LA POESIA
Alla fine della Prima Guerra Mondiale Ungaretti con Allegria di naufragi
(1919) apre una pagina nuova nella storia della nostra poesia e della nostra
cultura, l’Ermetismo, diventando inconsapevolmente il maestro e il punto di
riferimento dei nuovi poeti del ‘900.
La poesia ermetica sorge intorno agli anni Venti e si sviluppa negli anni
compresi tra le due guerre mondiali, esaurendosi gradatamente nel secondo
dopoguerra.
Il termine “Ermetismo” deriva da Ermete o Mercurio, il dio delle scienze
occulte, e fu utilizzato dal critico Flora nel 1930 in senso dispregiativo: egli
accusò i poeti ermetici di oscurità e indecifrabilità.
La poesia ermetica ha messo la letteratura italiana a pieno contatto con la
letteratura europea contribuendo a liberare la poesia italiana dai residui della
retorica ancora evidenti nell’opera di Pascoli e D’Annunzio
Questa poesia restò difficilmente comprensibile per il grosso pubblico.
Molti ritengono che la poesia ermetica sia stata una forma di opposizione al
Fascismo: i poeti ermetici opposero il loro disimpegno sul piano politico e sul
piano letterario una poesia priva di contatti con la realtà, concentrata sulla
tematica dell’angoscia esistenziale.
I CONTENUTI
poesia pura, cioè libera dalle forme metriche e retoriche tradizionali, da
ogni finalità pratica, celebrativa;
solitudine disperata dell’uomo moderno che non ha più certezze alle quali
ancorarsi, in un mondo sconvolto dalle guerre, offeso dalle dittature e da
ideologie totalizzanti ed oppressive. Ne consegue una visione della vita
sfiduciata e desolata, priva di illusioni: da Ungaretti «uomo di pena», che si
sente in esilio in mezzo agli altri uomini, a Montale, che vede negli aspetti
quotidiani della realtà «il male di vivere», a Quasimodo che ricorda che il
destino di ogni uomo si concluderà con la sera della morte;
incomunicabilità, cioè l’incapacità e l’impossibilità di un colloquio aperto e
fiducioso con gli altri;
alienazione, ossia la coscienza di essere ridotti a un ingranaggio nella
moderna civiltà di massa;
frustrazione, cioè la coscienza del contrasto tra una realtà quotidiana
sempre banale e deludente e l’ideale di una vita diversa, desiderata ma
irrealizzabile.
IL LINGUAGGIO POETICO
I poeti ermetici ricorrono a parole essenziali, scabre, secche, che esprimono la
condizione di chi, perdute le antiche certezze e privo di illusioni e di fede, si
ripiega su se stesso e scopre la propria miseria ed angoscia esistenziale.
L’ANALOGIA
L’analogia è l’accostamento di due immagini, situazioni, oggetti tra loro
lontani, fondato su un rapporto di somiglianza o uguaglianza.
Es. Tornano in alto ad ardere le favole (Ungaretti): tornano in cielo a splendere
le stelle, belle come le illusioni (le favole) che addolciscono la vita.
LA SINESTESIA
Sinestesia significa «percezione simultanea», e consiste nell’accostare
sensazioni diverse avvertite simultaneamente.
Es. Urlo nero (Quasimodo): simultaneamente si percepisce una sensazione
uditiva (l’urlo) e una visiva (nero).
CHI FURONO I POETI ERMETICI?
PRIMO PERIODO (anni Venti e Trenta): Ungaretti e Montale
SECONDO PERIODO (anni Trenta e Quaranta): Quasimodo.
Saba resta escluso dal novero dei poeti ermetici in quanto la sua lirica non è
catalogabile, secondo alcuni critici, in nessuna corrente.
GIUSEPPE
VITA
Giuseppe Ungaretti nacque ad Alessandria d’Egitto nel 1888 da genitori
lucchesi, i quali erano migrati in Africa al tempo dei lavori per lo scavo del canale
di Suez. Iniziò lì i suoi studi, avvicinandosi ai circoli anarchici e appassionandosi
alla poesia dei francesi Baudelaire e Mallarmé. A Parigi, dove si recò nel 1912 per
studiare alla Sorbona, venne a contatto con l’ambiente simbolista, che influì molto
sulla sua formazione umana e letteraria. Strinse rapporti di amicizia con
Apollinaire.
In Italia si avvicinò al movimento interventista e partecipò come semplice soldato
alla Prima guerra mondiale, combattendo sul Carso e poi sul fronte francese.
Terminato il conflitto che lo segnò profondamente nell’animo, ritornò a Parigi, dove
si sposò, poi si trasferì Roma e poi in Brasile per insegnare Letteratura italiana
all’Università di San Paolo: è qui che perderà il figlio Antonietto di soli nove anni
per un’appendicite mal curata. Decise di rientrare in Italia dove visse fino al 1970.
LA POETICA
La poesia è per Ungaretti uno strumento per conoscere la realtà. La sua
poesia contiene la storia dell’itinerario del poeta: dall’angoscia esistenziale,
derivata dal senso del mistero e del dolore, alla fede rasserenatrice in Dio;
dalla condizione di «uomo di pena» a quella di «uomo di fede». Questo spiega
il titolo Vita di un uomo che egli volle dare alla raccolta completa delle sue
opere.
La sua poesia è fatta di parole nude, scabre, essenziali.
OPERE
LE IMPRESSIONI DI GUERRA
- Porto sepolto (1916): contiene le poesie scritte sul fronte del Carso, in trincea, su occasionali pezzi di carta conservati dal poeta nello zaino. Il titolo allude ad un antico porto esistente nei pressi di Alessandria, ma ha anche un significato simbolico: il porto sepolto è il mistero alla cui ricerca si pone il poeta con la speranza di approdarvi per trovare pace.
- Allegria (1931): le liriche de Il porto sepolto confluiranno in Allegria di naufragi (1919) e poi in Allegria. Allegria di naufragi è un titolo allusivo: la guerra è come un naufragio della vita e i superstiti sono felici per lo scampato pericolo e sperano in un domani migliore. Allegria è divisa in cinque sezioni (Ultime, Il porto sepolto,
Naufraghi, Girovago, Prime) ed il titolo elimina l’ossimoro: il poeta ha voluto
sottolineare il valore positivo che la poesia può avere per l’uomo moderno chiuso nella sua condizione di dolore.
Le due raccolte contengono impressioni sulla Prima guerra mondiale: il sentimento dell’attaccamento alla vita, il cuore impietrito dal dolore, il sentimento della precarietà della vita, il bisogno di vivere tra uomini fratelli. La guerra non è, come per D’Annunzio, una occasione di eroismo ma restituisce all’uomo la condizione di creatura fragile e indifesa.
Le poesie sono brevi, i versi liberi, le parole semplici, essenziali. Abolisce la punteggiatura, ricorre a spazi bianchi, analogia e sinestesia e a titoli evocativi.
- Sentimento del tempo (1933): il titolo allude al veloce scorrere del tempo che suscita la nostalgia del passato e un maggiore attaccamento alla vita. Accanto al fluire delle cose appare l’altro tema della raccolta, il sentimento di Dio, in cui si placa l’angoscia esistenziale del poeta.
In questa raccolta Ungaretti abbandona il verso libero e recupera l’endecasillabo ed il settenario.
L’ULTIMO UNGARETTI
- Il dolore (1947): le poesie traggono ispirazione dalla morte del figlio del poeta e dalla tragedia della Seconda guerra mondiale.
- La Terra promessa (1950): le liriche raccontano il viaggio di Enea. Del progetto iniziale, che prevedeva la stesura di un poema, sono rimasti soltanto alcuni frammenti.
CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE
Ungaretti è considerato uno dei più grandi poeti del Novecento. Egli ha saputo fondere insieme antico e moderno.
