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Filippo V di Macedonia

Nel documento Polibio e i re ellenistici (pagine 39-52)

2. I “cattivi” re

2.3 Filippo V di Macedonia

Analizziamo il profilo dei tre re partendo da quello di Filippo V di Macedonia70.

Figlio di Demetrio II, salì al trono nel 221 a.C., alla morte del suo tutore e cugino, Antigono Dosone e

69 L'interruzione è funzionale alla narrazione perché crea suspense; ma è,

allo stesso tempo, in linea con lo sforzo storiografico di raccontare una storia ecumenica.

rimase sul trono macedone fino al 179 a.C. Filippo era indubbiamente un grande re. Possedeva un'acuta capacità di penetrazione nelle realtà della politica. Ciò è testimoniato non solo dalla serie di alleanze strategiche che egli concluse per cercare di arginare la nascente potenza romana, prima con Cartagine nel 215 a.C. (quando ancora si poteva credere ad una vittoria dei Cartaginesi sui Romani) e in seguito con Antioco III nel 205 a.C. per spartirsi il regno dei Tolomei, dopo la morte di Tolomeo IV. Ma le capacità politiche di Filippo, emergono anche dall'importante testimonianza epigrafica della così detta “Lettera di Larissa”, databile attorno al 217 a.C.71 In questo documento, Filippo

consiglia agli abitanti di Larissa in Tessaglia di imitare la prassi romana di rendere cittadini anche gli abitanti delle colonie. Nell'ammissione della efficacia amministrativa della politica romana di integrazione, si rivela la profondità del pensiero politico di Filippo V, che comprende subito quanto sia forte e pericoloso l'astro nascente di Roma.

Mancava però, evidentemente, a Filippo l'energia necessaria per mettere in atto queste sue capacità. Egli naufragò in questo dissidio tra volontà e realizzazione, spinto, secondo Polibio, da un lato dall'ardore giovanile, dall'altro dalla cattiva influenza dei consiglieri. Nel 220 a.C. la guerra sociale (συμμαχικός πόλεμος) divise la Grecia in due fronti. I Macedoni e i loro numerosi alleati greci, tra cui gli Achei, scesero in campo contro gli Etoli, appoggiati a loro volta dagli

Spartani. Nel conflitto venne coinvolta persino Creta, che fino ad allora aveva condotto un'esistenza a sé, al di fuori della grande politica. Le operazione militari non furono mai di grande portata e l'odio fra le due parti trovò sfogo in devastazioni e saccheggi. Gli Etoli distrussero barbaramente la città macedone di Dione, presso l'Olimpo, e il re Filippo non fu da meno nei riguardi di Termo. In complesso, tuttavia, la συμμαχία ellenica, fondata da Antigono Dosone, seppe superare questa prova. Nel 217 a.C., grazie alla mediazione di Rodi, di Chio e del re Tolomeo IV Filopatore, venne conclusa la pace di Naupatto. Fu, questo, l'ultimo accordo stipulato tra soli Greci; quelli successivi videro sempre la presenza determinante dei Romani.

Polibio dimostra inizialmente di essere un grande estimatore di Filippo V (IV, 77, 3). L'iniziale fiducia dello storico è riposta soprattutto nella giovane età del βασιλέυς, il quale nei suoi primi atti aveva dimostrato di possedere le caratteristiche proprie di un re, confermandosi beniamino dei Greci (VII, 11, 8) e al tempo stesso lungimirante stratega in occasione della decisione su Sparta (IV, 23, 7-9 e 24, 1-9). Tuttavia, con la distruzione di Termo in Etolia, decisa per vendicare il saccheggio di Dodona compiuto dagli Etoli l'anno precedente, Filippo rivelò la sua vera indole da tiranno. Ecco cosa scrive Polibio su Filippo V, in questa occasione:

συνεξαμαρτάνων διὰ τὸν θυμὸν καὶ κακῷ κακὸν ἰώμενος ἀσέβειαν εἰς τὸ θεῖον· αὐτὸς δὲ παραπλήσια ποιῶν οὐκ ᾤετο τῆς ὁμοίας ἐκείνοις τεύξεσθαι δόξης παρὰ τοῖς ἀκούσασι. Τὸ μὲν γὰρ παραιρεῖσθαι τῶν πολεμίων καὶ καταφθείρειν φρούρια, λιμένας, πόλεις, ἄνδρας, ναῦς, καρπούς, τἄλλα τὰ τούτοις παραπλήσια, δι᾽ὧν τοὺς μὲν ὑπεναντίους ἀσυενεστέρους ἄν τις ποήσαι, τὰ δὲ σφέτερα πράγματα καὶ τὰς ἐπιβολὰς δυναμικωτέρας, ταῦτα μὲν ἀναγκάζουσιν οἱ τοῦ πολέμου νόμοι καὶ τὰ τούτου δίκαια δρᾶν· τὸ δὲ μήτε τοῖς ἰδίος πρ´γμασιν ἐποκουρίαν μέλλοντα μηδ᾽ἡντινοῦν παρασκευάζειν μήτε τοῖς ἐχθροῖς ἐλάττωσιν πρός γε τὸν ἐνεστῶτα πόλεμον ἐκ περιττοῦ καὶ ναούς, ἅμα δὲ τούτοις ἀνδριάντας καὶ πᾶσαν δὴ τὴν τοιαύτην κατασκευὴν λυμαίνεσθαι, πῶς οὐκ ἄν εἴποι τις εἶναι τρόπου καὶ θυμοῦ λυττῶντος ἔργον; οὐ γὰρ ἐπ᾽ἀπωλείᾳ δεῖ καὶ ἀφανισμῷ τοῖς ἀγνοήσασι πολεμεῖν τοὺς ἀγαθοὺς ἄνδρας, ἀλλ᾽ἐπὶ διορθώσει καὶ μεταθέσει τῶν ἡμαρτημένων, οὐδὲ συναναιρεῖν τὰ μηδὲν ἀδικοῦντα τοῖς ἠδικηκόσιν, ἀλλὰ συσσῲζειν μᾶλλον καὶ συνεξαιρεῖσθαι τοῖς ἀναιτίοις τοὺς δοκοῦντας ἀδικεῖν72.

Un esempio di ciò fu quello che fece allora. Commettendo sulla spinta della collera le stesse empietà degli Etoli e rimediando al male con il male, infatti, non si accorse di comportarsi in modo assurdo. Rinfacciava in ogni occasione a Scopa e a Dorimaco l'insolenza e il disprezzo delle leggi, citando l'empietà verso gli dei commessa a Dodona e a Dion: e non pensava che, facendo cose del tutto simili, si sarebbe attirato un'identica reputazione presso quelli che ne fossero venuti a conoscenza. Sono infatti le regole e il diritto di guerra a indurre a sottrarre ai nemici e a distruggere fortezze, porti città, uomini, navi, raccolti e altre cose del genere, ossia a compiere atti che possono indebolire gli avversari e consolidare la nostra condizione e in nostri progetti; ma come si può non attribuire a un'indole e a una mente preda della follia l'azione di rovinare inutilmente anche templi, nonché

statue e tutte le opere di questo genere, senza la prospettiva né di difendere i propri interessi, né di arrecare alcuna perdita ai nemici almeno per la guerra in corso? Gli uomini retti, infatti, non debbono far guerra a coloro che hanno sbagliato con lo scopo di distruggerli e di annientarli, ma semmai di emendarne e correggerne gli errori, né debbono distruggere, insieme a chi ha commesso una colpa, chi ne è del tutto esente, ma piuttosto salvare e liberare insieme agli innocenti anche quelli che sembrano colpevoli73.

