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Ictus Cerebri e Fibrillazione Atriale Non Valvolare: evidenze e conseguenze della inadeguatezza prescrittiva della Terapia Antitrombotica.

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Sommario

1.

INTRODUZIONE

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3

1.1 Fibrillazione Atriale: Considerazioni Generali 5 1.2 Gestione Complessiva della Fibrillazione Atriale 12 1.3 Profilassi Antitrombotica nella Fibrillazione Atriale 16 1.4 Aspetti critici della Profilassi Antitrombotica 38 1.5 Ictus Cerebri e Profilassi Antitrombotica: il quadro italiano 47

2.

SCOPO DELLA TESI

...

52

3.

MATERIALI E METODI

...

54

4.

RISULTATI

...

66

5.

DISCUSSIONE

...

76

6.

CONCLUSIONI

...

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Riassunto Analitico

La fibrillazione atriale è l’aritmia cardiaca sostenuta di più frequente riscontro nella pratica clinica ed è un fattore di rischio indipendente per eventi tromboembolici, soprattutto cerebrali (aumentando di 5 volte il rischio di stroke). Di conseguenza, la stratificazione del rischio e la prevenzione del tromboembolismo sono momenti centrali nella gestione complessiva di questi pazienti.

Volendo studiare il fenomeno del sottoutilizzo della terapia anticoagulante orale (TAO) nel paziente con fibrillazione atriale non valvolare, questa tesi si pone tre obiettivi: in primo luogo, l’individuazione di predittori di prescrizione della TAO; in secondo luogo, l’individuazione dei fattori di rischio che maggiormente si correlano con eventi cerebrali ischemici acuti di verosimile origine cardioembolica, specialmente nei pazienti ultrasettantacinquenni; in terzo luogo, la valutazione dell’efficacia della TAO in range terapeutico (INR tra 2.0 e 3.0) nella prevenzione dell’ictus ischemico, confrontandola con quella della terapia antiaggregante.

Sono stati così realizzati tre studi caso-controllo retrospettivi trasversali, nei quali l’arruolamento è avvenuto tramite una ricerca effettuata nell’archivio delle lettere di dimissione del reparto di Medicina d’Urgenza Universitaria dell’Azienda Ospedaliera Universitaria Pisana tra il gennaio 2011 ed il settembre 2014; i dati clinico-laboratoristici sono stati poi ricercati nelle relative cartelle cliniche. I pazienti arruolati, tutti con una storia clinica di fibrillazione atriale non valvolare, sono stati studiati e variamente divisi, a seconda dello studio considerato, in base alla presenza di TAO, terapia antiaggregante, indicazione alla TAO (secondo il CHA2DS2-VASc score), alto rischio emorragico (secondo l’HAS-BLED score), singoli fattori di rischio del CHA2DS2-VASc, fibrillazione atriale parossistica, strategia aritmologica basata sul controllo della frequenza e sulla base del fatto che fossero stati ricoverati o meno presso il nostro reparto per ictus ischemico od attacco ischemico transitorio (TIA). E’ stato inoltre registrato l’INR all’ammissione, qualora il paziente fosse in TAO.

I dati riscontrati nei tre studi ci permettono di fare alcune considerazioni conclusive.

Una stratificazione del rischio di ictus che contempli anche fattori quali la malattia vascolare aterosclerotica ed il sesso femminile, come accade nel CHA2DS2-VASc score rispetto al più vecchio CHADS2 score, risulta più appropriata. Nel nostro studio, la vasculopatia aterosclerotica ed una storia clinica di ipertensione arteriosa sono risultati dei significativi modificatori del rischio di stroke, specialmente tra i pazienti ultrasettantacinquenni.

La TAO in range terapeutico risulta essere, nella profilassi del rischio tromboembolico del paziente con fibrillazione atriale non valvolare, maggiormente efficace rispetto alla terapia antiaggregante, specialmente nel paziente anziano.

Nonostante ciò, la TAO risulta sottoprescritta rispetto alle indicazioni; dall’altro lato, la terapia antiaggregante è eccessivamente impiegata (addirittura in pazienti ad alto rischio emorragico). A questo proposito risulta significativa l’influenza sulle scelte del medico di fattori diversi da quelli promossi dalle linee guida, come ad esempio la strategia aritmologica adottata. Viceversa, appare scarso l’impiego degli score validati per la stima del rischio trombotico ed emorragico.

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1. INTRODUZIONE

La fibrillazione atriale è l’aritmia cardiaca sostenuta di più frequente riscontro nella pratica clinica, ricorrendo nell’1-2% della popolazione generale; se si considera, però, che un caso su tre rimane a lungo non diagnosticato, giacché asintomatico (fibrillazione atriale silente), la “reale” prevalenza di questa affezione è probabilmente più vicina al 2% della popolazione.1 Oltre 6 milioni di Europei sono afflitti da tale aritmia,1 di cui 800000 persone solo in Italia.2 Si stima che nei prossimi cinquant’anni la sua prevalenza per lo meno raddoppi, in rapporto con l’aumento dell’età media della popolazione1: si passa dallo 0.5% di prevalenza nella fascia di età tra 50 e 59 anni all’1.8% tra 60 e 69 anni, 4.8% tra 70 e 79 anni e 8.8% tra 80 e 89 anni.3 Anche l’incidenza, come la prevalenza, varia con l’aumentare dell’età4

: se assumiamo un’incidenza dello 0.2% per anno, si può stimare che il numero di nuovi casi in Italia sia di 120000 persone ogni anno.2 A spiegare questo aumento di incidenza nel tempo, vi è anche l’allungamento della sopravvivenza dei pazienti affetti da condizioni cliniche strettamente correlate alla fibrillazione atriale, come coronaropatia, scompenso cardiaco e ipertensione arteriosa.2

Tale aritmia si associa ad una mortalità generale doppia rispetto a chi non ne è portatore.1 Essa, inoltre, rappresenta un terzo di tutti i ricoveri per aritmia; le principali cause dell’ospedalizzazione sono rappresentate dalla gestione acuta dell’aritmia, dall’insorgenza di complicanze tromboemboliche, dall’aggravamento di un pregresso scompenso cardiaco e dalla sindrome coronarica acuta.1 Piccoli studi osservazionali suggeriscono come eventi embolici asintomatici possano anche contribuire a disfunzioni cognitive (ivi compresa la demenza vascolare) nei pazienti con fibrillazione atriale, in assenza di uno stroke manifesto.5

La fibrillazione atriale risulta essere, quindi, una condizione molto onerosa sia per il paziente, che vive un peggioramento della qualità della vita e della tolleranza all’esercizio fisico1

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fronteggiare molti costi connessi alle numerose ospedalizzazioni ed alle disabilità permanenti che spesso fanno seguito allo stroke cardioembolico.

Approssimativamente uno stroke su cinque è legato a fibrillazione atriale, anche silente. Questa aritmia conferisce al paziente un rischio 5 volte superiore di stroke ischemico, con un rischio annuale medio di circa il 5% e indipendente dal tipo di fibrillazione atriale (parossistica, persistente o permanente).6 Il rischio cerebrale sale ad oltre il 7% se si sommano anche gli attacchi ischemici transitori (TIA) e gli infarti cerebrali silenti.7 Il tasso annuale di stroke in questi pazienti è influenzato dall’età e dalla presenza di fattori di rischio, quali ipertensione, ridotta funzione ventricolare , pregressi episodi di cardioembolia, stenosi mitralica, protesi valvolare o diabete mellito. Nei pazienti senza questi fattori di rischio e con età inferiore a 65 anni il rischio annuale di ictus è di circa lo 0.5%; nei pazienti ultrasessantacinquenni e con almeno un fattore di rischio l’incidenza annuale è di circa il 15%.8

L’ictus in questi pazienti è particolarmente grave ed esita spesso nel decesso del paziente (il rischio di morte rispetto ad altre cause di ictus è raddoppiato) o in disabilità permanenti.1 Anche qualora il paziente sopravviva, sono frequenti le disabilità neurologiche e la suscettibilità ad eventi cerebrovascolari ricorrenti; si calcola che il costo dell’assistenza ad un paziente con fibrillazione atriale colpito da ictus sia 1.5 volte superiore rispetto ad ictus da altre cause.1

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1.1 Fibrillazione Atriale: Considerazioni Generali

La fibrillazione atriale è un’aritmia sopraventricolare sostenuta, caratterizzata da un’attivazione atriale irregolare, rapida e disorganizzata e da una risposta ventricolare anch’essa rapida e irregolare.9