Poesie da L’Allegria
I fiumi
Cotici il 16 agosto 1916
Mi tengo a quest’albero mutilato Abbandonato in questa dolina Che ha il languore
Di un circo
Prima o dopo lo spettacolo E guardo
Il passaggio quieto Delle nuvole sulla luna Stamani mi sono disteso In un’urna d’acqua
E come una reliquia Ho riposato
L’Isonzo scorrendo Mi levigava
Come un suo sasso
Ho tirato su
Le mie quattro ossa E me ne sono andato Come un acrobata Sull’acqua
Mi sono accoccolato Vicino ai miei panni Sudici di guerra E come un beduino
Mi sono chinato a ricevere Il sole
Questo è l’Isonzo E qui meglio
Mi sono riconosciuto Una docile fibra
Dell’universo Il mio supplizio
Questo è il Nilo Che mi ha visto Nascere e crescere
E ardere d’inconsapevolezza Nelle distese pianure
Questa è la Senna E in quel suo torbido Mi sono rimescolato E mi sono conosciuto Questi sono i miei fiumi Contati nell’Isonzo
Questa è la mia nostalgia Che in ognuno
Mi traspare Ora ch’è notte
Che la mia vita mi pare Una corolla Di tenebre. È quando Non mi credo In armonia Ma quelle occulte Mani Che m’intridono Mi regalano La rara Felicità Ho ripassato Le epoche Della mia vita Questi sono I miei fiumi
Questo è il Serchio Al quale hanno attinto Duemil’anni forse
Di gente mia campagnola E mio padre e mia madre
Commento
Il poeta, in un momento di riposo dalla guerra, ha fatto il bagno nel fiume Isonzo, che scorre lungo il fronte orientale. A sera ripensa a quell’esperienza, e si rende conto che l’acqua dell’Isonzo ha rievocato quella di altri tre fiumi: Serchio, Nilo e Senna, i quali rappresentano altri momenti della vita del poeta.
1) Serchio: bagna Lucca, terra di origine dei suoi genitori;
2) Nilo: Ungaretti nasce ad Alessandria d’Egitto e lì trascorre la sua infanzia; 3) Senna: a Parigi Ungaretti ha studiato e lì ha preso coscienza di sé;
4) Isonzo: Ungaretti soldato nella prima guerra mondiale:
L’immersione nell’acqua del fiume comporta due conseguenze: una regressiva e una Purificatrice. La purificazione permette al poeta di sentirsi in armonia con l’universo. La regressione permette di recuperare il passato.
Fratelli
Mariano il 15 luglio 1916
Di che reggimento siete fratelli?
Parola tremante nella notte
Foglia appena nata Nell'aria spasimante involontaria rivolta
dell'uomo presente alla sua fragilità
Fratelli
Commento
In questa lirica il poeta esprime il senso della fragilità dell’esistenza dei soldati. Il termine chiave della poesia è la parola fratelli, che allude ad uno dei temi fondamentali del primo Ungaretti, dal poeta stesso indicato: la "fraternità degli uomini nella sofferenza". La poesia si snoda come una sorta di commento alla domanda iniziale, che tuttavia rimane senza risposta, perché ciò che conta non è la domanda, bensì la definizione: non il
reggimento, ma l’appellativo fratelli. Il soldato Ungaretti
riconosce, a contatto con altri commilitoni, che portano sui volti la sua stessa sofferenza e l’angoscia dei disagi della guerra, l’uomo che è nel soldato e sente pulsare nel suo cuore quel senso di fraterna solidarietà, che lega particolarmente gli esseri umani sradicati ed esposti alle bufere della vita.
Sono una creatura
Valloncello di Cima Quattro il 5 agosto 1916
Come questa pietra del S. Michele così fredda così dura così prosciugata così refrattaria cos' totalmente disanimata
Come questa pietra è il mio pianto
che non si vede La morte si sconta vivendo
Commento
È una poesia desolata, quasi a rispecchiare il paesaggio del Carso così arido, freddo. Troppo ha sofferto il poeta e la sua anima brucia ancora ma non ha più lacrime per piangere. Il suo dolore lo possiamo paragonare a quella pietra così senza vita. Vivere è uguale a soffrire, la
sofferenza è uguale solo con la morte. I versi sono brevi e la immagini ridotte all'essenziale.
San Martino del Carso
Valloncello dell'Albero Isolato il 27 agosto 1916
Di queste case
non è rimasto che qualche brandello di muro Di tanti che mi corrispondevano non è rimasto neppure tanto Ma nel cuore
nessuna croce manca È il mio cuore
il paese più straziato
Commento
Dalla visione realistica di un paese distrutto dalla guerra, Ungaretti passa alla riflessione sulla fine di persone che gli erano care. Il «cuore» del poeta diventa un cimitero, è il luogo più sconvolto dalla distruzione.
Veglia
Cima Quattro il 23 dicembre 1915
Un'intera nottata buttato vicino a un compagno Massacrato
con la sua bocca digrignata
volta al plenilunio con la congestione delle sue mani penetrata
nel mio silenzio ho scritto
lettere piene d'amore Non sono mai stato tanto
attaccato alla vita
Commento
Il poeta resta a lungo accanto al cadavere di un compagno, fino a condividere con lui l’esperienza della morte. Egli riscatta la tragica condizione attraverso un atto vitale: scrivere «lettere piene d’amore». Nella conclusione Ungaretti esprime il suo attaccamento alla vita.
Soldati
Bosco di Courton luglio 1918
Si sta come D’autunno Sugli alberi Le foglie
Mattina
Santa Maria La Longa il 26 gennaio 1917
M’illumino D’immenso
Commento
Il titolo è decisivo per comprendere il senso: i soldati sono in una condizione che li fa assomigliare a quella delle foglie in autunno.
Commento
Lo splendore del sole sorto da poco trasmette al poeta una sensazione di luminosità che provoca associazioni interiori, e in particolare il sentimento della vastità. Mi illumino di immenso significa: l’idea della infinita grandezza mi colpisce nella forma della luce.
EUGENIO
MONTALE
VITA
Eugenio Montale nasce a Genova il 12 ottobre 1896. La sua vita può essere divisa in 5 periodi.
1) PRIMO MONTALE (1896-1926). Sono gli anni dell’infanzia ligure, degli studi e delle vaste letture, della partecipazione alla guerra. Nel 1920 conosce Anna Degli Uberti, destinata a restare una delle ispiratrici della sua poesia (con il nome di Arlette). Nel 1925 esce Ossi di seppia.
2) SECONDO MONTALE (1927-1948). Nel 1927 Montale si trasferisce a Firenze per motivi di lavoro. Non essendosi iscritto al partito fascista viene licenziato: vive di traduzioni e di collaborazioni giornalistiche fino al suo trasferimento a Milano come redattore del «Corriere della sera». In questo periodo si apre alla cultura inglese, nel 1933 conosce la giovane studiosa americana Irma Brandeis (la Clizia delle Occasioni). A lei dedica le Occasioni (1939), raccolta di poesie di non facile comprensione. Nello stesso 1939 va a vivere con Drusilla Tanzi (detta Mosca).
3) TERZO MONTALE (1948-1964). Entrato nel mondo del giornalismo, compie numerosi viaggi. Nel 1956 esce La bufera e altro, il libro più vario e inquieto di tutta la sua produzione. La delusione nei confronti del mondo moderno, meccanizzato e massificato, induce Montale a rinunciare a scrivere versi. Il silenzio poetico dura 10 anni. Si innamora della giovane poetessa Maria Luisa Spaziani (cantata col nome di Volpe). Nel 1962 sposa Drusilla Tanzi (Mosca) che morirà l’anno successivo.
4) QUARTO MONTALE (1964-1971). In questo periodo si infittiscono i riconoscimenti in Italia e all’estero, culminati con la nomina a senatore a vita (1967). Nel 1971 esce
Satura: con i suoi testi satirici, polemici, Montale dà inizio ad una nuova stagione
poetica. Non è più possibile una poesia “alta”.
