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Effetti dell'attività fisica e della dieta sul metabolismo basale

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Academic year: 2021

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INTRODUZIONE

“Mens sana in corpore sano”

Fin dal principio l’introduzione di cibo è stata una necessità fondamentale per l’uomo: tale bisogno nel corso della storia ha assunto man mano nuovi significati passando da strumento di lotta per il sostentamento, ad affermazione del proprio status sociale e specchio del processo di civilizzazione.

L’uomo primitivo spendeva buona parte della giornata alla ricerca del cibo, un’attività molto dispendiosa dal punto di vista energetico. Oggi la situazione è totalmente ribaltata, infatti, grazie allo sviluppo socioeconomico moderno, l’uomo per ottenere il cibo ha bisogno di sempre meno tempo ed energia. Tant’è che ultimamente molti supermercati offrono il servizio di consegna a domicilio della spesa.

L’industrializzazione e la cultura contemporanea hanno spinto l’uomo a tempi di abbondanza e sovralimentazione: questa condizione ha fatto sì che molti soggetti non abbiano più alcuna percezione rispetto a quello che il corpo umano ha davvero bisogno (attività fisica regolare e cibi di qualità) e continuino a sottovalutare i continui messaggi negativi che l’organismo trasmette loro (Guthold, 2018).

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Grazie ai recenti avanzamenti tecnologici e ai progressi nel campo della medicina si è osservato un aumento dell’aspettativa di vita. L’asticella della longevità media mondiale si è alzata notevolmente (globalmente l’aspettativa di vita è di circa 70 anni, mentre nei paesi più sviluppati l’aspettativa di vita è addirittura di 80 anni). Di conseguenza le persone ultrasessantenni costituiscono una fetta sempre più ampia della popolazione mondiale, una parte di popolazione sempre più in crescita (UN, 2017).

Quindi, maggior aspettativa di vita corrisponde anche a maggior qualità di vita quotidiana?

Purtroppo, non è sempre vero.

Sempre più soggetti hanno la miscredenza in cui si ritiene come non sia necessaria abbinare l’attività fisica a una dieta equilibrata per ottenere benefici dal punto di vista della condizione fisica, composizione corporea e salute.

Ogni aumento di energia indotto da un’assunzione di cibo, non compensata da un identico aumento della spesa energetica, causa un aumento delle riserve metaboliche e quindi del peso corporeo, soprattutto per aumento della massa grassa, che rappresenta la sede principale di deposito dell’organismo.

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Al giorno d’oggi sempre più persone vanno incontro ad obesità e il fenomeno grave dell’Obesità Infantile (prima quasi sconosciuto) sta dilagando.

L’era moderna ha reso l’uomo sedentario ed inattivo cosicché le principali cause di morte prematura sono dovute a Malattie Cardiovascolari (CHD: Coronary Heart Disease e Stroke) e Cancro (Lee, 2012; Murray, 1997; WHO, 2016).

L’umanista italiano Luigi Cornaro con “Come vivere cento anni – Discorso della vita sobria” ha provato a spiegare come vivere più a lungo invitando i lettori ad uno stile di vita sano ed attivo.

"Luigi, smetti di condurre una vita dissipata: smetti di bere,

elimina il cibo troppo ricco e condito, mangia il minimo e rispetta il tuo corpo. Vedrai che ti sentirai meglio."

L’alimentazione è un argomento delicato che genera confusione, divide e genera discussioni. Proprio per questo è importante studiare e fornire informazioni di qualità. Sentiamo quotidianamente di nuove mode alimentari e di nuovi prodotti miracolosi che nel giro di poche settimane promettono un corpo erculeo senza sforzi e sacrifici: aziende che disinformano e che tengono di più al proprio portafogli che alla salute dei clienti.

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Tutt’ora circa l’8% della popolazione italiana segue diete vegetariane (plant-based diet) (Vegetarianism by Country, 2019).

Questa scelta sta diventando motivata dalla ricerca di vivere in un pianeta migliore che rende orgogliosi chi si schiera dalla parte dell’ambiente e del mondo animale. È nata una nuova etica della responsabilità individuale nei confronti del pianeta, in cui si riconosce il consumo di carne oggi come non più sostenibile.

Recentemente sta prendendo sempre più piede la dieta vegana. Ovvero una dieta in cui non si assumono prodotti di derivazione animale. Rappresenta una estremizzazione dello stile di vita vegetariano, ma proprio come ogni estremizzazione deve essere costantemente controllato sotto il profilo medico e non sono esclusi interventi di integrazione al fine di non incorrere in squilibri nutrizionali.

Un’atleta d’Élite può seguire una dieta vegetariana/vegana senza pregiudicare la propria performance sportiva? (Wirnitzer K., 2018)

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CAPITOLO 1 IL MODELLO DEL BILANCIO ENERGETICO

Nel modello semplice del Bilancio Energetico esistono solamente due macro-fattori, un input che è l’assunzione di energia attraverso i pasti e un output che è l’energia consumata dovuta al dispendio energetico. Questi due macro-fattori interagendo fra loro influenzano la modificazione del peso corporeo, l’aumento o la diminuzione della massa grassa e della massa muscolare.

Perciò se l’energia in entrata è superiore di quella in uscita avremo con tutta probabilità un aumento del peso corporeo; di contro, nel caso in cui il dispendio energetico risulti superiore all’assunzione di energia avremo un deficit energetico e quindi una riduzione delle masse corporee. L’energia in entrata e l’energia in uscita che cosa rappresentano? E da cosa sono costituite?

La prima è costituita dall’assunzione di nutrienti attraverso la dieta. In questo caso si vanno ad indicare 3 macronutrienti principali: carboidrati, proteine e lipidi.

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Il Dispendio Energetico Totale (TDEE Total Daily Energy Expenditure) è rappresentato da:

- Il Metabolismo Basale a Riposo (BMR: Basal Metabolism Rate) rappresenta il dispendio energetico necessario alle nostre cellule e quindi al nostro organismo per poter esplicare le funzioni vitali a riposo (battito cardiaco, respirazione, ecc.); - La Termogenesi Indotta dalla Dieta (TEF: Thermic Effect of Food) è l’energia spesa per poter digerire, assorbire e metabolizzare i nutrienti;

- Il Dispendio Energetico da Attività Fisica Quotidiana (NEAT: Non-Exercise Activity Thermogenesis) è rappresentato da tutte quelle azioni che vengono compiute nel corso di una giornata come ad esempio il camminare, scendere le scale, fare servizi domestici ecc.;

- Il Dispendio Energetico da Attività Sportiva si intende l’energia necessaria per sostenere l’allenamento e le competizioni sportive.

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1.1 Come Calcolare il Metabolismo Basale a Riposo

1.1.1 Calorimetria Diretta

Un metodo per valutare il tasso di produzione e la quantità di energia prodotta è di misurare la produzione di calore dell’organismo. Questa tecnica è denominata CALORIMETRIA DIRETTA. Si tratta di una stanza isolata ed ermetica: nelle pareti sono disposti tubi di rame per far circolare dell’acqua. Quando il soggetto prende posto all’interno della stanza, il calore prodotto dall’organismo si irradia sulle pareti e riscalda l’acqua. Vengono registrate le variazioni della temperatura dell’acqua, nonché la differenza di temperatura dell’aria che entra e di quella che esce dalla stanza con la respirazione del soggetto. Tali variazioni sono dovute al calore prodotto dall’organismo e il metabolismo del soggetto può essere calcolato proprio dai valori delle misurazioni effettuate. I calorimetri sono dispendiosi da costruire e da usare e sono lenti nel produrre risultati.

Oggi questo metodo si usa di rado (Murgatroyd, 1993; Wilmore, 2004).