Proprio sulla base della frequenza di risposta ventricolare, si distingue in fibrillazione atriale tachifrequente (situazione più comune), normofrequente o bradifrequente. Nei casi tipici la frequenza è compresa tra 120 e 160 battiti/min, ma in alcuni soggetti, a causa di un aumento del tono vagale o delle proprietà intrinseche di conduzione del nodo atrioventricolare, la risposta ventricolare può essere inferiore ai 100 battiti/min e, occasionalmente, francamente bradicardica. Dall’altro lato, la frequenza ventricolare può superare anche i 200 battiti/min, come nel caso di una preeccitazione ventricolare.9

CENNI DI EZIOPATOGENESI

Il meccanismo d’insorgenza e mantenimento della fibrillazione atriale è complesso e tuttora dibattuto. Si ritiene che si realizzi una complessa interazione tra impulsi responsabili dell’avvio ed un substrato anatomico che favorisce il mantenimento di piccole onde multiple di microrientro.9 Alla costituzione di questo substrato anatomico contribuiscono numerose anomalie strutturali†, che precedono l’insorgenza della fibrillazione atriale e che sono favorite da qualsiasi patologia che interessi primitivamente o secondariamente il cuore. Il rimodellamento strutturale ha come risultato una dissociazione elettrica tra i fasci di muscolatura cardiaca ed una eterogeneità nella conduzione locale, facilitando così l’iniziazione e la perpetuazione dell’aritmia.1

Dal punto di vista elettrofisiologico, si distinguono meccanismi focali (implicati soprattutto nell’insorgenza) e meccanismi diffusi (il cui ruolo è perlopiù incentrato nel

Alterazioni della matrice extracellulare (fibrosi interstiziale, sostituzione fibrotica, infiammazione, deposito di amiloide), alterazioni dei miociti (apoptosi, necrosi, ipertrofia, sdifferenziamento, ridistribuzione delle gap junctions), cambiamenti nel microcircolo e fibrosi endomiocardica.1

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mantenimento dell’aritmia). Sembra che gli impulsi responsabili dell’avvio abbiano origine prevalentemente nella muscolatura atrializzata che penetra nelle vene polmonari (meccanismo focale),9 caratterizzata da un periodo refrattario più corto e da bruschi cambi di orientamento dei fascetti muscolari.10 A sostegno dei meccanismi elettrofisiologici diffusi è stata, invece, proposta la teoria delle onde da rientro multiple (multiple wavelet hypotesis), secondo cui l’aritmia sarebbe perpetuata dalla conduzione di numerose onde indipendenti propagantesi attraverso la muscolatura atriale in maniera caotica; l’interazione reciproca dei singoli fronti d’onda comporterebbe sia la “rottura” del fronte d’onda originario (con conseguente genesi di nuovi fronti d’onda), sia la collisione e la fusione degli stessi (con tendenza a ridurre il loro numero). Fintantoché il numero dei fronti d’onda non scenderebbe al di sotto di un livello critico, le onde da rientro multiple sosterrebbero l’aritmia.1

Alle modificazioni dell’ultrastruttura miocardica e delle proprietà elettrofisiologiche, si associa un’alterazione della funzione meccanica: la perturbazione della contrattilità atriale riconosce dei meccanismi cellulari, quali down-regulation dei canali del calcio responsabili di correnti in ingresso, ridotto rilascio di calcio dai depositi intracellulari e riduzione delle scorte energetiche; il pieno ripristino della contrattilità, così come il recupero della normale refrattarietà atriale, possono richiedere anche fino ad alcuni giorni dal momento della ripresa del ritmo sinusale.1

Tra le cause di fibrillazione atriale si riconoscono cause cardiache e non cardiache (si veda la Tabella 1.1).

CAUSE CARDIACHE CAUSE NON CARDIACHE

Comuni Infezioni acute (specialmente polmoniti) Cardiopatia ischemica Deplezione elettrolitica

Cardiopatia reumatica Carcinoma del polmone

Ipertensione Embolia polmonare

Sindrome del nodo del seno Tireotossicosi Sindromi da preeccitazione (es. W-P-W) Anemia

Meno Comuni Feocromocitoma Cardiomiopatie o miocarditi Riacutizzazioni BPCO Malattie del pericardio

Difetti del setto atriale

Mixoma atriale

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Alle cause riportate in Tabella 1.1 deve essere aggiunta anche la chirurgia, specialmente quella cardiotoracica (come la toracotomia ed il bypass aorto-coronarico). Devono inoltre essere menzionati fattori inerenti la dieta e lo stile di vita, in primis l’abuso di alcol e caffè, nonché stress fisici ed emotivi.11

Nel complesso, quindi, le condizioni attualmente riconosciute come associate a fibrillazione atriale sono:12-15

Età: la prevalenza della fibrillazione atriale aumenta con l’età, da meno dello 0.5% a 40-50 anni di età fino al 5-15% a 80 anni;1

Ipertensione arteriosa;

Scompenso cardiaco sintomatico (classe NYHA II-IV): riscontrato nel 30% dei pazienti con fibrillazione atriale; lo scompenso cardiaco può essere sia una conseguenza (ad esempio per la tachicardiomiopatia) che una causa dell’aritmia (per l’aumentata pressione atriale ed il sovraccarico di volume secondari alla disfunzione valvolare, nonché all’attivazione neurormonale cronica);

Valvulopatia: riscontrata in circa il 30% dei pazienti; la fibrillazione atriale può rappresentare una manifestazione precoce sia di una stenosi che di una insufficienza mitralica; si presenta invece più tardivamente in caso di valvulopatia aortica;

Cardiomiopatie;

Difetto del setto interatriale;

Cardiopatia ischemica: presente in più del 20% della popolazione con fibrillazione atriale;

Disfunzione tiroidea conclamata: può rappresentare l’unica causa dell’aritmia e predisporre alle sue complicazioni; anche una disfunzione subclinica può avere un ruolo in questo senso;

Obesità: presente nel 25% dei pazienti;

Diabete mellito: presente nel 20% dei pazienti;

Broncopneumopatia cronica ostruttiva (BPCO): presente nel 10-15% dei pazienti; è più verosimilmente un marker di rischio cardiovascolare che un

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fattore specifico di predisposizione per fibrillazione atriale;1

Apnee del sonno: sicuro fattore causale per ipertensione, diabete mellito e cardiopatia strutturale; determina incremento della pressione e delle dimensioni dell’atrio e, inoltre, induce modificazioni autonomiche;

Malattia renale cronica: presente nel 10-15% dei pazienti.

Tali condizioni mediche concomitanti hanno un effetto additivo sulla perpetuazione della fibrillazione atriale, favorendo lo sviluppo di un substrato che mantiene l’aritmia stessa. Inoltre, tali condizioni sono markers di un rischio cardiovascolare globale e di danno cardiaco, piuttosto che semplici fattori causali.1

Dopo un adeguato work-up diagnostico si giunge, talvolta, alla diagnosi di fibrillazione atriale isolata (lone atrial fibrillation); si tratta di una diagnosi di esclusione, con assenza di storia clinica e reperti obiettivi compatibili con una cardiopatia o ipertensione, con radiografia del torace ed ECG nei limiti della norma (ad eccezione ovviamente del rilievo di fibrillazione atriale) e da normalità all’esame ecocardiografico nelle dimensioni e nella funzione di atri, valvole e ventricolo sinistro.11

CLASSIFICAZIONE

La fibrillazione atriale può essere classificata secondo diversi criteri.

Dal punto di vista eziologico, si distinguono una fibrillazione atriale VALVOLARE (correlata a malattia reumatica, che si esprime principalmente con una stenosi mitralica, ed a valvola cardiaca protesica), una fibrillazione atriale NON VALVOLARE (correlata a tutte le altre cause; situazione più frequente)16 ed una fibrillazione valvolare ISOLATA (Lone Atrial Fibrillation)11.

Dal punto di vista clinico e gestionale, è molto utile distinguere la fibrillazione atriale in cinque tipi, sulla base della presentazione e della durata:1

Fibrillazione atriale DIAGNOSTICATA PER LA PRIMA VOLTA: caso di un paziente che si presenti dal medico per la prima volta in presenza di tale aritmia, a prescindere dalla durata della stessa e dalla gravità dei sintomi correlati; già in

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questa fase, l’episodio può essere considerato come il primo di una serie di attacchi ricorrenti o come una forma permanente;

Fibrillazione atriale PAROSSISTICA: condizione in cui l’aritmia termini spontaneamente entro i 7 giorni dalla sua insorgenza, sebbene, nella maggior parte dei casi, il ripristino del ritmo sinusale si abbia entro 48 ore;

Fibrillazione atriale PERSISTENTE: condizione in cui o l’episodio duri più di 7 giorni oppure richieda una cardioversione farmacologica/elettrica per terminare;

Fibrillazione atriale PERSISTENTE DI LUNGA DURATA: la durata dell’aritmia raggiunge o supera 1 anno, ma si tiene ancora in considerazione la possibilità di una cardioversione;

Fibrillazione PERMANENTE: condizione in cui la persistenza dell’aritmia è accettata sia dal paziente che dal medico, ragion per cui (per definizione) gli interventi di controllo del ritmo non sono più perseguiti; qualora venisse adottata una strategia di controllo del ritmo, l’aritmia verrebbe etichettata nuovamente come “PERSISTENTE DI LUNGA DURATA”.