5) QUINTO MONTALE (1972-1981). L’ultimo Montale, quello dei Diari del ‘71 e del ’72, è ancora più prosastico e diaristico, con un frequente ricorso alla citazione ed autocitazione, perlopiù ironica. Nel 1975 riceve il Premio Nobel per la letteratura. Muore a Milano il 12 settembre 1981.
LA POETICA
Il motivo di fondo della poesia di Montale è una visione pessimistica e desolata della vita: tutto è senza senso, oscuro e misterioso. Non c’è alcuna fede religiosa o politica che possa consolare e liberare l’uomo dall’angoscia esistenziale. Neppure la poesia, che per Ungaretti è il solo strumento per conoscere la realtà vera, può offrire all’uomo alcun aiuto.
Perciò egli dice Non domandarci la formula che mondi possa aprirti, ossia la parola chiarificatrice che possa darti delle certezze; l’unica cosa certa che egli possa dire è ciò
che non siamo, ciò che non vogliamo, ossia gli aspetti negativi della nostra vita.
La sua parola è aspra e pietrosa, il suo discorso più disteso, prosastico, dal ritmo lento.
LA DIVINA INDIFFERENZA
Di fronte al «male di vivere» non c’è altro bene che la «divina Indifferenza», ossia il distacco dalla realtà: essere come una statua o una nuvola o come un falco che vola in alto.
Questa indifferenza, però, non sempre è concessa al poeta che spesso è preso dalla nostalgia di un mondo diverso.
OPERE
- Ossi di seppia (1925): il titolo rinvia all’immagine marina degli “ossi di seppia”, che possono galleggiare nel mare (simbolo della felicità naturale) oppure essere sbattuti sulla spiaggia come inutili relitti. La prima possibilità risulta difficile da attuarsi: come l’”osso di seppia” gettato sulla terra, il poeta è esiliato dal mare, escluso dalla natura e dalla felicità. Egli trae ispirazione dallo scorto, è la poesia degli uomini falliti.
La raccolta si suddivide, dopo una poesia iniziale di premessa, in 4 sezioni (Movimenti,
Ossi di seppia, Mediterraneo, Meriggi e ombre).
Ogni oggetto descritto, ogni paesaggio, è visto da Montale nel suo essere cosa e nel suo simbolo allegorico della condizione umana di dolore. È la tecnica del correlativo
oggettivo.
- Le occasioni (1939): opera dedicata ad Irma Brandeis (Clizia), una giovane studiosa americana conosciuta e amata a Firenze. Montale rievoca le «occasioni» della sua vita passata (amori, incontri, paesaggi), non tanto per nostalgia del passato a consolazione del presente, quanto per analizzarle e capirle nel loro valore simbolico di espressioni del «male di vivere».
Clizia assume le funzioni di una salvifica Beatrice dantesca: le sue apparizioni sembrano poter salvare non solo il poeta ma l’intera umanità; in assenza di Clizia il poeta è ridotto a una pedina sulla scacchiera della storia.
- La bufera e altro (1956): è il libro più ricco e più maturo, e anche il più drammatico, che Montale abbia scritto. Il poeta ripercorre la sua esperienza umana e storica: lutti familiari, la malattia di Mosca, l’amore per Volpe, la guerra (la «bufera» del titolo), le speranze per la caduta del fascismo e per la guerra di liberazione, la delusione del dopoguerra.
A Clizia subentra Volpe, donna più concreta e passionale, che porta una salvezza personale.
- Satura (1971): questa raccolta segna una svolta in senso basso, prosastico, satirico, comico. Il titolo non allude solo agli aspetti di satira politica e culturale, ma rinvia anche alla varietà e mescolanza dei temi e degli argomenti (come era in origine la “satira” latina). Inoltre non si può escludere un senso di sazietà, di sovrabbondanza, di non poterne più del consumismo e del bombardamento di informazioni da parte dei mass-media.
Accanto al motivo della morte della moglie, da cui nascono le poesie più sofferte e commosse, un altro tema dominante è quello di vivere dopo la catastrofe, dopo un’alluvione che ha sommerso tutti i valori del passato.
Il libro è suddiviso in 4 sezioni: Xenia I, Xenia II, Satura I e Satura II. Il termine latino “xenia” indica i doni inviati ad un amico che è stato nostro ospite. In questo caso allude ad un’offerta votiva alla moglie morta: Mosca è celebrata per la sua vitalità di insetto, per la sua capacità di adattarsi e di orientarsi nell’informe quotidiano, senza farsi ingannare. È lei che ha insegnato al poeta non solo a sopravvivere acquattandosi come un insetto, ma anche a difendersi con ironia e sarcasmo dagli autoinganni della società e della cultura.
UNA VITA
Il primo romanzo, Una vita (1892), narra la biografia di un inetto (una persona incapace di adattarsi alla realtà e di affrontarla).
Protagonista è un impiegato, Alfonso Nitti, che si sente diverso e vorrebbe apparire superiore, lui che sa il latino e ama leggere poesie, rispetto all’umanità meschina che lo circonda. La sua frustrazione lo induce a tentare il salto di classe seducendo Annetta Maller, la figlia del padrone della banca presso cui lavora, anche lei appassionata lettrice. Preso da una inspiegabile paura, Alfonso fugge al paese per andare dalla madre, che trova morente. Si ammala egli stesso, e non scrive ad Annetta, pur sapendo che la fuga e il silenzio saranno interpretati come segno di viltà e gli costeranno la perdita della ragazza. Morta la madre e venduti i suoi beni, torna alla banca. Ma ormai tutti lo evitano e viene anche declassato in ufficio, Annetta si è fidanzata con il suo rivale. Alfonso, preso dallo sconforto per la sua inettitudine, si uccide col gas.
SENILITÀ
Senilità (1898) è il secondo romanzo. Il titolo indica l’incapacità di agire che
caratterizza non un vecchio, bensì il giovane protagonista del romanzo, il trentacinquenne Emilio Brentani.
Emilio è un impiegato che ha scritto un romanzo. Come la sorella Amalia, Emilio trascorre un’esistenza senile; tuttavia sogna un’avventura facile e breve, come quelle di cui è esperto l’amico Stefano Balli, scultore fallito, ma dongiovanni fortunato. Quando Emilio conosce Angiolina, sembra che la vita gli conceda tale possibilità. Dopo aver tentato di lasciarla (perché la ragazza gli appare rozza e volgare), si accorge di non poter vivere senza la giovinezza di lei e perciò riallaccia la relazione. A questo punto, però, la ragazza si innamora di Stefano, per cui fa da modella. La vicenda si complica perché anche Amalia, in segreto, ama lo scultore. Quando Emilio se ne accorge, chiede all’amico di non frequentare più casa sua. Amalia, travolta dalla passione, ricorre all’etere per dimenticare e si indebolisce al punto tale che si ammala di polmonite. Emilio lascia la sorella morente per un ultimo appuntamento con Angiolina. Rimasto solo si chiude in quella senilità da cui non è mai uscito davvero.
L’impianto narrativo poggia sulla contrapposizione di due coppie opposte e
analoghe fra loro: Emilio-Amalia (coppia di inetti) e Stefano-Angiolina (coppia di
forti e decisi).
Anche in questo romanzo Svevo rappresenta il dramma della solitudine dell’uomo contemporaneo, la sua incomunicabilità e incapacità di agire o di modificare la realtà che lo circonda, il senso di frustrazione che gli deriva dalla totale coscienza del fallimento della propria esistenza.
LA COSCIENZA DI ZENO
La coscienza di Zeno (1923) è l’opera più matura di Svevo, il suo capolavoro, un
romanzo incentrato sull’autoanalisi del protagonista. La narrazione si riduce ad un lungo monologo interiore, un discorso che il protagonista fa con se stesso, rievocando, quando è ormai vecchio, le fasi salienti della propria vita e registrando tutto, anche le cose più insignificanti.
