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L'efficacia della Profilassi Pre-Esposizione giornaliera e on-demand per la prevenzione dell'infezione da HIV nelle popolazioni ad alto rischio

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Dipartimento di Ricerca Traslazionale e delle Nuove Tecnologie

in Medicina e Chirurgia

CORSO DI LAUREA IN MEDICINA E

CHIRURGIA

L'efficacia della Profilassi Pre-Esposizione giornaliera e

on-demand per la prevenzione dell'infezione da HIV

nelle popolazioni ad alto rischio

CANDIDATO RELATORE

Alessio Bongiovanni Prof. Francesco Menichetti

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INDICE

1. HIV, IL VIRUS DELL'IMMUNODEFICIENZA UMANA…...…………...5

1.1 Generalità…………...…...………...………...5

1.2 Origini e storia………5

1.3 Classificazione………...………...………..6

1.4 Caratteristiche del virus e ciclo vitale……….6

1.5 Vie di trasmissione………..8

1.5.1 Trasmissione sessuale………...9

1.5.2 Trasmissione attraverso sangue ed emoderivati……….11

1.5.3 Trasmissione occupazionale di HIV a tecnici sanitari o di laboratorio..12

1.5.4 Trasmissione verticale al feto e al neonato………13

1.5.5 Trasmissione attraverso altri liquidi corporei……….15

1.6 Patogenesi e storia naturale dell'infezione………15

2. EPIDEMIOLOGIA DI HIV NEL MONDO E IN ITALIA………..….19

2.1 Epidemiologia di HIV nel mondo……….19

2.2 Epidemiologia di HIV in Italia………..………...21

3. PREVENZIONE DELL'INFEZIONE DA HIV……….25

3.1 Le principali strategie di prevenzione………...25

3.2 La Profilassi Pre-Esposizione (PrEP) ………..27

4. TERAPIA ANTIRETROVIRALE………..29

4.1 La terapia in generale………....29

4.2 I farmaci della PrEP………..30

4.2.1 Emtricitabina………..30 4.2.2 Tenofovir………32 5. LO STUDIO………..34 5.1 Obiettivi………..………..34 5.2 Materiali e metodi……….34 5.3 Risultati……….36 5.3.1 Studio IPREX (2010) ………36

5.3.2 Studi correlati allo studio IPREX………...45

5.3.2.1 Open-label Extension dello studio IPREX (2015)…………..45

5.3.2.2 Studio di confronto IPREX-STRAND (2012)………53

5.3.3 Bangkok Tenofovir Study (2013) ………..59

5.3.4 Partners PrEP Study (2014) ………...66

5.3.5 Open-label Extension del Partners PrEP Study (2015)………..71

5.3.6 Studio PROUD (2015) ………..79

5.3.7 Studio IPERGAY (2015) ………...86

5.3.8 Studio VOICE (2015) ………...93

5.4 Discussione……….101

5.4.1 Efficacia della PrEP negli MSM………..101

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4 5.4.3 Efficacia della PrEP nei tossicodipendenti facenti uso di droghe

iniettabili………...…105

5.4.4 Efficacia della PrEP nelle coppie sierodiscordanti………..106

5.4.5 Efficacia della PrEP nelle donne eterosessuali africane………..109

5.4.6 Sicurezza della PrEP………110

5.4.7 Resistenze……….111

5.5 Conclusioni……….112

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1. HIV, IL VIRUS DELL'IMMUNODEFICIENZA UMANA

1.1 Generalità1

L'HIV (human immunodeficiency virus) rappresenta il principale retrovirus dell'uomo, appartiene alla famiglia delle Retroviridae e al genere Lentivirus. Presenta due sierotipi, HIV-1 e HIV-2.

Tale virus è responsabile della sindrome da immunodeficienza acquisita (AIDS), una condizione morbosa le cui manifestazioni cliniche sono costituite da infezioni opportunistiche e da insolite e molto aggressive forme di tumori maligni, dovute a una grave compromissione della risposta immunitaria cellulo-mediata.

1.2. Origini e storia

L'AIDS è stata riconosciuta come malattia nel 1981 negli Stati Uniti, in seguito a un numero sorprendentemente elevato di infezioni polmonari da Pneumocistis Carinii e di tumori non usuali, come il sarcoma di Kaposi, osservati in giovani adulti. Dopo circa due anni di ricerca, nel 1983, l'istituto Pasteur di Parigi e il National Cancer Institute di Bethesda riuscirono isolare il primo sierotipo del virus, che inizialmente venne denominato LAV (Lymphadenopaty associated virus), poi HTLV-III (Human

T-lymphotropic virus type III), e infine HIV.

È stato dimostrato che il virus HIV si è generato in seguito a eventi multipli di infezioni tra scimmia e uomo; l'ipotesi più accreditata è che il virus si è trasmesso all'uomo attraverso una esposizione cutanea o mucosale a sangue infetto, causata dalle attività venatorie o di macellazione degli animali infetti. Una attenta analisi filogenetica ha permesso di dimostrare che entrambi i sierotipi di HIV sono corrrrelati con i SIV (i virus dell'immunodeficienza delle scimmie), quindi l'infezione di HIV nell'uomo può essere considerata il risultato di una zoonosi.

Nel 1986 è stato isolato il secondo sierotipo di HIV, HIV-2, un retrovirus con una diversa composizione degli acidi nucleici, e di conseguenza diverse componenti antigeniche. I due sierotipi condividono comunque una elevata omologia della

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6 sequenza virale. HIV-2 ha le stesse vie di trasmissione di HIV-1, ma la sua efficienza di trasmissione è molto più bassa, in quanto esso si replica a basso titolo. Per questo motivo, la frequenza con cui si sviluppano casi di malattia in seguito all'infezione da HIV-2 è molto inferiore a quella che si osserva nei casi HIV-1 positivi, e richiede circa 10-20 anni per manifestarsi.

1.3. Classificazione

HIV causa un'infezione cronica associata, nella maggior parte dei casi, a una viremia persistentemente positiva, e a un'immunodeficienza progressivamente ingravescente che esita in gravi infezioni opportunistiche.

La classificazione clinica della infezione da HIV, elaborata nel 1987 dai CDC (Centers for Disease Control and Prevention), che divideva i soggetti in 4 categorie in base alla sintomaticità della infezione, è stata considerata di scarsa utilità prognostica, e sostituita nel 1993 da una classificazione che non si basava solo sui sintomi clinici, ma anche su un altro parametro fondamentale: la conta dei linfociti CD4+. Anche questo ultimo sistema fu considerato impreciso alla luce delle evidenze sulla importanza prognostica della carica virale di HIV e sulla capacità della terapia antiretrovirale di indurre un ripristino della funzione immunitaria e quindi di ridurre il rischio delle complicanze cliniche. Questi due parametri infatti sono fondamentali per stimare i rischi di progressione della malattia e per la valutazione della sopravvivenza, e non erano compresi in questa classificazione.

1.4. Caratteristiche del virus e ciclo vitale2

Il virione di HIV-1 ha un diametro di circa 100 nm e una struttura icosaedrica con numerose proiezioni esterne formate dalle sue due principali proteine di membrana: la gp 120 (proteina di ancoraggio) e la gp41 (proteina transmembrana), contenute in un envelope lipidico. Il virus si stacca per gemmazione dalla superficie della cellula infetta, potendo inglobare nella sua membrana lipidica numerose proteine della cellula ospite, tra cui gli antigeni MHC.

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7 Il suo materiale genetico è costituito da due copie di RNA a polarità positiva, legate a due proteine, p7 e p9, che costituiscono il capside del virus. Esso contiene, oltre all'RNA virale, anche gli enzimi fondamentali del virus: la trascrittasi inversa, la proteasi e l'integrasi.

Il capside è a sua volta contenuto nella sezione centrale del virione, denominata core, di sezione cilindro/conica e formato dalla proteina p24.

Tra il core e l'involucro lipidico, o envelope, è interposta la matrice, formata completamente dalla proteina virale p17.

Il genoma del virus presenta tre geni fondamentali per la sua replicazione: Gag, Pol e

Env. Gag codifica per le proteine componenti il core del virione: p24, p17, p7 e p9. Pol codifica per i tre enzimi del virus, mentre da Env derivano le proteine

dell'involucro esterno gp120 e gp41.

Il genoma di HIV contiene anche altri 6 geni, codificanti per proteine coinvolte nella modifica della cellula ospite per aumentare la espressione dei geni virali e quindi il tasso di replicazione (tat, rev, nef, vif, vpr e vpu). Questi geni differenziano HIV dagli altri retrovirus in cui non sono presenti, e lo rendono molto più complesso.

Ai due estremi di questa sequenza genica si trovano i long terminal repeats, sequenze contenenti elementi regolatori coinvolti nella espressione genica.

