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I successori: Perseo, Tolomeo VI e

Nel documento Polibio e i re ellenistici (pagine 70-79)

2. I “cattivi” re

2.6 I successori: Perseo, Tolomeo VI e

Abbiamo esaminato nel dettaglio il racconto polibiano del “libro dei re”. Come si è già detto, tuttavia, il V libro non è l'unico a contenere i giudizi di Polibio sui re ellenistici. Disseminate negli altri libri, troviamo una

serie di opinioni sui successori, dalle quali si evince una negatività morale ancora più netta di quella vista per i re della 139a Olimpiade.

In una breve carrellata cerchiamo di definire i personaggi e i punti più significativi.

Partiamo ancora una volta dagli Antigonidi. Perseo di Macedonia127, figlio di Filippo V, che

governò come ultimo re dal 179 al 168 a.C., fu, agli occhi di Polibio, il re dell'ultima speranza d'indipendenza e, al tempo stesso, il re della definitiva certezza di sconfitta. Elogiato sotto il profilo morale, perché dimostrava gravità e compostezza e rifuggiva dalle dissolutezze del padre (XXV, 3, 1-8), fu irretito dal fascino della fama e dal consenso popolare. A seguito dell'iniziale vittoria sui romani a Callinico (171 a.c.), infatti, Perseo si procurò il favore ardente della masse con il quale credette di poter sottovalutare il nemico e avere futuri facili vittorie. La battaglia di Pidna (168 a.C.) distrusse ogni progetto e previsione e denudò il valore di Perseo (XXI,17,3-4 e 18):

Ὁ δὲ Περσεὺς προσαγόμενος τὸν χρόνον καὶ τὸν πόνον ἐξελύετο τῇ ψυχῇ, καθάπερ οἱ καχεκτοῦντες τῶν ἀθλετῶν· ὅτε γὰρ τὸ δεινὸν ἐγγίζοι καὶ δέοι πρινεσθαι περὶ τῶν ὅλων, οὐχ ὑπέμεινε τῇ ψυχῇ. Ὁ δὲ τῶν Μακεδόνων βασιλεύς, ὥς φησι Πολύβιος, τῆς μάχης ἀρχὴν λαμβανούσης ἀποδειλιάσας εἰς πόλιν ἀφιππάσατο, σκηψάμενος Ἡρακλεῖ θύειν, δειλὰ παρὰ δειλῶν ἱερὰ μὴ

δεχομένῳ μηδ᾽εὐχὰς ἀθεμίτους ἐπιτελοῦντι128.

Perseo, spendendo tempo e fatica, aveva l'animo sfinito, come gli atleti in cattiva forma: quando infatti il pericolo fu vicino e si trattò di affrontare lo scontro decisivo, il suo spirito non resse. Il re dei Macedoni, come dice Polibio, all'inizio della battaglia, si perse d'animo e fuggì a cavallo verso una città, adducendo la scusa di un sacrificio a Eracle: ma questi non accetta vili offerte dai vili né esaudisce preghiere empie129.

Anche in questo passo, trapela tagliente l'ironia di Polibio che paragona un re ad un atleta fuori forma e che aumenta l'eco del disprezzo attraverso il giudizio espresso in una particolare forma di litote, tramite l'immagine di Eracle che non accetta le offerte e non esaudisce le richieste vili (che equivale a dare del vile a Perseo che si era recato da Eracle per fuggire dal campo di battaglia). Interessante l'uguaglianza tra mancanza di coraggio (δειλόν) ed empietà (ἀθεμία) che può verificarsi solo nel caso in cui siano connesse ad un re.

Decisamente meno attiva politicamente, ma per certi aspetti anche meno becera moralmente, fu la figura di Tolomeo VI Filometore130.

Figlio di Tolomeo V Epifane e Cleopatra I, salì al trono nel 180 a.C., quando era ancora un bambino, ed al suo posto regnarono la madre Cleopatra I, morta nel 176

128Propongo il testo come stampato da Büttner-Wobst (1889). 129La traduzione italiana è di Musti, Mari (2002)

a.C., e due tutori. Morì nel 145 a.C., a seguito delle ferite riportate nella battaglia del fiume Enopara, non lontano da Antiochia di Siria, che vide però la sconfitta del suo nemico Alessandro Balas.