A scrivere l’autobiografia Zeno Cosini, un ricco commerciante triestino a riposo, è stato indotto dal suo medico, il dottor S., al quale si è rivolto per un trattamento psicanalitico, con lo scopo di comprendere meglio se stesso e di guarire da quella forma di accidia (disinteresse verso ogni forma di azione) e abulia (mancanza di volontà) che lo rende incapace di agire. Quando Zeno decide di interrompere la cura, il dottor S. pubblica, per dispetto, le sue memorie. Esse sono costituite da sei blocchi narrativi, ciascuno dei quali prende il nome da un argomento caratterizzante:
1) il fumo, il vizio contratto nell’adolescenza dal quale Zeno non riesce mai a liberarsi, nonostante i suoi proponimenti;
2) la morte del padre;
3) la storia del matrimonio;
4) la moglie (Augusta) e l’amante (Carla); 5) storia di un’associazione commerciale; 6) psicoanalisi.
La malattia di cui soffre Zeno Cosini è analoga a quella di Alfonso Nitti ed Emilio Brentani: è l’inettitudine a vivere, ad adattarsi al mondo esterno. Mentre Alfonso ed Emilio sono dei piccoli-borghesi che vengono schiacciati dalla società, Zeno appartiene alla ricca borghesia, egli si arricchisce con la Grande guerra. Il successo gli dà un senso di euforia e l’impressione di essere guarito dalla sua malattia, per cui interrompe la sua inchiesta psicanalitica.
La nevrosi è un segno positivo di non rassegnazione e di non adattamento ai meccanismi alienanti della civiltà, la quale impone lavoro, disciplina, obbedienza alle leggi morali. L’ammalato è colui che non vuole rinunciare alla forza del desiderio, la terapia lo renderebbe più “normale”, ma a prezzo di spegnere in lui le pulsioni vitali.
Ma dal lavoro analitico condotto su di sé e sulla società, egli ha ricavato la conclusione
che la vita attuale è inquinata alle radici dalla corruzione, dall’ipocrisia, dall’egoismo, dalla frenesia produttivistica della società capitalistica, spinta fino alla fabbricazione di ordigni esplosivi capaci di provocare la catastrofe cosmica.I temi del romanzo sono: la coscienza della precarietà della condizione umana, della solitudine, dell’angoscia esistenziale conseguente alla crisi di valori, l’inquinamento generale e la catastrofe cosmica.
Con Zeno, Svevo dà una risposta al NESSUNO di Pirandello: Zeno è l’unico davvero vivo e sano nel mondo malato ed assume di fronte alla realtà un atteggiamento divertito ed ironico: la vita non è né bella né brutta, è soltanto originale.
IL QUARTO ROMANZO
Negli ultimi due anni di vita Svevo lavorò ad un quarto romanzo, il cui titolo era Il
vegliardo o Il vecchione, senza riuscire a completarlo. Esso si pone come continuazione
della Coscienza di Zeno, ed infatti il protagonista è Zeno che, dopo la guerra, torna alla sua inerzia, alle vecchie carte e al desiderio di scrivere ancora. La famiglia è un luogo di tensioni: solo il rapporto con il nipote Umbertino gli offre la possibilità di una nuova esperienza conoscitiva. La relazione con la giovane amante Felicita è vissuta da Zeno come un’ultima medicina contro la vecchiaia, tuttavia comprende che, di fronte alla ragazza, vale soltanto per quello che paga. Così cerca la salvezza nella scrittura, concepita come terapia e forma di igiene, capace di far rivivere il passato, le trasgressioni vissute ed il fascino del desiderio.
LA PROSA DI SVEVO
La prosa è arida e antiletteraria. Svevo ricorre al linguaggio parlato, a volte anche del gergo tecnico-industriale, a locuzioni dialettali e idiotismi tedeschi. La semplicità dell’espressione attraverso una frase breve, disadorna, non ha ben disposto la critica, la quale non ha esitato a parlare di uno «scrivere male» di Svevo.
Non chiederci la parola
Di sicuro è una delle poesie più celebri di Montale, tratta da "Ossi di seppia" .Il poeta si rivolge a quel lettore che esige dai poeti verità assolute e definitive, invitandolo a non chiedergli alcuna rivelazione, né su stesso né sull'uomo in genere, e nemmeno sul significato della vita. Egli, infatti, non ha alcun segreto risolutivo, ma solo dubbi e incertezze.
Non chiederci la parola che squadri da ogni lato l'animo nostro informe, e a lettere di fuoco
lo dichiari e risplenda come un croco perduto in mezzo a un polveroso prato. Ah l'uomo che se ne va sicuro,
agli altri ed a se stesso amico,
e l'ombra sua non cura che la canicola stampa sopra uno scalcinato muro!
Non domandarci la formula che mondi possa aprirti, sì qualche storta sillaba e secca come un ramo.
Codesto solo oggi possiamo dirti,
Parafrasi
Non chiederci la parola, che metta a fuoco sotto ogni profilo, il nostro animo privo di certezze, e a lettere che lo chiariscano rendendolo luminoso come il fiore dello
zafferano: perduto in mezzo ad un prato polveroso.
Ah l'uomo che se ne va sicuro, senza contrasti con se stesso e con gli altri.
E la sua ombra non viene toccata che dal sole nel periodo più caldo dell'estate; proiettata su un muro mancante di intonaco.
Non domandarci il segreto che possa rivelarti nuove prospettive di conoscenza del mondo,bensì una distorta sillaba secca come un ramo.
Solo questo possiamo in questo momento farti presente, ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.
Spesso il male di vivere ho incontrato
Spesso il male di vivere ho incontrato: era il rivo strozzato che gorgoglia, era l'incartocciarsi della foglia riarsa, era il cavallo stramazzato. Bene non seppi, fuori del prodigio che schiude la divina Indifferenza: era la statua nella sonnolenza
del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato.
Parafrasi
Spesso ho visto la sofferenza del vivere: era il faticoso fluire del ruscello che gorgoglia (come in un lamento) impedito nel suo scorrere, era l’accartocciarsi della foglia bruciata dalla calura, era il cavallo stroncato dalla fatica (stramazzato). Non conobbi altra possibilità di salvezza se non nella condizione prodigiosa (prodigio condizione rara, eccezionale come un miracolo) che un atteggiamento di superiore distacco concede: era la statua nell’ora sonnolente del meriggio e la nuvola e il falco che vola lontano (verso ipermetro per rendere lo slancio del volo che porta lontano il verso si distende oltre misura rispetto agli altri versi).
Commento
Questa poesia è una delle più felici e famose espressioni della dolorosa concezione esistenziale montaliana, tratta un tema che tanto deve a Leopardi: “il male di vivere” e si ispira al v.104 del Canto notturno di un pastore errante dell’Asia: “…a me la vita è male”. La lirica fa parte della raccolta Ossi di seppia, ed è divisa in due parti che rappresentano due momenti della riflessione del poeta.
La prima parte è incentrata sul malessere esistenziale ravvisabile nelle situazioni quotidiane in cui si riscontra un crudele incepparsi delle cose. Montale trae alcuni esempi dalla realtà naturale, nel regno inanimato, animale e vegetale: "il rivo", "la foglia", "il cavallo", colti in un momento di precarietà e dolore, come sottolineano gli aggettivi ad essi collegati: "strozzato", "riarsa", "stramazzato": il ruscello che non può più scorrere, la foglia che si accartoccia, il cavallo che è stroncato dalla fatica. È la constatazione che gli aspetti più dimessi e quotidiani rivelano un pianto delle cose che testimonia un cosmico male di vivere e un’uguale sofferenza degli uomini (correlativo oggettivo). Nella seconda quartina, in opposizione al "male di vivere", Montale afferma che l'unico "bene" per l'uomo consiste nell'atteggiamento di "indifferenza" per tutto ciò che è segnato dal male e dal dolore. Ai tre emblemi del "male" si contrappongono simmetricamente, tre esempi concreti di questa specie di "bene" (correlativi oggettivi): "la statua", "la nuvola" e il "falco": la statua si caratterizza per la sua fredda, marmorea insensibilità; la nuvola e il falco perché si levano alti al di sopra della miseria del mondo.
Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale
Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino.
Anche così è stato breve il nostro lungo viaggio. Il mio dura tuttora, né più mi occorrono
le coincidenze, le prenotazioni, le trappole, gli scorni di chi crede che la realtà sia quella che si vede.
Ho sceso milioni di scale dandoti il braccio
non già perché con quattr’occhi forse si vede di più. Con te le ho scese perché sapevo che di noi due le sole vere pupille, sebbene tanto offuscate, erano le tue.
Commento
Questa poesia fa parte della raccolta Satura, che raccoglie poesie scritte tra il 1962 e il 1970, e più precisamente della sezione Xenia (nell’antica Roma Xenia erano i doni che si facevano all’ospite), relativa ai componimenti dedicati al ricordo della moglie, Drusilla Tanzi affettuosamente soprannominata Mosca, deceduta nel 1963. Il poeta si rivolge, in un muto dialogo, direttamente alla donna che non c’è più e le confessa che la sua assenza lo ha privato delle consuetudini e del mutuo scambio di aiuto che caratterizzava la loro vita di coppia. Dolorosamente sottolinea il suo sconforto per la sensazione di vuoto e il suo sgomento nel continuare la propria vita senza di lei. In questa lirica è riconoscibile il motivo della vuota inconsistenza del reale (“le trappole, gli scorni di chi crede che la realtà sia quella che si vede”): la realtà non è quella che si percepisce con i sensi ma qualcosa che sta al di là della realtà stessa. Nella seconda strofa il verso iniziale ribadisce simmetricamente il concetto espresso nel primo verso della lirica ed emerge l’antitesi fra la posizione del poeta di fronte alla realtà e il modo più acuto della moglie di penetrare in essa. Si ritrova, infatti, la tematica del reciproco sostegno, infatti il poeta dà il braccio alla moglie per aiutarla a scendere le scale, ma in realtà è lei la guida autentica nel lungo viaggio della vita.
SALVATORE
QUASIMODO
VITA
Salvatore Quasimodo nacque nel 1901 a Modica (Ragusa) da Gaetano,
capostazione delle ferrovie, e da Clotilde Ragusa. Trasferitosi a Messina con la
famiglia dopo il terremoto del 1908 vi compì gli studi tecnici di geometra, poi si
iscrisse alla facoltà di Ingegneria di Roma e frequentò lì’Accademia dei nobili
ecclesiastici per arricchire la propria conoscenza dei classici latini e greci.
Divenuto impiegato presso il Genio civile, abbandonò gli studi di Ingegneria e
viaggiò molto per lavoro. A Firenze, dove lo aveva invitato il cognato Elio
Vittorini, frequentò l’ambiente culturale e pubblicò la sua prima raccolta Acque e
terre.
Nel 1934 venne trasferito a Milano dove iniziò a frequentare un ambiente
culturale ostile al Fascismo.. Nel 1941 venne nominato “per chiara fama”
professore di Letteratura italiana al Conservatorio di musica di Milano.
Nel 1959 ottenne il Premio Nobel per la Letteratura con la seguente
motivazione: «Per le sue poesie che, con ardore classico, esprimono il sentimento
tragico della vita del nostro tempo». La morte lo raggiunse il 14 giugno 1968 a
LA POETICA
Anche Quasimodo, come Ungaretti e Montale, avverte il sentimento tragico
e desolato della vita del nostro tempo. Ma mentre Ungaretti, dopo un periodo di
smarrimento, trova rifugio e conforto nella fede religiosa; mentre Montale resta
fermo alla negatività dell’esistenza, Quasimodo passa dallo sconforto alla
denuncia delle responsabilità degli uomini per il dolore del mondo e
all’impegno, che spetta soprattutto ai poeti, per la costruzione di un mondo
migliore, in nome della fraternità e solidarietà umana.
«La posizione del poeta non può essere passiva nella società egli modifica il
mondo» (Discorso sulla poesia).
IL “PRIMO” QUASIMODO
Sradicato dalla famiglia e dalla sua terra, Quasimodo avverte subito in sé il
complesso dell’esule, tormentato dalla nostalgia dell’infanzia vista come un
periodo di innocenza e serenità, e della sua Sicilia, terra felice.
La solitudine ed il rapido morire delle illusioni, il senso del mistero, il
rimpianto dell’infanzia, della famiglia e della terra di origine sono i motivi più
ricorrenti delle raccolte di questo periodo (Acque e terre, Oboe sommerso,
Erato e Apollion, tutte confluite nel volume Ed è subito sera del 1942).
In Acque e terre (1930) si muove sulle orme di Pascoli e D’Annunzio; in
Oboe sommerso (1932) e Erato e Apollion (1937) si accosta a Ungaretti,
Montale, ricercando la parola scarna, essenziale, e utilizzando forme ellittiche,
analogie, sinestesie.
IL “SECONDO” QUASIMODO
La poesia di Quasimodo assume carattere civile, umanitario e sociale. Il
passaggio ad una lirica impegnata è determinato dalle tragiche vicende della
Seconda guerra mondiale. La follia omicida del conflitto apre il cuore di
Quasimodo alla realtà del proprio tempo, strappandolo alla tematica solipsistica
ed ermetica del primo periodo ed orientandolo verso tematiche sociali, al
colloquio con gli altri, che soffrono la sua stessa pena e ai quali vuole donare la
speranza di un mondo migliore. Egli diviene il giudice severo della sua epoca.
Ritorna il motivo della Sicilia, ma essa non è più vista come la terra felice bensì
come una terra di dolore che attende l’ora del riscatto.
Ed è subito sera
Ognuno sta solo sul cuor della terra trafitto da un raggio di sole:
ed è subito sera.
Parafrasi
Ognuno, pur vivendo tra gli uomini, è solo (per l’incomunicabilità, l’impossibilità di stabilire un rapporto intimo e duraturo con gli altri). Tuttavia viene stimolato dalle illusioni, dalla ricerca della felicità, simboleggiata da un raggio di sole che è un’illusione dolorosa perché la breve felicità dell’uomo è fulminea, destinata a scomparire in brevissimo tempo per il succederle immediato della “sera” (la morte).
Commento
Ed è subito sera fa parte della raccolta omonima, pubblicata nel 1942. Affronta la
tematica, su cui si è incentrata anche la poetica leopardiana e montaliana, della brevità delle illusioni. Quasimodo esprime, evitando ogni riferimento a una realtà soggettiva, la condizione esistenziale universale della solitudine dell’uomo e della precarietà della vita, e lo esprime in maniera estremamente concisa come una "sentenza", una "massima" che con poche, significative parole sintetizza una amara verità eterna.
Alle fronde dei salici
E come potevano noi cantare
Con il piede straniero sopra il cuore, fra i morti abbandonati nelle piazze sull’erba dura di ghiaccio, al lamento d’agnello dei fanciulli, all’urlo nero
della madre che andava incontro al figlio crocifisso sul palo del telegrafo?
Alle fronde dei salici, per voto, anche le nostre cetre erano appese, oscillavano lievi al triste vento.