La probabilità che dopo l'ingresso del virus nell'organismo umano si verifichi effettivamente una infezione è dipendente da due fattori fondamentali: la carica infettante e il numero di cellule recettive presenti nella sede di infezione.

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8 Le cellule recettive nella infezione da HIV sono tutte quelle che presentano sulla propria superficie il recettore CD41. Chiaramente, quindi, il principale bersaglio del virus sono i linfociti T CD4+ (T-helper) maturi e immaturi. Il CD4 è però presente anche a livello dei monociti, delle cellule di Langherans del derma, delle cellule follicolari dendritiche dei linfonodi, dei macrofagi alveolari polmonari, delle cellule retiniche e delle cellule della cervice uterina. Il recettore virale per la molecola CD4 è rappresentato dalla gp120.

Negli anni novanta è stato dimostrato che i recettori per le chemiochine CCR5 e CXCR4, rispettivamente posti sulle cellule della linea monocito-macrofagica e sui linfociti, sono fondamentali nella infezione da HIV-1. Essi sono stati quindi denominati secondi recettori o corecettori di HIV-1.

Una volta penetrato nell'organismo, il virus si diffonde attraverso il sangue in tutto l'organismo, accumulandosi in particolare a livello di fegato, linfonodi, midollo osseo, milza e SNC, dove può replicarsi nelle cellule monocito-macrofagiche per poi colonizzare le cellule bersaglio.

Il virione di HIV si lega, tramite la gp120, al recettore CD4 e poi ai secondi recettori. Questo legame consente la fusione tra l'involucro lipidico virale e la membrana della cellula bersaglio, ed è favorito dalla proteina transmembrana gp41.

In seguito all'ingresso del virus nella cellula, il suo RNA genomico viene trascritto a DNA dalla trascrittasi inversa, e poi integrato nel genoma cellulare grazie all'enzima integrasi.

Il virus quindi rimane latente all'interno delle cellule T finchè esse non ricevono un segnale di replicazione cellulare. A questo punto infatti, HIV sfrutta gli apparati trascrizionali e traduzionali della cellula per replicarsi: l'RNA messaggero virale viene tradotto in più poliproteine che sono scisse dalla proteasi in tutte le proteine strutturali del virus. Si producono così nuovi virioni che abbandonano la cellula bersaglio per gemmazione, acquisendo così l'envelope lipidico.

Il ciclo termina così con le nuove particella virale che sono in grado di infettare numerose altre cellule bersaglio.

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1.5. Vie di trasmissione2

Il virus HIV si trasmette in primo luogo per via sessuale (per contatti sia eterosessuali che omosessuali), per via parenterale attraverso il sangue e gli emoderivati, per via transplacentare e perinatale dalla madre infetta al prodotto del concepimento.

1.5.1. Trasmissione sessuale

L'infezione da HIV è considerata in tutto il mondo come una malattia sessualmente trasmessa (MST). La più frequente via di trasmissione è sicuramente rappresentata dai rapporti eterosessuali, i quali sono più praticati rispetto a quelli omosessuali, ma in generale la via di trasmissione sessuale non è molto efficiente: uno studio pilota effettuato nel distretto di Rakai in Uganda su coppie eterosessuali e sierodiscordanti ha dimostrato che il rischio complessivo di trasmissione di HIV era dello 0,12% per atto coitale in assenza di terapia antiretrovirale.

Il virus si concentra nel liquido seminale, nelle cellule della cervice uterina e nelle secrezioni vaginali.

Il rischio di infezione da HIV è chiaramente molto aumentato nei rapporti non protetti, specialmente nel rapporto anale, che è più pericoloso del rapporto vaginale in quanto la mucosa anale è molto sottile e fragile,e il suo sfaldamento durante il rapporto favorisce il contatto tra il virus contenuto nel liquido seminale e i linfociti posti al di sotto della mucosa.

Studi condotti negli Stati Uniti e in Europa hanno dimostrato che la trasmissione di HIV da maschio a femmina è generalmente più frequente rispetto a quella da femmina a maschio. Questa differenza tra i due generi portrebbe essere dovuta alla prolungata esposizione della mucosa vaginale, di quella cervicale e dell'endometrio, al liquido seminale contenente il virus.

Inoltre, l'analisi dei possibili cofattori nel contesto della trasmissione eterosessuale ha dimostrato che la presenza di altre malattie sessualmente trasmissibili è fortemente associata alla infezione da HIV. In particolare, le infezioni che sono in grado di causare ulcerazioni degli organi genitali come Treponema pallidum, Haemophylus

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ducreyi, Herpes simplex sono molto correlate. Alcuni studi suggeriscono infatti che il

trattamento di queste malattie sessualmente trasmissibili riduce fortemente il rischio di infezione da HIV; questo effetto è particolarmente evidente in quelle popolazioni in cui la prevalenza di HIV è ancora fortemente contenuta.

La concentrazione dei virioni di HIV nel plasma è un determinante primario del rischio di trasmissione del virus. In uno studio di coorte condotto in Uganda su coppie sierodiscordanti non sottoposte a terapia antiretrovirale, il tasso di sieroconversione è stato molto maggiore nelle coppie in cui il partner portatore aveva elevati livelli di viremia plasmatica. Un'altra evidenza importante, a questo proposito, riguarda il fatto che il tasso di trasmissione di HIV per atto coitale risulta più alto in due momenti della infezione: il primo è durante lo stadio iniziale della infezione, mentre il secondo è nella fase di malattia avanzata. In entrambi questi momenti, infatti, la viremia plasmatica è molto elevata.

Per questo motivo, la terapia antiretrovirale, riducendo in maniera drastica la viremia plasmatica nella maggior parte dei soggetti infetti, è associata a una diminuzione del rischio di infezione.

Tra i fattori che riducono il rischio di infezione da HIV vi è anche la circoncisione maschile, che però si è dimostrata protettiva soltanto nei rapporti eterosessuali, non in quelli omosessuali.

In alcuni studi l'uso dei contraccettivi orali appariva associato a un'aumentata incidenza di infezione da HIV, molto più alta di quella che ci si poteva aspettare considerando il mancato utilizzo del preservativo per il controllo delle nascite. Si è ipotizzato quindi che questo fenomeno potrebbe essere dovuto a modificazioni della mucosa cervicale indotte dal farmaco, che rendono la mucosa stessa maggiormente vulnerabile alla penetrazione del virus.

Infine, l'associazione tra il consumo di alcol e droghe e i comportamenti sessuali a rischio porta a un aumento del rischio di trasmissione sessuale di HIV. Le droghe più associate sono la metanfetamina e le altre cosiddette droghe da discoteca (ecstasy, ketamina e gamma-idrossibutirrato).

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1.5.2. Trasmissione attraverso sangue ed emoderivati

Il virus può anche essere trasmesso attraverso trasfusione di sangue, emoderivati o trapianti tissutali contaminati da HIV, così come a soggetti tossicodipendenti dediti all'uso di droghe per via endovenosa nel momento in cui condividono tra loro aghi e siringhe. La trasmissione parenterale di HIV in seguito all'iniezione di droghe non è limitata alla puntura endovenosa; le iniezioni sottocutanee e intramuscolari possono veicolare HIV allo stesso modo, anche se erroneamente questi comportamenti sono spesso ritenuti a basso rischio. Tra coloro che fanno uso di droghe per via endovenosa, il rischio di infezione aumenta in modo direttamente proporzionale agli anni di tossicodipendenza, alla frequenza con la quale si effettua lo scambio di siringhe, al numero di partner con cui si condividono gli strumenti per l'iniezione della droga, alla compresenza di patologie psichiatriche, all'uso di cocaina in forma iniettabile o fumata ("crack") e all'uso di droghe in aree geografiche ad elevata prevalenza dell'infezione da HIV, come i centri delle grandi città statunitensi.

La trasmissione dell'HIV attraverso emoderivati e trapianti tissutali è avvenuta per la prima volta nel 1982, e si è drasticamente ridotta dal 1985 in poi, anno in cui fu introdotto l'obbligo di sottoporsi al test HIV per tutti i donatori. È stato calcolato che più del 90% dei soggetti esposti a emoderivati contaminati dal virus abbia poi acquisito l'infezione da HIV. Qualsiasi emoderivato (sangue intero, globuli rossi concentrati, piastrine, leucociti e plasma) è in grado di trasmettere l'infezione, mentre i preparati di immunoglobuline e i vaccini derivati dal plasma (come quello per HBV) non sono mai stati associati alla trasmissione dell'HIV, in quanto le procedure effettuate per prepararli eliminano il virus.