Nel narrare l'evento, Polibio non manca di osservare che il comportamento di Filippo non fu esecrabile semplicemente perché mosso da un basso sentimento di vendetta, ma perché, in nome di un'atto vendicativo, si era macchiato di grande empietà distruggendo i portici, le statue e le costruzioni votive, con l'obiettivo di acquistare potere attraverso la paura. Scrive infatti lo storico in V, 11, 6: τυράννου μὲν γὰρ ἔργον ἐστὶ τὸ κακῶν ποιοῦντα τῷ φόβῳ δεσπόζειν ἀκουσίων, μισούμενον καὶ μισοῦντα τοὺς ὑπαταττομένους· βασιλέως δὲ τὸ πάντας εὖ ποιοὺντα, διὰ τὴν εὐεργεσίαν καὶ φιλανθρωπίαν ἀγαπώμενον, ἑκόντων ¨ηγεῖσθαι καὶ προστατεῖν74.

E' proprio di un tiranno, infatti, facendo il male, dominare con la paura chi non vuole subirne la volontà, essendo odiato dai sudditi e odiandoli a sua volta, mentre è proprio di un re, facendo del bene a tutti ed essendo amato per la propria

73 La traduzione italiana è di Musti, Mari (2002)

liberalità e umanità, reggere e governare persone che gli danno il loro consenso75.

Questa distinzione tra tirannide e monarchia verrà ampiamente esaminata in VI, 3-4, dove Polibio definisce la tirannide come una corruzione del governo del re, la quale dovrebbe basarsi sull'esercizio di un potere illuminato guidato dalla giustizia (γνώμη). E' interessante riprendere qui quello che si è già osservato in precedenza, vale a dire che la scelta di Polibio di condensare nel VI libro le sue riflessioni sulla costituzione mista dello stato romano, è, in realtà, una sorta di summa teorica delle osservazioni pragmatiche dedicate, nel II libro, alla democrazia della Lega Achea e, nel V libro, alla monarchia dei regni ellenistici. Nello specifico, accennando alla distinzione tra re e tiranno, Polibio non vuole semplicemente inserirsi all'interno del dibattito storico-filosofico sulle forme di governo, inaugurato già da Isocrate e portato ai massimi livelli da Platone e Aristotele76, ma vuole

rendere prova della veridicità della teoria, attraverso i fatti.

Dopo Termo, il comportamento di Filippo continua a degenerare. Egli dimostra di essere un tiranno anche in occasione dell'occupazione di Messene (215 a.C. ca.), quando, dando ascolto ai malvagi consigli di Demetrio

75 La traduzione italiana è di Musti, Mari (2002)

76 Sul tema della distinzione tra tirannia e monarchia: Isocrate (Filip. 106-

154), Platone (Rep., III 417 B) e Aristotele (Polit., V, 1310b –1314b), più tardi ripresi da Cicerone (De re pub., II, 45).

di Faro, si macchia nuovamente di grandi empietà (VII, 13. 5-7). Tra i cattivi consiglieri di Filippo, Polibio ricorda in particolare Eraclide di Taranto, architetto militare, che prima di avvicinarsi alla corte macedone, era stato capace di tradire prima Annibale e in seguito i Romani. Eraclide, riuscì a imbrogliare gli abitanti di Rodi distruggendo il loro arsenale e bruciando gran parte della flotta. Grazie a quest'impresa e alla sua abilità e astuzia si guadagnò il rispetto di Filippo, del quale divenne un fidato consigliere, influenzandolo a sbarazzarsi di tutti coloro che si opponevano alle sue opinioni, e facendo morire cinque dei membri del suo Consiglio di Stato (XIII, 4, 8). L'altra “anima nera” di Filippo V, fu Apelle, che, fin dai primi anni di governo di Filippo, si era appropriato di un potere pressoché assoluto negli affari di stato, approfittando della giovane età del re, che presentava come “signore di nulla” (μηδενὸς κύριος) in V, 26,4; espressione, questa, che è l'esatto capovolgimento della definizione data da Aristotele del βασιλέυς come unico “signore di tutto” (πάντων κύριος)77.