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1.1.2 Calorimetria Indiretta

Il metabolismo del glucosio e dei grassi dipende dalla disponibilità di O2 con produzione di CO₂ e acqua. Sulla base di queste conoscenze si può valutare il dispendio calorico misurando i gas respiratori. Questo metodo di valutazione del dispendio energetico è definito CALORIMETRIA INDIRETTA. Lo scambio dei gas respiratori viene determinato con la misurazione del volume di O2 e di CO₂ in entrata e in uscita dai polmoni in un dato arco di tempo, normalmente periodi di 30 secondi. Poiché il volume di O2 espirato è minore del volume di O2 inspirato, mentre la concentrazione di CO₂ è più elevata nell’aria espirata che non in quella inspirata. Ne deriva che la differenza tra l’aria inspirata e quella espirata ci rivela il volume di O2 assunto e quello di CO₂ prodotto. La tecnologia moderna con sistemi elettronici computerizzati per la misurazione dello scambio dei gas respiratori permette un notevole risparmio di tempo e consente rilievi multipli durante le prove. L’aria espirata dal soggetto viene immessa in una camera di miscelamento da cui vengono prelevati campioni che sono immessi negli analizzatori elettronici di ossigeno e anidride carbonica.

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L’apparecchiatura di registrazione computerizzata calcola il consumo di O2 e la produzione di CO₂ sulla base delle misurazioni del volume di gas respirato e delle concentrazioni di ossigeno e di anidride carbonica espirati (Murgatroyd, 1993; Wilmore, 2004).

1.1.3 Equazioni per Predire il Metabolismo Basale

È quindi possibile misurare il BMR in svariati modi: attraverso metodi strumentali utilizzando la Calorimetria Diretta e Indiretta, oppure attraverso l’applicazione di formule empiriche. Una commissione di esperti FAO ha elaborato equazioni per predire il metabolismo basale sulla base del peso corporeo e specifiche per sesso ed età. Il risultato ottenuto con queste formule è un valore approssimativo.

La formula ideata da Harris e Benedict fu pubblicata agli inizi del secolo scorso (risale al 1919) ed è ancora oggi la più conosciuta e applicata. Ricavata da un campione di 239 volontari sani (136 M, 103 F), normopeso, di cui 16 atleti, di età compresa tra 15 e 73 anni, è l’equazione che ha subìto più studi di validazione. È stata oggetto di numerose critiche, per non avere incluso nel suo campione soggetti obesi e individui di fasce di età estreme (<15 e >73 anni).

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♀ BMR = 655 + 9,56 [peso (kg)] + 1,85 [altezza (cm)] – 4,68 [età (anni)]

♂ BMR = 66 + 13,75 [peso (kg)] + 5,0 [altezza (cm)] – 6,76 [età (anni)]

Tutt’oggi l’equazione di Harris-Benedict, nonostante sia stata sviluppata cent’anni fa, è ancora la più nota e applicata anche nei soggetti obesi.

Tuttavia, nel corso degli anni le caratteristiche morfologiche delle popolazioni cambiano così come la loro composizione corporea. Pertanto, equazioni sviluppate da popolazioni del secolo scorso, potrebbero non essere più attendibili sulla popolazione di oggi (Harris, 1919; Noè, 2006).

La formula di Mifflin è stata ottenuta recentemente (1990) testando un campione numeroso di 501 soggetti (251 M e 247 F), di età compresa tra 19 e 78 anni, uniformemente distribuiti in normopeso (129 M e 135 F) e obesi (122 M e 112 F) (BMI medio 26,5).

♀ BMR = – 161 + 10 [peso (kg)] + 6,25 [altezza (cm)] – 5 [età (anni)]

♂ BMR = 5 + 10 [peso (kg)] + 6,25 [altezza (cm)] – 5 [età (anni)]

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CAPITOLO 2 I NUTRIENTI

L’energia ricavata dai cibi che ingeriamo è essenziale per sostenere l’attività fisica, ma gli alimenti servono a molto altro, oltre che a fornire energia. Tutti gli alimenti possono essere raggruppati in sei gruppi di nutrienti, ognuno dei quali svolge funzioni specifiche nell’organismo:

- CARBOIDRATI

- LIPIDI (o ACIDI GRASSI) - PROTEINE

- VITAMINE - SALI MINERALI - ACQUA

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2.1 La Classificazione dei Carboidrati

Un CARBOIDRATO è una macromolecola composta da Carbonio, Idrogeno e Ossigeno (CHO).

La prima classificazione che viene adoperata per distinguere i vari tipi di carboidrati è quella che riguarda il “Grado di Polimerizzazione”. Il Grado di Polimerizzazione è la quantità di monomeri che costituiscono il singolo polimero (la macromolecola).

In questa classificazione troviamo:

- Monosaccaridi, che rappresentano il singolo zucchero;

- Disaccaridi, molecole piccole composte da 2 soli monosaccaridi legati tra loro;

- Oligosaccaridi, molecole composte da catene di 3-10/20 monosaccaridi legati tra loro;

- Polisaccaridi, molecole composte da tanti monosaccaridi legati tra loro

(Fidanza, 1988; Wilmore, 2004).

Un’altra classificazione prevede una distinzione dei vari tipi di carboidrati in carboidrati complessi e zuccheri semplici (classificazione più comune nelle Scienze della Nutrizione).

I Carboidrati Complessi sono rappresentati da: Amido e Glicogeno.

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L’Amido è il polisaccaride di riserva delle cellule vegetali (lo assumiamo con cereali, tuberi, legumi); il Glicogeno sarebbe il corrispettivo dell’amido ma per le cellule animali.

Il Glicogeno è generalmente più ramificato dell’Amido.

L’Amido è formato da una catena composta da tantissime molecole di glucosio legate tra loro con un legame glicosidico.

Gli Zuccheri Semplici possiamo distinguerli in Monosaccaridi, Polisaccaridi e Oligosaccaridi.

Tra i MONOSACCARIDI troviamo il GLUCOSIO, il FRUTTOSIO e il GALATTOSIO.

Tra i DISACCARIDI troviamo il SACCAROSIO, il comune zucchero da cucina (formato da Fruttosio e Glucosio); MALTOSIO (formato da due molecole di Glucosio); LATTOSIO (formato da Galattosio e Glucosio).

Tra gli OLIGOSACCARIDI rientrano gli zuccheri contenuti nei legumi come il VERBASCOSIO, STACHIOSIO, RAFFINOSIO.

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L’ultima classificazione distingue i Carboidrati in “non disponibili” e “disponibili”. Può essere tradotta con “carboidrati non digeribili” e “carboidrati digeribili”.

Tra i Carboidrati Non Disponibili troviamo la categoria delle FIBRE ALIMENTARI (composto eterogeneo e non un’unica singola componente saccaridica), l’AMIDO RESISTENTE (parte dell’amido che può essere già presente in natura o formarsi in seguito a metodi di preparazione e cottura degli alimenti e che non è digeribile e che può rientrare nella categoria delle Fibre Alimentari). Infine, abbiamo i DOLCIFICANTI ipo- o acalorici., ovvero sostanze in grado di edulcorare un alimento. I Carboidrati Disponibili sono l’Amido, i disaccaridi come il Saccarosio, Maltosio, Lattosio, i monosaccaridi come il Glucosio e il Fruttosio. Questi sono tutti zuccheri che apportano calorie perché sono digeribili e assorbibili dal nostro tratto gastrointestinale.

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1 Gr di Carboidrati corrisponde a 4 Kcal (Rotella, 1997).

I Carboidrati Complessi comprendono il Glicogeno e l’Amido (nelle sue due forme native: Amilosio e Amilopectina.

L’Amilosio è costituito da catene lineari di glucosio;

L’Amilopectina si trova in forma ramificata.

In genere gli Amidi sono costituiti principalmente da AMILOPECTINA e solo una piccola percentuale da Amilosio.

Perché l’evoluzione ha preferito favorire una forma di immagazzinamento più ramificata?

Il motivo è che in questo modo è più facile scindere le varie molecole di glucosio dall’intera catena e quindi è più facile e più veloce ottenere disponibilità di glucosio quando ne abbiamo bisogno (GLICOGENOLISI). Conoscere la quantità di Fibre Alimentari e conoscere anche il rapporto Amilosio/Amilopectina ci aiuta a differenziare i cibi a più alta o più bassa digeribilità.

