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Polibio e i re ellenistici

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Academic year: 2021

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Indice

Prefazione...2

1. Uno sguardo d'insieme ...6

1.1 Un maestro di storia...6

1.2 Storia degli studi...11

1.3 Tra Megalopoli e Roma...14

1.4 La terza dimensione di Polibio...28

2. I “cattivi” re...32

2.1 Nessun rendiconto...32

2.2 Il libro dei tre re ...38

2.3 Filippo V di Macedonia...39

2.4 Tolomeo IV Filopatore ...52

2.5 Antioco III, il Grande...65

2.6 I successori: Perseo, Tolomeo VI e

Antioco IV ...70

3. I “buoni” re...79

3.1 Gli attalidi di Pergamo...79

Conclusioni...87

Ringraziamenti...100

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Prefazione

Il presente studio nasce dall'esigenza, personale e spero condivisibile, di approfondire gli eventi politico-militari che interessarono le civiltà mediterranee nell'arco di tempo compreso tra la seconda metà del III e la prima metà del II sec. a.C. e che sancirono, una volta per tutte, l'inarrestabile ascesa di Roma a potenza universale del mondo antico. La memoria del processo storico che condusse a questo cambiamento epocale è indissolubilmente legata al nome di Polibio di Megalopoli.

Le sue storie, in 40 libri, non narrano semplicemente gli eventi dal 264 a.C. al 146 a.C., ma si prefiggono soprattutto lo scopo di divenire un utile strumento di valutazione a vantaggio dei lettori, presenti e futuri, che sapranno coglierne l'utilità1.

Questa impostazione teleologica dell'opera polibiana, ne costituisce il punto di maggior forza, se si pensa al fatto che Polibio fu, al tempo stesso, l'ultimo grande storico greco e il primo della Grecia conquistata.

Egli individua nell'ascesa di Roma un carattere di eccezionalità (τό παράδοξον τῶν πράξεων) che lo convince a documentarne non solo lo sviluppo, ma anche a investigarne le cause.

A questo si aggiunga che, quello di Polibio, è il resoconto di un vinto che ammette la grandezza del

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vincitore.

Avvicinarmi allo studio delle Storie, dunque, mi ha portato alla naturale conclusione che per comprendere il mondo Mediterraneo al tempo delle conquiste della Roma repubblicana, bisogna comprendere Polibio. Sono partito, allora, dallo studio della fortuna dell'opera polibiana, dal mondo antico fino ai giorni nostri, cercando di valutare il peso dell'insegnamento lasciato in eredità dallo storico. Sono passato in seguito all'analisi della storia degli studi moderni sull'opera, indispensabile per potersi approcciar al testo e alle sue problematiche. Ho affrontato, quindi, la questione legata alla discrepanza tra le due parti programmatiche dell'opera, rapportando lo sviluppo compositivo delle Storie agli eventi che contrassegnarono la vita di Polibio.

Da questo punto in poi, mi è parso necessario approfondire il modo in cui lo storico ci ha riferito gli eventi e soprattutto il valore del suo parere su di essi. In altre parole, ho notato che l'approccio più produttivo all'opera polibiana non è dato tanto dallo studio del suo metodo storiografico e delle sue dichiarazioni programmatiche, quanto soprattutto dalla sua riflessione politica, profondamente legata alla dialettica causa-effetto. La storia di Polibio è soprattutto una storia politica ed è una storia politica perché è fatta da uomini politici. Gli eventi storici, per Polibio, sono, al tempo stesso, causa e conseguenza delle predisposizioni umane, vale a dire delle forme e dei metodi con cui si gli uomini vivono e amministrano il

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potere nella società. In parole più semplici, l'evento storico è l'atto in cui si estrinsecano i valori costituzionali ed etici di un popolo.

Il giudizio di Polibio dunque può essere letto al pari di un fatto storico perché deriva da un fatto storico. C'è, però, una differenza sostanziale: che il giudizio viene espresso sempre in conseguenza dell'evento e sempre da un solo punto di vista che è quello di chi lo esprime. E' necessario dunque, comprendere quale sia il punto di vista di Polibio per comprendere i suoi giudizi sugli eventi. E per fare questo, è indispensabile rapportare le Storie al resoconto degli altri storici a lui contemporanei e al tempo stesso alle fonti ufficiali. Riguardo al punto di vista di Polibio, mi sono interrogato sul binomio Roma-Grecia con cui si è soliti valutare la sua opera. Partendo da qui, ho ripreso, poi, la suggestiva immagine evocata dal prof. Virgilio2 e ho

cercato di approfondire le storie di Polibio nella loro tridimensionalità, composta oltre che da Roma e dalla Lega Achea anche dai regni ellenistici. Sono proprio i regni ellenistici che occupano la parte più importante del mio lavoro, dal momento che contro i re ellenistici Polibio scaglia le sue saette più pungenti e espone quindi la maggior parte dei suoi giudizi negativi. Ho esaminato in particolare le critiche riservate alla nuova generazione di re che subentrò al potere nel corso della 139a Olimpiade (224-220 a.C.), contenute nel V libro

delle Storie. Successivamente, ho voluto fare un rapido excursus delle altre sentenze, questa volta positive, che

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Polibio emana nei confronti dei re “buoni”, per lo più alleati di Roma. La conclusione della mia analisi si ricollega al punto di partenza: la rivoluzione politica del Mediterraneo legata all'ascesa di Roma, non viene semplicemente registrata da Polibio, ma viene soprattutto pensata.

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1. Uno sguardo d'insieme

1.1 Un maestro di storia

Non si può parlare di storiografia antica senza parlare di storiografia greca. Non si può parlare di storiografia greca senza citare Erodoto3 e Tucidide4. Su questo non

c'è gran ché da discutere. Si può discutere, invece, sul fatto che, Erodoto e Tucidide, siano gli unici autori da citare quando si affronta uno studio di storiografia5.

Cercheremo di dimostrare il contrario. Un altro nome fondamentale, infatti, legato a quest'ambito di studi, è quello di Polibio di Megalopoli, autore di quaranta libri di Storie, vissuto in un periodo -quello a cavallo tra III e II sec. a.C.-, caratterizzato da mutamenti politici epocali, dei quali egli ebbe l'esigenza, mossa da lungimiranza storica, di conservarne testimonianza6.

Già questa sua lungimiranza sarebbe di per sé sufficiente, ad introdurre Polibio all'interno della cerchia di quegli storici antichi che non debbono essere ridotti a mera fonte, ma che sono, prima di tutto,

3 Cic. De leg. I, 1,5: “apud Herodotum, patrem historiae, sunt

innumerabiles fabulae”

4 Di una generazione successiva a Erodoto, Tucidide è il fondatore della

storiografia come scienza, basata sulla “ricerca della verità”, ζήτησις τῆς ἀληθείας.

5 Sul tema, cfr. Walbank (1973) p. 1

6 Cic. De Offic. III, 113, 2: “nam Polybius bonus auctor in primis ex decem

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“maestri”. Di pensiero e di metodo. Uso il termine “maestri” con riferimento al fatto che Erodoto, Tucidide e anche Polibio sono stati gli storici greci che, più di tutti, hanno fatto scuola. Già in antichità, infatti, le loro opere funsero da modello per storici successivi, anche non greci.

Dunque, tralasciando ulteriori osservazioni sulla produzione storica di Erodoto e Tucidide, della cui importanza è sufficiente quanto già detto, proviamo a ripercorrere, invece, la fortuna del pensiero storico di Polibio, al fine di comprendere a pieno la portata del suo insegnamento.

Egli ebbe gran fama presso gli antichi, già a partire dall'epoca romana tardo-repubblicana e fino all'inizio dell'epoca imperiale. Plutarco, nella Vita di Bruto (4, 8), testimonia che, nei momenti liberi durante la preparazione della battaglia di Farsalo (48 a.C.), il futuro cesaricida Bruto lavorava alacremente alla stesura di un'epitome delle Storie.

Tito Livio, poi, ammette più volte nei suoi Ab urbe

condita libri (XXX, 45, 5; XXXIII, 10, 10) il proprio

apprezzamento per l'opera polibiana, di cui si servì ampiamente per il suo lavoro.

Per quel poco che ci è pervenuto delle Storie di Sempronio Asellione, ancora, possiamo riconoscere facilmente il suo tributo a Polibio7.

Ma Polibio ebbe estimatori anche fra le file degli storici greci, di quella Grecia capta che, ancora per tutto il periodo augusteo, mantenne l'egemonia

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culturale del Mediterraneo sotto il controllo romano8.