Attualmente, nella maggior parte dei paesi industrializzati, Stati Uniti compresi, il rischio di trasmissione dell'infezione da HIV attraverso sangue e emoderivati si è reso estremamente basso grazie a tutta una serie di misure preventive quali: screening delle donazioni di sangue per anticorpi anti-HIV, per l'antigene p24 e per HIV-RNA; attenta selezione dei potenziali donatori con questionari anamnestici che escludano tutti coloro che hanno avuto comportamenti a rischio, opportunità di autosospensione ed esclusione di soggetti HIV-negativi con esami sierologici indicativi di infezioni come epatite B e C. La possibilità di infezione di soggetti

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12 emofilici attraverso la somministrazione di concentrati dei fattori della coagulazione è stata eliminata grazie al trattamento al calore di tali concentrati.

Ne risulta che, negli Stati Uniti, il rischio di contrarre l'infezione da HIV da trasfusioni di sangue e circa di 1 ogni 1,5 milioni di unità (tra i 16 milioni di donazioni effettuate ogni anno negli USA ce ne sono quindi circa 11 infette, che portano alla distribuzione di 20 unità di sangue HIV-positive e potenzialmente infettanti). Il motivo della impossibilità di eliminare completamente il rischio di infezione data dalle trasfusioni è da ricercarsi nel fatto che, nei primi 10-15 giorni di infezione, il dosaggio dell'HIV-RNA può risultare negativo a causa della bassa viremia circolante.

La trasmissione di entrambi i sierotipi di HIV attraverso le trasfusioni è invece ancora molto frequente in Africa subsahariana, dove non vengono universalmente effettuati screening routinari del sangue donato.

La trasmissione dell'HIV attraverso campioni di sperma per l'inseminazione artificiale e tessuti nel trapianto d'organo era modesta già prima dell'introduzione del test HIV, mentre adesso è ancora meno frequente. Per le coppie sierodiscordanti (maschio infetto, femmina sieronegativa) che desiderano concepire un figlio sono state introdotte e utilizzate con successo tecniche di inseminazione artificiale precedute da lavaggio dello sperma, al fine di ridurre il rischio di trasmissione; una sola volta si è avuta la trasmissione dell'infezione nonostante questa tecnica, nel 1990.

1.5.3. Trasmissione occupazionale di Hiv a operatori sanitari e di laboratorio

Il rischio di contagio di tipo occupazionale è piccolo ma interessa potenzialmente tutti coloro che lavorano a contatto con soggetti e campioni infetti, specie se utilizzano oggetti taglienti o perforanti. Si stima che ogni anno il numero di operatori che si taglia o punge con strumenti chirurgici o aghi negli Stati Uniti sia compreo tra 600.000 e 800.000.

Le esposizioni che pongono l'operatore sanitario a rischio di HIV sono le ferite percutanee e il contatto delle mucose o della cute non intatte con sangue, tessuti o altri liquidi corporei potenzialmente infetti. In particolare, secondo studi effettuati su

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13 ampie casistiche, il rischio di contagio in seguito a lesioni da aghi o altri oggetti taglienti contaminati da sangue di un soggetto con infezione da HIV documentata è dello 0,3%, mentre è dello 0,09% per l'esposizione a livello delle mucose se la persona esposta non è trattata con una terapia antiretrovirale di combinazione (cART) entro 24 ore.

Oltre al sangue, anche tutti gli altri liquidi corporei tra cui sperma, secrezioni vaginali, liquido cefalorachidiano, liquido sinoviale, liquido pleurico, liquido pericardico, liquido peritoneale e liquido amniotico sono potenzialmente infettivi, ma per essi il rischio è estremamente più basso che per le esposizioni al sangue. Sono inoltre stati segnalati rari casi di trasmissione di HIV tramite morso umano, ma mai in un contesto occupazionale.

Il rischio di contrarre l'HIV a seguito di lesioni cutanee è maggiore se l'individuo viene esposto a una quantità di sangue relativamente abbondante, come nel caso di strumenti visibilmente contaminati col sangue del paziente sieropositivo, o in corso di una procedura che richieda l'inserimento di un ago in un vaso, oppure quando vi sia una ferita profonda. Inoltre, il rischio aumenta molto in caso di esposizione al sangue proveniente da un paziente con malattia in stadio avanzato o infezione acuta da HIV, probabilmente per via della viremia, particolarmente elevata in queste situazioni.

1.5.4. Trasmissione verticale al feto e al neonato

L'HIV può essere trasmesso dalla madre infetta al feto durante la gravidanza (per via transplacentare) oppure al neonato durante l'espletamento del parto (si parla in questo caso di via perinatale) o durante l'allattamento.

Nei paesi in via di sviluppo, specialmente in quelli africani, questa rimane una delle principali forme di trasmissione dell'infezione da HIV. L'infezione del feto per via transplacentare sembra essere più frequente durante il primo o il secondo trimestre di gravidanza, ma in assoluto la modalità di trasmissione verticale più frequente è quella perinatale. In due studi eseguiti in Rwanda e nell'ex Zaire, il rischio relativo di trasmissione verticale è risultato del 23-30% durante la gravidanza, del 50-65%

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14 durante il parto e del 12-20% durante l'allattamento. In assenza di un'adeguata terapia antiretrovirale profilattica per la madre durante la gravidanza, il travaglio e il parto e al feto dopo la nascita, la probabilità di trasmissione dell'HIV al prodotto del concepimento risulta del 15-25% nei paesi industrializzati e del 25-35% nei paesi in via di sviluppo. Questa differenza tra i paesi può essere giustificata dalla diversa adeguatezza delle cure prenatali e dalle diverse caratteristiche dell'infezione nelle madri.

Frequenze di trasmissione più elevate sono state associate agli elevati livelli di viremia plasmatica e alle basse conte di linfociti T CD4+ nella madre. Inoltre, un'aumentata trasmissione verticale è stata correlata a una stretta somiglianza tra gli antigeni di istocompatibilità HLA tra madre e figlio e anche a un prolungato intervallo temporale tra la rottura delle membrane e il parto.

Altri fattori di rischio, non abbastanza documentati, sono: la presenza di corioamniosite al momento del parto, la presenza di malattie sessualmente trasmissibili in gravidanza, il fumo di sigaretta e l'uso di droghe pesanti durante la gravidanza, il parto pretermine, le manovre ostetriche quali amniocentesi e amnioscopia e l'episiotomia.

In uno studio condotto in Francia e Stati Uniti negli anni '90, il trattamento antiretrovirale con Zidovudina effettuato dalla madre dalla seconda settimana di gravidanza fino al parto, e dal neonato per le sei settimane successive al parto, ha ridotto sensibilmente il tasso di trasmissione dal 22,6% a meno del 5%.

Attualmente, la terapia antiretrovirale combinata associata al taglio cesareo ha reso la trasmissione verticale di HIV un evento del tutto occasionale nei paesi industrializzati. A ridurre il tasso di questo tipo di trasmissione in questi paesi ha contribuito anche tutta una serie di manovre tra cui: test HIV volontario e counseling per le donne gravide, profilassi antiretrovirale con uno o più farmaci, assistenza ostetrica al fine di minimizzare il possibile contatto del prodotto del concepimento con il sangue materno e con le secrezioni vaginali, e l'esclusione dell'allattamento al seno.

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15 L'allattamento infatti rappresenta un'importante modalità di trasmissione del virus nei paesi in via di sviluppo, dal momento che in questi paesi le madri continuano ad allattare per lunghi periodi. I fattori di rischio per questo tipo di tramissione non sono particolarmente noti, ma gli unici che conosciamo sono: i livelli rilevabili di HIV nel latte materno, la presenza di mastite, la bassa conta di linfociti T CD4+ nella madre e la deficienza materna di vitamina A. Il rischio di trasmissione attraverso l'allattamento è maggiore nei primi mesi. L'approccio migliore per prevenire l'acquisizione di HIV da parte del figlio di una madre infetta che voglia allattarlo è quello di fornire alla stessa una terapia antiretrovirale continuativa, considerando l'importanza che l'allattamento materno svolge nello sviluppo del bambino. Questo approccio è semplice da applicare nei paesi industrializzati, molto meno in quelli in via di sviluppo.

1.5.5. Trasmissione attraverso altri liquidi corporei

Nonostante il fatto che HIV sia stato isolato a basso titolo nella saliva dei soggetti infetti, non esistono prove che documentino la possibile trasmissione di questo virus attraverso la saliva stessa. Essa è infatti ricca di fattori endogeni ad attività antivirale, come le immunoglobuline HIV-specifiche di classe IgA, IgG e IgM.

Allo stesso modo, anche la trasmissione di HIV attraverso lacrime, sudore e urine non è stata dimostrata, anche se il virus può essere identificato in ognuno di questi liquidi corporei. Si sono invece verificati casi di infezione dovuti a liquidi corporei contaminati con sangue, i quali sottolineano l'importanza di attenersi alle norme preauzionali generali nella manipolazione dei liquidi e delle secrezioni organiche provenienti dai soggetti infetti da HIV.