CLINICA

L’importanza clinica della fibrillazione atriale è correlata sia alle modificazioni emodinamiche, conseguenti alla perdita della contrattilità atriale ed alla risposta ventricolare rapida inappropriata, sia al rischio tromboembolico.9 In relazione a ciò, tale aritmia si associa ad importanti “outcomes”:1 aumentati tassi di mortalità (raddoppiati da questa patologia in maniera indipendente da altri fattori17) e di ospedalizzazione, stroke, disfunzione cognitiva (compresa la demenza vascolare), disfunzione ventricolare sinistra e peggioramento della qualità della vita.

La sintomatologia è estremamente variabile, in relazione alle esigenze di contrattilità atriale normale e di risposta ventricolare che differiscono da caso a caso.

Qualora la fibrillazione insorga in pazienti che presentano disfunzione diastolica del ventricolo sinistro (ad esempio per ipertensione, valvulopatia aortica ostruttiva o cardiomiopatia ipertrofica), i sintomi saranno molto intensi, specialmente se la

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frequenza ventricolare non permette un adeguato riempimento del ventricolo; si potranno così avere intense palpitazioni, dispnea (da congestione polmonare), intolleranza allo sforzo fisico, sintomi anginosi, vertigini ed episodi ipotensivi fino alla sincope (anche associata alla pausa che intercorre fra il termine della fibrillazione atriale e la ripresa del ritmo sinusale).

Dall’altro lato, qualora l’aritmia interessi soggetti giovani e altrimenti sani o comunque con una buona performance cardiovascolare, essa risulterà del tutto asintomatica (fibrillazione atriale SILENTE) e non presenterà conseguenze emodinamiche evidenti; altri soggetti avranno, invece, solo minime palpitazioni o percepiranno irregolarità del polso.9 In quest’ultima categoria di pazienti la patologia potrà manifestarsi direttamente con una delle complicazioni di questa aritmia, come l’ictus ischemico o la tachicardiomiopatia, oppure potrà essere diagnosticata con un elettrocardiogramma eseguito routinariamente.1

La maggior parte dei pazienti che ha come manifestazione iniziale dell’aritmia un ictus ischemico o un attacco ischemico transitorio (TIA) ha anche sperimentato, con ogni probabilità, precedenti episodi di aritmia asintomatici ed autolimitantesi. Il rischio di complicazioni non è differente tra episodi brevi o sostenuti di questa aritmia.18

Gli ictus cardioembolici tendono ad avere un esordio improvviso ed il deficit neurologico raggiunge l’acme rapidamente. La riperfusione che fa seguito ad un’ischemia più prolungata può determinare emorragie petecchiali all’interno dell’area ischemica. Gli emboli di origine cardiaca più spesso si arrestano nell’arteria cerebrale media, nell’arteria cerebrale posteriore o nei loro rami; meno spesso è coinvolto il territorio dell’arteria cerebrale anteriore.8

DIAGNOSI

Un polso irregolare dovrebbe far sempre sorgere il sospetto di fibrillazione atriale, ma per far diagnosi è necessaria una registrazione ECG.

Secondo le linee guida del 2010 della European Society of Cardiology (ESC), tale aritmia è definita dalle seguenti caratteristiche elettrocardiografiche: (1) Assoluta

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irregolarità degli intervalli RR, i quali mancano di una costanza di ripetitività; (2) Onde P non distinguibili sul tracciato ECG (per quanto in alcune derivazioni ECG, più spesso in V1, sia possibile osservare un’attività elettrica atriale apparentemente organizzata che simula un flutter atriale); (3) Lunghezza del ciclo atriale (intervallo PP) usualmente variabile, ma inferiore a 200 ms; quindi, la frequenza di attivazione atriale sarà sempre superiore a 300 cicli/min.1 Ogni aritmia che possieda queste caratteristiche e che duri sufficientemente a lungo affinché sia possibile registrare un ECG a 12 derivazioni, o duri almeno 30 secondi su una striscia ECG (rhythm strip), dovrebbe essere considerata come fibrillazione atriale.

Inoltre, sempre avvalendosi di un ECG a 12 derivazioni, è possibile risalire alla frequenza cardiaca, moltiplicando il numero degli intervalli RR presenti in una striscia di 10 secondi (registrata a 25 mm/s) per sei1: si potrà così etichettare l’aritmia come tachifrequente, normofrequente o bradifrequente.

STORIA NATURALE

La fibrillazione atriale ha una storia naturale caratterizzata dal passaggio da sporadici e brevi episodi di aritmia ad attacchi che sono progressivamente più duraturi e frequenti; nel corso degli anni molti pazienti svilupperanno forme sostenute (Figura 1.1), ad eccezione di una piccola quota di pazienti senza condizioni promuoventi non rimovibili.

Figura 1.1: Storia naturale della Fibrillazione atriale (in basso) e possibili strategie

terapeutiche (in alto). [Tratta da: Camm AJ, Kirchhof P, Lip GY, Schotten U, Savelieva I,

Ernst S, et al. Guidelines for the management of atrial fibrillation: the Task Force for the Management of Atrial Fibrillation of the European Society of Cardiology (ESC). European heart journal. 2010; 31(19): 2369-429]

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1.2 Gestione Complessiva della Fibrillazione Atriale

La gestione clinica del paziente con fibrillazione atriale coinvolge essenzialmente cinque obiettivi1:

1. Prevenzione del tromboembolismo; 2. Alleviamento dei sintomi;

3. Gestione delle patologie concomitanti (soprattutto cardiovascolari) e, se possibile, eradicazione delle stesse;

4. Controllo della frequenza ventricolare; 5. Correzione del disturbo del ritmo.

Questi obiettivi terapeutici non sono mutuamente esclusivi e possono essere perseguiti in parallelo.

La strategia adottata nelle fasi precoci può differire da quella adottata a lungo termine, in relazione allo scenario clinico di presentazione. In un paziente, ad esempio, che presenti una fibrillazione atriale non databile e che si trovi in condizioni di stabilità emodinamica, la terapia iniziale sarà finalizzata all’anticoagulazione ed al controllo della frequenza ventricolare, mentre l’obiettivo di lungo termine potrà essere il controllo del ritmo, specialmente se si osservasse uno scarsa riduzione dei sintomi con il solo controllo della frequenza. Viceversa, qualora il paziente giunga all’osservazione del medico con segni di ipotensione, aggravamento di un’insufficienza cardiaca preesistente o fibrillazione atriale ad esordio recente (˂24-48 ore), potrà rendersi fin dall’inizio utile, se non necessaria, una cardioversione (associata ad un’adeguata anticoagulazione).1

Nella Figura 1.2 sono rappresentate le fasi salienti della gestione del paziente con fibrillazione atriale. Dopo la conferma del sospetto di fibrillazione atriale attraverso l’esecuzione di un ECG a 12 derivazioni, si deve valutare l’entità dei sintomi associati

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all’aritmia (anche aiutandosi con strumenti validati a tal fine, come l’EHRA Score) ed il tempo trascorso dal suo esordio (ponendo le 48 ore come valore spartiacque, che influenzerà tutta la gestione iniziale del paziente); sempre in queste fasi iniziali i pazienti dovrebbero essere valutati per il rischio di stroke, specialmente in relazione alla volontà di cardiovertire il paziente.1 Inoltre, l’attenzione dovrebbe anche rivolgersi alla precoce identificazione dei fattori predisponenti e delle patologie concomitanti; su tutti, dovrebbero essere eseguiti un ecocardiogramma (alla ricerca di cardiopatie sottostanti) e test laboratoristici di funzionalità tiroidea.19

Figura 1.2: Fasi principali della gestione del paziente con fibrillazione atriale. [Tratta da:

Lip GY, Tse HF, Lane DA. Atrial fibrillation. Lancet. 2012; 379(9816): 648-61]

Nei pazienti che si presentano con una fibrillazione atriale di nuova diagnosi, l’obiettivo terapeutico di breve termine dovrebbe essere il ristoro dai sintomi attraverso il controllo della frequenza o del ritmo.1, 20, 21 Eccezion fatta per la necessità di una cardioversione d’emergenza, praticata in pazienti con instabilità emodinamica legata a frequenza ventricolare troppo elevata o presenza di cardiopatia strutturale, l’iniziale approccio terapeutico dovrebbe includere il controllo della frequenza, volto al miglioramento dello stato emodinamico ed al sollievo dai sintomi.