Commento
Alle fronde dei salici è la lirica d'apertura contenuta nell’opera poetica Giorno dopo giorno (1947). Questa raccolta avviava la seconda fase della produzione di Quasimodo e
ne testimonia il “momento civile”, ispirato alle vicende della seconda guerra mondiale. Il poeta vede nella disumana realtà del suo tempo una tragicità di dimensione biblica e fa sua l’espressione di sconforto di un profeta ebraico durante l’esilio del suo popolo a Babilonia: «Abbiamo appeso ai salici le nostre cetre...Come potremmo cantare in terra straniera?». Con accenti e immagini bibliche Quasimodo dichiara le ragioni del tacere della poesia in tempo di guerra: di fronte all’oppressione straniera, ai morti abbandonati, alle sofferenze dei bambini, alle torture, il poeta rinuncia, si chiude nel silenzio, sacrificando il suo bene più prezioso: la poesia; così come gli ebrei, durante la prigionia in Babilonia, non riuscivano a cantare i loro salmi ed avevano appeso le loro cetre sulle fronde dei salici. Anche l’arte muore, quando muoiono i sentimenti più elementari di pietà e di umanità; di conseguenza la cetra, strumento e simbolo della poesia, rimane appesa agli alberi, inutilizzata, in attesa che tornino le condizioni del vivere civile. Quasimodo esprime la sua concezione della poesia: il poeta deve essere attento al mondo circostante e provare dei sentimenti per esso, talvolta talmente forti da impedirgli di comporre. La poesia cioè non deve essere estranea al mondo, ma avere un ruolo sociale attivo, contribuendo allo sviluppo della società.
Uomo del mio tempo
Sei ancora quello della pietra e della fionda, uomo del mio tempo. Eri nella carlinga, con le ali maligne, le meridiane di morte,
t’ho visto – dentro il carro di fuoco, alle forche, alle ruote di tortura. T’ho visto: eri tu,
con la tua scienza esatta persuasa allo sterminio, senza amore, senza Cristo. Hai ucciso ancora,
come sempre, come uccisero i padri, come uccisero gli animali che ti videro per la prima volta.
E questo sangue odora come nel giorno Quando il fratello disse all’altro fratello:
«Andiamo ai campi». E quell’eco fredda, tenace, è giunta fino a te, dentro la tua giornata.
Dimenticate, o figli, le nuvole di sangue Salite dalla terra, dimenticate i padri: le loro tombe affondano nella cenere,
Parafrasi
Uomo del mio tempo, sei del tutto simile all'uomo passato, colui che cacciava con la fionda e con le pietre. Ti ho visto, eri nell'aeroplano, con le ali cariche di bombe, nel carro armato, al patibolo e alle ruote di tortura. Si eri tu, con il tuo credo perfetto, dedito allo sterminio, senza amore e senza Dio. Tu hai accuso ancora una volta, come fecero gli avi prima di noi. Il sangue è lo stesso, ha lo stesso sapore ed odore del sangue del tradimento di Caino e Abele, quando l'uno uccise l'altro nei campi. E quella frase di tradimento, "Andiamo nei campi", giunge fino a te, fino alla quotidianità della tua giornata. Dimenticate o fogli del nostro tempo, le battaglie, le guerre combattute dai nostri predecessori. Le loro tombe ormai sono abbandonate e disperse nella cenere dell'oblio, e gli uccelli neri ed il vento oscurano il loro cuore.
Commento
È la poesia che chiude la raccolta Giorno dopo Giorno. Il poeta insorge contro gli orrori della Seconda guerra mondiale, che ha messo gli uomini gli uni contro gli altri con una crudeltà e una ferocia mai viste prima. Alla fine della poesia Quasimodo si rivolge alle nuove generazioni e li esorta a dimenticare i padri affinché i figli non ripetano più le loro gesta infami, per dare inizio ad una nuova epoca di pace, concordia e amore tra gli individui e tra i popoli.
UMBERTO
SABA
VITA
Umberto Saba nacque a Trieste il 9 marzo 1883. Il cognome Saba è uno pseudonimo che
assunse nel 1911, infatti il cognome del padre è Poli. L’unione dei genitori durò pochissimo e alla nascita del poeta il padre aveva già abbandonato la famiglia. I caratteri dei genitori erano diversi così come le loro razze: il padre era spensierato e ariano, la madre severa e ebrea. Tale situazione familiare segnò profondamente la vita e la psiche di Saba ch, ancora piccolissimo fu affidato a una balia, Peppa Sabaz (che da poco aveva perso l’unico figlio), e da lei Saba riprese il cognome (Sabaz in ebraico significa pane). Saba visse con lei e con il marito di lei tre anni sereni e felici. Poi la madre lo rivolle con sé e impose al figlio un’educazione rigida e repressiva. La mancanza del padre, la severità della madre, la separazione dalla balia creeranno le basi di una profonda scissione interiore e favoriranno nell’adolescenza un incontro omosessuale che il poeta racconterò ormai vecchio nel romanzo incompiuto Ernesto. A vent’anni si manifestò la nevrosi che lo accompagnerà tutta la vita e che neppure la terapia psicoanalitica riuscirà a guarire in modo duraturo. L’incontro con la psicoanalisi costituì la scoperta di uno strumento conoscitivo fondamentale al quale egli attribuì un’importanza decisiva. Nel 1909 sposò Carolina Woelfer (Lina) e l’anno dopo nacque Linuccia. Nel 1919 acquistò a Trieste una libreria antiquaria che costituì la sua principale occupazione e fonte di guadagno. Le persecuzioni razziali lo costrinsero a fughe continue. A Firenze attese nascosto la Liberazione. Dopo la guerra, a brevi momenti di serenità e di fiducia grazie anche a un certo successo della critica, si alternarono frequenti crisi depressive. Nel 1956 morì Lina e pochi mesi dopo nel 1957 morì Saba in una clinica di Gorizia.IL «POETA PIÙ CHIARO AL MONDO»
La poetica di Saba è semplice e chiara come la sua poesia. Egli riteneva che l’unica cosa che devono fare i poeti è la «poesia onesta», schietta, sincera, per questo il suo linguaggio trae spunto dal lessico quotidiano.
I suoi temi ripropongono aspetti della vita di ogni giorno, anche i più umili e dimessi (luoghi, persone, paesaggi, animali, avvenimenti, Trieste con le sue strade, partite di calcio) ma lo fa con tanto commossa e calda simpatia, da sentirsi parte integrante di essi. La sua poesia è un colloquio aperto e cordiale con il lettore.
Egli riprende dalla tradizione le forme metriche: nonostante il sapore antico, la sua poesia è nuova e moderna, interprete efficace del dramma esistenziale dell’uomo contemporaneo.
Saba attribuisce alla poesia una funzione psicologica e sociale: aiutare l’uomo a ritrovare la propria identità e la propria integrità, ridandogli anche la possibilità di partecipare armoniosamente alla vita sociale. Mentre d’Annunzio affermava la figura del poeta-vate, dispensatore di verità e superiore all’uomo comune, Saba ritiene che il poeta ha il dovere di essere onesto e può esserlo realmente con il lettore solo iniziando da se stesso e cioè cercando nel proprio io le verità più nascoste e intime. Quindi la poesia onesta nasce dall’eros, dal principio freudiano del piacere. Il poeta deve registrare fedelmente la verità nascosta e profonda di tutti gli esseri. Mentre d’Annunzio voleva distinguersi dagli altri uomini in senso superomistico, Saba vuole sentire uomo fra gli uomini aspirando a vivere la vita di tutti, a essere come gli uomini di tutti i giorni. La sua è una poesia narrativa che indaga i meccanismi profondi della psiche.
IL CANZONIERE
A una prima lettura Il Canzoniere di Saba si presenta arretrato e facile, per rivelarsi una lettura attenta, tra le più moderne e originali del panorama europeo novecentesco, oltre che tra le più complesse e difficili.
Il Canzoniere raccoglie la produzione poetica di Saba. Sono 437 testi scritti tra il 1900 e
1954. La scelta del titolo mostra la volontà del poeta di riconnettersi alla tradizione lirica italiana, che ha come capostipite il Canzoniere di Petrarca; vi è anche l’intenzione di dare carattere unitario, a partire dal titolo, alla propria opera.