1.6. Patogenesi e storia naturale dell'infezione1

L'infezione da HIV può essere divisa in tre fasi principali: la prima è l'infezione

primaria, detta anche infezione acuta, la cui risoluzione è accompagnata dalla

attivazione della risposta umorale e cellulo-mediata; la seconda è la fase di latenza

clinica, la quale ha una durata variabile tra pochi mesi e molti anni ed è caratterizzata

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sintomatica, in cui il paziente sviluppa le infezioni opportunistiche che definiscono la

conclamata sindrome da immunodeficienza acquisita (AIDS).

L'infezione primaria è caratterizzata da una rapida comparsa dei markers di replicazione virale nel sangue periferico, e nel 50-70% dei casi può essere accompagnata da una sindrome clinica simil-mononucleosica (malattia acuta da

HIV), con sintomi generali quali febbre, linfoadenopatia, astenia, cefalea, faringite,

eruzioni cutanee, ulcere orali e genitali e, in alcuni casi, meningoencefalite. In questa fase è presente una spiccata viremia (105 – 107 copie virali/mL), che costituisce la causa principale della disseminazione del virus agli organi linfoidi, che precede lo sviluppo della risposta immune contro HIV.

Dal momento in cui passa nel sangue periferico, il virus può essere riscontrato in laboratorio grazie alla polymerase chain reaction (PCR), inoltre il soggetto può trasmettere l'infezione ad altri, e comincia ad essere possibile fare diagnosi di infezione da HIV.

La comparsa della risposta immunitaria HIV-specifica si verifica in un periodo variabile tra 1 settimana e 3 mesi dalla comparsa dei sintomi, e si accompagna a una riduzione della viremia, a una scomparsa dei sintomi e a un parziale recupero dei linfociti CD4+.

La risposta umorale nei confronti del virus produce anticorpi specifici che Figura 2: Storia naturale dell'infezione da HIV (fonte: Treccani.it)

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17 cominciano ad essere presenti da 3 a 5 settimane dopo l'infezione. Esiste quindi un periodo di circa 21 giorni, detto periodo finestra, in cui il virus è presente ma gli anticorpi non sono dosabili.

Tipicamente il tempo medio tra l'infezione primaria e lo sviluppo dell'AIDS conclamata è di circa 10-11 anni, tuttavia esistono i cosiddetti progressori rapidi (10% degli infetti) che sviluppano la malattia in meno di 5 anni, e anche i

progressori lenti (5-15%), che impiegano più di 15 anni.

La fase di latenza clinica è una fase asintomatica caratterizzata da fondamentali eventi patogenetici, come il graduale deterioramenteo del sistema immunitario associato alla progressiva riduzione dei linfociti T CD4+ e a difetti funzionali sia dei linfociti T CD4+ e CD8+, sia dei linfociti B, sia delle cellule della serie monocito-macrofagica. Nonostante in questa fase i parametri indicativi della replicazione virale appaiano relativamente bassi nel sangue periferico, negli organi linfoidi sono evidenziabili elevati livelli di DNA provirale, integrato e non, e di RNA virale prodotto da cicli di attiva replicazione.

Studi riguardanti la cinetica del turnover virale hanno dimostrato che la replicazione virale è attiva in tutte le fasi dell'infezione.

Il lungo e continuo deterioramento del sistema immunitario e la progressiva riduzione dei linfociti CD4+ conducono l'organismo alla fase sintomatica della infezione da HIV, ovvero la fase in cui il numero assoluto dei linfociti CD4+ è sceso al di sotto del valore di 200/μl. In questa fase il decorso clinico è complicato dalla comparsa di infezioni opportunistiche che definiscono la sindrome da immunodeficienza acquisita propriamente detta, e che rappresentano la principale causa di morte di questi pazienti. Da un punto di vista virologico, in questa fase si ha un consistente aumento dei markers di replicazione virale sia a livello del sangue periferico, sia a livello dei linfonodi.

In seguito sono elencate, in ordine alfabetico, le infezioni che secondo il CDC (Center for Disease Control and Prevention) definiscono l'AIDS2:

 Candidosi dei bronchi, della trachea, dei polmoni, dell'esofago  Coccidioidomicosi, disseminata o extrapolmonare

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18  Criptococcosi extrapolmonare

 Criptosporidiosi cronica intestinale (durata superiore a un mese)  Encefalopatia HIV-correlata

 Infezione sintomatica da Citomegalovirus

 Infezione da complesso Mycobacterium Avium o Mycobacterium Kansasii, disseminata o extrapolmonare

 Infezioni da micobatteri di altro tipo, disseminate o extrapolmonari  Isosporiasi cronica intestinale (durata superiore a un mese)

 Leucoencefalopatia multifocale progressiva (PML)

 Manifestazioni da Herpes simplex: ulcere croniche (durata superiore a un mese), bronchite, polmonite o esofagite

 Polmonite da Pneumocistis Jirovecii  Polmonite interstiziale leucocitaria (LIP)  Polmoniti ricorrenti

 Retinite o corioretinite da Citomegalovirus, con perdita della vista  Setticemia da Salmonella, ricorrente

 Toxoplasmosi cerebrale

 Wasting sindrome attribuibile a HIV

Nella fase di AIDS conclamata possono anche svilupparsi diversi tipi di neoplasie, come il sarcoma di Kaposi, diversi tipi di linfomi non-Hodgkin (tra cui il linfoma di Burkitt e il linfoma primitivo del SNC), il carcinoma del retto, il carcinoma del cavo orale e, nella donna, il carcinoma invasivo della cervice uterina.

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2. EPIDEMIOLOGIA DI HIV NEL MONDO E IN ITALIA

2.1. Epidemiologia di HIV nel mondo

L'infezione da HIV costituisce ormai una vera e propria pandemia che riguarda tutto il pianeta. Fin dalla sua comparsa, nei primi anni '80 del 1900, le sue dimensioni sono andate aumentando, e l'infezione si è diffusa dall'Africa Subsahariana, dove è cominciata, a tutte le altre regioni del mondo. L'UNAIDS (Joint United Nation

Programme on HIV/AIDS) ha stimato che la diffusione globale del virus HIV abbia

raggiunto l'apice nel 1997, anno in cui le nuove infezioni furono circa 3,2 milioni3. Alla fine del 2015 circa 36,7 milioni di individui convivevano con la infezione da HIV, di cui 1,8 milioni di bambini di età inferiore ai 15 anni. Nello stesso anno, i nuovi casi di infezione da HIV sono stati, in tutto il mondo, 2,1 milioni (di cui 150.000 in bambini di età inferiore ai 15 anni) e il numero di morti 1,1 milioni (di cui 110.000 nei bambini). Dall'inizio della pandemia il totale cumulativo delle morti da AIDS ha superato di gran lunga i 25 milioni, anche se negli ultimi anni il numero di morti per anno si è progressivamente ridotto grazie all'introduzione della terapia antiretrovirale.

L'Africa Subsahariana è la regione del mondo più colpita da questa infezione, con circa 19 milioni di individui infetti. Considerando che questa regione ospita solo il 10-11% della popolazione mondiale, questo è un dato epidemiologicamente molto rilevante.

In generale, più del 95% dei soggetti che convivono con la infezione da HIV o con l'AIDS conclamata risiedono in Paesi a basso-medio reddito, e di questi, quasi 2 milioni sono bambini di età inferiore ai 15 anni. Gli individui appartenenti a questa fascia di età non sono colpiti dalla infezione nei paesi Industrializzati, come Nord America, Oceania ed Europa, ma solo nei paesi in via di sviluppo.

La recente riduzione dell'incidenza globale di HIV può essere ricondotta sia a un trend naturale della pandemia, sia agli effetti dei programmi di prevenzione che hanno determinato una riduzione dei comportamenti a rischio.

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20 In Asia meridionale, orientale e sudorientale, e nelle isole dell'Oceano Pacifico, alla fine del 2015, vivevano circa 5,1 milioni di persone con infezione da HIV, con una prevalenza molto più alta nei paesi del Sudest asiatico.

L'epidemia è inoltre in espansione nell'Asia centrale e nell'Europa dell'Est, dove alla fine del 2015 circa 1,5 milioni di persone convivevano con l'infezione; gli stati dell'Est Europa più colpiti erano la Russia e l'Ucraina, regioni in cui il numero di nuove infezioni è enormemente aumentato negli ultimi anni a causa dell'uso di droghe endovenose e della trasmissione eterosessuale.

In Sud America e America centrale, invece, sono circa 2 milioni le persone infette dal virus, con il Brasile che risulta essere il paese che ne ospita di più. Tuttavia, la buona efficacia delle misure di prevenzione e di trattamento della infezione sta portando a un rallentamento dell'epidemia in questo paese.