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I carboidrati assolvono molteplici funzioni nell’organismo:

- Principale fonte di energia, in particolare durante l’esercizio fisico ad intensità elevata;

- La loro presenza regola il metabolismo lipidico e proteico; - Rappresentano l’unica fonte di energia del sistema nervoso; - Il glicogeno muscolare ed epatico vengono sintetizzati a

partire dai carboidrati

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2.2 La Classificazione dei Lipidi

I LIPIDI costituiscono una categoria di composti organici poco solubili in acqua. Sono presenti nell’organismo sotto numerose forme: trigliceridi, acidi grassi liberi (FFA: Free Fatty Acids), fosfolipidi e steroli. L’organismo immagazzina la maggior parte dei grassi sotto forma di trigliceridi, composti da un alcol a 3 atomi di carbonio (Glicerolo) e 3 molecole di acidi grassi legati tra loro.

La prima classificazione da fare quando parliamo del mondo dei lipidi alimentari è sicuramente quella che distingue tra ACIDI GRASSI SATURI e ACIDI GRASSI INSATURI. In generale ogni fonte di grasso alimentare contiene sia acidi grassi saturi che insaturi, ma un alimento si differenzia dall’altro per la proporzione e la quantità percentuale di questi tipi di acidi grassi.

Altri tipi di classificazioni distinguono gli acidi grassi saturi in funzione della lunghezza della catena carboniosa dell’acido grasso. Abbiamo così gli acidi grassi a catena corta (SCFA: Short Chain Fatty Acids), gli acidi grassi a media catena (MCFA: Medium Chain Fatty Acids) e gli acidi grassi a lunga catena (LCFA: Long Chain Fatty Acids). In genere fino ai 12 atomi di carbonio si parla di acidi grassi a corta-media catena mentre quando la lunghezza è maggiore si parla di LCFA.

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Per quanto riguarda gli acidi grassi insaturi vengono distinti in funzione della quantità di doppi legami presenti e così parliamo di monoinsaturi (MUFA: MonoUnsaturated Fatty Acids) e polinsaturi (PUFA: PolyUnsaturated Fatty Acids).

Gli acidi grassi polinsaturi possono essere principalmente distinti in Omega 3 e in Omega 6. Molto importanti per la salute dell’individuo.

Infatti, è stato osservato in molti studi epidemiologici che i Paesi Mediterranei in cui venivano condotte tendenzialmente diete con una quantità di acidi grassi saturi molto bassa presentavano tendenzialmente una minor incidenza di eventi cardiovascolari e una ridotta mortalità (De Lorgeril, 1994).

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Al contrario le popolazioni che consumavano grandi quantità di acidi grassi saturi e non solo grandi quantità di lipidi in

generale avevano un maggior rischio cardiovascolare (De Souza, 2015).

Nonostante questa “cattiva” reputazione i LIPIDI non devono essere eliminati dalla dieta poiché assolvono molte funzioni vitali per l’organismo:

1- Sono una componente essenziale delle membrane cellulari e delle fibre nervose;

2- Supportano e proteggono organi vitali;

3- Tutti gli ormoni steroidei nell’organismo sono prodotti a partire dal colesterolo;

4- Le vitamine liposolubili vengono assorbite, immagazzinate e trasportate in tutto l’organismo per mezzo dei lipidi;

5- Lo strato isolante di grasso sottocutaneo trattiene il calore corporeo;

6- In condizioni di riposo sono una fonte primaria di energia e forniscono oltre il 70% dell’energia complessiva (Fidanza, 1988; Rotella, 1997).

Alcuni sperimentatori hanno provato a verificare gli eventuali vantaggi di una dieta a basso contenuto di carboidrati ed alto contenuto di grassi, nello specifico incrementando la quota dietetica di questi fino al 70 % delle calorie totali.

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Tale strategia nutrizionale mantenuta per cinque giorni (simulando quindi la carica di carboidrati) pur non portando ad un miglioramento effettivo delle prestazioni, aumentava la quota di acidi grassi ossidata durante l’esercizio (Yeo, 2011).

In particolare, l’incremento dell’apporto di lipidi con la dieta portava ad un aumento degli enzimi implicati nell’ossidazione di acidi grassi. A dispetto però di questi adattamenti, i reali vantaggi avuti da allenamenti eseguiti con questo tipo di dieta rispetto ad una dieta più “classica” con elevato apporto di carboidrati si sono dimostrati limitati. Tant’è che in un recente studio le prove a cronometro in sport di endurance non erano migliorate negli atleti sottoposti ad una dieta high fat (Burke, 2002).

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2.3 La Classificazione delle Proteine

Le PROTEINE o PROTIDI sono delle lunghe catene di aminoacidi legati tra loro con un legame peptidico. A prescindere dalla fonte alimentare per ottenere le proteine, queste saranno sempre composte dagli stessi amminoacidi, semplicemente in quantità e combinazioni differenti.

Indipendentemente dal tipo di dieta e dal quantitativo proteico totale ci sono alcuni aminoacidi, detti essenziali, che è indispensabile introdurre con l’alimentazione.

Per “essenziale” si intende un nutriente che il nostro organismo non è in grado di sintetizzare ma che comunque è indispensabile per una o più funzioni fisiologiche, motivo per cui deve essere necessariamente ottenuto attraverso l’alimentazione.

Gli Aminoacidi Essenziali (EAA Essential Amino Acids) sono fondamentalmente 8 e in funzione del periodo della vita ce ne possono essere qualcuno in più o in meno (ad esempio l’Istidina nei bambini).

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Il nostro organismo ha un fabbisogno particolare di ognuno degli aminoacidi essenziali per cui tecnicamente il fabbisogno non è di proteine in generale ma di EAA.

Per valutare la qualità delle proteine si utilizza una serie di parametri:

- Punteggio chimico - Valore biologico

- Rapporto di efficienza proteica

- Valore degli aminoacidi corretto per la digeribilità delle proteine

Il Punteggio (o Indice) Chimico è assegnato in base all’AA limitante rispetto ad una proteina di riferimento (uovo). Perciò il punteggio chimico non è altro che il rapporto tra la quantità di uno specifico EAA in un grammo della proteina presa in esame e la quantità dello stesso EAA in un grammo della proteina dell’uovo (proteina di riferimento e proteina per eccellenza).

Se tutti gli EAA sono presenti in una proteina in rapporti bilanciati, questa si definisce BILOGICAMENTE COMPLETA. La carenza di uno o più di questi aminoacidi riduce la qualità nutrizionale delle proteine e diventa aminoacido limitante la sintesi proteica.

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Tuttavia, questo criterio per valutare la qualità delle proteine ha un handicap e cioè che non tiene in considerazione la digeribilità proteica, per cui non tiene conto realmente di quanti AA si riesce a metabolizzare quando si consuma una determinata fonte proteica.

Il Valore Biologico (VB), che si esprime con un valore numerico da 1 a 100, descrive la qualità, la quantità proteica e al rapporto reciproco tra gli EAA contenuti nelle fonti alimentari.

Quindi, le proteine vengono suddivise in gruppi ad alto, medio, basso valore biologico. La proteina di riferimento rimane sempre l’uovo con VB di 100.

Nel primo gruppo troviamo le proteine animali (uova, latte, carne, pesce) ricche di EAA e molto simili nella composizione aminoacidica rispetto alle proteine umane.

Le proteine che si trovano nei legumi, nella soia e nel germe del grano sono a medio valore biologico e sono formate da un complesso proteico non ben equilibrato di aminoacidi essenziali.

Le proteine a basso valore biologico che si trovano nei cereali sono incapaci di provvedere da sole alle necessità di crescita dell’organismo e appena sufficienti per soddisfare il fabbisogno di mantenimento.

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Le proteine vegetali contengono tutti gli aminoacidi essenziali, ma uno o due in quantità relativamente basse (aminoacidi limitanti): i cereali scarseggiano in LISINA mentre i legumi hanno inadeguate quantità di METIONINA. Una buona strategia per ottenere l’intero profilo aminoacidico con la dieta è perciò associare cereali e legumi (ad esempio riso e piselli), per accrescere il valore nutritivo delle proteine.

Il Rapporto di Efficienza Proteica (PER) valuta la capacità di una proteina di far crescere e, quindi, di far aumentare di peso un organismo. In pratica questo parametro è stato determinato attraverso la valutazione dell’aumento di peso delle cavie alimentate con una particolare proteina.

PER = aumento di peso (g) / proteine consumate (g)

Il Valore degli Aminoacidi Corretto per la Digeribilità delle Proteine (PDCAAS) è ritenuto dal FAO/WHO il miglior metodo per la valutazione della qualità delle proteine basato sia sul fabbisogno umano di aminoacidi che sulla capacità umana di digerire le proteine assunte attraverso l’alimentazione.