TEMI
- Scissione dell’io: si origina dall’opposto carattere dei genitori del poeta, che
costituiscono ai suoi occhi esempi e modelli inconciliabili. A ciò si aggiunge anche la scissione segnata dall’allontanamento dalla balia con la quale visse i primi tre anni della sua vita e la figura della madre, donne molto diverse che definisce l’una madre di gioia, l’altra madre mesta. Il Canzoniere si configura come un tentativo di portare luce su questo tema, di vincere le ragioni oscure e dolorose che hanno suscitato la scissione interiore del soggetto, ricongiungere le due parti della personalità e celebrare nella poesia il successo del riscatto. Il periodo che coincide con la terapia psicoanalitica
- Infanzia: la scissione ha le sue radici nell’infanzia. L’infanzia non è rievocata come tempo felice e trascorso troppo in fretta ma quale momento di incubazione di nevrosi e sorgente di infelicità. Saba è il primo poeta post-freudiano dell’infanzia, cioè il primo che tenga conto nella trattazione del tema delle scoperte compiute dalla psicoanalisi, valorizzando il mondo dell’infanzia e dell’adolescenza non solo in senso affettivo ma anche e soprattutto quale sorgente di conoscenza per i meccanismi profondi dell’io. Il tema dell’infanzia è necessario e doloroso, e Saba lo affronta per cercare di rubare al suo scrigno quella verità che darebbe all’uomo adulto la serenità.
- Tema erotico: la diversità tra la madre e la balia influenza la trattazione del tema erotico. Le donne possono assomigliare alla madre, esercitando sulla coscienza del poeta il ricatto del senso di colpa, oppure alla balia favorendo contatti spensierati e regressivi. Le prime sono donne madri, le seconde donne fanciulle. La moglie Lina può, nei momenti migliori, apparire madre affettuosa e accogliente, ma ogni suo turbamento riconduce al’atteggiamento materno e ai sensi di colpa infantili. Saba considera i poeti sacerdoti di eros cioè cantori della profonda verità elementare che unifica tutti i viventi: la pulsione sessuale, la libido freudiana che Saba indica come brama. La brama è il veicolo per mezzo del quale può avvenire il contatto con altre forme di vita e con diverse
- Identità personale: Saba amò sempre riconoscersi nella vita del popolo. Si spiegano quindi l’entusiasmo giovanile per la vita militare e l’attenzione alle manifestazioni
A mia moglie
Tu sei come una giovane, / una bianca pollastra. / Le si arruffano al vento / le piume, il collo china / per bere, e in terra raspa; / ma, nell'andare, ha il lento / tuo passo di regina,/ ed incede sull'erba / pettoruta e superba. / È migliore del maschio. / È come sono tutte / le femmine di tutti / i sereni animali / che avvicinano a Dio. / Così se l'occhio, se il giudizio mio / non m'inganna, fra queste hai le tue uguali, / e in nessun'altra donna./ Quando la sera assonna / le gallinelle, / mettono voci che ricordan quelle, / dolcissime, onde a volte dei tuoi mali, / ti quereli, e non sai / che la tua voce ha la soave e triste / musica dei pollai. /
Tu sei come una gravida / giovenca; / libera ancora e senza / gravezza, anzi festosa; / che, se la lisci, il collo / volge, ove tinge un rosa / tenero la sua carne. / Se l'incontri e muggire / l'odi, tanto è quel suono / lamentoso, che l'erba / strappi, per farle un dono. / È così che il mio dono / t'offro quando sei triste. /
Tu sei come una lunga / cagna, che sempre tanta / dolcezza ha negli occhi, / e ferocia nel cuore. / Ai tuoi piedi una santa / sembra, che d'un fervore / indomabile arda, / e così ti riguarda / come il suo Dio e Signore. / Quando in casa o per via / segue, a chi solo tenti / avvicinarsi, i denti / candidissimi scopre. / Ed il suo amore soffre / di gelosia.
Tu sei come la pavida / coniglia. Entro l'angusta / gabbia ritta al vederti / s'alza, / e verso te gli orecchi / alti protende e fermi; / che la crusca e i radicchi / tu le porti, di cui / priva in sé si rannicchia, / cerca gli angoli bui. / Chi potrebbe quel cibo / ritoglierle? chi il pelo / che si strappa di dosso, / per aggiungerlo al nido / dove poi partorire? / Chi mai farti soffrire? /
Tu sei come la rondine / che torna in primavera. / Ma in autunno riparte; / e tu non hai quest'arte. / Tu questo hai della rondine: / le movenze leggere; / questo che a me, che mi sentiva ed era / vecchio, annunciavi un'altra primavera. /
Tu sei come la provvida / formica. Di lei, quando / escono alla campagna, / parla al bimbo la nonna / che l'accompagna. / E così nella pecchia / ti ritrovo, ed in tutte / le femmine di tutti / i sereni animali / che avvicinano a Dio; / e in nessun'altra donna.
Parafrasi
Tu sei come una giovane bianca pollastra, ti si arruffano i capelli come le piume di una gallina che nel bere china il collo e nel mangiare raspa la terra.
Tuttavia nell’andare hai un lento passo di regina che cammina sull’erba robusta e
superficiale. Ciò è migliore che nel maschio, così come tutte le cose migliori di esso, più intime, più dolci che si avvicinano al divino. Tutto questo è a mio giudizio, poiché
nessuna come te si avvicina alle cose serene della natura, nessuna come te è degna di ritrovarsi nella bianca pollastra e nella gravida giovenca. Quando la sera reca il sonno nei pollai, le gallinelle mettono voci che ricordano le tue dolcissime querele quando ti lamenti un poco dei tuoi mali; nessuno ci aveva sinora fatto udire con tali orecchi la voce serale dei pollai.
Tu sei come una gravida giovenca, materna ma ancora festosa e giovanile, senza la gravità che è consueta a quegli animali. Così come una giovenca se la lisci, volge il collo così come una rosa tinge tenera la sua carne; invece se la incontri e la odi mentre muggisce, quel suono ti è tanto lamentoso che le strappi l’erba di bocca per farle un Tu sei come una cagna dal collo lungo, che ha sempre tanta dolcezza negl’occhi ma ferocia nel cuore. Proprio per questo sembra una santa ai piedi del padrone, una santa nel quale arde un fervore indomabile simile a quello che Dio ha in serbo per te. In casa o per via ti segue e mostra i candidissimi denti a chiunque osi avvicinarti. E’ il suo amore che soffre di gelosia.
Tu sei come la timida e paurosa coniglia, che ,quando non le viene recato ciò che gli attende, si rannicchia nella sua angusta gabbia cercando angoli bui. Chi potrebbe mai far soffrire una coniglia, così pavida e mansueta? Chi potrebbe far soffrire te così simile a lei?
Tu sei come la rondine che ritorna in primavera ma che riparte in autunno. Tu non hai nient’altro che la stessa arte. Questo hai in comune alla rondine, le movenze leggere; e questo che ancora che a me, che mi sentivo vecchio nell’animo, annunciasti col tuo arrivo una nuova primavera.
Tu sei come la formica laboriosa. Di lei parla la nonna al bimbo che l’accompagna, quando escono a fare una passeggiata in campagna. Ora dunque ritrovo tutto ciò che è del tuo amore nell’ape e in tutti le femmine degli animali sereni che si avvicinano al divino e in nessun altra donna.
Commento
Il testo è un vero elogio alla moglie Lina realizzato attraverso termini di paragone inconsueti: animali a cui non si è soliti riferire la figura di una donna amata e che in genere non rientrano nel linguaggio della lirica amorosa. Saba con la poesia vuole anche celebrare la superiorità del genere femminile e la sua maggiore vicinanza alla natura, mettendone in evidenza la grande energia vitale e la prorompente fisicità. Il tono della poesia riflette la predilezione di Saba per il lessico quotidiano e semplice e quindi per le forme in grado di evocare in modo immediato immagini, suoni e stati d'animo. Non c'è ironia alcuna, da parte di Saba, quando rispecchia la moglie nell'esistenza di modesti animali come la pollastra, la mucca, la cagna o la coniglia. Insomma Saba non vuole assolutamente mancare di rispetto alla moglie e alla donna in genere, ma lodarle con una concezione del femminile non proprio "moderna". Saba, parlando della moglie, descrive le maggiori virtù della donna: ne sottolinea la protettività materna (v25), la dolcezza che si unisce alla gelosia aggressiva (v41), l'eleganza delle movenze come nella rondine (v69), la fedeltà laboriosa come quella della formica (v77).