Fino al 50% dei pazienti con fibrillazione atriale di recente insorgenza si converte a ritmo sinusale spontaneamente.19 Se ciò non avvenisse, dovrebbe essere impostata una gestione di medio e lungo termine, che si basa su tre pilastri: (1) la valutazione del

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rischio cardioembolico (finalizzata all’attuazione di un’adeguata trombo-profilassi), (2) il controllo della frequenza e/o del ritmo (in caso di persistenza dell’aritmia dopo il management precoce) ed, infine, (3) il trattamento delle patologie concomitanti.

Il primo pilastro (profilassi del tromboembolismo), argomento centrale del nostro studio, sarà ampiamente trattata nei paragrafi successivi.

Il secondo pilastro, ovvero la strategia aritmologica, richiede un’accorta valutazione del contesto clinico, nonché la considerazione delle preferenze del paziente. Le linee guida correnti raccomandano il controllo del ritmo (cardioversione elettrica o farmacologica) come strategia di prima linea per i pazienti che si presentino al medico entro 48 ore dall’esordio della fibrillazione, in presenza di un’ecocardiografia transesofagea negativa per trombi nell’auricola od in qualsiasi altra sede dell’atrio sinistro,1, 22 e come strategia di seconda linea per i pazienti in cui ci si aspetti un successo e un beneficio nel mantenimento del ritmo sinusale (ovvero pazienti rimasti sintomatici nonostante il controllo della frequenza, soggetti di età inferiore ai 65 anni, individui con fibrillazione atriale isolata, pazienti non ipertesi, in caso di un’insufficienza cardiaca scatenata dall’aritmia stessa oppure individui in cui i fattori eziologici siano stati rimossi).19

In tutti gli altri casi, specialmente quelli in cui plurimi tentativi di cardioversione abbiano fallito, si può optare per una cronicizzazione dell’aritmia, ma senza trascurare il controllo della frequenza ventricolare e la profilassi tromboembolica. Sebbene sia intuitivo che un’azione cardiaca ritmica sia preferibile rispetto alla fibrillazione atriale, i maggiori studi che paragonano le due strategie (“rate control” e “rhythm control”), ovvero i trials AFFIRM e AF-CHF, non dimostrano differenze di mortalità.23, 24

Al controllo della frequenza e/o del ritmo concorrono anche strategie non farmacologiche: l’ablazione del nodo AV con impianto di pacemaker permanente (adottabile in pazienti refrattari o non tolleranti ai farmaci che rallentano la conduzione atrioventricolare, assunti con l’intento di ridurre la frequenza ventricolare; l’attuazione di questa terapia migliora i sintomi e la qualità della vita)25, 26 e la terapia ablativa transcatetere (consistente nell’isolamento dei lembi muscolari atriali penetranti nelle vene polmonari, dai quali origina la maggior parte degli stimoli responsabili dell’avvio dell’aritmia nei pazienti con fibrillazione atriale parossistica9

; tale strategia è raccomandata per i pazienti con fibrillazione atriale parossistica e minima cardiopatia

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strutturale che rimangano sintomatici dopo un’iniziale terapia antiaritmica; laddove la fibrillazione sia persistente o la cardiopatia strutturale sia più avanzata, i fallimenti di questa strategia aumentano).1, 27, 28

Il terzo pilastro, ovvero il trattamento delle patologie concomitanti, è di fondamentale importanza, poiché esse contribuiscono sia alla ricorrenza e alla perpetuazione dell’aritmia (attraverso il rimodellamento del miocardio), sia al rischio d’insorgenza delle complicanze (tromboemboliche e non) correlate all’aritmia stessa. Ci si riferisce a queste terapie come “upstream” therapies , cioè “a monte”; esse comprendono trattamenti con ACE-inibitori, ARBs (bloccanti il recettore dell’angiotensina), statine, antagonisti dell’aldosterone, acidi grassi polinsaturi omega-3.1

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1.3 Profilassi

Antitrombotica nella

Fibrillazione

Atriale

1.3.1 Cenni di farmacologia

ANTAGONISTI DELLA VITAMINA K29

Gli antagonisti della vitamina K (VKA) sono al momento gli anticoagulanti orali più comunemente usati nel mondo. La loro scoperta risale agli anni ’20 del secolo scorso, in relazione all’accertamento delle cause di una malattia emorragica dei bovini caratterizzata da un aumento del PT (Tempo di Protrombina); si appurò poi che tale affezione derivava dall’ingestione di fieno guasto contenente trifoglio appartenente al genere Melitotus. L’idrossicumarina, isolata dai contaminanti batterici del fieno, interferiva con il metabolismo della vitamina K, provocando una sindrome simile a quella dovuta a deficit di vitamina K. L’isolamento dei cristalli di anticoagulante permise di identificare la struttura del principio attivo, data dalla coniugazione di due molecole di 4-idrossicumarina tramite un ponte metilenico, motivo per cui ci si riferisce spesso a questa classe di composti anche con il nome di dicumarolici.

La vitamina K è un cofattore necessario affinché si realizzi la γ-carbossilazione dei residui di acido glutammico presenti sulla porzione N-terminale delle proteine vitamina K-dipendenti, tra le quali ritroviamo quattro fattori della coagulazione (II, VII, IX, X) e due proteine ad attività anticoagulante (proteina C e proteina S). Tale modificazione post-traduzionale è essenziale per l’espressione di attività di tali fattori della coagulazione, poiché permette il loro legame calcio-dipendente ai fosfolipidi anionici di superficie (in particolare quelli della superficie piastrinica).

La vitamina K assunta con la dieta subisce delle modificazioni cicliche, che si realizzano attraverso tre step (si veda la Figura 1.3). Essa viene ridotta dalla vitamina K reduttasi a vitamina K idrochinone (primo step), che può esprimere così la sua attività di cofattore dell’enzima γ-carbossilasi. Durante questo processo la vitamina K idrochinone viene ossidata a vitamina K epossido (secondo step), che a sua volta viene

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ridotta a vitamina K (terzo step) ad opera dell’enzima VKOR (Vitamina K Epossido Reduttasi). Si completa così un ciclo. Gli antagonisti della vitamina K interferiscono sulla conversione ciclica della vitamina K inibendo l’enzima VKOR; questo porta alla produzione epatica di proteine parzialmente carbossilate e decarbossilate con ridotta attività procoagulante. Si può affermare, quindi, che lo step sensibile all’azione degli antagonisti della vitamina K è il terzo; è invece relativamente insensibile alla loro attività il primo step, motivo per cui l’effetto di questi farmaci è avversato dalla somministrazione terapeutica della vitamina K1 o dalla sua assunzione con la dieta.

Figura 1.3: Meccanismo d’azione del warfarin. [Tratta da: Marder VJ, Aird WC, Bennett JS,

Schulman S, White GC. Hemostasis and Thrombosis: Basic Principles and Clinical Practice. 6th ed. New York: Wolters Kluwer Health; 2012.]

Il principale antagonista della vitamina K utilizzato nella pratica clinica è il warfarin (inizialmente sviluppato come rodenticida); l’acenocumarolo è, invece, attualmente meno impiegato. Il warfarin è una miscela racemica di enantiomeri R e S, che sono presenti in proporzioni quasi uguali. E’ dotato di una elevata biodisponibilità, con un

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rapido assorbimento gastroduodenale (picco di concentrazione plasmatica entro 90 minuti dalla somministrazione per os). Presenta un elevato legame farmacoproteico, circolando nel plasma legato per il 98-99% alle proteine, in primis all’albumina; ne deriva che solo una piccola frazione è biologicamente attiva. La sua emivita (36-42 ore) è il risultato della differente velocità di metabolizzazione dei due enantiomeri. L’enantiomero R (meno potente) è metabolizzato primariamente da due citocromi microsomiali (CYP1A2 e CYP3A4) a 6- e 8-idrossi-warfarin; l’enantiomero S (da 2.7 a 3.8 volte più potente) è metabolizzato in primis dal CYP2C9 (appartenente al sistema P450) a 7-idrossi-warfarin. 6-, 7- e 8-idrossi-warfarin, biologicamente inattive, sono escrete per via renale.