Polibio sottolinea più volte l'influenza dei cattivi consiglieri sull'operato del giovanissimo e inesperto Filippo e insiste sull'importanza della scelta dei φίλοι per le sorti del regno (VII, 13,5-7; e IX,23,9). Egli scrive in VII, 14, 6:

τηλικαύτην τοῖς νέοις βασιλεῦσι ῥοπὴν ἔχει καὶ πρὸς ἀτυχίαν

καὶ πρὸς ἐπανόρθωσιν τῆς ἀρχῆς ἡ τῶν παρεπομένων φίλων ἐκλογὴ καὶ κρίσις, ὑπὲρ ἧς οἱ πλείους οὐκ οἶδ᾽ὅιδ᾽ὅπως ῥᾳθυμοῦντες οὐδὲ τήν ἐλαχίστην ποιοῦνται πρόνοιαν78.

Tanto peso ha per i giovani re, sulla sfortuna o sul rafforzamento del loro regno, la scelta e la valutazione degli amici al loro seguito: eppure di questo i più, essendo, non so come mai, poco accorti, non si preoccupano minimamente79.

Questo dei cattivi consiglieri, è un argomento topico nelle invettive polibiane contro i re ellenistici. In questa insistenza, credo si debba scorgere una visione della gestione del potere monarchico molto realistica e disincantata da parte di Polibio. Egli infatti non auspica la possibilità che il βασιλέυς eserciti il suo potere da solo, guidato esclusivamente dal suo senso di giustizia; ma si rende conto del fatto che è essenziale l'apporto gestionale della corte ellenistica alla sopravvivenza del regno80. Gli amici del re sono, di fatto, importanti

quanto il re, in certi casi anche di più81.

Da questa considerazione, si comprende come, per Polibio, un metro di valutazione della lungimiranza del re ellenistico, passa proprio dalla scelta dei suoi collaboratori.

Filippo, tuttavia, per Polibio non fu solo incapace di

78 Propongo il testo come stampato da Büttner-Wobst (1889). 79 La traduzione italiana è di Musti, Mari (2002)

80 Sulla gestione del potere del regno cfr. Virgilio (1999) : pp. 131-201 81 Si pensi per esempio al funzionario Sosibio che resse, un regno, quello

dei Tolomei alla morte di Tolomeo IV Filopatore (205 a.C.), solo nominalmente retto da Filippo V Epifane, all'epoca niente di più che un fanciullo.

scegliere i suoi φίλοι. Gli atti che egli compì, per porre in essere il suo progetto di espansione nel Mediterraneo orientale, sancirono la sua definitiva rovina. In occasione della conquista di Kios in Bitinia (202 a.C.) dimostrò tutta la sua estrema crudeltà (XV, 22, 3). Con l'assedio alla città di Pergamo (201 a.C.), poi, compì ogni sorta di distruzioni sacrileghe (XVI, 1, 1-6).

A proposito di questo mutamento progressivo verso il disfacimento morale e politico, Polibio osserva (XV, 23,4-6): Ἴσως μὲν γὰρ πάντες οἱ βασιλεῖς κατὰ τὰς πρώτας ἀρχὰς πᾶσι προτείνουσι τὸ τῆς ἐλευθερίας ὄμομα καὶ φίλους προσαγορεύουσι καὶ συμμάχους (τοὺς) κοινωνήσαντας σφίσι τῶν αὐτῶν ἐλπίδων, καθικόμενοι δὲ τῶν πράξεων παρὰ πόδας οὐ συμμαχικῶς, ἀλλὰ δεσποτικῶς χρῶνται τοῖς πιστεύσασι· διὸ καὶ τοῦ μὲν καλοῦ διαψεύδονται, τοῦ δὲ παραυτὰ συμφεροντος ὡς ἐπίπαν οὐκ ἀποτυγχάνουσι· τὸ δ᾽ἐπιβαλλόμενον τοῖς μεγίστοις καὶ περιλαμβάνοντα ταῖς ἐλπίσι τὴν οἰκουμένην καὶ πάσας ἀκμὴν ἀκεραίους ἔχοντα τὰς ἐπιβολὰς εὐθέως ἐν τοῖς ἐλαχίστοις καὶ πρώτοις τῶν ὑποπιπτόντων ἐπικηρύττειν ἅπασι τὴν ἀθεσίαν αὑτοῦ καὶ τὴν ἀβεβαιίτητα πῶς οὐκ ἄν δόξειεν ἀλόγιστον εἶναι καὶ μανικόν;82