Goal
Il portiere caduto alla difesa ultima vana, contro terra cela
la faccia, a non veder l’amara luce. Il compagno in ginocchio che l’induce con parole e con mano, a rilevarsi, scopre pieni di lacrime i suoi occhi. La folla - unita ebbrezza - par trabocchi nel campo. Intorno al vincitore stanno, al suo collo si gettano i fratelli.
Pochi momenti come questo belli, a quanti l’odio consuma e l’amore, è dato, sotto il cielo, di vedere.
Presso la rete inviolata il portiere
- l’altro - è rimasto. Ma non la sua anima, con la persona vi è rimasta sola.
La sua gioia si fa una capriola, si fa baci che manda di lontano.
Parafrasi
Il portiere caduto nell’inutile tentativo di difendere la porta, rimane a terra sconfitto e nasconde la faccia a terra per la rabbia e l’umiliazione, quasi per non vedere la luce che illumina una scena per lui dolorosa.
Un compagno in ginocchio al suo fianco lo incita, con parole e con gesti, a rialzarsi e scopre che i suoi occhi sono pieni di lacrime.
Il pubblico, unito nell’esultanza, sembra che si riversi nel campo. I giocatori della squadra vincitrice si accalcano intorno all’autore del goal.
Pochi momenti sono belli come questi, agli uomini che sono come “consumati” dalle passioni dell’odio e dell’amore.
L’altro portiere è rimasto presso la rete inviolata. Ma la sua anima partecipa alla gioia dei compagni.
Per la gioia fa una capriola, manda da lontano dei baci. Della festa, egli dice, anch’io ne faccio parte.
Commento
Goal è una delle 5 poesie che sviluppano il tema del gioco del calcio e che Saba ha
dedicato alle imprese della squadra di calcio cittadina, la "Triestina". La poesia descrive il momento culminante della partita, quello che segue al momento cruciale del goal che determina il successo di una squadra e la sconfitta dell’altra.
Nella prima strofa viene descritta, l’emozione negativa della squadra e del portiere sconfitti, dopo aver subito un gol. Il tono è molto malinconico, poiché descrive l’amara realtà dei portieri quando subiscono un goal.
Nella seconda strofa, invece, viene descritta l’incontenibile gioia di quelli che hanno appena segnato il goal del vantaggio: i giocatori si stringono tutti insieme, mentre sugli spalti il pubblico è in delirio. Vengono sottolineati la solidarietà e la fratellanza che uniscono giocatori e pubblico nel momento clou della partita.
Nella terza e ultima strofa viene descritta la realtà del portiere della squadra che ha segnato: lui è dall’altra parte del campo, da solo, però molto contento, esultante anche lui. E pensa che anche lui fa parte della festa.
Amai
Amai trite parole che non uno osava. M’incantò la rima fiore amore,
la più antica e difficile del mondo. Amai la verità che giace al fondo, quasi un sogno obliato, che il dolore riscopre amica. Con paura il cuore le si accosta, che più non l’abbandona. Amo te che mi ascolti e la mia buona carta lasciata al fine del mio gioco.
Parafrasi
Amai parole consunte e convenzionali, che nessun poeta osava più utilizzare. Mi piacque particolarmente
la rima "fiore amore",
la più antica e difficile del mondo.
Amai la verità che si trova in fondo all’animo umano, quasi un sogno dimenticato, che [tuttavia] il dolore riscopre essere amica. Il cuore timorosamente
le si accosta, ma una volta scoperta non l’abbandona più. Amo te che mi ascolti e amo la mia poesia,
Commento
La poesia può essere considerata il manifesto poetico di Saba; l'autore, prendendo esplicitamente parola in prima persona nella quartina di apertura, spiega in maniera consapevole il fine delle sue scelte poetiche. Le "trite parole” (e cioè già utilizzate da molti, nel corso della tradizione poetica italiana) sono sia una scelta di stile che di
contenuto: la rima "fiore | amore" è la più banale cui si possa pensare, e per questo la
più difficile da personalizzare e rendere originale. Ed è proprio questa la sfida di Saba, che reagisce contro la continua ricerca di nuove tecniche espressive, affermando come la vera scommessa sia quella di avvalersi della tradizione per esprimere concetti e verità nuove.
La verità ("che giace al fondo", v. 5) è secondo l'autore il fine ultimo della poesia, unico mezzo di cui l'uomo può avvalersi per scoprire i più reconditi segreti del cuore umano. E proprio questa verità deve essere espressa dal poeta nel modo più semplice e immediato possibile.
Nell'ultima strofa - un distico - Saba compie il passaggio dal passato remoto “amai”, che caratterizza la prima parte del componimento, al presente “amo”, creando un senso di
continuità e di coerenza. Si così rivolge al lettore, e gli esprime ammirazione e stima
Mio padre è stato per me “l’assassino”
Mio padre è stato per me "l'assassino"; fino ai vent'anni che l'ho conosciuto. Allora ho visto ch'egli era un bambino, e che il dono ch'io ho da lui l'ho avuto. Aveva in volto il mio sguardo azzurrino, un sorriso, in miseria, dolce e astuto. Andò sempre pel mondo pellegrino; più d'una donna l'ha amato e pasciuto. Egli era gaio e leggero; mia madre tutti sentiva della vita i pesi.
Di mano ei gli sfuggì come un pallone.
"Non somigliare - ammoniva - a tuo padre": ed io più tardi in me stesso lo intesi:
Parafrasi
Mio padre è stato per me l’assassino,
fino ai vent’anni, quando l’ho conosciuto. Allora ho capito che lui era come un bambino, e che ho preso da lui ciò che di bello ho.
Aveva gli stessi miei occhi azzurri,
anche in povertà lui sorrideva, con un sorriso dolce e accattivante. Andò sempre per il mondo come un pellegrino;
più di una donna lo ha amato e mantenuto. Egli era sempre allegro e senza problemi;
mia madre, al contrario, subiva tutti i pesi della vita. Lui le sfuggì e se ne andò da lei.
“Non somigliare - mi rimproverava lei – a tuo padre”: e io più tardi nel tempo lo capii:
Commento
Questo, è uno dei rari componimenti in cui il poeta Saba parla del padre. Nel sonetto viene sottolineato il contrasto tra leggerezza paterna e pesantezza materna, attuando un rovesciamento del ruolo maschile con quello femminile: infatti per l’autore la madre ricopriva il ruolo dell’autorità inflessibile e della punizione (per solito attributo del padre) e il padre il ruolo della trasgressione, della fuga e del piacere. Mentre la madre sentiva tutti i pesi della vita, il padre è definito come un bambino, «dolce e astuto, gaio e leggero»; curioso e capace di stupirsi: tutto quanto si avvicina al «dono» della poesia proviene all’autore dal padre stesso. A causa del suo comportamento trasgressivo, dell’abbandono della famiglia, dei molti viaggi e delle tante donne avute, la moglie si riferiva al marito con l’appellativo di «assassino» e incitava l’autore a non diventare come il padre (in tal modo veniva delineato un modello pedagogico negativo). Infine «eran due razze in antica tenzone» spiega la conflittualità nel rapporto tra madre e padre, ulteriormente complicato dalla diversa appartenenza religiosa: la madre ebraica e il padre cristiano. E quella conflittualità il poeta la rivive in prima persona, tra le due anime che convivono dentro di sé.