Gli effetti anticoagulanti del warfarin sono influenzati da fattori genetici, dalla dieta, dalle terapie farmacologiche e da alcune condizioni di malattia:

Genetica: varianti alleliche di CYP2C9 e VKORC1 sono state trovate in più di due terzi della popolazione bianca; individui portatori di questi polimorfismi genici richiedono usualmente una dose più bassa di warfarin per mantenere un INR terapeutico, così come è necessario un tempo maggiore per raggiungere una dose stabile. In definitiva, i portatori di queste varianti alleliche sono a maggior rischio di complicanze emorragiche, specialmente all’inizio della terapia.

Dieta: il contenuto dietetico della vitamina K cambia da un giorno all’altro ed è un importante fattore di variabilità interindividuale. Essa è contenuta in particolar modo nelle verdure a foglia larga ed in certi oli vegetali. Il paziente dovrà essere informato ed evitare un eccessivo consumo di questi cibi, senza però abolirlo del tutto. Bisogna infatti considerare che anche una deficienza di vitamina K (come quella che si osserva in condizioni di denutrizione, colestasi, nutrizione parenterale totale prolungata o antibioticoterapia ad ampio spettro) contribuirà all’instabilità dell’INR.

Terapie farmacologiche: con interazioni sia a livello farmacocinetico che farmacodinamico.

Alcuni stati di malattia influenzano la risposta agli antagonisti della vitamina K; ne sono un esempio la cirrosi epatica e l’ipertiroidismo, che si associano ad un maggior effetto del warfarin determinando, rispettivamente, una ridotta sintesi

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ed un più rapido catabolismo dei fattori vitamina K-dipendenti.

Proprio per le numerose interazioni farmacocinetiche e farmacodinamiche che caratterizzano gli antagonisti della vitamina K, si rende necessario un monitoraggio della terapia. L’analisi più utile a questo scopo è rappresentata del tempo di protrombina (PT), che misura tre proteine della coagulazione vitamina K-dipendenti: il fattore VII, il fattore X e la protrombina.

La misurazione del PT è effettuata aggiungendo calcio e tromboplastina al plasma citrato. Le tromboplastine usate in laboratori differenti variano nella loro sensibilità ai ridotti livelli dei fattori della coagulazione vitamina K-dipendenti; per questo motivo, il monitoraggio della terapia non risulta essere standardizzato quando il PT è espresso in secondi o come attività percentuale rispetto ad un pool di plasmi normali. Per avere questa standardizzazione tra i differenti laboratori, nel 1982 l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha adottato una preparazione tromboplastinica che fosse di riferimento a livello internazionale e sulla quale tutti i reagenti tromboplastinici in commercio fossero calibrati. La sensibilità di ogni tromboplastina neoprodotta è espressa dall’ISI (Indice Internazionale di Sensibilità). Partendo da questi elementi, può essere definito un nuovo parametro standardizzato, cioè l’INR (Rapporto Internazionale Normalizzato), che si ottiene dalla seguente formula: INR=(PTpaziente/PTmedio normale)ISI.

L’effetto antitrombotico del warfarin non è immediato, ma si realizza appieno una volta avuta la sostituzione dei fattori vitamina K-dipendenti di nuova sintesi con quelli di vecchia sintesi (si veda la Figura 1.4). Il fattore VII ha un’emivita di 4-6 ore, per cui i suoi livelli decrescono significativamente già durante la prima giornata, con un prolungamento del PT; questo non significa, però, che si sia già raggiunta un’anticoagulazione terapeutica, poiché gli altri fattori hanno un’emivita più lunga (in particolare i fattori X e II, che hanno, rispettivamente, un’emivita di circa 24 e 72 ore). Ne deriva che, all’inizio del trattamento, un tempo di 4 o 5 giorni è generalmente richiesto per raggiungere la piena attività terapeutica. Questo rappresenta il presupposto teorico che spiega l’utilizzo dell’eparina non frazionata od a basso peso molecolare nel periodo iniziale di trattamento con warfarin. La sovrapposizione di anticoagulante orale ed anticoagulante parenterale dovrebbe durare fino ad almeno due giorni dopo il raggiungimento di un INR in range terapeutico rilevato in due misurazioni consecutive

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a distanza di 24 ore. Si raccomanda di solito di cominciare la terapia con una dose media di mantenimento di 5 mg, poiché tale dose permette il raggiungimento di un INR >2 in 4-5 giorni con minor rischio di un’eccessiva anticoagulazione. In virtù delle numerose condizioni che possono influenzare la farmacocinetica e la farmacodinamica del warfarin, questa dose standard può risultare troppo alta in alcune categorie di pazienti, come ad esempio i pazienti anziani, epatopatici, con nutrizione alterata, scompenso cardiaco congestizio od alto rischio emorragico.

Figura 1.4: Effetti della terapia con warfarin sui livelli plasmatici dei fattori della

coagulazione vitamina K dipendenti. [Tratta da: Marder VJ, Aird WC, Bennett JS, Schulman

S, White GC. Hemostasis and Thrombosis: Basic Principles and Clinical Practice. 6th ed. New York: Wolters Kluwer Health; 2012.]

Il range terapeutico dell’INR varia a seconda delle condizioni patologiche considerate. L’intervallo standard è compreso tra 2.0 e 3.0. In caso di valvole cardiache protesiche e profilassi dell’infarto miocardico ricorrente, l’intervallo raggiunto dovrebbe essere più alto (2.5-3.5). Un frequente monitoraggio dell’INR permette, tramite un adeguato aggiustamento della dose, di massimizzare il tempo il range terapeutico (TTR), riducendo il rischio tromboembolico (che si ha soprattutto con INR ˂1.5) ed emorragico (particolarmente per INR >5.0). Si rammenti, inoltre, come uno scarso controllo

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dell’anticoagulazione renda di per sé la terapia più gravosa sia per il paziente che per il medico, scoraggiandone così la continuazione. Le linee guida ACCP (8a ed.) raccomandano che i pazienti stabilmente in terapia anticoagulante orale siano monitorati non meno di ogni 4 settimane, anche se, in ultima analisi, la frequenza ottimale dovrebbe essere bilanciata sul paziente (in relazione alla sua compliance, ai farmaci che assume ed alla fluttuazione delle malattie concomitanti).

L’interruzione del trattamento con warfarin rimuove l’inibizione delle proteine della coagulazione vitamina K-dipendenti e conduce ad una graduale normalizzazione dell’INR. La velocità con cui decresce l’INR è anch’essa influenzata da vari fattori, quali l’età e la ridotta funzionalità epatica; il tempo medio di normalizzazione è di 96 ore.

Il principale effetto collaterale del warfarin è il sanguinamento, mentre complicanze rare sono rappresentate dalla necrosi cutanea e dalla gangrena di un arto (osservate nei primi 3-8 giorni dall’inizio della terapia e legate al deficit warfarin-indotto delle proteine C e S, ad azione anticoagulante, prima che si abbia il pieno abbattimento dei livelli di fattore X e II). Potendo attraversare la barriera ematoplacentare, data la sua teratogenicità, il warfarin non dovrebbe essere utilizzato in gravidanza.

Almeno metà delle complicanze emorragiche associate al warfarin si verificano per valori di INR sopraterapeutici. Si può andare da situazioni di lieve entità (ecchimosi sottocutanee, epistassi, ematuria) ad episodi gravi (emorragie retroperitoneali, gastrointestinali o addirittura intracraniche). L’ISTH (International Society on Thrombosis and Haemostasis) definisce “sanguinamento maggiore”, per i pazienti non chirurgici, come un’emorragia con almeno una delle seguenti caratteristiche: (1) sanguinamento fatale, (2) sanguinamento che interessi un organo critico, (3) sanguinamento che determini una riduzione di emoglobinemia ≥2 g/dL o che richieda una trasfusione di ≥2 unità di sangue intero o globuli rossi.

I pazienti trattati con warfarin che manifestino un’emorragia nonostante l’INR in range terapeutico richiedono indagine specifiche per appurare la causa del sanguinamento. Spesso pazienti di questo tipo con emorragia gastrointestinale presenta malattia peptica o neoplasie non diagnosticate; allo stesso modo, può capitare che le indagini che vogliono chiarire un’ematuria od una metrorragia svelino un tumore del tratto

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genitourinario.

La maggior parte dei trials clinici randomizzati sulla terapia con antagonisti della vitamina K sono stati attuati con pazienti in fibrillazione atriale. Nella tabella 1.2 è riportata l’incidenza annuale di emorragie fatali, intracraniche e maggiori con VKA in tre diversi trials clinici randomizzati, che li contrapponevano al placebo (Atrial fibrillation investigators), alla combinazione aspirina-clopidogrel (ACTIVE W) ed al dabigatran (RE-LY).