PDCAAS = (mg dell’aminoacido limitante in 1g delle proteine prese in esame / mg dello stesso aminoacido in 1g delle proteine di riferimento) * % della digeribilità.

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Il valore massimo del PDCAAS è 1,0, perciò ogni proteina con questo valore viene considerata completa.

Concetto di Aminoacido Limitante: quando assumiamo proteine attraverso l’alimentazione queste vengono scisse in aminoacidi che vengono utilizzati per la sintesi proteica. Durante questo processo, uno degli EAA si esaurirà prima degli altri: in questo momento l’organismo interrompe la sintesi di proteine. Il primo aminoacido a esaurirsi viene quindi definito aminoacido limitante della fonte proteica sottoposta ad esame (Fidanza, 1988; Rotella, 1997).

Le proteine assolvono numerose funzioni nell’organismo:

- Sono la principale componente strutturale della cellula; - Servono alla crescita, alla ricostituzione ed al mantenimento

dei tessuti corporei;

- L’emoglobina, gli enzimi e molto ormoni sono derivati proteici;

- Costituiscono una delle tre principali sostanze tampone dalle quali dipende il controllo del pH;

- Le proteine plasmatiche servono a mantenere la corretta pressione osmotica del sangue;

- Gli anticorpi del sistema immunitario vengono sintetizzati proprio a partire dalle proteine;

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2.4 Il Quoziente Respiratorio

La prima precisazione che dobbiamo fare è che parleremo di quoziente respiratorio, ma nella letteratura scientifica il quoziente respiratorio è quello cellulare. Tuttavia, per semplificare tratteremo il nostro quoziente respiratorio come il rapporto tra l’anidride carbonica espirata e l’ossigeno inspirato.

Attraverso il quoziente respiratorio i biochimici e i fisiologi riescono a osservare se il nostro organismo sta ossidando principalmente carboidrati oppure acidi grassi. E come fanno a dedurre ciò?

Poiché i carboidrati sono un macronutriente relativamente ricco di ossigeno, basta una molecola di ossigeno per poterli ossidare e per far fuoriuscire attraverso la respirazione una molecola di anidride carbonica. Quindi il quoziente respiratorio dei glucidi è 1.

Invece gli acidi grassi sono un macronutriente relativamente povero d’ossigeno così il nostro corpo deve introdurre molte più molecole d’ossigeno per poterli ossidare e il rapporto del quoziente respiratorio è di 0,7. Come è possibile rilevare il nostro quoziente respiratorio?

Attraverso la Calorimetria Indiretta i fisiologi riescono a individuare in quel momento l’organismo cosa sta ossidando.

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Quello che si è notato è che dopo un pasto glucidico (come con una dieta bilanciata mediterranea), il nostro metabolismo si sposta verso il metabolismo glucidico e il quoziente respiratorio si avvicina ad 1. A mano a mano che ci allontaniamo dal pasto e siamo sempre da più ore a digiuno, più il nostro quoziente respiratorio scende e dopo 16/18 ore a digiuno si avvicina a 0,7. Si è anche osservato che chi tende a mangiare molti carboidrati ha mediamente un quoziente respiratorio più alto (più vicino ad 1), mentre chi segue una dieta povera di carboidrati chetogenica o durante il digiuno il quoziente respiratorio è più basso (più vicino a 0,7).

Questo sta a indicare che le diete povere di carboidrati fanno dimagrire di più?

Persone obese, insulino resistenti e diabetiche tendono ad avere un quoziente respiratorio più alto rispetto alle altre persone con una buona sensibilità insulinica e in un buon stato di forma. Questo è sicuramente un problema: se una persona obesa volesse dimagrire ma continua a ossidare maggiormente carboidrati, il dimagrimento non sarà mai ottimale. La perdita di peso sarà quindi dovuta maggiormente ad una perdita di massa magra preservando la già notevole massa grassa. Migliorare il quoziente respiratorio è quindi un obiettivo auspicabile e consigliabile. Cosa si può migliorare il quoziente respiratorio?

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Possiamo percorrere due strategie:

- Una Dieta Ipocalorica abbassa il quoziente respiratorio a prescindere dalla distribuzione dei macronutrienti.

- L’Attività Fisica abbassa il quoziente respiratorio (qualsiasi tipo di attività fisica). L’allenamento ottimale per migliorare il quoziente respiratorio è quello che mette in crisi il sistema anaerobico lattacido e l’aerobico glucidico.

Una dieta chetogenica abbassa il quoziente respiratorio e quindi potrebbero essere diete molto indicate per la perdita di massa grassa. Purtroppo, non è proprio così, perché il quoziente respiratorio non è tutto: non è detto che un QR basso porti sempre ad un dimagrimento.

È vero che una dieta chetogenica abbassa il quoziente respiratorio ossidando più lipidi ma è anche vero che introduce più acidi grassi attraverso i pasti. Quindi sarà il bilancio tra l’input e l’output a far la differenza.

Poiché se la dieta introduce più lipidi di quelli che vengono ossidati, gli acidi grassi saranno maggiormente ossidati rispetto ad una dieta low fat ma comunque il bilancio lipidico sarà in positivo (surplus) e quindi ci sarà un aumento del peso corporeo con prevedibile aumento della massa grassa.

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Al contrario attraverso una dieta ricca di carboidrati il QR si alzerà, ma se è presente un deficit energetico il quoziente respiratorio sarà più basso e porterà ad una perdita di peso. Perciò è importante tenere in considerazione il QR ma non è l’unico fattore da tener sotto osservazione.

Il quoziente respiratorio può misurare quando i carboidrati in eccesso si trasformano in acidi grassi.

Il processo di Lipogenesi comporta che le molecole di Piruvato derivanti dai carboidrati si trasformino in Acetil-CoA che è un precursore degli acidi grassi. Per poterlo fare ci deve essere una decarbossilazione che produce una molecola di anidride carbonica. Quindi abbiamo sintesi di nuovi acidi grassi quando il nostro QR è superiore a 1.

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CAPITOLO 3 I SISTEMI ENERGETICI

I sistemi energetici, o metabolismi energetici, rappresentano dei meccanismi fisiologici all’interno della cellula muscolare attraverso i quali riesce a produrre energia e a contrarre il muscolo scheletrico per svolgere l’attività fisica richiesta.

Esistono due condizioni principali in cui il l’organismo umano riesce a ricavare energia:

- Aerobiosi - Anaerobiosi

L’attività aerobica ricava energia mediante l’utilizzo di ossigeno; l’attività anaerobica trae energia senza l’immediata necessità di O2.

Quest’ultima si suddivide a sua volta in:

- Sistema Anaerobico Alattacido - Sistema Anaerobico Lattacido

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3.1 ATP: la Molecola Energetica

Qualsiasi forma di vita necessita di energia per svilupparsi, svolgere attività fisica e mantenersi. Innumerevoli processi biologici che richiedono e/o che producono energia si verificano continuamento all’interno del nostro organismo per soddisfare le esigenze della vita. La molecola energetica principale e più utile è nota come ADENOSINTRIFOSFATO (ATP).

Una molecola di ATP è costituita da Adenosina, una molecola di adenina legata ad una molecola di ribosio, combinata con tre gruppi fosfato inorganico (Pi).

Non è possibile creare ATP dal niente. Le fonti alimentari ingerite e digerite vengono immagazzinate nelle cellule sotto forma di glucosio, di glicogeno e di acidi grassi.

Quando questi substrati vengono utilizzati nei processi metabolici, alcuni dei legami atomici si rompono con conseguente formazione ATP e liberazione di energia.

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L’ATP è quindi fondamentale per la contrazione delle cellule muscolari, per la costruzione di altre molecole complesse o per la generazione di messaggi elettrochimici nel sistema nervoso o per il trasporto di sostanze attraverso le membrane cellulari.

Quando la molecola di ATP reagisce con l’acqua (processo di idrolisi) e subisce l’azione dell’enzima ATPasi, l’ultimo gruppo fosfato si scinde dall’ATP e rilascia nell’immediato energia. La molecola di ATP diventa così ADENOSINDIFOSFATO (ADP) e Pi.