Forse tutti i re, ai loro primi inizi, sbandierano davanti a tutti il nome della libertà e chiamano amici e alleati quelli che fanno causa comune con loro, e invece, subito dopo aver raggiunto dei risultati, trattano quelli che si sono fidati di loro non da alleati, ma in modo dispotico; perciò essi mancano di fare il bene, anche se in genere riescono a conseguire un utile immediato: come si fa a non considerare sconsiderato e folle il fatto che uno che

intraprende le imprese più grandi, che abbraccia il mondo intero nelle sue speranze e conserva ancora intatti tutti i suoi disegni, proclami subito a tutti, già nei primi e più insignificanti avvenimenti, la propria slealtà e inaffidabilità?83

Con spirito apparentemente soltanto teorico e distaccato, ma in realtà non senza un'amara ironia che indica una più profonda partecipazione, Polibio non perde occasione di rilevare e biasimare gli errori di Filippo V: con il suo comportamento brutale e proditorio, il re di Macedonia si sarebbe procurato l'odio dei Rodii e degli Etoli e avrebbe suscitato il legittimo sospetto del resto del mondo greco, di cui invece avrebbe dovuto tentare di assicurarsi la benevolenza (εὔνοια). Con il suo comportamento dispotico, invece, Filippo si precluse ogni possibilità di raggiungere quel dominio sull'οἰκουμένη che, a giudizio di Polibio, si sarebbe potuto ancora legittimamente prefiggere. Il tema della necessità che la potenza egemone tratti con mitezza gli alleati, e l'indicazione dell'utilità di questo comportamento nella sua stessa prospettiva, è il motivo fondamentale della riflessione politica di Polibio, che tenterà di farlo valere nei successivi rapporti tra Grecia e Roma. Nella pesantissima domanda retorica che chiude il passo citato, leggiamo soprattutto il biasimo politico prima che morale, legato a questa mancata prudenza da parte del re macedone nelle scelte strategiche. Il rimprovero

è quello di non essere stato in grado di portare a compimento il progetto delineato da Agelao di Naupatto, la realizzazione cioè di unico fronte greco sotto la sua egemonia, con il cui sostegno tentare di cogliere ogni occasione che gli si presentasse. Le entità politiche minori del mondo ellenistico, delle cui aspirazioni Polibio può considerarsi il portavoce, gelose della propria indipendenza, avrebbero desiderato che a tenere insieme questa vagheggiata alleanza panellenica fossero solo i legami della πίστις, cioè che all'interno dell'alleanza a guida macedone fosse garantita loro la piena autonomia (V, 104). Colpevole della distruzione di questo sogno per Polibio è Filippo, il quale alla fine pagò il fio con la sconfitta di Cinoscefale (197 a.C.).

E' significativo che Polibio nel giudicare quest'evento chiami in gioco la τύχη (XXII, 10,1-3):

Ὅτι τῷ βασιλεῖ Φιλίππῳ καὶ τῇ συμπάσῃ Μακεδονίᾳ κατὰ τοῦτον τὸν καιρὸν δεινή τις ἀρχὴ κακῶν ἐνέπεσε καὶ πολλῆς ἐπιστάσεως καὶ μνήμης ἀξία. Καθάπερ γὰρ ἄν εἰ δίκην ἡ τύχη βουλομένη λαβεῖν (ἐν) καιρῷ παρ᾽αὐτοῦ πάντων τῶν ἀσεβημάτων καὶ παρανομημάτων ὧν εἰργάσατο κατὰ τὸν βίον, τότε παρέστησέ τινας ἐριωῦς καὶ ποινὰς καὶ προστροπαίους τῶν δι᾽ἐκεῖνον ἠτυχηκότων· οἵ συνόντες αὐτῷ καὶ νύκτωρ καὶ μεθ᾽ἡμέραν τοιαύτας ἔλαβον παρ᾽αὐτοῦ τιμωρίας, ἕως οὗ τὸ ζῆν ἐξέλιπεν, ὠς καὶ πάντας ἀνθρώπους ὁμολογῆσαι διότι κατὰ τὴν παροιμίαν ἔστι Δίκης ὀφθαλμός, ἧς μηδέποτε δεῖ καταφρονεῖν ἀνθρώπους ὑπάρχοντας84.