Studi (anno) Fatali Intracraniche Maggiori Atrial Fibrillation Investigators (1994) N.D. 0,3 1,3

ACTIVE W (2006) 0,26 0,36 2,21

RE-LY (2009) N.D. 0,74 3,36 Tabella 1.2: Rischio annuale (%) per differenti tipi di emorragia in pazienti in terapia con

VKA. [Tratta e modificata da: Marder VJ, Aird WC, Bennett JS, Schulman S, White GC.

Hemostasis and Thrombosis: Basic Principles and Clinical Practice. 6th ed. New York: Wolters Kluwer Health; 2012.]

NUOVI ANTICOAGULANTI ORALI 2

La ricerca clinica degli ultimi due decenni si è indirizzata verso l’individuazione di nuovi anticoagulanti orali (NAO), rappresentati da inibitori diretti della trombina e del fattore Xa. Essi hanno il vantaggio di poter essere somministrati in dosi fisse giornaliere, di non richiedere un monitoraggio routinario del livello di anticoagulazione, di presentare minime interazioni farmacologiche e nessuna interazione alimentare. Negli studi di fase III sono risultati almeno non inferiori per efficacia nei confronti del warfarin e sicuri (con una significativa riduzione delle emorragie maggiori, specialmente cerebrali).

Gli inibitori diretti orali della trombina hanno effetti plurimi sulla coagulazione, inibendo la formazione di fibrina, l’attivazione della trombina mediata dai fattori V, VIII, XI e XIII e l’aggregazione piastrinica trombina-mediata. Inoltre, riducono la generazione di trombina indotta dal fattore tissutale.

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Di questa sottoclasse di composti fa parte il Dabigatran etexilato, un inibitore diretto orale reversibile della trombina, disponibile in forma di profarmaco, con bassa biodisponibilità (6.5%), emivita di 12-14 ore ed eliminazione renale per l’80%. Per la profilassi tromboembolica in pazienti con fibrillazione atriale non valvolare di età ˂80 anni e clearance della creatinina (CrCl) >30 ml/min, l’impiego di dabigatran prevede una duplice somministrazione giornaliera di 150 mg. Il dosaggio inferiore (110 mg bid) viene raccomandato nei pazienti ad alto rischio emorragico, con gastrite, esofagite e malattia da reflusso gastroesofageo e negli ultraottantenni. Il dabigatran è controindicato in pazienti con CrCl <30 ml/min o insufficienza epatica grave. In concomitanza con l’uso di dabigatran sono controindicati trattamenti con ketoconazolo, itraconazolo, ciclosporina e tacrolimus. Inoltre, in corso di impiego di dabigatran occorre prestare particolare cautela nella somministrazione di potenti inibitori della glicoproteina P (quali amiodarone e verapamil), che ne aumentano significativamente la biodisponibilità: se associato al verapamil, la dose di dabigatran deve essere ridotta a 110 mg bid. Contrariamente agli inibitori del fattore Xa, il dabigatran non presenta interazioni farmacologiche con farmaci inibitori del citocromo P450.

Gli inibitori diretti orali del fattore Xa riducono la generazione di trombina dalla protrombina; in aggiunta, inibiscono la formazione di trombina indotta dal fattore tissutale. A questa sottoclasse appartengono, tra gli altri, il Rivaroxaban e l’Apixaban. Il rivaroxaban ha un’elevata biodisponibilità orale (80%), un’emivita plasmatica di 7-11 ore, è metabolizzato per due terzi nel fegato e per un terzo è eliminato immodificato con le urine. Presenta il vantaggio, rispetto agli altri NAO, della monosomministrazione giornaliera al dosaggio di 20 mg. Tale dosaggio deve essere ridotto a 15 mg/die nei pazienti con insufficienza renale di grado moderato (CrCl tra 30 e 49 ml/min); è invece controindicato in pazienti con CrCl <30 ml/min. Ne viene sconsigliato l’uso in pazienti trattati con antimicotici azoici (ketoconazolo, itraconazolo, voriconazolo, posaconazolo e fluconazolo) o con farmaci anti-HIV (inibitori di proteasi): essendo questi dei potenti inibitori del citocromo P450 e della glicoproteina P, possono determinare un aumento delle concentrazioni plasmatiche del rivaroxaban e, quindi, un maggior rischio emorragico.

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con biodisponibilità del 66% ed emivita di 8-13 ore, escreto soltanto per il 25% per via renale. Il dosaggio da utilizzare per la prevenzione del rischio tromboembolico nella fibrillazione atriale è di 5 mg bid, da ridurre a 2.5 mg bid in pazienti ad elevato rischio emorragico (ovvero in presenza di due o tre dei seguenti criteri: età ≥80 anni, peso ≤60 kg, creatinina ≥1.5mg). Come per il rivaroxaban, ne è sconsigliato l’impiego in soggetti in terapia con farmaci inibitori del citocromo P450 e della glicoproteina P.

1.3.2 Meccanismi di trombogenesi nella Fibrillazione Atriale

Uno stato protrombotico è stato descritto nella fibrillazione atriale e contribuisce alle più comuni ed importanti complicazioni del tromboembolismo.

In particolare, si realizzano in questa aritmia, seppur con una rivisitazione, i tre tipici elementi della triade di Virchow:30

 Anomalie del flusso ematico, per la stasi che si realizza a livello dell’atrio sinistro in virtù della sua perdita di contrattilità;

 Anomalie nella parete vasale, con progressiva dilatazione atriale, denudamento della superficie endocardica ed infiltrazione edematosa e fibroelastica della matrice extracellulare;

 Anomalie dei costituenti ematici, con attivazione dell’emostasi primaria e secondaria, nonché infiammazione e alterazioni dei fattori di crescita.

Anormalità dell’emostasi e della coagulazione sono ben descritte nella fibrillazione atriale. Il turnover della fibrina risulta aumentato.30 Le anomale concentrazioni degli indici protrombotici (ad esempio, i frammenti 1 e 2 della protrombina ed i complessi trombina-antitrombina) sono più prominenti nei pazienti con stroke e fibrillazione atriale rispetto a quelli in ritmo sinusale.31

Il trattamento anticoagulante ha dimostrato di ridurre le concentrazioni di alcuni marcatori pro trombotici.32-34 Lo studio AFASAK-2 ha riportato che solo il warfarin in range terapeutico (INR 2-3) ha un effetto sulle concentrazioni dei frammenti 1 e 2 della protrombina dopo 3 mesi di trattamento.35 Una dose bassa di warfarin, la combinazione warfarin a bassa dose con aspirina o l’aspirina da sola hanno un piccolo effetto sui

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frammenti della protrombina. Similmente, il trattamento con warfarin a bassa dose fissa o la combinazione aspirina-warfarin sostanzialmente non riducono gli altri markers di trombogenesi nella fibrillazione atriale, mentre il warfarin in range sì.36

Il warfarin riduce grandemente le concentrazioni plasmatiche degli indici protrombotici correlati ai fattori della coagulazione (più di quelli correlati alle piastrine), il che indica come sia l’attivazione della cascata coagulativa, piuttosto che quella delle piastrine, la chiave per spiegare il rischio tromboembolico nella fibrillazione atriale.37, 38 Queste evidenze sono in accordo con i numerosi studi che dimostrano come il warfarin (modulatore della cascata coagulativa) sia più efficace dell’aspirina (antiaggregante piastrinico) nella profilassi tromboembolica nella fibrillazione atriale.

I dati disponibili supportano la nozione secondo cui anomalie delle piastrine nella fibrillazione atriale esistano, ma la relazione con l’aumentato rischio trombotico rimane incerta; molte anomalie potrebbero semplicemente indicare sottostanti comorbilità vascolari.30 Sebbene il trattamento combinato aspirina-clopidogrel sia più efficace dell’aspirina in monoterapia nell’inibire la funzione piastrinica, questa strategia non modula sostanzialmente i marcatori della cascata coagulativa (generazione della trombina piastrino-dipendente, antitrombina III, complesso trombina- antitrombina III, frammenti 1 e 2 della protrombina) nei pazienti con fibrillazione atriale. Tant’è che l’associazone aspirina-clopidogrel si è dimostrata meno efficace del warfarin nella prevenzione dell’ictus nella fibrillazione atriale.30

1.3.3 Fibrillazione Atriale e Rischio Tromboembolico: Quali

Agenti Antitrombotici sono più efficaci?

ANTAGONISTI DELLA VITAMINA K COMPARATI CON PLACEBO O NESSUN TRATTAMENTO

L’efficacia degli antagonisti della vitamina K (VKA) nella prevenzione dell’ictus e delle tromboembolie sistemiche è stata ampiamente dimostrata in studi clinici randomizzati di prevenzione primaria (AFASAK, BAATAF, CAFA, SPAF-I, SPINAF)39-43 e secondaria (EAFT)44.