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3.2 Il Sistema ATP-PCr

Il sistema ATP-PCr è il più semplice dei sistemi energetici. All’interno delle cellule viene immagazzinata un’altra molecola di fosfato altamente energetica oltre all’ATP: la FOSFOCREATINA o PCr, detta anche CREATINFOSFATO.

Diversamente da quanto succede con l’ATP, l’energia liberata dalla scissione della PCr non viene impiegata per produrre lavoro ma per ricostituire le riserve di ATP. Il rilascio di energia della PCr è favorito dall’enzima CreatinChinasi (CK), che agisce sulla Fosfocreatina per separare il gruppo fosfato dalla creatina. L’energia rilasciata viene utilizzata per legare una molecola di Pi a una di ADP, con lo scopo di mantenere le riserve di ATP a un livello relativamente costante.

Si tratta di un processo molto rapido e viene compiuto senza alcuna struttura speciale all’interno delle cellule, non richiede ossigeno perciò è un sistema anaerobico. La capacità di mantenere i livelli di ATP attraverso l’utilizzo di PCr è molto limitata, infatti questo sistema può soddisfare il fabbisogno energetico di attività muscolari per un periodo tra i 3 ai 15 secondi.

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Una volta raggiunto l’esaurimento di questo processo metabolico, l’organismo deve poter contare su altri sistemi energetici per la formazione di ATP.

3.3 Il Sistema Glicolitico

La molecola di ATP può essere ricavata anche attraverso l’energia rilasciata dalla scissione o lisi del GLUCOSIO. Questo è il Sistema Glicolitico, così chiamato per l’appunto perché entra in gioco la Glicolisi. Il glucosio ematico proviene dalla metabolizzazione dei carboidrati e dallo scomponimento del Glicogeno. Il glicogeno, sintetizzato attraverso la Glicogenesi, viene immagazzinato nel fegato o nel muscolo. Nel momento in cui l’organismo richiede energia, il glicogeno viene disgiunto in Glucosio 1-Fosfato attraverso la Glicogenolisi.

Per utilizzare glucosio o glicogeno come fonte di energia, essi devono essere prima convertiti in Glucosio 6-Fosfato.

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Si richiede lo sfruttamento di una molecola di ATP per trasformare il glucosio in Glucosio 6-Fosfato, mentre non è richiesto alcun costo energetico nel caso in cui la conversione parta dal Glicogeno.

In seguito a varie reazioni, si ottiene il prodotto terminale della glicolisi: l’Acido Piruvico.

Questo processo è anaerobico ma è la presenza o meno di ossigeno a determinare il destino dell’acido piruvico.

Con sistema glicolitico si intende la Glicolisi Anaerobica perciò l’acido piruvico verrà convertito in Acido Lattico. Questo sistema energetico non produce grandi quantità di ATP infatti il prodotto netto sarà di 3 moli di ATP per ogni mole di glicogeno degradato, altrimenti sarà di 2 moli per ogni mole di glucosio convertito.

L’altro limite importante della glicolisi anaerobica è che essa determina un accumulo di acido lattico nei muscoli e nei fluidi corporei.

Nel caso di sforzi molto intensi, il livello di acido lattico muscolare può arrivare a valori superiori a 25 mmol/kg di muscolo.

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Questa condizione inibisce un’ulteriore scissione di glicogeno, perché la forte acidificazione compromette l’azione degli enzimi glicolitici e diminuisce la capacità delle fibre di legare il calcio che può impedire la contrazione muscolare.

I sistemi ATP-PCr e glicolitico possono soddisfare i fabbisogni muscolari per attività non superiori ai due minuti di durata poiché non riuscirebbero a produrre ATP necessario per sforzi prolungati.

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3.4 Il Sistema Ossidativo

Il processo metabolico attraverso il quale l’organismo produce energia servendosi dell’ossigeno viene chiamato Sistema Ossidativo. Tale produzione ossidativa avviene all’interno dei mitocondri cellulari presenti su tutto il sarcoplasma e adiacenti alle miofibrille.

Il sistema ossidativo è in grado di liberare grandi quantità di energia, infatti è il processo metabolico principalmente attivo nelle attività fisica di lunga durata e resistenza.

La produzione ossidativa di ATP coinvolge quattro processi:

- Glicolisi Aerobica - Ciclo di Krebs

- Sistema di Trasporto degli Elettroni - Fosforilazione Ossidativa

3.4.1 La Glicolisi Aerobica

Nel metabolismo dei glucidi, la glicolisi può svolgersi sia in presenza o meno di ossigeno. In presenza di ossigeno l’acido piruvico non viene più convertito in acido lattico (come nella glicolisi anaerobica), ma in ACETILCOENZIMA A (Acetil CoA).

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3.4.2 Il Ciclo di Krebs

Il Ciclo di Krebs o ciclo dell’acido citrico deve il suo nome il suo nome allo scienziato anglo-tedesco che nel 1937 scoprì gli elementi chiave di questa via metabolica.

La glicolisi aerobica e la beta ossidazione (analizzata nel prossimo capitolo) producono Acetil-CoA.

L’AcetilCoenzima A rappresenta il principale substrato della fosforilazione ossidativa: la sua entrata nel ciclo di Krebs consiste in una condensazione con Ossalacetato per formare Citrato e al termine del ciclo stesso, i due atomi di carbonio immessi con l’Acetil-CoA verranno ossidati in due molecole di CO2, rendendo disponibile di nuovo l’Ossalacetato in grado di condensarsi con nuovo Acetil-CoA.

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3.4.3 Il Sistema di Trasporto degli Elettroni

Quando il glucosio subisce prima la Glicolisi e poi il Ciclo dell’Acido Citrico, esso riduce in totale 10 molecole di NAD+ a NADH e 2 molecole di FAD a FADH2. Queste molecole vengono di nuovo ossidate alla specie di partenza nel Sistema di Trasporto degli Elettroni, che avviene nei mitocondri. Le reazioni di ossidoriduzione (redox) coinvolte sono sempre spontanee, e l’energia ottenuta viene immagazzinata sotto forma di Gradiente Protonico. Infine, il gradiente protonico

viene consumato, e l’energia ad esso associata viene usata dall’ATP-Sintasi per sintetizzare ATP. Il trasporto degli

elettroni è affidato a 4 Complessi Protonici, indicati con I, II, III e IV. Il NADH attraversa il Complesso I e successivamente il Complesso III e IV. Il FADH2 inizia dal Complesso II e in seguito attraversa il Complesso III e il IV.

I Complessi I, III e IV sono collocati sulla membrana che separa la matrice mitocondriale dallo spazio intermembrana e quando si attivano promuovendo le reazione redox, essi trasportano H+ dalla matrice allo spazio intermembrana. Il Complesso I e III trasferiscono 4H+ per NADH, mentre il Complesso IV trasferisce 2H+ per NADH.

Dunque, ogni NADH garantisce il trasporto di 10H+, ed ogni FADH2 (attraversando solo il Complesso III e IV) assicura il trasporto di 6H+.

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3.4.4 La Fosforilazione Ossidativa

Come detto precedentemente, il trasporto degli elettroni genera un gradiente protonico creando una maggiore concentrazione di H+ nello spazio intermembrana rispetto alla matrice mitocondriale. La fase finale è la ristabilizzazione dell’equilibrio della concentrazione di H+, e questo avviene attraverso la fosforilazione ossidativa, che è a carico dell’ATP-Sintasi. Questo complesso sfrutta l’energia liberata pompando H+ verso la matrice mitocondriale per sintetizzare ATP da ADP e Fosfato.

È stato evidenziato che è necessaria l’energia liberata nel trasporto di 4H+ per sintetizzare una singola molecola di ATP. Dunque, il NADH (10H+) permette la sintesi di 2,5 molecole di ATP, ed il FADH2 (6H+) consente la sintesi di 1,5 molecole di ATP. Poiché una molecola di Glucosio produce 10 molecole di NADH e 2 di FADH2, grazie alla fosforilazione ossidativa vengono sintetizzate 28 molecole di ATP, che sommate alle 2 molecole di ATP formate attraverso la Glicolisi e altre 2 molecole di ATP fornite dal Ciclo di Krebs, risultano in 32 molecole di ATP per ogni molecola di Glucosio.