Posidonio, per esempio, scrive le sue Storie dopo

Polibio, partendo da dove aveva concluso lo storico,

narrando gli eventi dal 145 a.C. al 85 a.C. (vittoria di Silla su Mitridate). Anche Dionigi di Alicarnasso, pur non apprezzandone lo stile, ne ammette la grandezza e fa concludere le sue Antichità Romane all'inizio della prima guerra punica (264 a.C.), proprio l'anno d'inizio delle Storie.

L'insegnamento di Polibio attraversa i secoli senza conoscere crisi. In epoca tardo-antica e bizantina, si diffusero degli excerpta, frutto di una selezione che ha privilegiato i passi recanti exempla etici e militari, meglio spendibili in ambito pedagogico nella tarda antichità, o più aderenti al gusto e alle richieste dei lettori del periodo bizantino.

In epoca rinascimentale, l'apprezzamento di Polibio coincise con la riscoperta del suo pensiero grazie all'opera di traduzione e divulgazione di umanisti. Ricordiamo tra i tanti, il contributo di Leonardo Bruni, che fu il primo a parafrasare Polibio in latino e a discutere sulle discrepanze con Livio. Ricordiamo, inoltre, Niccolò Perotti, filologo al servizio del Bessarione che tradusse Polibio per volere di papa Nicola V.

A partire da Niccolò Machiavelli, poi, grande estimatore di Polibio9, la fortuna delle Storie si legò

indissolubilmente alla teoria della costituzione mista,

8 Orat. Epist.. Il, 1, 156: “Graecia capta ferum victorem cepit”. 9 Sul rapporto tra Machiavelli e Polibio cfr. Sasso (1958) pp. 333-375

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espressa nel libro VI, la quale, enucleata dall'opera, ebbe presto una tradizione a sé, forse ancora più grande e duratura delle Storie, ma costellata anche dai rifiuti di autorevoli intellettuali che si espressero per confutarla. Una di queste voci fu quella di Giambattista Vico, che pur apprezzando l'arguzia del pensiero polibiano, tuttavia, considerava uno stato formato dalla fusione di più forme di governo come uno “stato mostro”10.

Nel XVIII, dopo la diffusione delle Storie di Polibio in Europa, in particolare nella Francia e nell'Inghilterra monarchiche, il pensiero dello storico iniziò ad essere analizzato con maggior distacco per poi essere, in definitiva, superato anche come insegnamento. Bodin e Hobbes, dialogarono inizialmente con la costituzione mista di Polibio per poi approdare, per diverse vie, alle teoria di “stato irregolare”11, che confutava la

tripartizione dei poteri con la quale Polibio descrisse la costituzione romana. Moyle, invece, riprendendo l'Oceana dell'Harringon, giunse alla conclusione che il fondamento del potere è la proprietà12.

Lo sguardo su Polibio si riallarga a tutta l'opera solo nel XIX secolo, grazie al contributo di un positivista e

10 Scienza Nova seconda, cpv. 1004

11 La definizione è di Norberto Bobbio (1978) p. 10. Hobbes parlava di

“pactum unionis” (Leviatano, cap. 3), mentre Bodin di “sovranità perpetua” (Dello Stato, I, 8)

12 Mi riferisco all'opera “The commonwealth of Oceana” di James

Harrington, pubblicata nel 1656 a Londra. Qui si individua la proprietà come base del potere politico. Walter Moyle, riprendendo questa teoria, nel suo “Essay upon the Costitution of the Roman Government”, coglie acutamente la causa principale del espansionismo romano nel Mediterraneo: la conclusione della lotta tra patrizi e plebei.

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conservatore francese di nome Fustel de Coulanges13.

Egli rilesse l'opere di Polibio come un manifesto di accettazione, apprezzamento e finanche amore per il dominio di Roma, da parte di un Polibio che considerò, in definitiva, un aristocratico che vedeva Roma come l'unica soluzione per non far cadere la Grecia nelle mani del popolo, rischio rivelatosi in tutta la sua concretezza all'epoca del predominio di Dieo e Critolao14.

Alle stesse conclusioni, ma con più riserve nei confronti delle scelte politiche dello storico, giunse Gaetano De Sanctis. Egli restò distante dalla benevola comprensione dello storico francese, in coerenza con il suo giudizio critico nei confronti dell'espansione romana in Oriente15.

Si è detto di Polibio maestro. Maestro di pensiero. La sua importanza come storico, tuttavia, si ricava soprattutto dal suo essere un maestro di metodo16. La

sua indagine storica, infatti, prendendo piede da quella di Tucidide e da quella di Erodoto, costituisce la prima grande sintesi originale e organica di questi due universi storiografici paralleli. Selezione oculata dei fatti da un lato e tendenze universalistiche dall'altro;

13 Cfr. introduzione Fustel de Coulanges (1947) p. 1-10

14 Il primo, stratego nel 150/149 a.C., il secondo nel 147/46 a.C. Polibio è

severissimo nel giudicare la loro politica demagogica anti-spartana che fu a suo avviso la causa della rottura di ogni diplomazia con Roma (libri

XXXVI, XXXVIII e XXXIX).

15 Cfr. Walbank (1983) p. 470.

16 Pedech (1964) p. 1: “Polybe est de tous les historiens antiques le mains

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rigore cronologico da una parte e digressioni ecfrastiche dall'altra: in Polibio le due concezioni storiche più alte che lo spirito greco classico aveva partorito (κατ᾽ὅλου καὶ καθ᾽ ἕκαστον), sono fuse insieme con una coerenza interna di cui lo storico dimostra di avere orgogliosa consapevolezza, data dal fatto che il nucleo di questa coerenza coincide con il fine del suo scrivere: raccontare l'ascesa di Roma e il declino della Grecia. Il tutto con la coscienza tipica di un greco che sa perché e a chi sta scrivendo. Soprattutto se è uno storico.

A questo proposito, mi piace concludere questa lunga serie di osservazioni con una frase di Momigliano: “riesco a immaginare una poesia e una filosofia che non si curano di alcun lettore futuro, e magari nemmeno contemporaneo, ma non riesco a visualizzare uno storico che non abbia un pubblico futuro in mente”17. E' probabile che Polibio abbia cercato più

lontano di quel che immaginiamo.

1.2 Storia degli studi

La critica moderna ha dedicato grande attenzione alla figura di Polibio. Dopo la lunga stagione di studi filologici dell'ottocento che ha avuto per oggetto principale la sistemazione definitiva della travagliata

17 Momigliano (1978) p. 291. Il presente saggio è stato il riferimento

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tradizione del testo delle Storie, in particolare delle sue parti frammentarie18, a partire dalla seconda metà del

'900, sono riemerse prepotentemente tutte le problematicità, non solo testuali, che le Storie polibiane tuttora pongono. Il merito, fra gli altri, va attribuito ad uno studioso che ha dedicato gran parte della sua vita a Polibio: F.W. Walbank. Dal commento storico ai saggi d'insieme sull'opera19, fino alla

questione del rapporto tra Roma e l'imperialismo romano, Walbank ha avuto il merito di ristabilire la centralità dell'opera vista nella sua totalità. Alla prima pagina della prefazione del suo fondamentale commento, egli scrive: “Primarily my concern has been with whatever might help to elucidate what Polybius thought and said, and only secondarily with the language in which he said it”20. E' a partire da questo

approccio diretto e analitico, che si sono diramati i maggiori contributi della critica moderna su Polibio. Un altro fondamentale studio è quello di Pédech21, il

quale individua nella dialettica delle cause reali (αἴτια) e fittizie (προφάσεις), la spina dorsale del metodo storiografico di Polibio, attraverso cui poter leggere gli eventi e i personaggi così come Polibio verosimilmente li intese.

La questione del rapporto tra Polibio e Roma è stata,

18 Fondamentale il primo commento a Polibio di Schwighaeuser (1789-95) e

le successive edizioni critiche di Hultsch (1867-71) e di Buttner-Worbst(1882-04)

19 cfr. Walbank (1972) e (2002) 20 Walbank (1952-79) vol. I p. 1 21 Pédech (1964)

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invece, ampiamente studiata e dibattuta da Momigliano22 e da Gabba23. Il primo ha sottolineato

l'aspetto di maggiore innovazione strutturale delle Storie, rispetto ad un'attenzione per Roma già tenuta in conto da Eforo e Timeo, vale a dire la consapevolezza di avere un nuovo pubblico, quello romano, al quale spiegare le ragioni della loro vittoria, oltre al vecchio pubblico, quello greco, al quale spiegare le ragioni della sconfitta. Il secondo ha invece individuato nella lotta tra Roma e Cartagine il termine post quem del contatto tra mondo romano in espansione e mondo greco in declino.