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In una meta-analisi del 2007, Hart et al.45 hanno incluso i 2900 partecipanti a questi sei trials (si veda la Figura 1.5), evidenziando come il warfarin in range terapeutico (INR tra 2 e 3) si associasse ad una riduzione del rischio relativo (RRR) di stroke del 64% (I.C. 95%, da 49% a 74%)., ad una riduzione del rischio assoluto (RRA) in prevenzione primaria del 2.7% per anno (con un numero di trattamenti necessari [NNTB] ad un anno per prevenire uno stroke pari a 37) ed ad una RRA in prevenzione secondaria dell’8.4% (NNTB=12). Quando si consideravano solo gli stroke ischemici, il warfarin determinava una RRR del 67% (I.C. 95%, da 54% a 77%). Tale riduzione era simile sia per la prevenzione primaria e secondaria sia per gli stroke disabilitanti e non disabilitanti. Da notare come molti ictus insorti nei pazienti in trattamento con VKA insorgessero proprio quando essi non stavano assumendo la terapia o stavano ricevendo una anticoagulazione subterapeutica. La mortalità generale era significativamente ridotta (circa del 25%) in chi faceva VKA in range terapeutico rispetto ai controlli. Il rischio di emorragia intracranica era piccolo.

Figura 1.5: Warfarin in range terapeutico comparato con placebo o assenza di trattamento.

[Tratta da: Hart RG, Pearce LA, Aguilar MI. Meta-analysis: antithrombotic therapy to prevent stroke in patients who have nonvalvular atrial fibrillation. Annals of internal medicine. 2007; 146(12): 857-67.]

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TERAPIA ANTIAGGREGANTE COMPARATA CON PLACEBO O NESSUN TRATTAMENTO

Sempre nella stessa meta-analisi, Hart et al.45 hanno incluso otto studi indipendenti randomizzati controllati (si veda la Figura 1.6) per un totale di 4876 partecipanti, esplorando gli effetti profilattici sul rischio tromboembolico della terapia antiaggregante (più comunemente aspirina) nei pazienti con fibrillazione atriale.

In sette di questi trials, l’aspirina da sola era comparata con placebo o con nessun trattamento: il trattamento con aspirina era associato con una riduzione non significativa nell’incidenza di stroke del 19% (IC 95%, da -1% a -35%). C’era una RRA in prevenzione primaria dell’0.8% per anno (NNTB=125) ed in prevenzione secondaria del 2.5% per anno (NNTB=40). L’aspirina era anche associata con un 13% (IC 95%, da -18% a 36%) di riduzione in stroke disabilitanti e con un 29% (IC 95%, da -6% a 53%) di riduzione in stroke non disabilitanti. Considerando solo gli stroke ischemici, la riduzione degli ictus con aspirina era del 21% (IC 95%, da -1% a 38%).

Quando i dati derivanti da tutti i confronti tra gruppi con agenti antipiastrinici e gruppi con placebo o controllo erano inclusi nella meta-analisi, la terapia antiaggregante riduceva lo stroke del 22% (IC 95%, da 6% a 35%).

La dose di aspirina differiva marcatamente tra gli studi (da 25 mg bid a 1300 mg al giorno), ma non vi erano comunque significative differenze tra i risultati di ogni singolo trial.

A sostenere fortemente un effetto benefico dell’aspirina è stato soprattutto il trial SPAF-I, che ha indicato una riduzione del rischio di stroke del 42 % con aspirina (325 mg) confrontata col placebo. In questo studio c’era una eterogeneità intrinseca, con incoerenze sui risultati dell’effetto dell’aspirina tra il braccio dello studio eleggibile per warfarin (riduzione del RR del 94%) ed il braccio non eleggibile per warfarin (riduzione del rischio relativo dell’8%). Inoltre l’aspirina aveva meno effetto nei soggetti con più di 75 anni e non preveniva strokes gravi o ricorrenti. Lo studio SPAF-I fu anche interrotto precocemente ed i suoi risultati potrebbero essere esagerati.1

L’entità della riduzione dello stroke osservata nella meta-analisi del 200745 (19%) è simile a quella che si osserva quando l’aspirina è data a soggetti con malattia vascolare

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aterosclerotica. Dato che la fibrillazione atriale comunemente coesiste con vasculopatia aterosclerotica, il modesto beneficio che si ha con aspirina è probabilmente correlato al suo effetto sulla comorbilità vascolare. Più recenti studi di prevenzione primaria cardiovascolare, in coorti di pazienti non fibrillanti, non hanno mostrato un beneficio significativo dell’aspirina nel ridurre il rischio di eventi cardiovascolari.1

Figura 1.6 : Antiaggreganti piastrinici comparati con placebo o assenza di trattamento.

[Tratta da: Hart RG, Pearce LA, Aguilar MI. Meta-analysis: antithrombotic therapy to prevent stroke in patients who have nonvalvular atrial fibrillation. Annals of internal medicine. 2007; 146(12): 857-67.]

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ANTAGONISTI DELLA VITAMINA K COMPARATI CON TERAPIA ANTIAGGREGANTE

Hart et al.45 hanno comparato nove studi che confrontavano direttamente gli effetti dei VKA con quelli degli agenti antipiastrinici (si veda la Figura 1.7): è così emerso che il warfarin in range terapeutico era significativamente superiore, con una RRR del 39% (IC 95%, da 22% a 52%).

Figura 1.7 : Warfarin in range terapeutico comparato con antiaggreganti piastrinici. [Tratta

da: Hart RG, Pearce LA, Aguilar MI. Meta-analysis: antithrombotic therapy to prevent stroke in patients who have nonvalvular atrial fibrillation. Annals of internal medicine. 2007; 146(12): 857-67.]

Lo studio controllato randomizzato BAFTA (Birmingham Atrial Fibrillation Treatement of the Aged), in cui si reclutarono pazienti con età ≥75 anni, mostrava anch’esso che i VKA in range terapeutico erano superiori a 75 mg/die di aspirina, con

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una significativa RRR dell’endpoint primario (comprendente ictus fatali o disabilitanti, emorragie intracraniche o embolismo arterioso clinicamente significativo) del 52% ed un RRA per anno del 2%. Non si riscontrava, inoltre, nessuna differenza nel rischio di sanguinamento maggiore tra warfarin e aspirina.46

Queste evidenze erano coerenti con quelle di uno studio randomizzato controllato dello stesso anno, lo studio WASPO (Warfarin versus Aspirin for Stroke Prevention in Octogenarians with AF)47: furono reclutati pazienti di età compresa tra 80 e 90 anni e randomizzati verso il braccio in terapia con warfarin (INR 2.0-3.0) od il braccio in terapia con aspirina (300 mg/die). Gli eventi avversi erano significativamente maggiori con aspirina (33%) che con warfarin (6%) e tale scarto era significativo (p=0.002); anche le gravi emorragie erano più frequenti nel braccio in aspirina.

La diversa efficacia, in relazione all’età, dei VKA e degli antiaggreganti nella prevenzione dello stroke ischemico nei pazienti con fibrillazione atriale è rappresentata in Figura 1.8: è ben visibile come la perdita di effetto degli antiaggreganti sia, con il passare degli anni, più spiccata rispetto ai VKA.48

Figura 1.8 : Effetti dell’età nella prevenzione dello stroke ischemico con terapia

anticoagulante orale (A) e terapia antiaggregante (B). Sulle ascisse è riportata l’età; sulle

ordinate è riportato l’Hazard Ratio. La linea continua indica l’Hazard Ratio adeguato all’età del paziente; le linee tratteggiate indicano i limiti dell’I.C. 95%. [Tratta da: van Walraven C, Hart RG, Connolly S, Austin PC, Mant J, Hobbs FD, et al. Effect of age on stroke prevention therapy in patients with atrial fibrillation: the atrial fibrillation investigators. Stroke; a journal of cerebral circulation. 2009; 40(4): 1410-6.]

In uno studio pubblicato nel 2005, si evidenziava come l’incidenza annuale di emorragie maggiori in pazienti trattati con warfarin fosse dell’1.3% , contro l’ 1.0% dei pazienti trattati con placebo e l’1.0% dei pazienti trattati con aspirina.49

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Con l’aspirina si ottiene una riduzione modesta del rischio di ictus (all’incirca del 22%)50, e prevalentemente dell’ictus non cardioembolico, verosimilmente correlato a concomitante aterosclerosi carotidea.

