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Nel documento Polibio e i re ellenistici (pagine 32-38)

2. I “cattivi” re

2.1 Nessun rendiconto

A partire dall'inizio del III sec. a.C., a seguito della breve, ma luminosissima parabola politica di Alessandro Magno, che rivoluzionò la geo-politica e la cultura del Mediterraneo orientale e non solo, iniziò a svilupparsi, soprattutto in ambito filosofico, la riflessione sul concetto di regalità47.

Grazie all'iniziale contributo di Aristotele e della sua scuola, l'indagine filosofica passò dallo studio del rapporto tra monarca e πόλις48, all'interesse per la

nuova realtà politica, vasta e multietnica, sorta con Alessandro: il regno. Esso, totalmente incentrato sulla figura del βασιλεύς, sciolto da ogni vincolo istituzionale, era esclusiva proprietà del re che l'aveva conquistato e sul quale, tuttavia, esercitava il potere con giustizia e rispetto per le popolazioni e le πόλεις che lo abitavano.

La figura del filosofo cominciò ad avere il preciso compito di legittimare il potere del re, attraverso la

47 Sulla concezione della regalità in età alessandrina cfr. Virgilio (1999) p.

47-85

48 Sulla riflessione del potere monarchico all'interno della dimensione

politica cittadina, sono fondamentali i contributi di Senofonte (Agesilao) e Isocrate (A Nicocle), (Evagora) e (Filippo)

definizione di un canone di regalità. Aristotele49,

Senocrate di Calcedone50, Anassarco di Abdera51,

Teofrasto52, Stratone di Lampsaco, Eraclide53 e persino

Epicuro54 sono solo i più importanti, ma non gli unici

filosofi e intellettuali alessandrini che scrissero dei Περὶ βασιλεῖας, nei quali indicavano le caratteristiche del re ideale, buono e giusto, e del rapporto che la filosofia doveva avere con la casa regnante.

Ritroviamo riflessioni sulla regalità anche nei trattati pseudo-pitagorici Περὶ βασιλεῖας di Ecfanto, Diotogene e Stenida, conservati in estratto nell'Antologia di Stobeo del V d.C.

Riguardo questi ultimi, nonostante tutte le problematicità interpretative55, non si può escludere che

riflettano in qualche misura le idee sulla regalità diffuse in età alessandrina56.

Questa immensa produzione di pensiero si regge su una concezione sacra e mistica della regalità: il βασιλεύς è per i sudditi ciò che dio è per gli uomini57.

Il poeta alessandrino Archita da Taranto definisce il re

49 Ari. frr. 646-647, 649, 654-663 Rose. 50 Dio. Laer. IV, 14

51 Anassarc., 72.B, 1-2 DK

52 Dio. di Alicar., Anti. Rom. V, 73,2 e Dio. Laer. V, 47 53 Dio. Laer. V, 58-59 (Stratone) e V, 87 (Eraclide)

54 Dio. Laer. X, 141 = Epicuro, Sentenze Capitali, 6. Cfr. Arrighetti (1973)

pp. 122-23

55 Stobeo IV, 6, 22 e 7, 64-66 (Ecfanto). Non è facile distinguere nei tre

trattati pseudo-pitagorici la riflessione sul re ellenistico dalla riflessione sull'imperatore romano, o dalla ancora più tarda selezione operata da Stobeo per scopo pedagogico.

56 Cfr. Delatte (1942) e Squilloni (1991) 57 Delatte (1942) p. 32

come “legge animata”, νόμος ἔμψυχος e allo stesso tempo magistrato che si conforma alla legge58. Il re

saggio e giusto imita la scienza e la sapienza di dio, nell'esercizio delle sue principali funzioni di capo militare, giudice e sacerdote.

Ritorniamo, dunque, a Polibio. Anch'egli affronta il problema della regalità, ma i suoi giudizi sui re ellenistici, pur riferiti principalmente alla generazione di re subentrata al potere nel corso della 139a

Olimpiade (224-220 a.C.), sovvertono di fatto i due secoli di produzione filosofica appena esaminati.