Il problema del presunto “filo-romanismo” polibiano ha interessato anche Musti24che, in parziale disaccordo

con Walbank25, crede ad un Polibio alleato costretto di

Roma, ma in fondo tacito obiettore del suo espansionismo.

Recentemente, infine, la questione del rapporto tra Polibio e Roma è stata rianalizzata intelligentemente da Virgilio26, il quale ha visto nella Lega Achea e nei regni

ellenistici le altre due pietre di paragone del sistema di valori e dei giudizi politico-militari di Polibio.

Come risulta chiaro da questo breve excursus, l'importanza e la complessità delle Storie di Polibio è tale che non è facile formulare giudizi sull'autore,

22 Momigliano (1973) e (1982) 23 Gabba (1977)

24 Musti (1978)

25 Musti (1978) pp. 15-35 26 Virgilio (2008)

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senza affrontare un'analisi complessiva e dettagliata sull'opera e sugli studi dedicati ad essa. Proveremo, dunque, a costruire alcune osservazioni, sulla scia degli ultimi contributi emersi. In particolare, ci soffermeremo sul giudizio che Polibio ci lascia dei regni ellenistici per tentare di ricostruire quella tridimensionalità di prospettive, a partire dalla quale Polibio trae le sue conclusioni politiche.

1.3 Tra Megalopoli e Roma

Non è un caso che la più autorevole fonte antica sull'espansionismo romano sia Polibio, un greco27.

Non è un caso neppure che il Polibio scrittore di Ἱστορίαι, nell'arco della sua lunga vita28, abbia

ricoperto incarichi politici di primo piano: fino al 168 a.C. è stato esponente di spicco della Lega Achea29; in

seguito, dopo un primo periodo da ostaggio, entrò nelle grazie di una delle più potenti famiglie di Roma, per la

27 Intendo qui, il termine 'espansionismo', come 'progetto di dominio totale'

con la mente rivolta alla definizione che ne dà lo stesso Polibio: “ἐπιβολή τῶν ὀλῶν” (III, 2, 7). Per il dibattito linguistico e concettuale sul tema “Polibio e l'imperialismo romano” rimando a MUSTI (1978) pp. 13-35 e a MOMIGLIANO (1982) pp. 273-292

28 Secondo lo Ps. Luciano, visse fino ad 82 anni (Macrobioi 225, 22), ma la

data di nascita e di morte non sono sicure: forse rispettivamente quelle del 205/200 a.C. e del 123/118 a.C.

29 Padre di Polibio era Licorta, stratego della Lega Achea nel 185/4 a.C.

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quale svolse incarichi precettistici e diplomatici30.

Questi due elementi, quello dell'eminenza del suo ruolo di storico e quello di un certo “bifrontismo” del ruolo politico, sono indispensabili per comprendere bene la cifra distintiva dell'opera storica di Polibio, rispetto alle altre opere storiche ellenistiche. Sono indispensabili, ma non sufficienti.

Prima di ragionare su l'altro elemento peculiare dell'opera polibiana, tuttavia, non ci si può esimere dal considerare due problemi fondamentali delle Storie, certo afferenti più alla ricerca filologica che alla critica storica, ma che la critica storica comunque non può rifiutarsi di considerare.

Il primo problema è quello relativo alla trasmissione delle Storie. La fortuna dell'opera nei secoli, come abbiamo visto, ha certamente influito contro l'inclemenza che il tempo ha dimostrato per la maggioranza della produzione culturale del mondo antico, restituendoci una buona parte dell'opera di Polibio, sufficiente a darci un'idea particolareggiata sull'autore e i suoi intenti; purtuttavia minoritaria rispetto a quel che doveva essere l'intero progetto storiografico: dei quaranta libri, infatti, che raccontano gli avvenimenti di buona parte del mondo allora conosciuto nell'arco di tempo compreso tra il 264 a.C., anno della conclusione delle storie di Timeo di Tauromenio, e il 146 a.C., anno della πέρσις di Cartagine e di Corinto, si sono conservati

30 Da prigioniero di Pidna, divenne precettore di Publio Cornelio Scipione

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integralmente solo i primi cinque libri e buona parte del VI. Di tutti gli altri, esclusi il XVII e XL mancanti del tutto, invece, non sono rimasti che pochi frammenti. A sopperire questa problematica e diffusa frammentarietà, sono fortunatamente pervenute fino a noi le epitomi: i cosidetti excerpta antiqua (dei libri dal VII al XVI e del XVII), di cui non è nota la data di redazione né l'autore, ma che offrono i riassunti dettagliati dell'opera originale e i così detti excerpta

historica. Questi ultimi, noti anche con il nome di excerpta costantiniana, furono compilati su

indicazione dell'imperatore bizantino Costantino Porfirogenito del X d.C., nel quadro di un più ampio progetto di raccolta e riduzione delle opere storiche antiche. Resta, comunque, il problema della fedeltà all'opera originale, da parte degli anonimi compilatori delle epitomi, che, nel caso degli excerpta historica, sono state scritte undici secoli dopo Polibio.

Il secondo problema, forse il più importante per comprendere quale fosse lo studium scribendi dell'autore, è quello relativo alla composizione dell'opera. Essa, per la vastità - cronologica e spaziale - della materia trattata, deve aver impegnato Polibio per un periodo di tempo piuttosto lungo, che lo ha indotto a modificazioni e integrazioni durante la stesura. Ad alimentare, dall'antichità, il dibattito della critica su questo argomento, è stata, in particolar modo, la presenza, nei primi libri delle Storie, di due programmi storiografici diversi: i cosidetti due proemi delle Storie di Polibio. I passi in questione sono, da un

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lato, il proemio che apre l'opera, posto all'inizio del libro I, prima della προκατασκευὴ e, dall'altro, un secondo proemio posto all'inizio del libro III (III, 1-5), che segna la fine della προκατασκευὴ, entrando nel vivo della trattazione annalistica.

Conviene spendere qualche osservazione in più sulla questione dei due proemi, per comprendere il peso che questa discrepanza costituisce nell'economia dell'opera polibiana.

Partiamo dal testo del primo proemio, che riportiamo nei suoi passi salienti (I, 1, 4-6):

Εἰ μὲν τοῖς πρὸ ἡμῶν ἀναγράφρουσι τάς πράξεις παραλελεῖφθαι συνέβαινε τὸν ὑπὲρ αὑτῆς τῆς ἱστορίας ἔπαινον, ἴσως ἀναγκαῖον ἦν τὸ προτρέπεσθαι πάντας πρός τὴν αἵρεσιν καὶ παραδοχὴν τῶν τοιούτων ὑπομνημάτων διὰ τὸ μηδεμίαν ἑτοιμοτέραν εἶναι τοῖς ἀνθρώποις διόρθωσιν τῆς τῶν προγεγενημένων πράξεων ἐπιστήμης. Ἐπεὶ δ᾽οὐ τινές οὐδ᾽ἐπὶ ποσόν, ἀλλὰ πάντες ὡς ἔπος εἰπεῖν ἀρχῇ καὶ τέλει κέχρηνται τούτῳ φάσκοντες ἀληθινωτάτην μὲν εἶναι παιδείαν καὶ γυμνασίαν πρὸς τὰς πολιτικὰς πράξεις τὴν ἐκ τῆς ἱστορίας μάθησιν, ἐναργεστάτην δὲ καὶ μόνην διδάσκαλον τοῦ δύνασθαι τὰς τῆς τύχης μεταβολὰς γενναίως ὑποφέρειν τὴν τῶν ἀλλοτρίων περιπετειῶν ὐπόμνησιν, δῆλον ὡς οὐδενὶ μὲν ἂν δόξαι καθήκειν περὶ τῶν καλῶς καὶ πολλοῖς εἰρημένων ταυτολογεῖν, ἥκιστα δ᾽ἡμῖν. Αὐτὸ γὰρ τὸ παράδοξον τῶν πράξεων, ὑπὲρ ὧν προῃρήμεθα γράφειν, ἱκανόν ἐστι προκαλέσασθαι καί παρορμῆσαι πάντα καὶ νέον καὶ πρεσβύτερον πρὸς τὴν ἔντευξιν τῆς πραγματείας. Τίς γὰρ οὕτως ὑπάρχει φαῦλος ἢ ῥᾴθυμος ἀνθρώπων ὃς οὐκ ἂν βοὺλοιτο γνῶναι πῶς καὶ τίνι γένει πολιτείας ἐπικρατηθέντα σχεδὸν ἅπαντα τὰ κατὰ τὴν οἰκουμένην οὐχ ὅλοις πεντήκοντα καὶ τρισὶν ἔτεσιν ὑπὸ μίαν ἀρχὴν ἔπεσε τὴν Ῥωμαίων, ὃ πρότερον