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CAPITOLO 4 LA DIETA MEDITERRANEA

La Dieta Mediterranea rappresenta un modello alimentare tipico dei paesi che si affacciano sul Mar Mediterraneo. Questo modello nutrizionale è generalmente consigliato dalle Società Scientifiche Internazionali e inserito nelle Linee Guida dirette alle popolazioni a riguardo della prevenzione primaria e secondaria.

Nel 2010 la Dieta Mediterranea è stata addirittura nominata Patrimonio Immateriale dell’UNESCO.

Il termine “dieta” deriva dal greco e significa “stile di vita”. Il termine dieta quindi non va confuso con Digiuno o Restrizione Calorica ma va promosso uno “Stile di Vita Mediterraneo” che si fonda sull’attività fisica quotidiana, regolare e un consumo di cibo contenuto ed equilibrato.

Il primo studioso che portò sotto la lente d’ingrandimento della comunità scientifica la “Dieta Mediterranea” fu Ancel Benjamin Keys, divenuto famoso epidemiologo grazie alla pubblicazione del “Seven Countries Study”.

Con l’aiuto della sua equipe, Keys confrontò le abitudini alimentari di Sette Paesi (per l’appunto Seven Countries): Finlandia, Giappone, Grecia, Italia, (Ex) Jugoslavia, Olanda e Stati Uniti.

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La ricerca iniziò nel 1958, furono arruolati oltre 12.000 soggetti di età compresa tra i 40 e i 59 anni di sette paesi differenti e furono raccolti dati con un follow-up di 25 anni.

Il risultato principale che emerse nel 1983 (venticinquesimo anno di ricerca) riguarda la differenza nel tasso di mortalità per malattie cardiovascolari, in particolare per cardiopatia ischemica (IHD: Ischaemic Heart Disease).

Nell’area Mediterranea il tasso di mortalità era di 978/10.000 mentre in quelle non mediterranee l’incidenza era praticamente raddoppiata: 1947/10.000.

Quindi, si giunse alla conclusione che la Dieta Mediterranea apportava evidenti benefici alla salute in quanto il tasso di mortalità per malattie cardiovascolari delle popolazioni mediterranee era nettamente inferiore rispetto alle altre. Infatti, le scelte alimentari erano molto differenti tra i due gruppi: le popolazioni del bacino Mediterraneo si cibavano prevalentemente di pasta, prodotti ortofrutticoli, moderate quantità di pesce e utilizzavano quasi esclusivamente olio di oliva come condimento; negli altri paesi esaminati il regime alimentare quotidiano includeva molti grassi saturi di origine animale (burro, strutto, latte, formaggi, carne rossa).

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In particolare, Keys e i suoi collaboratori puntarono il dito contro i lipidi: infatti, correlarono l’elevato consumo di grassi con la mortalità per cardiopatia ischemica.

Ovvero che all’aumentare del consumo di grassi, aumentava di conseguenza il rischio di morte per malattie cardiovascolari ed è perciò consigliabile ridurre fortemente l’assunzione di lipidi con la dieta.

Keys però non tenne conto del bilancio energetico delle varie popolazioni dei paesi studiati e nell’analizzare a fondo il suo studio il ricercatore statunitense trascurò del tutto il fatto che alcuni soggetti (soprattutto in Grecia) partecipavano a digiuni, talvolta frequenti e prolungati, durante l’anno per motivi religiosi (Keys, 1986).

Per questo motivo è alquanto affrettato e presuntuoso voler definire la Dieta Mediterranea come “la panacea di tutti i mali” senza mettere in chiaro tutti i fattori che hanno contribuito a tali risultati.

La Dieta Mediterranea viene definita quantitativamente attraverso le Piramidi Alimentari e gli Indici di Aderenza Mediterranea.

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La prima piramide alimentare più rappresentativa fu quella ideata nel 1992 dal Dipartimento dell’Agricoltura degli Stati

Uniti (USDA, United State Department of Agricolture) per comunicare in modo semplice ed efficace consigli alimentari alla popolazione generale.

Questa piramide venne realizzata a partire dai dati e dalle ricerche allora disponibili in tema di nutrizione e fondata sulle tradizioni alimentari delle popolazioni mediterranee in cui il tasso di mortalità delle malattie cardiovascolari registrato negli anni ‘80 era il più basso al mondo.

Infatti, da notare come i grassi siano posti in cima alla piramide col chiaro messaggio di ridurli il più possibile nel regime alimentare.

Tale modello è stato rivisto nel 2005 con la “Nuova Piramide Alimentare” in cui sono state inserite modifiche importanti.

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Nel nuovo modello vengono posti alla base i cereali integrali ricchi di fibra. La distinzione tra gli alimenti ricchi di carboidrati non si basa più sulla classificazione di glucidi semplici e complessi ma sul contenuto di fibra alimentare delle fonti glucidiche. Anche il pensiero riguardante i lipidi viene stravolta: se nella versione precedente tutti i grassi venivano posti all’apice, nella nuova piramide solo i grassi saturi vanni consumati con moderazione, mentre i grassi di origine vegetale sono collocati alla base (importanza corretto rapporto tra grassi insaturi e saturi).

Va fatta però attenzione a come interpretare la Piramide Alimentare.

Le fonti alimentari che sono all’apice non vanno abolite completamente e allo stesso modo non vanno abusati tutti quei cibi alla base della piramide.

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L’importanza della qualità dei cibi è importante quanto la quantità degli alimenti consumati. Quindi, anche la quantità delle fonti alimentari che consumiamo determina se una dieta è salutare o meno.

A supporto delle Piramidi Alimentari intervengono gli Indici di valutazione dell'aderenza alla Dieta Mediterranea, formulati per poter effettuare una valutazione globale della qualità della dieta e per stabilire quanto una dieta si avvicini al modello mediterraneo tradizionale di riferimento.

Attraverso la compilazione di un semplice questionario, al soggetto viene attribuito uno speciale punteggio, si tenta cioè di avere una singola misura di aderenza alimentare.

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Nello specifico, per questo test ideato da Sofi gli “score” di Aderenza alla Dieta Mediterranea sono:

- 0-4 Non Adeguato

- 5-9 Scarsamente Adeguato - 10-15 Sufficientemente Adeguato - 16-18 Completamente Adeguato

Esistono altri questionari come questo ideato da De Bortoli.

Per concludere, il termine “Dieta Mediterranea” è spesso abusato, spesso non compreso ma soprattutto non ben definito. In realtà ha un significato estremamente semplice e riflette un modello di stile di vita, non solo alimentare, basato sull’equilibrio, su una quotidianità attiva e sulla ricerca di cibi di qualità.

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L’insieme degli alimenti tipici dei paesi che si affacciano sul Mediterraneo è stato indicato come prototipo esemplare di dieta sana. Bisogna però fare attenzione a non mitizzare o a lodare eccessivamente la Dieta Mediterranea come uno studio di quasi 50 anni fa vuol farci credere.

In mezzo secolo i progressi tecnologici e l’avanzamento socioculturale hanno cambiato radicalmente le abitudini delle popolazioni mondiali. Sono appunto quelle popolazioni dei paesi dell’area mediterranea e che erano prese da esempio da Keys ad avere il maggior tasso di obesità, anche e soprattutto infantile.

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L’OMS ha quindi tracciato delle linee guida per seguire una dieta sana:

- Ridurre le calorie: data la gravità dell’obesità e del sovrappeso nel determinare malattie croniche, evitare un eccessivo consumo di calorie è di fondamentale importanza per un buon controllo del peso e migliorare il proprio BMI (Hall, 2012).

- Aumentare il consumo di frutta e verdura (almeno 5 porzioni al giorno): un’ottimale consumo di frutta e verdura è associato a una riduzione del rischio cardiovascolare e rappresentano le principali fonti alimentari di fibra e vitamine (Boeing, 2012).

- Favorire il consumo di cereali integrali: il consumo di fibra derivato da prodotti cerealicoli è associato a minor rischio cardiovascolare e a minor incidenza di diabete di tipo 2. Inoltre, il consumo di fibra alimentare sembra facilitare il controllo del peso (Mellen, 2008).