Scrive Polibio su Tolomeo VI Filometore:

Ὅτι Πτολεμαῖος ὁ τῆς Συρίας βασιλεὺς κατὰ τὸν πόλεμον πληγεὶς ἐτελεύτησε τὸν βίον, κατὰ μέν τινας μεγάλων ἐπαίνων καὶ μνήμης ὤν ἄξιος, κατὰ δέ τινας τοὐναντίον. Πρᾷος μὲν γὰρ ἦν καὶ χρηστός, εἰ καί τις ἄλλος τῶν προγεγονότων βασιλέων. Σημεῖον δὲ τούτου μέγιστον· ὃς πρῶτον μὲν οὐδένα τῶν ἑαυτοῦ φίλων ἐπ᾽οὐδενὶ τῶν ἐγκλημάτων ἐπανείλετο· δοκῶ δὲ μηδὲ τῶν ἄλλων Ἀλεξανδρέων μηδένα δι᾽ἐκεῖνον ἀποθανεῖν· ἔπειτα δόξας ἐκπεσεῖν ἀπὸ τῆς ἀρχῆς ὑπὸ τἀδελφοῦ, τὸ μὲν πρῶτον ἐν Ἀλεξανδρείᾳ λαβὼν κατ᾽αὐτοῦ καιρὸν ὁμολογούμενον ἀμνησικάκητον ἐποιήσατο τὴν ἁμαρτίαν131

Tolomeno, re di Siria, morì per le ferite riportate durante la guerra; secondo alcuni fu degno di grandi lodi e di essere ricordato, secondo altri tutto il contrario. Fu infatti mite e buono, come nessun altro dei re che l'avevano preceduto. Eccone la prova più grande: innanzitutto egli non fece eliminare nessuno dei suoi amici, per nessun genere di accusa, anzi ritengo che neppure tra gli altri alessandrini ci sia mai stato nessuno che sia morto a causa sua. Inoltre, nonostante risultasse che era stato scalzato dal trono dal fratello, tuttavia, una prima volta, quando ad Alessandria gli si presentò una sicura opportunità da fruttare contro di lui considerò il suo errore perdonato132.

131Propongo il testo come stampato da Büttner-Wobst (1889). 132La traduzione italiana è di Musti, Mari (2002)

Questa descrizione è estremamente positiva, ma contiene il preludio a quella debolezza e mancanza di nerbo che conduce Polibio a conclusioni comunque negative. Egli annota infatti che, nei momenti di successo, il re dimostrava quelle “dissolutezza e neghittosità” (ἀσωτία καὶ ῥᾳθυμία) che erano tipiche della concezione regale egiziana.

Polibio non concede, invece, alcun attenuante ad Antioco IV Epifane133, nei confronti del quale spende

anche la sua pungente ironia, storpiando l'epiteto regale in Ἐπιμανής (“folle”). I suoi comportamenti erano indecorosi e bizzarri tanto da lasciare i suoi sudditi incerti se giudicarlo un sempliciotto o un pazzo. Polibio non manca di ricordare l'episodio dei giochi di Dafne (166 a.C.), organizzati per emulare i gioghi di L. Emilio Paolo dopo Pidna, durante i quali il re dimostrò una così bassa meschinità da mettere a disagio i partecipanti al simposio (XXX, 25-26)134.

Ecco quale è il ritratto di Antioco IV (XXVI,1,1-4):

Ἀντίοχος ὁ Ἐπιφανὴς μὲν κλεθείς, Ἑπιμανὴς δ᾽ἐκ τῶν πράξεων ὀνομασθεις.... περί οὖ φησι Πολύβιος τάδε, ὡς ἀποδιδράσκων ἐκ τῆς αὐλῆς ἐνίοτε τοὺς θεραπεύοντας, οὗ τύχοι τῆς πόλεως, ἀλύων ἐφαἰνετο δεύτερος καὶ τρίτος. Μάλιστα δὲ πρὸς τοῖς ἀργυροκοπείοις εὑρίσκετο καὶ χρυσοχοείοις, εὑρησιλογῶν καὶ φιλοτεχνῶν πρὸς τοὺς τορευτὰς καὶ τοὺς ἄλλους τεχνίτας.

133 Immagine Tav. VI pag. 97

134 Per un tentativo di conciliazione tra il giudizio di Polibio su Antioco

Ἔπειτα καὶ μετὰ δεμοτῶν ἀνθρώπων συγκαταβαίνων ὡμίλει, ῷ τύχοι, καὶ μετὰ τῶν παρεπιδημούντων συνέπινε τῶν εὐτελεστάτων135.

Antioco chiamato “Epifane”, detto “Epimane” per le sue azioni.... del quale Polibio diceva che, allontanandosi talvolta dai ministri della corte, veniva trovato in qualche parte della città, dove capitava, a vagabondare con uno o due compagni. Lo si trovava specialmente presso gli argentieri e gli orefici, intento a confabulare e a rivaleggiare con gli incisori e gli altri artigiani. Inoltre si abbassava a frequentare anche persone volgari, chiunque capitava, e beveva insieme con i più poveri dei forestieri di passaggio136.