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οὐχ εὑρίσκεται γεγονός, τίς δὲ πὰλιν οὕτως ἐκπαθὴς πρός τι τῶν ἄλλων θεαμάτων ἢ μαθημάτων ὃς προὐργιαίτερον ἄν τι ποιήσαιτο τῆσδε τῆς ἐμπειρίας;31

Se gli storici precedenti avessero tralasciato di fare l'elogio della storia, forse sarebbe stato necessario indirizzare tutti alla scelta e all'accoglimento di opere come questa mia, perché gli uomini non hanno a disposizione altra guida per la loro condotta che la conoscenza dei fatti passati. Ma poiché non solo alcuni, o parzialmente, ma tutti gli storici hanno, per così dire, fondato il principio e il fine della loro opera su questo, affermando che l'apprendimento della storia è la più autentica educazione e il migliore tirocinio per la vita politica, e che il più chiaro e solo insegnamento a sopportare con coraggio i rivolgimenti della sorte è la memoria delle vicende altrui, è evidente che nessuno - e io meno degli altri- riterrebbe suo obbligo ripetere cose dette spesso e bene. La singolarità stessa dei fatti sui quali ho scelto di scrivere è sufficiente a incoraggiare e stimolare tutti, giovani e vecchi, alla lettura della mia storia pragmatica. Chi infatti potrebbe essere così pigro o superficiale che non gli importi di sapere come e con quale forma di organizzazione politica i Romani conquistarono in meno di cinquantatré anni quasi tutta la terra abitata, cosa che non ha precedenti? Chi è così appassionato di altri spettacoli o studi da preferirli a questa esperienza?32

E' opportuno analizzare forma e contenuto di questa importante dichiarazione programmatica, con la quale Polibio dà prova e di una grande padronanza dei τόποι della storiografia e di una abbastanza sorprendente competenza di tecniche retoriche.

31 Propongo il testo come stampato da Büttner-Wobst (1889). 32 La traduzione italiana è di Musti, Mari (2002)

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Iniziamo con la forma. L'incipit, per così dire, “ad effetto”, si discosta dalla generale insofferenza per gli eccessi di cura formale che contraddistingue la prosa delle Storie. E questo non accade a caso. Polibio vuole intenzionalmente colpire ogni lettore che inizi a leggere le prime righe della sua opera33 e ci riesce

molto bene. Il periodo ipotetico iniziale, infatti, (I, 1,1: “Εἰ μὲν τοῖς πρὸ ἡμῶν ἀναγράφρουσι τάς πράξεις παραλελεῖφθαι συνέβαινε τὸν ὑπὲρ αὑτῆς τῆς ἱστορίας ἔπαινον [...]”) è meticolosamente studiato per essere funzionale alla lunga preterizione che segue, con la quale lo storico finge di tralasciare il valore della storiografia come magistra vitae per concentrare l'interesse sull'esposizione del suo programma. E da qui si giunge al contenuto. L'immagine è chiara: Polibio ci dice che la lettura della sua storia non sarà interessante perché renderà gli uomini edotti attraverso la conoscenza dei fatti (ἐπιστήμη), cosa che è proprio di ogni opera storica, ma, perché egli ha deciso di raccontare l'esperienza (ἐμπειρία) della conquista di tutto l'οἰκουμένη da parte dei Romani.

Partendo dall'ἐπιστήμη, la “conoscenza astratta” o “acquisizione di sapere”, Polibio si focalizza sulla ἐμπειρία, la valenza empirica della storia, basata sulla relazione dei fatti (πράξεις).

Con queste poche accurate parole, Polibio risolve in

nuce le problematicità del rapporto con gli altri scrittori

33 Colgo l'occasione per ricordare che Polibio è scrittore in un epoca, quella

tardo-ellenistica, di lettori, in un contesto di diffusione/ricezione per lo più scritta, o al più aurale.

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di Ἱστορίαι che lo avevano preceduto, problematicità alle quali dedicherà molte osservazioni nelle sue Storie34. La soluzione è nel tema. L'esigenza di scrivere

una storia organica (σωματοειδής) e universale (ἡ τῶν καθόλου πραγμάτων σύνταξις) , infatti, si fonde con la necessità di scrivere una storia dimostrativa, cioè basata sui fatti (ἀποδεικτική ἱστορία), solo grazie alla scelta di raccontare l'estensione del dominio di Roma, su quasi tutto il mondo abitato. Osserva Musti35: “Egli

indaga sulle cause politiche e psicologiche delle guerre combattute da Roma, e quindi sulle responsabilità nell'insorgere di quei conflitti. Al tempo stesso egli stabilisce un collegamento di tipo meccanico tra le diverse guerre che videro impegnata Roma, a cominciare almeno dalla I punica”.

Polibio, insomma, sembra avere le idee piuttosto chiare su quale sia il suo ruolo di storico, tanto da costruirci sopra un impianto teorico, attraverso il quale dialoga con la storiografia passata, ma al tempo stesso esprime le istanze di un nuovo modo di fare storia36.

In effetti, se si prosegue nella lettura dell'opera, Polibio afferma che incentrerà la trattazione sul periodo che va dal 220/219 a.C., inizio della II guerra punica, al 168/167 a.C., battaglia di Pidna, ossia dall'inizio

34 Ricordo in particolare la contrapposizione che Polibio crea volutamente

con Eforo di Cuma (II, 23, 4 e V, 33, 2), unico storiografo prima di lui ad aver scritto una storia universale. Una contrapposizione, Polibio la crea anche con Timeo di Tauromenio (XII, 25-28), il primo ad aver parlato della grandezza di Roma.

35 op. cit. Musti (1978) p. 44

36 Illuminante a questo proposito Momigliano (1974) p. 347: “He (Polybius)

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all'acme delle conquiste di Roma nel Mediterraneo. Ma le Storie di Polibio non si concludono con il 168 a.C.

Come abbiamo accennato poco fa, infatti, questa linea programmatica non sarà l'unica presente nelle Storie, né quindi quella definitiva.

Si riporta, dunque, il testo del così detto secondo prologo (III, 4, 1-13): Εἰ μὲν οὖν ἐξ αὐτῶν τῶν κατορθωμάτων ἢ καὶ τῶν ἐλαττωμάτων ἱκανὴν ἐνεδέχετο ποιήσασθαι τήν διάληψιν ὑπὲρ τῶν ψεκτῶν ἢ τοὐναντίον ἐπαινετῶν ἀνδρῶν καὶ πολιτευμάτων, ἐνθάδε ποθ λήγειν ἂν ἡμᾶς ἔδει καὶ καταστρέφει ἅμα τὴν διήγησιν καὶ τὴν πραγματείαν ἐπὶ τὰς τελεθταίας ῥηθείας πράξεις κατὰ τὴν ἐξ ἀρχῆς πρόθεσιν. Ὅ τε γὰρ χρόνος ὁ πεντηκοντακαιτριετὴς εἰς ταῦτ᾽ἔληγεν ἥ τ᾽αὔξησις καὶ προκοπὴ τῆς ῾Ρωμαίων δυναστείας ἐτετελείωτο· πρὸς δὲ τούτοις ὁμολογούμενον ἐδόκει τοῦτ᾽εἶναι καὶ κατηναγκασμένον ἅπασιν ὅτι λοιπόν ἐστι Ῥωμαίων ἀκούειν καὶ τούτοις πειθαρχεῖν ὑπὲρ τῶν παραγγελλομένων. Ἐπεὶ δ᾽οὐκ αὐτοτελεῖς εἰσιν ο῎θτε περὶ τῶν κρατησάντων οὔτε περὶ τῶν ἐλαττωνθέντων αἱ ψιλῶς ἐξ αὐτῶν τῶν ἀγωνισμάτων διαλήψεις, διὰ τὸ πολλοῖς μὲν τὰ μέγιστα δοκοῦντ᾽εἶναι τῶν κατορθωμάτων, ὅταν μὴ δεόντως αὐτοῖς χρῆσωνται, τὰς μεγίστας ἐπενηνοχέναι συμφοράς, οὐκ ὀλίγοις συμφοράς, οὐκ ὀλίγοις δὲ τὰς ἐκπληκτικωτάτας περιπετείας, ὅταν εὐγενῶς αὐτὰς ἀναδέξωνται, πολλάκις εἰς τὴν τοῦ συμφέροντος περιπεπτωκέναι μερίδα, προσθετέον ἂν εἴη ταῖς προειρημέναις πράξεσι τήν τε τῶν κρατούτων αἵρεσιν, ποία τις ἦν μετὰ ταῦτα καὶ πῶς προεστάτει τῶν ὅλων, τάς τε τῶν ἄλλων ἀποδοχὰς καὶ διαλήψεις, πόσαι καὶ τίνες ὑπῆρχον περὶ τῶν ἡγοθμένων, πρὸς δὲ τούτοις τὰς ὁρμὰς καὶ τοὺς ζήλους ἐξηγητέον, τίνες παρ᾽ἑκάστοις ἐπεκράτουν καὶ κατίσχυον περί