- Migliorare rapporto tra consumo acidi grassi saturi e insaturi: favorendo il consumo di quest’ultimi si riduce il rischio di malattie cardiovascolari e si abbassano i livelli sierici di colesterolo LDL (Perk, 2012).

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- Limitare il consumo di zucchero e di bevande zuccherine: l’OMS suggerisce di introdurre meno del 10% dell’energia totale come zuccheri semplici. Inoltre, è consigliabile evitare le bevande industriali poiché, senza nemmeno accorgersene, è molto facile introdurre molte calorie con una semplice bibita (Malik, 2010).

- Controllare e moderare l’assunzione di sodio: poiché il sodio ha un effetto sulla pressione sanguigna, importante fattore di rischio per la cardiopatia ischemica e coronarica. L’OMS suggerisce un introito massimo di 1,7 g di sodio al giorno (circa 5 grammi di sala da cucina) (Strazzullo, 2009).

Per concludere, si può aderire alla Dieta Mediterranea ma è necessario fare alcuni accorgimenti e seguire alcune semplici indicazioni quali incrementare il consumo di frutta e verdura, cereali integrali e grassi insaturi, limitando l’introito di bevande zuccherine e sale, sembrano essere, allo stato attuale delle conoscenze, le raccomandazioni più efficaci per un’ottimale prevenzione delle malattie cardiovascolari e migliorare la qualità di vita.

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CAPITOLO 5 LE DIETE VEGETARIANE

I vegetariani, per definizione, non assumono né carne né pesce, a loro volta sono sotto classificati come latto-ovo vegetariani che mangiano latticini e/o uova ed infine in vegani, i quali non assumono nessun prodotto di derivazione animale (Mann, 2009).

Esistono altri sottogruppi di diete vegetariane, più o meno flessibili, come descritte nella tabella sottostante (Phillips, 2005).

La prevalenza di vegetariani varia molto in tutto il mondo. L’india ha la più alta presenza di vegetariani di qualsiasi altro paese con circa il 30% della popolazione indiana che segue la dieta vegetariana (Shridhar, 2014; Agrawal, 2014).

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Negli altri paesi il vegetarianismo è meno comune, con circa il 10% della popolazione locale che segue una dieta vegetariana (Vegetarianism by Country, 2019).

Molti studi hanno dimostrato l’adeguatezza delle diete vegetariane. Hanno mostrato soprattutto che le diete vegetariane o vegane, se ben pianificate, possano fornire tutti i nutrienti necessari ad una sana alimentazione e possano prevenire malattie cardiovascolari (Craig, 2009).

In confronto agli onnivori, i soggetti che seguono una dieta vegetariana hanno un BMI inferiore (circa 1 in meno) (Appleby, 1998), una concentrazione inferiore del colesterolo plasmatico (circa 0,5 mmol/l in meno) e una minor incidenza di mortalità da malattie ischemiche, IHD: Ischaemic Heart Disease (circa il 25% in meno) (Thorogood, 1994).

Non sono state rilevate differenze per quanto riguarda i tumori per l’assenza di evidenze sulla mortalità.

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Sono inoltre necessarie altre informazione per altre cause di morte e la salute dei vegani a lungo termine, ovvero quanto possa essere sostenuta una dieta senza alimentarsi con prodotti di derivazione animale. Le evidenze disponibili suggeriscono che diffondendo l’adozione di una dieta vegetariana potrebbe prevenire approssimativamente 40 mila decessi dovute a malattie cardiache in Inghilterra ogni anno (Timothy, 1999).

5.1 La Dieta Vegana e le Possibili Carenze

Ma per ottenere una dieta adeguata da un punto di vista nutrizionale, i vegani devono innanzitutto avere una buona conoscenza delle possibili carenze cui potrebbero affrontare.

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5.1.1 Omega 3: Grassi Polinsaturi

Diete che non includono pesce e uova generalmente potrebbero determinare carenze di acido eicosapentanoico (EPA: Eicosapentaenoic Acid) e di Acido Docoesaenoico (DHA: Docosahexaenoic Acid), acidi grassi coinvolti nella salute degli occhi e delle funzioni cerebrali e protettivi del sistema cardiovascolare.

EPA e DHA non sono grassi essenziali e quindi possono essere sintetizzati partendo dall’acido α-linoleico (ALA: Alpha Linolenic Acid), anche se questo processo è poco efficiente.

Perciò i vegani hanno due strategie per non avere carenze di Omega 3:

- Aumentare con l’alimentazione il consumo di ALA. Alimenti vegetali ricchi di ALA sono l’olio ed i semi di lino, le noci e i semi di Chia.

- Utilizzare supplementi di DHA. I vegani possono ottenere

DHA attraverso l’uso dell’olio di microalghe (Craig, 2014; Rogerson, 2017).

Il “New Dietary Reference Intakes” raccomanda di assumere 1,6 e 1,1 g di ALA al giorno per uomini e donne rispettivamente (Simopoulos, 2007).

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L’Academy of Nutrition and Dietetics (ex American Dietetic Association) ha indicato quali sono i micronutrienti da tener d’occhio nel designare un’alimentazione vegana:

- Vitamina B12 - Vitamina D - Zinco - Ferro - Calcio - Iodio

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5.1.2 Vitamina B12

La vitamina B12 è una vitamina di origine microbica, cioè sintetizzata dai batteri, fondamentale per la sintesi dei globuli rossi e per la salute del sistema nervoso.

In confronto ai vegetariani e agli onnivori, chi segue una dieta vegana potrebbe presentare una riduzione della concentrazione plasmatica di vitamina B12 e un’elevata concentrazione plasmatica di omocisteina (Majchrzak, 2006). L’aumento dell’omocisteina è considerato un fattore di rischio per malattie cardiovascolari e fratture dovute all’osteoporosi (McNulty, 2008; McLean, 2008).

La carenza di vitamina B12 può provocare sintomi neurologici e psichiatrici gravi: atassia, psicosi, parestesia, disorientamento, demenza, disturbi motori e difficoltà a concentrarsi (FNB, 1998).

In aggiunta una sua carenza può condurre ad Anemia.

I dati ricavati dallo studio dall’EPIC-Oxford nel Regno Unito, ha dimostrato che circa il 50% dei vegani che partecipavano presentava una carenza di vitamina B12 (Gilsing, 2010).

Il Dietary Reference Intake (DRI) per la vitamina B12 consiglia un’assunzione giornaliera di 2.4 μg per gli adulti di entrambi i sessi (Institute of Medicine, 1998), ma

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l’assunzione consigliata per i vegani può aumentare fino a 6 μg (Fuhrman, 2010).

Per evitare il deficit di vitamina B12 i vegani dovrebbero:

- Consumare alimenti a cui è stata aggiunta la vitamina B12, come cereali da prima colazione e bevande di riso e soia fortificate.

- Assumere un integratore di vitamina B12 quotidianamente (Craig, 2014; Rogerson, 2017).

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5.1.3 Vitamina D

Vitamina liposolubile protagonista in moltissimi processi fisiologici, importante soprattutto per il suo ruolo sinergico con il Calcio nella salute ossea. È di particolare interesse per uno sportivo, in quanto la vitamina D stimola la sintesi proteica e la contrazione muscolare.

La fonte primaria di vitamina D è per tutti il sole, il quale, grazie ai suoi raggi ultravioletti trasforma un derivato del colesterolo presente nella pelle nel precursore D3, la quale sarà poi attivata a livello di fegato e reni.

Per i vegani quindi il fabbisogno di vitamina D dipende dall’esposizione al sole e all’assunzione di cibi fortificati. Perciò chi sta ad alte latitudini può avere forti carenze di vitamina D poiché l’esposizione al sole è inadeguata per diversi mesi all’anno (Webb, 1998).

Un altro problema per i vegani è che la vitamina D2, la forma di vitamina assumibile dai vegani, è sostanzialmente meno biodisponibile della vitamina D3 di derivazione animale (Trang, 1998).

L’assunzione quotidiana raccomandata per la Vitamina D è di 400 IU (Fuhrman, 2010).

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Quindi per assicurare un’adeguata fonte di vitamina D3, specialmente durante l’inverno, i vegani dovrebbero:

- Consumare cibi fortificati con vitamina D come latte di soia, latte di riso, cerali da colazione e succo d’arancia.