Nonostante si tratti di un frammento epitomato delle storie, in questo giudizio si intravede un gusto, tutto polibiano, per l'aneddotica che spesso, come in questo caso, è utilizzata per raccontare il comportamento di personaggi negativi. E' probabile non sia casuale questa scelta di Polibio, che sembra si sforzi di abbassare il registro e la forma di scrittura al personaggio che la scrittura in quel momento racconta. In questo sottile manierismo si scorge tutta la poliedricità e la ricerca di stile della scrittura alessandrina, anche in uno scrittore di storia pragmatico come Polibio.

La carrellata dei re “negativi” può concludersi con il giudizio di Polibio su Prusia II re di Bitinia.

135Propongo il testo come stampato da Büttner-Wobst (1889). 136La traduzione italiana è di Musti, Mari (2002)

Dapprima alleato di Pergamo, si unì con Eumene e Ariarate di Cappadocia contro Farnace del Ponto (179 a.C.). Dopo Pidna, richiesto invano l'aiuto di Roma contro Attalo II, fu costretto a cedere a Pergamo parte della flotta ed una forte indennità. Il figlio di Nicomede, alleatosi con Attalo II, lo vinse in battaglia, facendolo uccidere (149 a.C.).

Ecco come Polibio descrive l'arrivo di Prusia a Roma (XXX, 18, 1-4): Ὅτι κατὰ τὸν αὐτὸν καιρὸν ἦλθε καὶ Προυσίας ὁ βασιλεὺς εἰς τὴν Ῥώμην, συγχαρησόμενος τῇ συγκλήτῳ καὶ τοῖς στρατηγοῖς ἐπὶ τοῖς γεγονόσιν. Ὁ δὲ Προυσίασ οὗτος οὐδαμῶς γέγονεν ἄξιος τοῦ τῆς βασιλείας προσχήματος. Τεκμήραιτο δ᾽ἄν τις ἐκ τούτων. Ὅς γε πρῶτον μέν, πρεσβευτῶν παραγεγονότων Ῥωμαϊκῶν πρὸς αὐτόν, ἐκυρημένος τὴν κεφαλὴν καὶ πιλίον ἔχων (λευκὸν) καὶ τήβενναν καὶ καλικίους ἀπήντα τούτοις, καὶ καθόλου τοιαύτῃ διασκευῇ κεχρημένος οἵαν ἔχουσιν οἱ προσφάτως ἠλευθερωμένοι παρὰ Ῥωμαίοις, οὕς καλοῦσι λιβέρτους· καὶ δεξιωσάμενος τοὺς πρεσβευτάς “ Ὁρᾶτ᾽ ” ἔφη “ τὸν ὑμέτερον λίβερτον ἐμέ, πάντα βουλόμενον χαρίζεσθαι καὶ μιμεῖσθαι τὰ παρ᾽ὑμῖν ”137.

Nello stesso periodo arrivò a Roma anche il re Prusia, per congratularsi dell'accaduto con il Senato e con i generali. Questo Prusia non fu assolutamente degno della dignità regale. Lo si potrà arguire da quel che segue. In primo luogo egli, quando erano giunti presso di lui dei legati romani, era andato loro incontro con la testa rasata, un berretto bianco, toga e calzari: in altre parole, aveva adottato l'abbigliamento che hanno presso i Romani quelli che sono stati liberati da poco, che chiamano

liberti, e, porgendo la destra agli ambasciatori, aveva detto: “vedete in me il vostro liberto, disposto a compiacervi in tutto e a imitare quel che si fa presso di voi”138.

In questi passi, l'usuale distaccato biasimo polibiano si trasforma in malcelato insulto. Prusia non era addirittura degno delle insegne regali, per la sua spudorata piaggeria nei confronti dei Romani, per ingraziarsi i quali si mise in ridicolo svilendo l'importanza dell'aspetto regale, che, per tutti e non solo per Polibio, costituiva la forma e al tempo stesso l'essenza della regalità139.

In altri passi (XXXII, 15,7-14 e XXXVI,15), Polibio lo definisce: empio, vigliacco, dissoluto, privo di istruzione e barbaro.

E' proprio quest'ultima accezione che Polibio dà alla figura di Prusia II, a costituire il motivo principale dell'inasprimento dei suoi giudizi. Dietro il cambio di tono, infatti, si cela l'orgoglio, tutto greco di voler scandire il divario culturale tra il popolo di parlanti greco e i barbari. In questa circostanza, il giudizio su Prusia II, un re barbaro anche se di un regno ellenistico, funge da contrasto per un'orgogliosa rivendicazione della predominanza dello spirito greco, che, pure da perdente non perde mai la propria dignità. Negli giudizi sugli altri re ellenisti, invece, rileggiamo quello che abbiamo già letto a proposito dei tre re: la

138La traduzione italiana è di Musti, Mari (2002)

delusione dello storico sul mancato sfruttamento da parte dei re delle loro potenzialità con la conseguenza del loro surclassamento a favore dell'astro nascente di Roma.

Nel documento Polibio e i re ellenistici (pagine 70-79)

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