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τε τοὺς κατ᾽ἰδίαν βίους καὶ τὰς κοινὰς πολιτείας. Δῆλον γὰρ ὡς ἐκ τούτων φανερὸν ἔσται τοῖς μὲν νῦν οὖσι πότερα φευκτὴν ἢ τοὐναντίον αἱρετὴν εἶναι σθμβαίνει τὴν Ῥωμαίων δυναστείαν, τοῖς δ᾽ἐπιγινομένοις πότερον ἐπαινετὴν καὶ ζηλωλὴν ἢ ψεκτὴν γεγονέναι νομιστέον τὴν ἀρχὴν αὐτῶν. Τὸ γὰρ ὠφέλιμον τῆς ἡμετέρας ἱστορίας πρός τε τὸ παρὸν καὶ πρὸς τὸ μέλλον ἐν τούτῳ πλεῖστον κείσεται τῷ μέρει. Οὐ γὰρ δὴ τοῦτ᾽εἶναι τέλος ὑποληπτέον ἐν πράγμασιν οὔτε τοῖς ἡγουμένοις οὔτε τοῖς ἀπαφαινομένοις ὑπέρ τούτων, τὸ νικῆσαι καὶ ποιήσασθαι πάντας ὑφ᾽ἑαυτούς. Οὔτε γὰρ πολεμεῖ τοῖς πέλας οὐδεὶς νοῦν ἔχων ἕνεκεν αὐτοῦ τοῦ καταγωνίσασθαι τοὺς ἀντιταττομένους, οὔτε πλεῖ τὰ πελάγηχάριν τοῦ περαιωθῆναι μόνον, καὶ μὴν οὐδὲ τὰς ἐμπειρίας καὶ τέχνας αὐτῆς ἕνεκα τῆς ἐπιστήμης ἀναλαμβάνει· πάντες δὲ πράττουσι πάντα χάριν τῶν ἐπιγινομένων τοῖς ἔργοις ἡδέψν ἢ συμφερόντων. Διὸ καὶ τῆς πραγματείας ταύτης τοῦτ᾽ἔσται τελεσιούργημα, τὸ γνῶναι τὴν κατάστασιν παρ᾽ἑκάστοις, ποία τισ ἦν μετὰ τὸ καταγωνισθῆναι τὰ ὅλα καὶ πεσεἲν εἰς τὴν τῶν Ῥωμαίων ἐξουσίαν, ἕως τῆς μετὰ ταῦτα πάλιν ἐπιγενομένης ταραχῆς καὶ κινήσεως. Ὑπέρ ἧς διὰ τὸ μέγεθος τῶν ἐν αὐτῇ πράξεων καὶ τὸ παράδοξον τῶν συμβαινόντων, τὸ δὲ μέγιστον διὰ τὸ τῶν πλείστων μὴ μόνον αὐτόπτης, ἀλλ᾽ὧν μὲν συνεργός, ὧν δὲ καὶ χειριστὴς γεγονέναι, προήχθην οἷον ἀρχὴν ποιησάμενος ἄλλην γράφειν37.

Se, dunque, solo sulla base dei successi o delle disfatte, fosse possibile farsi un'idea sufficiente di quali siano gli uomini e gli stati da disprezzare e di quali siano, al contrario, da elogiare, forse dovremmo interromperci qui e terminare a un tempo l'esposizione e l'opera storica sulle ultime vicende citate38,

secondo il proposito iniziale. Il periodo di tempo di cinquantatré anni infatti con queste, e la crescita e l'avanzata dell'impero dei Romani si erano compiuti; […] bisognerà aggiungere a quella

37 Propongo il testo come stampato da Büttner-Wobst (1889).

38 Il riferimento è alla terza guerra romano-macedonica (171-168 a.C.),

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delle vicende prima ricordate anche l'esposizione di quale fosse in seguito la condotta dei vincitori, di come sia stato esercitato il dominio universale, spiegare in quanti e quali modi gli altri accogliessero e considerassero i dominanti, ed esporre inoltre quali impulsi e desideri dominassero presso ciascuno e prevalessero sia nella vita privata, sia negli affari pubblici. Su quest'ultima fase per l'entità delle sue vicende e l'imprevedibilità degli eventi, e soprattutto per aver non solo assistito direttamente alla maggior parte di essi, ma aver collaborato ad alcuni ed essere intervenuto in altri in prima persona, sono stato spinto a scrivere come se iniziassi da capo39.

Dalla lettura di questo passo, risulta evidente un riesame complessivo dell'opera da parte dell'autore, il quale, discostandosi dal “proposito iniziale”, ἡ ἑξ ἁρχῆς πρόθεσις, decide di aggiungere al suo racconto gli avvenimenti intercorsi tra la battaglia di Pidna (168 a.C.) e la distruzione di Cartagine e Corinto (146 a.C.) e di distribuire la nuova materia nei libri dal XXXI al XL.

Mi preme far notare, fin da subito, che non si tratta di una semplice annessione posticcia all'opera, decisa esclusivamente dall'importanza che le scomparse delle città di Corinto e di Cartagine aveva rappresentato per Polibio e per la storia antica da Polibio in poi: egli dice di “essersi messo a scrivere di nuovo”, ἀρχὴν ποιησάμενος ἄλλην γράφειν, espressione che spiega bene il mutamento dell'uomo, prima che dell'opera. E' questione di fondamentale importanza, dunque,

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comprendere a pieno le cause e le conseguenze di questo mutamento per avere chiara, lo vedremo nei prossimi capitoli, la visione polibiana sui regni ellenistici, oggetto d'analisi del presente studio. Ritorniamo dunque alla lettura del secondo proemio. Anche qui la forza espressiva e l'importanza del contenuto si compenetrano, ma diversamente dal primo proemio l'uso della retorica in questo caso è funzionale ad una destrutturazione dell'architettura storiografica. In altre parole, se nel primo proemio la preterizione serviva ad aggiungere, nel secondo proemio serve a togliere qualcosa. Polibio spiega ai suoi lettori che, se fosse stato sufficiente narrare i successi di Roma, egli avrebbe interrotto la sua cronaca al 168 a.C., ma questo non è sufficiente. E' necessario rendere conto anche della condotta dei vincitori.

E' chiaro che, in seno alle motivazioni - non altrove precisate - di questo cambiamento, sta tutta la complessità del controverso giudizio di Polibio nei confronti di Roma, che ancora suscita non pochi dubbi. Assodato infatti il presupposto che Polibio non fu mai realmente anti-romano e mai apertamente filo-romano, la questione è se egli sia divenuto, da un certo punto in poi, sostenitore consapevole della supremazia di Roma o piuttosto testimone critico che manteneva riservati ma chiari i suoi giudizi negativi sui dominatori.

