatto consiste nell’aumento delle ipo-tesi di pendenza contemporanea dei procedimenti di separazione e di divorzio. Una simile problematica era invero frequente ben prima del 2015. Da sempre infatti le caratteristiche dei due procedimenti e la mol-teplicità delle questioni analizzate al loro interno hanno reso “tutt’altro che peregrina l’ipotesi in cui la causa presenti gradi di maturità

diffe-renti per la pronuncia principale e quella sulle ulteriori domande”20:

infatti a fianco della questione principale atta ad incidere sullo status matrimoniale, troviamo ulteriori questioni accessorie che trattano i rap-porti patrimoniali e personali; ebbene può accadere che il giudice si pro-nunci in primo luogo sullo status, lasciando ad un momento successivo

19 Così come emerge dai verbali dei lavori parlamentari, in particolare dalle parole dei

relatori, gli onorevoli Moretti e D’Alessandro.

20F.DANOVI, Il processo di separazione e divorzio, Cap. IV, Sez. II, “La sentenza

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l’analisi delle questioni accessorie, come la determinazione dell’assegno di mantenimento e i provvedimenti riguardanti i figli. Dobbiamo in me-rito prendere come riferimento la normativa speciale sul divorzio, la legge n. 898/70, nella parte in cui disciplina esattamente questa circo-stanza, cioè l’articolo 4, 9° comma, introdotto con la riforma del 1987 che afferma che il giudice ha la possibilità di pronunciarsi con una sen-tenza non definitiva sullo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio quando egli ritenga opportuno continuare il processo per statuire sull’assegno divorzile, avverso la sentenza non definitiva le parti possono presentare solamente un appello immediato, dopo aver effet-tuato regolarmente la notifica per far decorrere il tempo a disposizione per impugnare, e una volta che la sentenza sia passata in giudicato si applicano le disposizioni di cui all’articolo 10 della legge sul divorzio. Con la riforma del 2005 poi la disposizione è stata trasferita ai sensi dell’articolo 4, 12° comma della suddetta legge21 e, con la medesima riforma, è stato colmato un lungo silenzio legislativo22 estendendo la stessa disciplina all’interno del processo di separazione: l’articolo 709 bis, 2° comma del codice di procedura civile afferma infatti che laddove

21 Art 4, 12° comma l. 898/1970: “Nel caso in cui il processo debba continuare per la

determinazione dell’assegno, il tribunale emette sentenza non definitiva relativa allo scioglimento o alla cessazione degli effetti civili del matrimonio. Avverso tale sen-tenza è ammesso solo appello immediato. Appena formatosi il giudicato, si applica la previsione di cui all’articolo 10.”

22 Invero in tempi precedenti alla riforma i giudici, sia di merito sia di legittimità, si

erano trovati in difficoltà per la carenza di un’apposita disciplina normativa sulla sen-tenza non definitiva anche per il procedimento di separazione personale. Tale difficoltà si era tradotta nell’interpretazione giurisprudenziale approntata da alcuni tribunali: il Tribunale di Milano, il Tribunale di Vercelli e la Corte di Appello di Firenze nel 1992, ancora il Tribunale di Milano e la Corte di Appello di Milano nel 1994 avevano previ-sto la possibilità di presentare domanda di divorzio quando ancora era pendente il giu-dizio sulla separazione in merito alle domande accessorie, dunque avevano reso pos-sibile la pronuncia di una sentenza parziale sullo stato anche in sede di separazione. Ciò era reso possibile dal disposto dell’art 23 della l 74/1987, secondo il quale il con-tenuto dell’art 4, 9° comma della legge sul divorzio era estendibile all’ipotesi della separazione. In merito cfr. A. GALIZIA DANOVI, Sentenza parziale tra separazione e divorzio, Corriere Giuridico, 1995 e G. NAPPI, Più sollecita la pronuncia di sepa-razione personale, Diritto di famiglia e delle persone, 1995.

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