Il beneficio clinico netto della terapia anticoagulante orale è stato verificato anche nel mondo reale: in due ampie coorti di pazienti, rispettivamente danese (Olesen et al.)51 e svedese (Friberg et al.)52, la TAO nei pazienti affetti da fibrillazione atriale è risultata vantaggiosa rispetto all’aspirina per una maggiore efficacia a fronte di un lieve incremento del rischio emorragico, eccetto che nei soggetti a basso rischio tromboembolico (CHA2DS2-VASc pari a 0) o con rischio emorragico medio/alto. Il beneficio netto della TAO è stato dimostrato anche nei pazienti anziani, laddove l’aspirina vede ridursi la sua efficacia con l’aumento del rischio tromboembolico legato all’età.48

Quindi, in definitiva, l’evidenza di un efficace prevenzione dell’ictus ischemico con aspirina nella fibrillazione atriale è debole; anzi, l’aspirina è anche potenzialmente dannosa,51, 53, 54 poiché i dati indicano che il rischio di sanguinamento maggiore o emorragia intracranica con aspirina non è significativamente differente da quello che si riscontra durante il trattamento con anticoagulanti orali, soprattutto nell’anziano.46, 47, 55, 56

Non c’è evidenza di una riduzione della mortalità totale o cardiovascolare nella popolazione con fibrillazione atriale qualora si attui una terapia con aspirina (o antiaggregante in generale).16 Anche nella popolazione senza fibrillazione atriale, la profilassi con aspirina in persone senza malattia cardiovascolare pregressa non conduce a riduzioni nella mortalità o cardiovascolare o da cancro; inoltre, i benefici ottenuti nell’infarto del miocardio non fatale sono bilanciati da emorragie clinicamente importanti.57

Esistono anche studi volti a valutare l’efficacia di una doppia terapia antiaggregante per la profilassi tromboembolica dei pazienti fibrillanti. Nello studio ACTIVE W (Atrial fibrillation Clopidogrel Trial with Irbesartan for prevention of Vascular Events – Warfarin arm), la terapia anticoagulante era superiore alla combinazione aspirina-clopidogrel (RRR del 40%; 95 IC da 18% a 56%) indipendentemente dal CHADS2 di partenza, con nessuna significativa differenza negli eventi emorragici tra i due bracci di trattamento.58 Lo studio ACTIVE A (Aspirin arm) ha evidenziato che nei pazienti che

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ricevevano l’associazione aspirina-clopidogrel c’era una riduzione degli eventi vascolari maggiori rispetto a quelli in monoterapia con aspirina (RR con clopidogrel 0.89; IC 95% da 0.81 a 0.98), soprattutto a causa di una riduzione del 28% dei tassi di ictus.59 Si evince, quindi, che la terapia di combinazione apirina-clopidogrel ha un’efficacia addizionale, se comparata con una monoterapia con aspirina, ma presenta anche un rischio addizionale per sanguinamenti maggiori.59

1.3.4 L’importanza di un approccio basato sulla stratificazione

del rischio tromboembolico ed emorragico

Tutte le più recenti linee guida sostengono, nello scegliere se intraprendere o meno un trattamento antitrombotico nel paziente con fibrillazione atriale, un approccio basato sui fattori di rischio per stroke ed emorragia.

STRATIFICAZIONE DEL RISCHIO TROMBOEMBOLICO

Sebbene la fibrillazione atriale aumenti il rischio di stroke di cinque volte, questo rischio non è omogeneo e cambia in maniera cumulativa in presenza di fattori di rischio per ictus.60-62

I fattori che aumentano il rischio di stroke tra i pazienti con fibrillazione atriale non trattati con anticoagulanti sono inizialmente stati determinati da studi randomizzati di terapia antitrombotica, in particolare da analisi ricavate da cinque trials della AFI (Atrial Fibrillation Investigators) e da coorti SPAF (Stroke Prevention in Atrial Fibrillation).63

Il gruppo AFI identificò i seguenti fattori di rischio indipendenti: età, pregresso stroke o TIA, storia di ipertensione arteriosa e diabete mellito.63

L’analisi di 854 pazienti assegnati al braccio in terapia con aspirina dai primi due studi SPAF identificò tre fattori di rischio per stroke: sesso femminile associato ad età >75 anni, ipertensione sistolica >160 mmHg, scompenso cardiaco con alterata funzione

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ventricolare sinistra definita come recente (non più di 3 mesi), disfunzione sistolica moderata-grave valutata ecocardiograficamente. Estendendo l’analisi ai 2012 pazienti allocati nei bracci in terapia di combinazione o con sola aspirina degli studi da SPAF-I a SPAF-III, venivano identificati cinque fattori di rischio indipendenti: pregresso tromboembolismo, età, sesso femminile, storia di ipertensione e pressione arteriosa sistolica >160 mmHg.63

Lo score CHADS2 [Congestive heart failure, Hypertension, Age ≥75, Diabetes, Stroke or TIA(doubled)] integra gli elementi degli schemi AFI e SPAF, assegnando due punti ad una storia clinica di ictus o TIA ed un punto ad un’età ≥75 anni, una storia di ipertensione arteriosa (senza definizione ulteriore), diabete mellito, scompenso cardiaco recente o funzione sistolica ventricolare sinistra alterata (con frazione di eiezione ≤35%).63

L’originale validazione di questo schema classificava un CHADS2 Score pari a 0 come a basso rischio, 1-2 come a rischio moderato e maggiore di 2 come ad alto rischio.1

Questi schemi di stratificazione del rischio tromboembolico categorizzano i pazienti come a basso, medio ed alto rischio, senza considerare il fatto che tale rischio sia in realtà un continuum, e presentano una scarsa predittività nei confronti dell’evento cerebrovascolare64-66, come evidenziato dal fatto che molti pazienti classificati come a basso rischio usando il CHADS2 (Score =0) hanno incidenza annua di ictus >1.5%,67, 68 Inoltre, la maggior parte degli autori concorda sul fatto che il CHADS2 manchi di molti comuni fattori di rischio per stroke, mostrando così i suoi limiti.69, 70

Negli ultimi anni l’enfasi si è rivolta verso l’identificazione dei pazienti con fibrillazione atriale cosiddetti “a rischio molto basso” (truly low-risk), per i quali la terapia antitrombotica potrebbe non essere appropriata.19 Per identificare i “truly low-risk”, è necessario essere più inclusivi (piuttosto che esclusivi) nei confronti dei comuni fattori di rischio per ictus, così da ottenere una valutazione onnicomprensiva del rischio di stroke.16 Questa nuova categorizzazione è stata possibile andando a considerare altri comuni modificatori del rischio di stroke, quali il sesso femminile, la fascia di età compresa tra 65 e 74 anni e la presenza di vasculopatia,71-73 che precedentemente erano considerati più deboli e meno validati.74

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di rischio, il CHA2DS2-VASc [Congestive heart failure/ left ventricular dysfunction, Age ≥ 75 (doubled), Diabetes, Stroke (doubled) – Vascular disease, Age 65-74, Sex category (female)]75, basato su fattori di rischio distinti in “maggiori” e “clinicamente rilevanti non maggiori”. I fattori di rischio “maggiori” (precedentemente indicati come fattori ad alto rischio) sono il pregresso ictus/TIA/evento tromboembolico e l’età ≥75anni, ai quali sono assegnati due punti ciascuno. I fattori “clinicamente rilevanti non maggiori” (corrispondenti ad i precedenti fattori di rischio moderati) sono lo scompenso cardiaco (specialmente una disfunzione del ventricolo sinistro moderata-grave, definita arbitrariamente come frazione di eiezione ≤40%), l’ipertensione, il diabete, il sesso femminile, l’età compresa tra 65 e 74 anni e la malattia vascolare aterosclerotica (che comprende il pregresso infarto del miocardio, una placca aortica complessa nell’aorta discendente e l’arteriopatia obliterante periferica); a questi sono assegnati un punto ciascuno. I fattori di rischio sono cumulativi e la simultanea presenza di due o più fattori di rischio “clinicamente rilevanti non maggiori” indica un livello di rischio tale da giustificare un anticoagulazione.1

L’evidenza accumulata mostra che il CHA2DS2-VASc è migliore nell’identificazione dei pazienti con fibrillazione atriale “truly low-risk” 66, 76-78

e non è inferiore al CHADS2 nell’identificazione dei pazienti che sviluppano stroke e tromboembolismo.56, 67, 79

Al fine di determinare il rischio di stroke, è dimostrato che la distinzione tra fibrillazione permanente, persistente e parossistica è irrilevante: analisi multivariate di coorti seguite in maniera prospettica indicano il tipo di fibrillazione atriale come un predittore non significativo.63

STRATIFICAZIONE DEL RISCHIO EMORRAGICO

La scelta di intraprendere una trombo profilassi richiede di soppesare il rischio di stroke rispetto al rischio di emorragie maggiori (specialmente intracraniche), che rappresentano il principale effetto collaterale (nonché il più temuto) della terapia anticoagulante.16

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