E' utile, a tal proposito, ricordare la sempre autorevole opinione di Walbank40. Egli distingue quattro fasi

dell'espansionismo romano di cui i greci – e Polibio per

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bocca dei Greci – espressero un giudizio. Un primo periodo è quello che va dalla I guerra punica fino alla guerra contro il re di Siria, Antioco III (192-188 a.C.) (libri I-XXII), un arco di tempo per il quale lo storico affianca, ad una rappresentazione dell'avanzata di Roma come processo inarrestabile e fatale, tutta una serie di giustificazioni alle guerre intraprese dai romani. Segue, poi, il periodo che giunge fino alla battaglia di Pidna e alle sue immediate conseguenze politiche (libri XXIII-XXX), per il quale Polibio riferisce, con tono di particolare rispetto, la resistenza di ambienti politici achei alla crescente ingerenza di Roma, il contrasto tra questi ambienti autonomisti e uomini politici smaccatamente filo-romani (come l'acheo Callicrate, avversario del partito cui apparteneva tra gli altri i padre di Polibio, Licorta), e al tempo stesso segnala l'irrigidirsi delle forme della politica estera di Roma. Il terzo periodo della storia romana, che forma oggetto della riflessione polibiana, abbraccia gli avvenimenti che vanno dall'indomani di Pidna sino al 153 a.C., ed è narrato nei libri XXXI-XXXIII, la cui composizione cade dopo il 146 a.C., periodo, cioè, della definitiva trasformazione qualitativa dell'impero di Roma, sia per ciò che riguarda le forme della sua azione militare sia per ciò che riguarda il modo in cui essa iniziò ad esercitare il potere. E' questo, il periodo più critico per Polibio; e la sua rappresentazione pare a Walbank non priva di ambiguità. Polibio sembra infatti rappresentare con un cinismo, che pare doversi intendere come espressione

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di uno spregiudicato realismo, il comportamento duro, talora francamente sleale e comunque spesso interessato, di Roma nei confronti del mondo ellenistico, soprattutto nei confronti delle grandi monarchie (da Pergamo all'Egitto); è il periodo in cui il calcolo e l'interesse di Roma si ammantano di motivazioni prestigiose, realizzandosi attraverso abili giochi politici e diplomatici, frutto a loro volta di quella spregiudicatezza politica che taluni ambienti romani etichettarono di nova sapientia41. Una certa

ambiguità nella posizione dello storico risulterebbe però dalla resistenza in Polibio di non sopite esigenze di moralità politica, che si porrebbero in un relativo e mai risoluto contrasto con le nuove concezioni politiche improntate a spregiudicato realismo; queste comincerebbero tuttavia a contagiare già in qualche misura lo storico che le rappresenta. Segue, da ultimo, il periodo che va dal 152 a.C. al 146 a.C., quello cioè dell'ultimo “turbamento e sommovimento”, ταραχή καὶ κυνέσις, dei rapporti internazionali, e che è narrato (aldilà della cesura rappresentata dal libro geografico, il XXXIV) nei libri dal XXXV al XL: Polibio, condizionato ormai dalle sue personali esperienze (la liberazione dalla condizione di ostaggio e la sempre più stretta vicinanza umana e politica a Scipione Emiliano, che lo porterà ad assistere all'ultimo atto della guerra

41 Tit. Liv. Ab urb. Cond. XLII, 47, 3: “Haec senoires, quibus nova haec

minus placebat sapientia”. Il riferimento è all'opposizione di una parte del Senato nei confronti dell'attività diplomatica di Quinto Marco Filippo, in occasione della sua ambasceria in Macedonia nel 172 a.C. Sul tema cfr. Briscoe (1964) p. 66-67.

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contro Cartagine), sembra aver saltato definitivamente il fosso, aver cioè fatto sue le ragioni di Roma.

Una chiave di lettura, a mio parere dirimente sul problema dei diversi giudizi che Polibio ha su Roma, è quella fornita da Virgilio42, il quale osserva che Polibio

colloca le quattro diverse opinioni nel tipico schema del chiasmo retorico, con i giudizi positivi posti all'esterno, in luogo privilegiato, con funzione di cornice che racchiude i due giudizi interni di condanna. Se accanto a questo espediente di stile, si richiama alla mente la sua amicizia e familiarità con Scipione Emiliano, si può essere indotti a pensare che Polibio non potesse sottrarsi dall'approvare il comportamento di Roma, pur senza rinunciare al suo orgoglio di Greco e di Acheo43.

Ritornando al problema dell'edizione, stabilire se i due momenti redazionali abbiano trovato corrispondenza in altrettante fasi editoriali, ossia se Polibio abbia pubblicato mai le Storie nella loro prima stesura per poi redigere una seconda edizione, è questione pressoché irrisolvibile. Una parte consistente della critica, tuttavia, sembra accettare l'idea che l'opera polibiana abbia effettivamente avuto due pubblicazioni e sia circolata in una prima versione limitata agli anni fino al 168/167 a.C. e, successivamente, l'autore abbia lavorato fino al termine della propria vita, rimaneggiando il materiale già edito e aggiungendo le

42 Virgilio (2008) p. 319- 321

43 Per una più radicale difesa dell'ipotesi di un Polibio distante da Roma cfr.

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vicende fino al 146 a.C. Sembra comunque certo che le Storie, al momento della morte di Polibio, erano ancora sottoposte a un lavoro di revisione e di rifinitura. La pubblicazione definitiva dell'opera che ci è pervenuta, quindi, deve risalire a un redattore che ha operato una collazione postuma delle due versioni, probabilmente operando ulteriori interventi, seppur minimi, sul testo.

1.4 La terza dimensione di Polibio

Questa lunga disamina dei problemi che il testo e la tradizione del testo polibiano pongono ancora oggi, ci ha consentito di comprendere quanto sia necessaria la cautela nell'esprimere giudizi totalizzanti su questa controversa figura di storiografo e sulla sua opera. Riprendiamo dunque le considerazioni iniziali: abbiamo affermato che l'opera storica di Polibio, poggia la sua autorevolezza su due elementi fondamentali: il fatto che egli fu un greco e il fatto che ricoprì incarichi politici per la Lega Achea e, dal 168 a.C. in poi, fu vicino a Scipione Emiliano. Per quanto concerne il primo elemento, è sufficiente ricordare che la ricerca storica, così come la geografia erano scienze greche44. I Greci non furono certo gli unici a scrivere di

storia e di geografia, ma sicuramente furono dei maestri da cui tutti gli storici, in particolare quelli romani, dovettero attingere. Giulio Cesare, per

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esempio, imparerà a conoscere la Gallia dai racconti di Artemidoro di Efeso e da Posidonio di Rodi e la Britannia attraverso le leggende di Pitea di Marsiglia45.

Soprattutto nella storiografia politico-militare, i greci erano inimitabili e Polibio dimostra con la sua opera che quella storiografia era preparata ad intendere Roma e la sua ascesa.

L'altro elemento distintivo, invece, è quello del rapporto diretto con l'intelligentia di Roma. Polibio infatti non è semplicemente uno storico che parla a nome del popolo dei “vinti”, per il quale certo avverte un puro spirito di appartenenza, ma entra in contatto con il mondo politico, militare e culturale dei vincitori, del quale individua i punti di forza e li pone alla base del loro successo, attraverso la costruzione di un λόγος, come è tipico dell'approccio greco.

Tutto ciò però, come abbiamo accennato, non basta. Obiettivo di questo studio è provare che questi due elementi non sono sufficienti per parlare delle Storie di Polibio.

Il rischio più grande è infatti quello di leggere Polibio all'interno di una prospettiva esclusivamente bidimensionale, appiattendo, per così dire, la sua opera sullo sfondo bipolare del rapporto tra il mondo romano in espansione e il mondo greco in decadenza.

Riprendendo il già citato Virgilio46, è possibile

ricostruire tre diversi orizzonti politici di riferimento in Polibio: la “vera democrazia” della Lega Achea, il

45 Cfr. Dion (1983) : p. 222 46 Virgilio (2008) p. 343-345

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“potere monarchico non soggetto a rendiconto” dei regni ellenistici e la “costituzione mista” dello stato romano. La Lega Achea, alla quale Polibio dedica gran parte dei suoi giudizi nel II libro, rappresenta la dimensione patriottica e sentimentale, un mondo a parte che deve fare i conti con il dominio romano, ma che mantiene la sua indipendenza ideologica e culturale, se non politica. I regni ellenistici, invece, i cui giudizi vengono in gran parte espressi nel V libro, costituisco il passato perdente, legato ad una concentrazione di potere troppo grande e troppo instabile per poter garantire una buona gestione nel futuro.

Nel VI libro, infine, è teorizzata la struttura costituzionale di Roma che è alla base del suo successo. In essa confluiscono da una parte le istanze di libertà della democrazia, dall'altra l'unicità di potere della monarchia, entrambe controllate dalla compagine politica dell'aristocrazia.

I giudizi malinconici sulla Lega Achea nel II libro, quindi, insieme ai giudizi ostili sui re ellenistici nel V libro, preparano il lettore alla lettura del VI libro che costituisce l'impianto teorico di tutta l'opera. Ma Polibio, prima di essere un teorico, è un analista pragmatico degli eventi. E gli eventi danno ragione a Roma. Anche se il suo cuore rimane quello di un Acheo.