In questo momento fu per Filippo e per tutta la Macedonia l'inizio di terribili mali, degno di ricordo e di grande attenzione. Come se la sorte, infatti, avesse voluto al momento giusto fargli pagare tutte le empietà e le ingiustizie che aveva commesso nel corso della vita, allora suscitò le Erinni, i castighi e gli spiriti vendicatori di quelli divenuti infelici a causa sua. Ed essi, stando con lui notte e giorni, si vendicavano su di lui, fino a che non morì, al punto che tutti gli uomini riconobbero, come dice il proverbio, che “c'è l'occhio della giustizia”, che non bisogna mai disperare, essendo esseri umani85.

Questa descrizione a tinte fosche e piena di evocazioni tragiche (le Erinni degli infelici hanno tutta l'aria di essere vicine alle Erinni di Oreste), ha suscitato alcune perplessità in Walbank, che nota il fatto che Polibio dipinge il re con i tratti dell'eroe tragico, nonostante si sia sempre posto in aspra polemica con gli eccessi della storiografia “drammatica”86.

Tralasciando di approfondire il concetto di τύχη, che nella opera polibiana assume un'importanza così cruciale da meritare una trattazione a parte87, è

sufficiente sottolineare in questa sede il rapporto tra caso ed eticità dei personaggi. La presenza della τύχη, in generale in Polibio, compendia tutti gli aspetti dell'irrazionalità e dell'imprevedibilità che determinano gli eventi, senza una connotazione di tipo positivo o

85 La traduzione italiana è di Musti, Mari (2002) 86 Walbank (1938) pp. 55-68 e (1957) vol. II pp. 443-47

87 Per una più ampia riflessione sul concetto di τύχη in Polibio rimandiamo

negativo. In questo caso, invece, attraverso una coloritura drammatica della fine della vita di Filippo V, Polibio fa coincidere il volere della τύχη con il suo giudizio, che come abbiamo più volte detto, si basa sui fatti accaduti o è, comunque, costruito a posteriori rispetto agli eventi.

Possiamo aggiungere un ulteriore elemento per comprendere meglio questa scelta. Come ricorda correttamente Eckstein88, riprendendo in parte De

Coulanges89, Polibio era nato e vissuto, almeno fino al

168 a.C. in un ambiente, quello della dirigenza politica della Lega Achea, profondamente intriso di valori aristocratici. La καλοκαγαθία omerica era sempre stato il modello educativo per antonomasia dei giovani greci, in particolare di coloro ai quali si prospettava il raggiungimento di un ruolo politico decisionale90.

Possiamo esser abbastanza sicuri del fatto che a Polibio non mancò questo modello educativo. Lo avvertiamo riflesso, a volte anche solo sullo sfondo, in moltissimi eventi narrati nelle Storie91. Il sostrato culturale

formatosi nei secoli attorno alle idee di valore e di vergogna (τό καλόν καί τό αἰσρχόν), che riaffiora nella mente del Polibio politico e narratore di storia, agisce come orizzonte condizionale nella realizzazione del volere della τύχη. Chi ha grandi possibilità di dimostrare il proprio valore, come un re, e non sfrutta

88 Eckstein (1993) pp. 1-16 89 De Coulanges (1947) pp. 39-41

90 Sull'influenza dei poemi omerici nell'educazione dei greci cfr. Havelock

(1972) pp. 19-55

questa fortuna, ha maggiori possibilità di essere perseguitato dal suo destino. Polibio, raccontandoci della fine tragica di Filippo, non vuole puntare l'accento sul valore etico della τύχη, ma vuole dimostrare l'importanza di un comportamento etico nella risposta agli eventi che il caso pone davanti. Si potrebbe concludere dicendo che, anche se Polibio non lo afferma apertamente, in questa circostanza sembra quasi volerci dire: “non basta esser chiamati re per essere re”.

Nel documento Polibio e i re ellenistici (pagine 39-52)

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