Parlare dei regni ellenistici, per Polibio, equivale a parlare non dei βασιλεῖς ideali, ma dei re in carne ed ossa, del loro operato politico e militare, ma soprattutto del loro potere “in nessun modo soggetto a rendiconto”59. Questo presupposto etico basta allo

storico per sentirsi libero di criticare apertamente la loro condotta.

Non si tratta semplicemente dell'orgogliosa avversione nei confronti della βασιλεῖα, accompagnata dall'altrettanta orgogliosa fierezza di essere un Acheo democratico prima, e un alleato della grande Roma poi. La critica per Polibio è soprattutto un espediente narrativo. Così come l'elogio dei costumi, della religione e delle usanze di Roma, infatti, è funzionale alla giustificazione del successo di questa nuova e inarrestabile potenza; allo stesso modo, il biasimo dello storico verso l'azione dei re ellenistici che si reifica nel

58 Stobeo IV, 1, 135 (Archita)

“rimprovero” (ψόγος)60, mosso da indignazione etica,

serve a giustificare la loro disfatta politica. Attraverso questo contrasto di giudizi, dunque, ecco delinearsi quella tridimensionalità narrativa di cui si è già detto nel precedente capitolo61. Le figure abiette e grette dei

re ellenistici, sono il contraltare delle grandi personalità della repubblica romana, da un lato (Scipione Africano, Emilio Paolo, Scipione Emiliano), e dei grandi personaggi della Lega Achea, dall'altro (Arato, Filopemene).

Tre universi, legati fra loro dalla sincronia degli eventi, ma divisi dalla diacronia degli sviluppi.

Polibio, infatti, inserisce i suoi giudizi nel testo, mentre parla dei fatti storici. Questo è un particolare cruciale per la nostra analisi, perché notiamo una progressione del mutamento delle figure protagoniste dei fatti stessi. Un mutamento psicologico che inspessisce la veridicità e l'obiettività dei giudizi di Polibio.

E ciò non è l'unico espediente usato dallo storico per rendere credibile il suo approccio etico ai comportamenti.

E' superfluo, forse, ricordare che i giudizi morali sui re, vengono pronunciati nel momento in cui il destino dei regni ellenistici è già segnato62. E' superfluo, ma non

60 Polibio taccia i re ellenistici di grettezza (μικροδοσία) e di pochezza di

doni (μικποληψία). Cfr. V, 90, 5-8

61 Supra nota 42

62 In II, 37.8, Polibio parla di “completa distruzione” del regno degli

Antigonidi di Macedonia. Se poi si accettasse l'ipotesi della seconda edizione dell'opera dopo il 143 a.C., si ammetterebbe avvenuta anche il crollo del regno seleucidico (dopo la guerra giudaica dal 167 al 142 a.C. e con l'ascesa del regno dei Parti a partire dal 150 a.C.).

scontato. Certo, ogni storico, approcciandosi alla narrazione dei fatti, ricerca le cause, partendo dalle conseguenze. Polibio, tuttavia, ribaltando la lezione di Tucidide sulla “causa reale” (αληθεστάτη πρόφασις)63,

ricostruisce il processo causativo, legandolo ad un impianto teorico di moralità, secondo il quale il migliore in senso etico prima che politico-militare, vince, mentre il peggiore soccombe.

Per Polibio, in altre parole, i personaggi emergono dai fatti e vengono plasmati da essi, ma al tempo stesso la predisposizione del carattere dei personaggi, in qualche modo, influenza i fatti storici. A questo proposito lo storico afferma in IX, 8, 7-9:

ἐγὼ δ᾽οὔτε λοιδορεῖν ψευδῶς φημι δεῖν τοὺς μονάρχους οὔτ᾽ἐγκωμιάζειν, ὅ πολλοῖς ἤδη συμβέβηκε, τὸν ἀκόλουθον δὲ τοῖς προγεγραμμένοις ἀεὶ καὶ τὸν πρέποντα ταῖς ἑκάστων προαιρέσεσι λόγον ἐφαρμόζειν. Ἀλλ᾽ ἴσως τοῦτ᾽εἰπεῖν μὲν εὐμαρές, πρᾶξαι δὲ καὶ λίαν δυσχερὲς διὰ τὸ πολλὰς καὶ ποικίλας εἶναι διαθέσεις καὶ περιστάσεις, αἷς εἴκοντες ἄνθρωποι κατὰ τὸν βίον οὔτε λέγειν οὔτε γράφειν δύνανται τὸ φαινόμενον. Ὧν χάριν τισὶ μὲν αὐτῶν συγγνώμην δοτέον, ἐνίοις γε μὲν οὐ δοτέον64.

Io dico che non bisogna né biasimare né encomiare i monarchi in modo falso, come è già accaduto a molti, ma adattare ad essi un discorso di volta in volta coerente con quanto è stato scritto in precedenza e adeguato alla condotta di ciascuno. Ma forse, mentre dirlo è semplice, farlo è assai difficile, poiché sono molte

63 Cfr. Rossi (2006) : p. 416

e varie le circostanze e le occasioni, cedendo alle quali gli uomini nel corso della vita non possono né dire né scrivere quello che pensano. In considerazione di ciò alcuni di loro sono da perdonare, altri no65.

Con questa forte dichiarazione in prima persona (ἐγὼ φημι), Polibio sottolinea tutto il suo orgoglio di storico alla ricerca del vero. I suoi giudizi sono svincolati tanto dalla scrittura forzatamente benevola dell'encomio, quanto da quella, altrettanto falsata, della protesta. Ma, in questa dichiarazione c'è qualcosa di più. C'è l'organicità narrativa del pensiero storico. C'è il determinismo evenemenziale che agisce sia sui personaggi narrati che sui narratori. E non solo. In X, 29, 9-10 si dice: καίπερ ἡμεῖς οὐκ ἐν τοῖς προοιμίοις, ὥσπερ τῶν λοιπῶν συγγραφέων, προφερόμεθα τὰς τοιαύτα διαλήψεις, ἀλλ᾽ἐπ᾽αὐτῶν τῶν πραγμάτων ἀεὶ τὸν καθήκοντα λόγον ἁρμόζοντες ἀποφαινόμεθα περί τε τῶν βασιλέων καὶ τῶν ἐπιφανῶν ἀνδρῶν, νομίζοντες ταύτην οἰκειοτέραν εἶναι καὶ τοῖς γράφουσι καὶ τοῖς ἀναγινώσκουσι τὴν ἐπισημασίαν66.

Noi, comunque, non esprimiamo simili opinioni nei proemi, come avviene nel caso degli altri storici, ma ci esprimiamo sui re e sugli uomini illustri solo quando presentiamo i fatti, cercando di volta in volta di adattarvi le parole opportune, poiché pensiamo che questo tipo di segnalazioni siano più

65 La traduzione italiana è di Musti, Mari (2002)

appropriate sia agli scrittori sia ai lettori67.

Polibio pensa anche ai suoi lettori. Mentre scrive, ha in mente un pubblico capace non solo di intenderlo ma di giudicare quello che lui scrive. Questo pubblico non è solo il fruitore del messaggio contenuto nelle Storie, ma è anche il fine ultimo della sua scrittura. Egli è, infatti, il primo storico greco a rendersi conto che la sua opera verrà letta e giudicata da achei, romani e abitanti dei regni ellenistici e, per questo motivo, egli decide di affidarsi all'unico giudice imparziale, riconosciuto da tutti i suoi lettori: il fatto storico.

I re ellenistici, pur avendo la possibilità di giocare la propria partita, hanno perso la sfida contro Roma. Questo è un fatto. E su questo fatto Polibio costruisce le sue critiche nei confronti dei re ellenistici.

Nel documento Polibio e i re ellenistici (pagine 32-38)

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