La terza dimensione, della quale ci occuperemo nei prossimi capitoli è, dunque, quella dei regni ellenistici. Essi non rappresentano sic et simpliciter delle forze

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politiche come lo sono Cartagine o i regni barbarici. I regni ellenistici sono l'ambiente, il contesto storico e culturale nel quale Polibio vive e racconta gli eventi; sono la dimensione geo-politica nella quale si concretizza la dialettica di due mondi opposti. I regni ellenistici sono, al tempo stesso, i frutti dell'egemonia culturale greca e il concime dell'egemonia politica romana.

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2. I “cattivi” re

2.1 Nessun rendiconto

A partire dall'inizio del III sec. a.C., a seguito della breve, ma luminosissima parabola politica di Alessandro Magno, che rivoluzionò la geo-politica e la cultura del Mediterraneo orientale e non solo, iniziò a svilupparsi, soprattutto in ambito filosofico, la riflessione sul concetto di regalità47.

Grazie all'iniziale contributo di Aristotele e della sua scuola, l'indagine filosofica passò dallo studio del rapporto tra monarca e πόλις48, all'interesse per la

nuova realtà politica, vasta e multietnica, sorta con Alessandro: il regno. Esso, totalmente incentrato sulla figura del βασιλεύς, sciolto da ogni vincolo istituzionale, era esclusiva proprietà del re che l'aveva conquistato e sul quale, tuttavia, esercitava il potere con giustizia e rispetto per le popolazioni e le πόλεις che lo abitavano.

La figura del filosofo cominciò ad avere il preciso compito di legittimare il potere del re, attraverso la

47 Sulla concezione della regalità in età alessandrina cfr. Virgilio (1999) p.

47-85

48 Sulla riflessione del potere monarchico all'interno della dimensione

politica cittadina, sono fondamentali i contributi di Senofonte (Agesilao) e Isocrate (A Nicocle), (Evagora) e (Filippo)

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definizione di un canone di regalità. Aristotele49,

Senocrate di Calcedone50, Anassarco di Abdera51,

Teofrasto52, Stratone di Lampsaco, Eraclide53 e persino

Epicuro54 sono solo i più importanti, ma non gli unici

filosofi e intellettuali alessandrini che scrissero dei Περὶ βασιλεῖας, nei quali indicavano le caratteristiche del re ideale, buono e giusto, e del rapporto che la filosofia doveva avere con la casa regnante.

Ritroviamo riflessioni sulla regalità anche nei trattati pseudo-pitagorici Περὶ βασιλεῖας di Ecfanto, Diotogene e Stenida, conservati in estratto nell'Antologia di Stobeo del V d.C.

Riguardo questi ultimi, nonostante tutte le problematicità interpretative55, non si può escludere che

riflettano in qualche misura le idee sulla regalità diffuse in età alessandrina56.

Questa immensa produzione di pensiero si regge su una concezione sacra e mistica della regalità: il βασιλεύς è per i sudditi ciò che dio è per gli uomini57.

Il poeta alessandrino Archita da Taranto definisce il re

49 Ari. frr. 646-647, 649, 654-663 Rose. 50 Dio. Laer. IV, 14

51 Anassarc., 72.B, 1-2 DK

52 Dio. di Alicar., Anti. Rom. V, 73,2 e Dio. Laer. V, 47 53 Dio. Laer. V, 58-59 (Stratone) e V, 87 (Eraclide)

54 Dio. Laer. X, 141 = Epicuro, Sentenze Capitali, 6. Cfr. Arrighetti (1973)

pp. 122-23

55 Stobeo IV, 6, 22 e 7, 64-66 (Ecfanto). Non è facile distinguere nei tre

trattati pseudo-pitagorici la riflessione sul re ellenistico dalla riflessione sull'imperatore romano, o dalla ancora più tarda selezione operata da Stobeo per scopo pedagogico.

56 Cfr. Delatte (1942) e Squilloni (1991) 57 Delatte (1942) p. 32

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come “legge animata”, νόμος ἔμψυχος e allo stesso tempo magistrato che si conforma alla legge58. Il re

saggio e giusto imita la scienza e la sapienza di dio, nell'esercizio delle sue principali funzioni di capo militare, giudice e sacerdote.

Ritorniamo, dunque, a Polibio. Anch'egli affronta il problema della regalità, ma i suoi giudizi sui re ellenistici, pur riferiti principalmente alla generazione di re subentrata al potere nel corso della 139a

Olimpiade (224-220 a.C.), sovvertono di fatto i due secoli di produzione filosofica appena esaminati.

Parlare dei regni ellenistici, per Polibio, equivale a parlare non dei βασιλεῖς ideali, ma dei re in carne ed ossa, del loro operato politico e militare, ma soprattutto del loro potere “in nessun modo soggetto a rendiconto”59. Questo presupposto etico basta allo

storico per sentirsi libero di criticare apertamente la loro condotta.

Non si tratta semplicemente dell'orgogliosa avversione nei confronti della βασιλεῖα, accompagnata dall'altrettanta orgogliosa fierezza di essere un Acheo democratico prima, e un alleato della grande Roma poi. La critica per Polibio è soprattutto un espediente narrativo. Così come l'elogio dei costumi, della religione e delle usanze di Roma, infatti, è funzionale alla giustificazione del successo di questa nuova e inarrestabile potenza; allo stesso modo, il biasimo dello storico verso l'azione dei re ellenistici che si reifica nel

58 Stobeo IV, 1, 135 (Archita)

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“rimprovero” (ψόγος)60, mosso da indignazione etica,

serve a giustificare la loro disfatta politica. Attraverso questo contrasto di giudizi, dunque, ecco delinearsi quella tridimensionalità narrativa di cui si è già detto nel precedente capitolo61. Le figure abiette e grette dei

re ellenistici, sono il contraltare delle grandi personalità della repubblica romana, da un lato (Scipione Africano, Emilio Paolo, Scipione Emiliano), e dei grandi personaggi della Lega Achea, dall'altro (Arato, Filopemene).

Tre universi, legati fra loro dalla sincronia degli eventi, ma divisi dalla diacronia degli sviluppi.

Polibio, infatti, inserisce i suoi giudizi nel testo, mentre parla dei fatti storici. Questo è un particolare cruciale per la nostra analisi, perché notiamo una progressione del mutamento delle figure protagoniste dei fatti stessi. Un mutamento psicologico che inspessisce la veridicità e l'obiettività dei giudizi di Polibio.

E ciò non è l'unico espediente usato dallo storico per rendere credibile il suo approccio etico ai comportamenti.

E' superfluo, forse, ricordare che i giudizi morali sui re, vengono pronunciati nel momento in cui il destino dei regni ellenistici è già segnato62. E' superfluo, ma non

60 Polibio taccia i re ellenistici di grettezza (μικροδοσία) e di pochezza di

doni (μικποληψία). Cfr. V, 90, 5-8

61 Supra nota 42

62 In II, 37.8, Polibio parla di “completa distruzione” del regno degli

Antigonidi di Macedonia. Se poi si accettasse l'ipotesi della seconda edizione dell'opera dopo il 143 a.C., si ammetterebbe avvenuta anche il crollo del regno seleucidico (dopo la guerra giudaica dal 167 al 142 a.C. e con l'ascesa del regno dei Parti a partire dal 150 a.C.).

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scontato. Certo, ogni storico, approcciandosi alla narrazione dei fatti, ricerca le cause, partendo dalle conseguenze. Polibio, tuttavia, ribaltando la lezione di Tucidide sulla “causa reale” (αληθεστάτη πρόφασις)63,

ricostruisce il processo causativo, legandolo ad un impianto teorico di moralità, secondo il quale il migliore in senso etico prima che politico-militare, vince, mentre il peggiore soccombe.

Per Polibio, in altre parole, i personaggi emergono dai fatti e vengono plasmati da essi, ma al tempo stesso la predisposizione del carattere dei personaggi, in qualche modo, influenza i fatti storici. A questo proposito lo storico afferma in IX, 8, 7-9:

ἐγὼ δ᾽οὔτε λοιδορεῖν ψευδῶς φημι δεῖν τοὺς μονάρχους οὔτ᾽ἐγκωμιάζειν, ὅ πολλοῖς ἤδη συμβέβηκε, τὸν ἀκόλουθον δὲ τοῖς προγεγραμμένοις ἀεὶ καὶ τὸν πρέποντα ταῖς ἑκάστων προαιρέσεσι λόγον ἐφαρμόζειν. Ἀλλ᾽ ἴσως τοῦτ᾽εἰπεῖν μὲν εὐμαρές, πρᾶξαι δὲ καὶ λίαν δυσχερὲς διὰ τὸ πολλὰς καὶ ποικίλας εἶναι διαθέσεις καὶ περιστάσεις, αἷς εἴκοντες ἄνθρωποι κατὰ τὸν βίον οὔτε λέγειν οὔτε γράφειν δύνανται τὸ φαινόμενον. Ὧν χάριν τισὶ μὲν αὐτῶν συγγνώμην δοτέον, ἐνίοις γε μὲν οὐ δοτέον64.