La regione dei Caraibi ha, dopo l'Africa, il tasso di sieroprevalenza più alto a causa della diffusione della prostituzione; gli individui infetti sono circa 300.000, ed Haiti è la nazione più colpita.

Infine, circa 2,4 milioni di persone con HIV vivono nei paesi con migliori condizioni socio-economiche, ovvero Europa occidentale, Nord America e Oceania. Negli ultimi anni, in questi paesi, è aumentato il numero di nuove infezioni tra i maschi omosessuali, si è stabilizzato quello delle infezioni tramite rapporti eterosessuali ed è drasticamente diminuito il numero di infezioni per via endovenosa tra tossicodipendenti.

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2.2. Epidemiologia in Italia4

In Italia, i casi di infezione da HIV vengono riportati al registro nazionale AIDS, gestito dal centro operativo AIDS (COA) dell'Istituto Superiore di Sanità. A partire dal 2012, tutte le regioni italiane hanno cominciato a contribuire al Sistema di sorveglianza delle nuove diagnosi di infezione da HIV.

Figura 3: Distribuzione degli infetti da HIV nel mondo nel 2015 (fonte: UNAIDS)

Figura 4: Numero delle nuove infezioni di HIV dal 2010 al 2015 con correzione per ritardo di notifica (fonte: ISS)

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22 Secondo i dati dell'ISS, nell'anno 2015 si è osservata una lieve diminuzione sia dei nuovi casi di infezione da HIV sia dell'incidenza della stessa rispetto agli anni precedenti, come da figura 4. Le nuove diagnosi sono infatti state 3444, pari a un'incidenza di 5,7 nuovi casi di infezione da HIV ogni 100.000 abitanti. Tra le nazioni dell'Unione Europea l'Italia si colloca al tredicesimo posto in termini di nuove infezioni. Le regioni più interessate del 2015 sono state il Lazio, la Lombardia, la Liguria e l'Emilia-Romagna.

Le persone a cui l'infezione è stata diagnosticata erano maschi nel 77,4% dei casi. L'età mediana di diagnosi era di 39 anni per i maschi e di 36 anni per le femmine. L'incidenza più alta è stata invece osservata nelle persone appartenenti alla fascia di età tra 25 e 29 anni, come da figura 5.

Inoltre, la maggioranza delle nuove infezioni da HIV nel 2015 era da attribuire a rapporti sessuali non protetti, segnalati nell'85% dei casi (eterosessuali nel 45% dei casi, omosessuali tra MSM nel 40%). Questa osservazione è in accordo con il trend degli ultimi anni, in cui si è osservata una lieve diminuzione del numero delle nuove diagnosi di infezione da HIV per tutte le modalità di trasmissione, tranne per i maschi che fanno sesso con maschi (MSM), come da figura 6.

Figura 5: Numero e incidenza delle nuove diagnosi di infezione da HIV per classe di età (fonte:ISS)

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23 Il 62,2% dei nuovi casi di infezione riguardavano persone di nazionalità italiana, mentre il 28,8% persone di nazionalità straniera. Le incidenze più alte della infezione in stranieri sono stari registrati nei paesi del sud Italia e nelle isole.

Negli ultimi anni è rimasta costante la quota delle persone con una nuova diagnosi di infezione da HIV in fase clinica avanzata, con livelli di CD4 inferiori a 200 cellule/μl presenti nel 36,6% delle nuove diagnosi.

Per quello che riguarda invece le diagnosi di AIDS conclamata, dall'inizio dell'epidemia (1982) a oggi sono stati segnalati oltre 68.000 casi di AIDS in Italia, di cui più di 43.000 decessi.

Nel 2015 i nuovi casi di AIDS diagnosticati sono stati 789, pari a un'incidenza di 1,4 nuovi casi per 100.000 abitanti. L'incidenza dell'AIDS è dunque in lieve e costante diminuzione negli ultimi anni.

È aumentata la quota dei pazienti che presentava un tumore o un'infezione virale al momento della diagnosi di AIDS, mentre è diminuita quella dei pazienti con un'infezione fungina.

Figura 6: Distribuzione delle nuove diagnosi di infezione da HIV in soggetti di nazionalità italiana,

per modalità di trasmissione e anno di diagnosi

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24 Inoltre, nell'ultimo decennio è aumentata la percentuale delle persone con nuova diagnosi di AIDS che ignorava la propria sieropositività e che ha scoperto di essere HIV positiva nei pochi mesi precedenti la diagnosi di AIDS. Questa percentuale è passata infatti dal 20,5% del 2006 al 74,5% del 2015.

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3. PREVENZIONE DELL'INFEZIONE DA HIV

3.1. Le principali strategie di prevenzione2

Le strategie di prevenzione fondamentali dell'infezione da HIV sono rappresentate dall'informazione, dal counseling e dalle modificazioni dei comportamenti a rischio. Infatti, uno dei problemi principali riguardanti l'HIV, sia nei paesi industrializzati che in quelli in via di sviluppo è che molte infezioni sono trasmesse da soggetti che non sanno di essere infetti. Dei circa 1,1 milioni di persone negli Stati Uniti che sono HIV-infette, si stima che circa il 21% non conosca il proprio status HIV e che quindi possa facilmente trasmettere l'infezione ad altri soggetti.

Per questo motivo, il CDC ha deciso di introdurre il test HIV tra le cure mediche di routine. Esso deve essere effettuato in tutti i soggetti di età compresa tra i 13 e i 64 anni, dopo adeguata informazione ma senza necessità di consenso scritto.

La modificazione dei comportamenti a rischio è fondamentale sia nei soggetti HIV-positivi, soprattutto in coloro che non conoscono il proprio stato e possono quindi trasmettere l'infezione agli altri, sia nei soggetti HIV-negativi che si prestano a comportamenti ad alto rischio. Certamente, in entrambi i tipi di pazienti, il metodo più efficace per prevenire la diffusione di HIV è quello di praticare il "sesso sicuro". L'astinenza totale da ogni rapporto sessuale è il solo metodo assolutamente sicuro per prevenire la trasmissione sessuale; siccome molto spesso essa è irrealizzabile, è necessario suggerire una serie di precauzioni relativamente sicure che possono diminuire la probabilità di trasmettere l'infezione.

Se i due partner sessuali di una relazione monogama vogliono avere certezze sul grado di sicurezza della loro relazione, devono effettuare entrambi il test HIV. Nel caso in cui risultino entrambi HIV- negativi, è sufficiente che essi mantengano il loro stato di monogamia senza avere rapporti a rischio con altri soggetti, e potranno continuare ad avere rapporti sessuali anche non protetti tra di loro senza rischiare di contrarre l'infezione. Il consulente deve quindi sottolineare l'importanza dell'onestà tra i due partner, dal momento che la deviazione dalla relazione monogama da parte di anche uno solo dei due mette a rischio la sicurezza di entrambi.

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26 Qualora non si conosca lo stato sierologico di nessuno dei due partner, oppure uno dei due è positivo, sono disponibili diversi tipi di prevenzione. Il principale è rappresentato dall'utilizzo del preservativo, il quale rappresenta, a oggi, la più efficace strategia preventiva esistente per l'infezione da HIV, nonostante non abbia un'efficacia del 100%. Il preservativo ha infatti una percentuale di fallimento del 10%, e la maggior parte di questi fallimenti è dovuta alla rottura dello stesso o al suo utilizzo improprio. Il preservativo in lattice è preferibile rispetto a quello in pelle naturale perchè ha un minore rischio di rottura, e i gel lubrificanti non dovrebbero essere utilizzati perchè aumentano la possibilità di rottura del preservativo.

Inoltre, è importante considerare che, sebbene i rapporti sessuali maggiormente a rischio sono quelli vaginali ed anali, anche i rapporti orali sono associati a un rischio non trascurabile di contrarre l'infezione, nonostante siano considerati sicuri per le credenze popolari.

I microbicidi topici per uso vaginale e anale sono vivamente consigliati come mezzo per prevenire l'infezione qualora vi siano dubbi sull'affidabilità del partner per quanto concerne l'uso del preservativo. In uno studio del 2010 un microbicida topico a base di Tenofovir 1% ha dimostrato un'efficacia del 39% nel prevenire l'infezione da HIV in donne con numerosi rapporti vaginali.

Un altro fattore protettivo, come dimostrato da tre studi clinici su maschi eterosessuali in vari paesi africani, è rappresentato dalla circoncisione maschile, la quale è in grado di ridurre il rischio di acquisizione di HIV del 50-65%. La circoncisione ha mostrato un considerevole potenziale come strategia preventiva soprattutto nei paesi in via di sviluppo.