Io dico che non bisogna né biasimare né encomiare i monarchi in modo falso, come è già accaduto a molti, ma adattare ad essi un discorso di volta in volta coerente con quanto è stato scritto in precedenza e adeguato alla condotta di ciascuno. Ma forse, mentre dirlo è semplice, farlo è assai difficile, poiché sono molte

63 Cfr. Rossi (2006) : p. 416

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e varie le circostanze e le occasioni, cedendo alle quali gli uomini nel corso della vita non possono né dire né scrivere quello che pensano. In considerazione di ciò alcuni di loro sono da perdonare, altri no65.

Con questa forte dichiarazione in prima persona (ἐγὼ φημι), Polibio sottolinea tutto il suo orgoglio di storico alla ricerca del vero. I suoi giudizi sono svincolati tanto dalla scrittura forzatamente benevola dell'encomio, quanto da quella, altrettanto falsata, della protesta. Ma, in questa dichiarazione c'è qualcosa di più. C'è l'organicità narrativa del pensiero storico. C'è il determinismo evenemenziale che agisce sia sui personaggi narrati che sui narratori. E non solo. In X, 29, 9-10 si dice: καίπερ ἡμεῖς οὐκ ἐν τοῖς προοιμίοις, ὥσπερ τῶν λοιπῶν συγγραφέων, προφερόμεθα τὰς τοιαύτα διαλήψεις, ἀλλ᾽ἐπ᾽αὐτῶν τῶν πραγμάτων ἀεὶ τὸν καθήκοντα λόγον ἁρμόζοντες ἀποφαινόμεθα περί τε τῶν βασιλέων καὶ τῶν ἐπιφανῶν ἀνδρῶν, νομίζοντες ταύτην οἰκειοτέραν εἶναι καὶ τοῖς γράφουσι καὶ τοῖς ἀναγινώσκουσι τὴν ἐπισημασίαν66.

Noi, comunque, non esprimiamo simili opinioni nei proemi, come avviene nel caso degli altri storici, ma ci esprimiamo sui re e sugli uomini illustri solo quando presentiamo i fatti, cercando di volta in volta di adattarvi le parole opportune, poiché pensiamo che questo tipo di segnalazioni siano più

65 La traduzione italiana è di Musti, Mari (2002)

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appropriate sia agli scrittori sia ai lettori67.

Polibio pensa anche ai suoi lettori. Mentre scrive, ha in mente un pubblico capace non solo di intenderlo ma di giudicare quello che lui scrive. Questo pubblico non è solo il fruitore del messaggio contenuto nelle Storie, ma è anche il fine ultimo della sua scrittura. Egli è, infatti, il primo storico greco a rendersi conto che la sua opera verrà letta e giudicata da achei, romani e abitanti dei regni ellenistici e, per questo motivo, egli decide di affidarsi all'unico giudice imparziale, riconosciuto da tutti i suoi lettori: il fatto storico.

I re ellenistici, pur avendo la possibilità di giocare la propria partita, hanno perso la sfida contro Roma. Questo è un fatto. E su questo fatto Polibio costruisce le sue critiche nei confronti dei re ellenistici.

2.2 Il libro dei tre re

Il libro V delle Storie di Polibio è stato definito correttamente “il libro dei tre re”68.

Dopo aver narrato la prima fase della seconda Guerra Punica fino alla battaglia di Canne (216 a.C.), nel V

67 La traduzione italiana è di Musti, Mari (2002) 68 Virgilio (2008) p. 334

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libro, Polibio interrompe il suo resoconto, con un espediente insieme narrativo e storiografico69, per

spostare geograficamente e cronologicamente i riflettori sull'ultimo orizzonte dell'egemonia greca nel Mediterraneo orientale prima dell'ingerenza di Roma. Nello specifico, egli racconta gli anni della guerra sociale fra Achei e Filippo V contro gli Etoli (220-217 a.C.), la rivolta di Molone contro Antioco III (222-220 a.C.) e la quarta guerra siriaca fra Antico III e Tolemeo IV Filopatore (219-217 a.C.).

Questi eventi sono raggruppati attorno a tre nuclei geografici fondamentali: la Macedonia, l'Egitto e le satrapie orientali, che hanno come protagonisti politici principali: Filippo V, Antioco III e Tolomeo IV. La nuova generazione reale che subentra al potere nella 139a Olimpiade (224-220 a.C.), è accomunata dalla

giovane età e dalla grettezza.

2.3 Filippo V di Macedonia

Analizziamo il profilo dei tre re partendo da quello di Filippo V di Macedonia70.

Figlio di Demetrio II, salì al trono nel 221 a.C., alla morte del suo tutore e cugino, Antigono Dosone e

69 L'interruzione è funzionale alla narrazione perché crea suspense; ma è,

allo stesso tempo, in linea con lo sforzo storiografico di raccontare una storia ecumenica.

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rimase sul trono macedone fino al 179 a.C. Filippo era indubbiamente un grande re. Possedeva un'acuta capacità di penetrazione nelle realtà della politica. Ciò è testimoniato non solo dalla serie di alleanze strategiche che egli concluse per cercare di arginare la nascente potenza romana, prima con Cartagine nel 215 a.C. (quando ancora si poteva credere ad una vittoria dei Cartaginesi sui Romani) e in seguito con Antioco III nel 205 a.C. per spartirsi il regno dei Tolomei, dopo la morte di Tolomeo IV. Ma le capacità politiche di Filippo, emergono anche dall'importante testimonianza epigrafica della così detta “Lettera di Larissa”, databile attorno al 217 a.C.71 In questo documento, Filippo

consiglia agli abitanti di Larissa in Tessaglia di imitare la prassi romana di rendere cittadini anche gli abitanti delle colonie. Nell'ammissione della efficacia amministrativa della politica romana di integrazione, si rivela la profondità del pensiero politico di Filippo V, che comprende subito quanto sia forte e pericoloso l'astro nascente di Roma.

Mancava però, evidentemente, a Filippo l'energia necessaria per mettere in atto queste sue capacità. Egli naufragò in questo dissidio tra volontà e realizzazione, spinto, secondo Polibio, da un lato dall'ardore giovanile, dall'altro dalla cattiva influenza dei consiglieri. Nel 220 a.C. la guerra sociale (συμμαχικός πόλεμος) divise la Grecia in due fronti. I Macedoni e i loro numerosi alleati greci, tra cui gli Achei, scesero in campo contro gli Etoli, appoggiati a loro volta dagli

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Spartani. Nel conflitto venne coinvolta persino Creta, che fino ad allora aveva condotto un'esistenza a sé, al di fuori della grande politica. Le operazione militari non furono mai di grande portata e l'odio fra le due parti trovò sfogo in devastazioni e saccheggi. Gli Etoli distrussero barbaramente la città macedone di Dione, presso l'Olimpo, e il re Filippo non fu da meno nei riguardi di Termo. In complesso, tuttavia, la συμμαχία ellenica, fondata da Antigono Dosone, seppe superare questa prova. Nel 217 a.C., grazie alla mediazione di Rodi, di Chio e del re Tolomeo IV Filopatore, venne conclusa la pace di Naupatto. Fu, questo, l'ultimo accordo stipulato tra soli Greci; quelli successivi videro sempre la presenza determinante dei Romani.

Polibio dimostra inizialmente di essere un grande estimatore di Filippo V (IV, 77, 3). L'iniziale fiducia dello storico è riposta soprattutto nella giovane età del βασιλέυς, il quale nei suoi primi atti aveva dimostrato di possedere le caratteristiche proprie di un re, confermandosi beniamino dei Greci (VII, 11, 8) e al tempo stesso lungimirante stratega in occasione della decisione su Sparta (IV, 23, 7-9 e 24, 1-9). Tuttavia, con la distruzione di Termo in Etolia, decisa per vendicare il saccheggio di Dodona compiuto dagli Etoli l'anno precedente, Filippo rivelò la sua vera indole da tiranno. Ecco cosa scrive Polibio su Filippo V, in questa occasione:

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