Il modo più efficace per la prevenzione della infezione da HIV tra i tossicodipendenti è l'interruzione dell'utilizzo di droghe per via endovenosa. Questo risultato non è raggiungibile senza inviare il paziente in un programma di disintossicazione in quanto la tossicodipendenza è una malattia vera e propria. Nei soggetti che non vogliono o non possono smettere di assumere droghe, il modo migliore per evitare la trasmissione del virus è evitare lo scambio di siringhe e la condivisione degli aghi, oppure effettuare la loro pulizia con ipoclorito di sodio, cosa che spesso i tossicodipendenti non sono disposti a fare. È fondamentale che ai tossicodipendenti

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27 siano effettuati periodici test HIV e che a loro e ai loro partner sia offerto un servizio di consulenza per evitare la trasmissione sessuale.

La trasmissione dell'HIV attraverso trasfusioni di sangue o di emoderivati è nettamente diminuita negli ultimi anni, grazie a due fondamentali manovre di prevenzione: lo screening di tutti i donatori di sangue attraverso la ricerca degli anticorpi contro HIV, dell'antigene p24 e dell'HIV-RNA e l'autoesclusione di tutti i soggetti a rischio per infezione da HIV.

Nelle donne in gravidanza con infezione da HIV, invece, la prevenzione dell'infezione del prodotto del concepimento viene effettuata sottoponendo a terapia antiretrovirale la donna stessa, durante la gravidanza, e il neonato, durante le prime settimane di vita, ed evitando l'allattamento al seno. Queste manovre hanno portato a una notevole diminuzione dei casi di trasmissione verticale dell'infezione da HIV.

È dunque chiaro che, per poter controllare e porre una fine all'epidemia di AIDS in futuro, è fondamentale una prevenzione efficace. Questa prevenzione non deve essere unidimensionale ma deve costituire un'integrazione tra tutte le possibili strategie, selezionate a seconda del target di popolazione.

3.2. La Profilassi Pre-Esposizione (PrEP)

Negli ultimi anni è stata introdotta, come strategia preventiva nelle popolazioni ad alto rischio di infezione da HIV, la PrEP (Profilassi Pre-Esposizione), la quale rappresenta l'argomento centrale del nostro lavoro.

La Profilassi Pre-Esposizione si basa sulla somministrazione di farmaci antiretrovirali a soggetti HIV-negativi, ma a forte rischio di infezione da HIV, al fine di prevenire la contrazione dell'infezione attraverso i rapporti sessuali oppure per trasmissione parenterale.

I farmaci utilizzati per la PrEP sono fondamentalmente due, e verranno descritti nella sezione riguardante la terapia: l'Emtricitabina (FTC) e il Tenofovir Disoproxil Fumarato (TDF).

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28 Le popolazioni a maggior rischio, in cui l'efficacia della PrEP è stata testata in molti studi pubblicati dal 2010 in poi, sono:

 i maschi aventi rapporti sessuali con maschi (Men who have Sex with Men, MSM),

 le donne transgender (TransGender Women, TGW),  i componenti HIV-negativi delle coppie sierodiscordanti,  i tossicodipendenti facenti uso di droghe per via endovenosa,  le donne eterosessuali africane aventi comportamenti a rischio.

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4. TERAPIE ANTIRETROVIRALI

4.1. La terapia in generale2

La gestione dei pazienti con infezione da HIV comprende la terapia antiretrovirale, la terapia delle infezioni opportunistiche e dei tumori associati e le terapie di supporto. Affronteremo in dettaglio la sola terapia antiretrovirale, in particolare per i farmaci utilizzati nella PrEP (Profilassi Pre-Esposizione), ovvero la Emtricitabina e il Tenofovir.

La terapia antiretrovirale combinata, nota anche come terapia antiretrovirale ad elevata attività (highly active antiretroviral therapy, HAART), rappresenta la pietra miliare della gestione medica della infezione da HIV.

Essa cominciò a essere diffusa negli Stati Uniti tra il 1995 e il 1996, e in seguito alla sua introduzione si osservò una netta riduzione dell'incidenza della maggior parte delle condizioni cliniche definenti lo stato di AIDS conclamata.

Questa terapia, infatti richiedeva una stretta aderenza, ma permise di sopprimere la replicazione del virus e garantire così un prolungamento della vita e un miglioramento della sua qualità.

Sfortunatamente, però, esistono molte questioni ancora irrisolte riguardo il trattamento antiretrovirale: non ci sono certezze su quale sia il momento ideale per cominciare la terapia, nè su quale sia il miglior regime iniziale, nè su quando sia necessario cambiare la terapia e con quali farmaci sostituirla. Al momento attuale esistono quindi numerose sperimentazioni cliniche che hanno lo scopo di migliorare gli approcci terapeutici e renderli sempre più efficaci; di conseguenza, disponiamo sempre di nuovi protocolli terapeutici.

I farmaci registrati per il trattamento della infezione da HIV si suddividono in cinque principali categorie:

1. inibitori nucleosidici o nucleotidici della trascrittasi inversa 2. inibitori non nucleosidici della trascrittasi inversa

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30 3. inibitori delle proteasi

4. inibitori delle integrasi

5. inibitori della fusione (agenti antagonisti del CCR5 che interferiscono con l'ingresso del virus nella cellula).

4.2. I farmaci della PrEP5

I due farmaci antiretrovirali che vengono utilizzati nell'ambito della PrEP sono entrambi inibitori della trascrittasi inversa: la Emtricitabina (FTC o Emtriva) e il Tenofovir Disoproxil Fumarato (TDF).

La formulazione combinata di questi due farmaci (FTC 200 mg e TDF 300 mg) è detta TDF/FTC (nome commerciale Truvada).

4.2.1. Emtricitabina

L'Emtricitabina è un enantiomero negativo di un tioanalogo citidinico con una fluorina in posizione 5.

Essa è stata approvata dalla FDA (Food and Drug Administration) per essere utilizzata in combinazione con altri farmaci, alla dose di 200 mg/die, per il trattamento dell'infezione da HIV.

L'FTC è un farmaco a lunga emivita intracellulare (>24 ore), che permette una singola somministrazione giornaliera. La sua biodisponibilità nella formulazione orale è del 93% e non è influenzata dalla presenza di cibo nello stomaco, ma la sua capacità di oltrepassare la barriera emato-encefalica è molto scarsa.

Figura 7: Struttura dell'Emtricitabina (fonte: Wikipedia.com)

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31 Essa viene eliminata per via renale, sia attraverso la filtrazione glomerulare che attraverso la secrezione tubulare attiva. La sua emivita plasmatica è di circa 10 ore.

La formulazione per uso orale dell'FTC è controindicata nei bambini, nelle donne in gravidanza, nei pazienti con insufficienza epatica e/o renale e nei pazienti facenti uso di metronidazolo o disulfiram.

Il più noto e importante effetto avverso dell'FTC si ha in pazienti con coinfezione di HIV e HBV. Infatti la FTC, in maniera simile alla Lamivudina, un farmaco a cui essa è strettamente correlata, ha un'attività anche contro il virus della epatite B. Per questo motivo, nei pazienti con coinfezione si può assistere a una riacutizzazione dell'epatite virale nel momento in cui questi farmaci vengono sospesi.

Gli effetti avversi più comuni risultano essere la cefalea, la nausea, la diarrea, l'astenia e anche l'iperpigmentazione delle palme delle mani e delle piante dei piedi (3%). Quest'ultimo effetto è risultato particolarmente frequente nei pazienti di etnia afro-americana (circa 13%).

Alcuni ceppi di virus HIV possono sviluppare una resistenza alla Lamivudina e all'Emtricitabina attraverso l'acquisizione di una sostituzione M184V nel gene della trascrittasi inversa; questo evento si può verificare nei pazienti che assumono una terapia HAART che non risulti completamente soppressiva. Inoltre, i virus che presentano la mutazione di resistenza K65R rispondono meno alla FTC.

A causa dei loro simili meccanismi di azione e profili di resistenza, l'associazione di Lamivudina ed Emtricitabina non è raccomandabile.

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4.2.2. Tenofovir

Il Tenofovir Disoproxil Fumarato (TDF) è un diestere fosfonato aciclico analogo nucleosidico dell'adenina monofosfato. Esso è stato il primo analogo nucleotidico approvato per il trattamento della infezione da HIV.

Esso rappresenta un profarmaco idrosolubile del principio attivo Tenofovir, il quale, come tutti gli analoghi nucleotidici, inibisce competitivamente la trascrittasi inversa dell'HIV e causa la terminazione della catena dopo l'incorporazione nel DNA.

La sua biodisponibilità orale è 25% nel paziente digiuno e aumenta al 39% dopo un pasto ricco di grassi. Il TDF possiede un'emivita sierica (12-17 ore) e un'emivita intracellulare molto prolungate, le quali permettono la monosomministrazione giornaliera, come per l'Emtricitabina. In modo simile all'FTC anche l'eliminazione del TDF avviene attraverso la filtrazione glomerulare e la secrezione tubulare attiva.

Il virus può sviluppare una resistenza a questo farmaco in ragione delle mutazioni K65R e K70R sul gene della trascrittasi inversa, che provocano una riduzione della suscettibilità al TDF di 3-4 volte.

I disturbi gastrointestinali rappresentano i principali effetti avversi della terapia con TDF, ma non rislutano mai tali da comportarne la sospensione. Altri effetti avversi molto comuni sono la cefalea e l'astenia.

Il TDF può anche causare una tubulopatia renale prossimale tipo sindrome di Fanconi, associata allo sviluppo di insufficienza renale cronica, alla perdita renale eccessiva di calcio e fosfato e a un difetto dell'idrossilazione della vitamina D.

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33 Questa tubulopatia in sostanza conduce ad un danno osseo (osteomalacia), che impone l'esecuzione di periodici screening per valutare la densità ossea per prevenire lo sviluppo di fratture. Essa è molto importante, specialmente nei pazienti con osteoporosi e nei bambini.

Il TDF deve essere quindi utilizzato con molta cautela nei pazienti che già presentano una malattia renale, e risulta inoltre controindicato nelle donne in gravidanza dal momento che è in grado di oltrepassare la barriera emato-placentare.

Questo farmaco antiretrovirale può competere con altri farmaci che vengono eliminati dal rene, come il Cidofovir, il Ganciclovir e l'Aciclovir.

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5. LO STUDIO

5.1. Obiettivi

I trials che sono stati analizzati nel nostro studio sono stati per la maggior parte effettuati reclutando partecipanti a rischio di infezione da HIV provenienti da vari paesi in via di sviluppo in Africa, Asia e Sudamerica, e in piccola parte da paesi industrializzati come gli Stati Uniti.

I risultati di questi trials, che verranno mostrati in seguito, hanno cercato di fornire delle risposte alle numerose domande che è legittimo porsi sulla PrEP: a proposito della sua efficacia, della sua sicurezza, dell'importanza dell'aderenza a questo particolare tipo di profilassi, della possibilità che essa possa causare resistenze ai farmaci antiretrovirali, e anche dei costi che la sua introduzione nella pratica clinica potrebbe portare alla sanità pubblica.

Il nostro obiettivo finale è stato quello di comprendere se, effettivamente, la PrEP potrà diventare una vantaggiosa ed efficace strategia preventiva in grado di aiutarci a rallentare o ad arrestare la pandemia di HIV.

5.2. Materiali e metodi

Gli articoli in cui erano descritti gli studi sulla PrEP da noi analizzati sono stati prelevati dal sito internet PubMed (https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/) e ricercati attraverso i seguenti filtri:

 trial randomizzati controllati (RCT),  articoli degli ultimi 5 anni,

 studi effettuati su esseri umani di età superiore ai 18 anni,  lingua inglese.

La ricerca ha avuto come risultato 80 articoli scientifici, dei quali 37 sono stati considerati inerenti allo scopo del nostro lavoro, dunque sono stati numerati (da 1 a 37), poi sono stati letti e analizzati.

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35 In seguito alla lettura, altri 29 articoli sono stati esclusi perchè riguardavano aspetti non correlati alla efficacia della PrEP. Sono stati perciò inclusi nel nostro lavoro 8 articoli provenienti dalla prima ricerca e uno che è stato reperito in seguito e che non era risultato dalla prima ricerca fatta su PubMed poichè riguardava uno studio pubblicato nel 2010.

In conclusione, gli studi da noi inclusi e analizzati sono stati 9.

RICERCA SU PUBMED trial randomizzati

controllati ultimi 5 anni esseri umani di età superiore ai 18 anni

lingua inglese

80 ARTICOLI 43 Articoli ESCLUSI

37 Articoli temporaneamente INCLUSI, NUMERATI e

LETTI

29 Articoli ESCLUSI dopo la lettura, perchè

non correlati

8 Articoli INCLUSI

1 Articolo aggiunto in seguito (studio IPREX, pubblicato nel 2010 e non

trovato con la prima ricerca)

Totale di 9 Articoli INCLUSI

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5.3. Risultati

I risultati degli studi da noi analizzati sono riportati in ordine cronologico, basato sulla data di pubblicazione degli stessi.

5.3.1. Preexposure Chemoprophylaxis for HIV prevention in Men Who Have Sex With Men (Trial IPREX)6 [2010]

Lo studio IPREX è stato un trial randomizzato e placebo-controllato sulla PrEP orale con TDF/FTC, condotto su una popolazione di MSM e TGW (donne transgender) provenienti da vari paesi di diversi continenti, tra cui Perù, Brasile, Ecuador, USA, Thailandia e Sudafrica.

Dei 4905 soggetti analizzati al primo screening, 2499 sono stati arruolati per questo studio presso 11 siti nelle nazioni prima elencate: 1251 partecipanti sono stati assegnati al gruppo TDF/FTC, mentre i restanti 1248 sono stati assegnati al gruppo placebo.

Caratteristiche dei soggetti di studio

Di tutti i partecipanti, 2470 (99%) erano di sesso biologico maschile, mentre 29 (1%) erano state identificate come femmine.

L'età dei partecipanti era compresa in un range molto ampio, che andava da 18 a 67 anni; in particolare, un dato importante riguarda il fatto che l'età media nel gruppo TDF/FTC era più alta di nove mesi rispetto a quella del gruppo placebo (27.5 vs 26.8 anni, p=0.04).

Le altre caratteristiche demografiche di base erano molto simili tra i due gruppi di studio (tabella 1).

Tra i partecipanti suscettibili alla infezione da HBV, il 94% ha accettato di sottoporsi alla vaccinazione. Sono inoltre stati arruolati 13 partecipanti con infezione cronica da HBV, la quale è stata diagnosticata allo screening. Inoltre, l'infezione da HBV si è verificata, durante lo studio, in 3 partecipanti (2 nel gruppo TDF/FTC e 1 nel gruppo

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37 placebo), in cui si è osservato un incremento dei livelli di aminotrasferasi.

Tabella 1: Caratteristiche demografiche di base dei partecipanti allo studio IPREX Gruppo TDF/FTC (N=1251) Gruppo placebo (N=1248) Valori p Fasce di età 0.04 18-24 anni 591 (47%) 662 (53%) 25-29 anni 274 (22%) 241 (19%) 30-39 anni 249 (20%) 224 (18%) 40+ anni 137 (11%) 121 (10%) Etnia 0.26 Afro-americana 117 (9%) 97 (8%) Caucasica 223 (18%) 208 (17%) Mista 849 (68%) 878 (70%) Asiatica 62 (5%) 65 (5%) Ispanica 900 (72%) 906 (73%) 0.72

Comportamenti sessuali a rischio

Numero medio di partner nelle ultime 12 setimane

18±35 18±43 0.51

Partecipanti aventi rapprorti anali recettivi non protetti (ncRAI) nelle ultime 12 settimane

732 (59%) 753 (60%) 0.37

Partecipanti aventi rapporti anali non protetti con partner HIV-positivi o dal sierostato sconosciuto negli ultimi 6 mesi

992 (79%) 1009 (81%) 0.34

Transactional sex negli ultimi 6 mesi 517 (41%) 510 (41%) 0.84

Partecipanti aventi rapporti sessuali con partner con HIV negli ultimi 6 mesi

23 (2%) 32 (3%) 0.22

Infezioni sessualmente trasmesse allo screening iniziale

Sieroreattività per sifilide (numero/numero totale degli screening)

164/1240 (13%)

162/1239 (13%)

0.95 HSV2 nel siero (numero/numero totale degli

screening) 458/1241 (37%) 430/1243 (35%) 0.24 Sierostati Epatite B 0.11 Suscettibili 827 (66%) 803 (64%)

Immunizzati a causa dell'infezione 247 (20%) 222 (18%)

Immunizzati a causa del vaccino 149 (12%) 190 (15%)

Infezione attiva da HBV 7 (1%) 6 (<1%)

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Aderenza alla profilassi

I partecipanti sono stati seguiti per un tempo variabile da caso a caso (tempo medio 1.2 anni, tempo massimo 2.8 anni).

Il farmaco in studio è stato temporaneamente interrotto da 21 partecipanti (8 nel gruppo TDF/FTC e 13 nel gruppo placebo), per cui essi hanno potuto usufruire di una profilassi post-esposizionale (PEP) (p=0.28).

Il tasso di utilizzo delle compresse riportato direttamente dai partecipanti è stato più basso nel gruppo TDF/FTC rispetto al gruppo placebo sia alla quarta settimana dall'inizio dello studio (89% vs 92%; p<0.001), sia all'ottava (93% vs 94%, p=0.006), mentre in seguito è stato paragonabile (95% in entrambi i gruppi). Però, a ogni visita, una piccola percentuale di partecipanti (in media il 6%) non ha riportato il numero di compresse non assunte.

Il tasso di utilizzo delle compresse è quindi aumentato durante le prime 8 settimane, e successivamente si è assestato su una media compresa tra 89 e 95%.

Considerando invece il primo anno dall'inizio dello studio, il tasso di utilizzo delle compresse si è ridotto dal 99% al 91%, e questo dato è in contrasto con i precedenti.

Comportamenti sessuali e infezioni sessualmente trasmissibili

Nella tabella 1 si nota che i comportamenti sessuali lungo tutto l'arco dello studio sono stati molto simili nei due gruppi (p=0.97).

Essi si sono però modificati con il tempo, in quanto il numero totale di partner con cui i partecipanti hanno avuto rapporti anali recettivi non protetti (ncRAI) è diminuito, mentre la percentuale di partecipanti che hanno utilizzato il preservativo durante i rapporti è aumentata.

Quindi si è potuto osservare un miglioramento dei comportamenti sessuali, che sono diventati meno rischiosi rispetto all'inizio dello studio.

Non si sono osservate nemmeno grandi differenze tra i due gruppi riguardo le infezioni sessualmente trasmissibili (STI): durante il follow-up il numero di partecipanti con sifilide (p=0.49), gonorrea (p=0.74), clamidia (p=0.43), verruche genitali da HPV (p=0.53) o ulcere genitali (p=0.62) è stato molto simile nel gruppo TDF/FTC e nel gruppo placebo.

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Effetti avversi

L'aumento dei livelli di creatinina sierica si è avuto in 41 partecipanti [26 (2%) nel gruppo TDF/FTC e 15 (1%) nel gruppo placebo, p=0.08]. Due di questi hanno poi avuto un ulteriore incremento dei livelli di creatinina, quindi in totale, gli eventi avversi legati a un aumento della creatinina sono stati 43 (tabella 2). In 10 casi, l'aumento della creatinina ha portato i partecipanti ad interrompere il farmaco (7 nel gruppo TDF/FTC e 3 nel gruppo placebo), e dopo queste interruzioni, i livelli di creatinina sono tornati nella norma.

Altri effetti avversi che si sono dimostrati più frequenti nel gruppo TDF/FTC rispetto al gruppo placebo in maniera statisticamente significativa sono stati la nausea di grado moderato (22 vs 10 eventi, p=0.04) e la perdita di peso (34 vs 19 eventi, p=0.04). L'unico caso di morte avvenuto nel gruppo TDF/FTC è stato causato da un incidente stradale, per cui non è da ricondursi al farmaco in studio.

Tabella 2: Effetti avversi riscontrati nello studio IPREX

Gruppo TDF/FTC (N=1251) Gruppo placebo (N=1248) Valori p

Numero di partecipanti Numero di eventi Numero di partecipanti Numero di eventi Qualsiasi 867 (69%) 2630 877 (70%) 2611 0.50 Qualsiasi grave 60 (5%) 76 67 (5%) 87 0.57 Aumento dei livelli di creatinina 25 (2%) 28 14 (1%) 15 0.08 Cefalea 56 (4%) 66 41 (3%) 55 0.10 Depressione 43 (3%) 46 62 (5%) 63 0.07 Nausea 20 (2%) 22 9 (1%) 10 0.04 Perdita di peso (5% o più) 27 (2%) 34 14 (1%) 19 0.04 Diarrea 46 (4%) 49 56 (4%) 61 0.36 Fratture ossee 15 (1%) 16 11 (1%) 12 0.41 Morti 1 (<1%) 1 4 (<1%) 4 0.18

Interruzioni del farmaco in studio

Permanenti 25 (2%) 26 27 (2%) 33 0.82

Permanenti o temporanee

(40)

40

Effetti del TDF/FTC sulla acquisizione di HIV

Durante il trial IPREX si sono verificate 110 infezioni da HIV. In 10 casi, però, l'HIV-RNA si è dimostrato presente già nei campioni di sangue ottenuti al momento dell'arruolamento nello studio.

Escludendo questi casi, quindi, il numero totale di infezioni verificatesi durante questo trial scende a 100. Di queste, 36 si sono avute nel gruppo TDF/FTC e 64

nel gruppo placebo.

Secondo l'analisi intention-to-treat modificata si è quindi avuta una riduzione relativa dell'incidenza di HIV del 44% nel gruppo TDF/FTC rispetto al gruppo placebo (95% CI 15-63, p=0.005) (curva di Kaplan-Meier, figura 9).

In seguito alla correzione per la differenza di età tra i due gruppi (età media nel gruppo TDF/FTC superiore di 9 mesi a quella nel gruppo placebo), l'efficacia è risultata del 43% (95% CI 14-62).

Figura 9: Curva di Kaplan-Meier riferita alla probabilità di infezione da HIV nello studio IPREX. La probabilità cumulativa di infezione da HIV per l'analisi intention-to-treat modificata è

mostrata per i due gruppi di studio (TDF/FTC e placebo). L'efficacia della PrEP con TDF/FTC è risultata del 44% rispetto al placebo.

(41)

41 Nei partecipanti con un tasso di utilizzo delle compresse maggiore o uguale al 50% nell'81% delle visite, l'efficacia della PrEP è risultata del 50% (95% CI 18-70, p=0.006). Questo dato non differisce in modo significativo (p=0.48) dall'efficacia nei partecipanti con un tasso di utilizzo delle compresse inferiore al 50%, la quale è risultata del 32% (95% CI 41-67).

Non c'è stata nessuna prova a favore dell'efficacia della PrEP in caso di un follow-up più prolungato (p=0.44).

In un'analisi dell'efficacia della PrEP nei vari sottogruppi, essa è risultata maggiore tra i partecipanti che avevano precedentemente contratto rapporti sessuali anali recettivi non protetti (ncRAI) rispetto a coloro che invece non li avevano contratti. In particolare, riferendosi a questo sottogruppo, l'efficacia è stata del 58% (95% CI 32.74, p=0.01).

Non sono state invece rilevate differenze nell'efficacia della PrEP in base a regione di provenienza (p=0.62), etnia (p=0.79), circoncisione (p=0.22), livello di scolarizzazione (p=0.16), uso di alcolici (p=0.38) od età (p=0.36).

Nell'analisi post-hoc, nei partecipanti in cui il tasso di utilizzo delle compresse è stato almeno del 49% nel 90% dei giorni dello studio, l'efficacia della PrEP è aumentata al

73% (95% CI 41-88, p<0.001).

Nell'analisi intention-to-treat, comprendente tutti i partecipanti allo studio, anche i 10 che avevano l'infezione da HIV fin dall'inizio, l'efficacia è risultata del 47% (95% CI 22-64, p=0.001).

Dei 10 partecipanti che si sono dimostrati HIV-positivi fin dall'inizio dello studio, 5 di essi hanno manifestato sintomi da infezione virale acuta all'arruolamento, 2 hanno manifestato gli stessi sintomi una settimana dopo, uno ha sviluppato una proctite e 2 hanno avuto leucopenia all'arruolamento.

Di queste 10 infezioni, 2 si sono verificate nel gruppo TDF/FTC, e le altre 8 nel gruppo placebo (p=0.06).

Riconsiderando invece i partecipanti che hanno contratto l'infezione da HIV dopo l'arruolamento, quelli in cui l'HIV RNA è risultato dosabile prima della sieroconversione sono stati 5 su 36 (14%) nel gruppo TDF/FTC e 7 su 64 (11%) nel gruppo placebo (p=0.75). Il tempo necessario per la sieroconversione dopo il

(42)

42 dosaggio dell'RNA è stato simile nei due gruppi (p=0.55).

Dopo l'interruzione del farmaco in studio, i tassi di sieroconversione sono risultati simili nei due gruppi (p=0.42).

Livelli plasmatici di farmaco ed effetto della PrEP

Tra i partecipanti che hanno sviluppato l'infezione da HIV, il tempo medio intercorso tra la diagnosi e l'ultima visita negativa è stato di 35 giorni (IQR 28-56).

Un'analisi caso-controllo è stata effettuata sui partecipanti del gruppo TDF/FTC, prendendo come casi i partecipanti che avevano contratto l'infezione da HIV, e come controlli coloro che non la avevano contratta, al fine di confrontare i livelli plasmatici del farmaco degli stessi.

Figura 10: Livelli intracellulari (grafici A e B) e plasmatici (grafici C e D) dei farmaci in studio nell'analisi caso-controllo. Il grafico A mostra i livelli intracellulari di Emtricitabina

Trifosfato (FTC-TP), il grafico B quelli del Tenofovir Difosfato (TFV-DP); il grafico C mostra i livelli plasmatici di FTC e il D quelli di TFV. La linea orizzontale in ogni grafico

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