- Integrazione preventiva di vitamina D soprattutto nei mesi invernali. Sempre raccomandabile per i vegani più anziani (Craig, 2014; Rogerson, 2017).

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5.1.4 Zinco

Lo zinco è un micronutriente coinvolto nei processi metabolici, nella stabilizzazione del DNA, nell’espressione genica, importante nella crescita e riparazione cellulare e nel metabolismo proteico (Institute of Medicine, 2001).

Come il ferro, lo zinco è largamente presente nelle fonti vegetali ma non è facilmente assorbibile. Per questo motivo l’IOM ha suggerito che i vegetariani dovrebbero consumare il 50% in più di zinco rispetto ai soggetti che non seguono una dieta vegetariana, per il fatto che lo zinco è meno biodisponibile nelle fonti vegetali. Seguendo le raccomandazione dell’IOM, si suggerisce agli uomini vegani di consumare 16,5 mg/giorno di zinco (contro l’RDA di 11 mg/giorno) e alle donne vegane di consumare 12 mg/giorno di zinco (contro l’RDA di 8 mg/giorno) (Fuhrman, 2010).

Per soddisfare le raccomandazioni descritte sopra, i vegani dovrebbero:

- Consumare cibi di zinco come: semi di zucca e canapa, cereali, noci e fagioli.

- Se questo non fosse possibile dovrebbe essere presa in considerazione un’integrazione (Craig, 2014; Rogerson, 2017).

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5.1.5 Ferro

Il ferro è un oligoelemento ed è presente nel nostro organismo nell’ordine di pochi grammi ma rimane comunque un micronutriente essenziale e imprescindibile. Il ferro svolge un ruolo fondamentale nel trasporto dell’ossigeno: è necessario per la formazione sia di emoglobina che della mioglobina.

L’emoglobina, proteina globulare contenuta nei globuli rossi, si lega con l’ossigeno nei polmoni e lo trasporta fino ai tessuti corporei. La mioglobina, contenuta nelle fibre muscolari, si combina con l’ossigeno e lo immagazzina per quando verrà richiesto. La carenza di ferro è diffusa in tutto il mondo: il problema principale associato a questa condizione è l’anemia sideropenica che comporta una riduzione del livello di emoglobina e diminuisce la capacità di trasporto di ossigeno del sangue. La carenza di ferro è più frequente nelle donne che nell’uomo dovuto dalle perdite mestruali (Wilmore, 2004). Per quanto riguarda i vegani, il ferro contenuto nelle fonti vegetali viene assorbito più difficilmente di quanto non accada con le fonti animali. Non è una questione di quantità assoluta bensì di biodisponibilità: nella carne una buona parte del ferro contenuto si trova legato ad una struttura chiamata EME, la quale facilita il passaggio a livello intestinale, mentre il ferro vegetale è sprovvisto di tale struttura EME di supporto (Hunt, 2002).

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Secondo Hunt, i vegetariani dovrebbero aumentare dell’80% le assunzioni raccomandate di ferro per la popolazione generale. Per questo motivo, chi segue una dieta vegetariana dovrebbe assumere 14 mg/giorno di ferro per gli uomini e 33 mg/giorno di ferro per le donne, dati i problemi di biodisponibilità sopracitati (Hunt, 2002).

I vegani perciò dovrebbero:

- Incrementare l’assunzione di Ferro per sopperire alla minor biodisponibilità. Le fonti vegetali non mancano: cereali integrali, frutta secca, legumi, cacao, verdure a foglia verde (su tutte il radicchio).

- Consumare cibi ricchi di vitamina C per migliorare notevolmente l’assorbimento del ferro non-EME.

- Considerare l’integrazione in caso di grave deficit di ferro (Craig, 2014; Rogerson, 2017).

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5.1.6 Calcio

Il Calcio è abbondante in una larga scelta di fonti alimentari, specialmente nei latticini. Studi recenti indicano che i soggetti che seguono una dieta vegana consumano meno Calcio rispetto agli onnivori e agli altri vegetariani (Davey, 2003).

Infatti, è stato riscontrato come i vegani Canadesi consumassero solo 578 mg/giorno rispetto ai 950 mg/giorno degli onnivori e agli 875 mg/giorno dei latto-ovo vegetariani (Janelle, 1995).

I bassi livelli di assunzione di Calcio hanno dimostrato che i vegani erano sottoposti ad un maggior rischio di fratture ossee (Ho-Pham, 2009).

I bambini e gli adolescenti hanno bisogno di richieste maggiori di calcio per la fase di crescita ossea, ragione per la quale bassi dosaggi sono particolarmente problematici per questa fascia d’età (Panel on Dietary Reference Values, Great Britain, 1991; Theobald, 2005).

È ampiamente raccomandata un’adeguata assunzione di calcio necessario per la coagulazione del sangue, per la trasmissione dell’impulso nervoso, per la stimolazione muscolare, per il metabolismo della vitamina D e per il mantenimento della struttura ossea (Ross, 2011).

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Perciò, è stato proposto che la RDA per il calcio fosse di 1000 mg/giorno, sufficiente per andare incontro alle richieste della popolazione in attività in molti contesti, tant’è che gli atleti non hanno bisogno di richieste elevate di questo micronutriente (Kunstel, 2005).

Per fare in modo di raggiungere la dose minima poco sopra proposta, gli atleti vegani dovrebbero:

- Consumare fonti vegetali di calcio come fagioli, legumi e vegetali a foglia verde. Broccoli, verze e Kale (un particolare tipo di cavolo riccio) sono particolarmente ricchi di calcio (Ross, 2011).

- Fare attenzione alle fonti alimentari che contengono ossalato, come spinaci e rucola, che impediscono il corretto assorbimento di calcio (Theobald, 2005).

- Esistono molti prodotti calcio-fortificati vegan-friendly come yogurt vegetali, cereali da prima colazione, latte e succhi di frutta. Fortemente consigliata la consumazione (Craig, 2014; Rogerson, 2017).

- Nel caso in cui non si riuscisse a raggiungere la quota raccomandata, è raccomandabile l’utilizzo di un integratore (Phillips, 2005).

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5.1.7 Iodio

Lo iodio è un micronutriente essenziale per la crescita fisica e mentale, gioca un ruolo importante nel metabolismo della tiroide e del metabolismo (Institute of Medicine, 2001).

Assunzioni troppo superiori o troppo inferiori rispetto alle raccomandazioni di Iodio possono condurre a disfunzioni tiroidee: è possibile che i vegani a seconda delle scelte alimentari possano andare incontro ad una o all’altra condizione (Lightowler, 2009; Lightowler 1998).

I goitrogeni, antinutrienti in grado di influenzare in negativo l’assorbimento di iodio, sono presenti nei vegetali cruciferi ovvero cavoli, cavolfiori e rape. La soluzione più efficace per ridurre la loro azione negativa sulla funzionalità tiroidea e sul metabolismo dello iodio è quella di cuocere i vegetali sopra indicati (Fields, 2009).

L’assunzione giornaliera raccomandata di Iodio è di 150 μg/giorno (Institute of Medicine, 2001).

Perciò, i soggetti che seguono una dieta vegana dovrebbero:

- Ricercare le alghe marine, soprattutto quelle brune originarie del Giappone (Kombu e Wakame), che sono ricche di iodio. Anche se la quantità di iodio rimane altamente variabile (Institute of Medicine, 2001).

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- Fare attenzione alle le fonti alimentari di goitrogeni che potrebbero influenzare negativamente l’assorbimento di iodio. - È preferibile l’utilizzazione del sale iodato, inoltre lo iodio è possibile trovarlo nelle patate e nei mirtilli americani (Phillips, 2005; Craig, 2014; Rogerson, 2017).

5.1.8 Riflessioni

Quindi, la dieta vegana è conciliabile con l’attività sportiva di un atleta professionista?

Certo, ma la dieta deve necessariamente essere seguita con criterio e con la consapevolezza di avere possibili e potenziali carenze. Se con la dieta onnivora si può incorrere più facilmente a sindrome metabolica e obesità, con la dieta vegana è più probabile incappare in carenze nutrizionali (soprattutto di Vit. B12).

È inoltre importante fare attenzione alle informazioni che vengono divulgate sul web, non affidandosi a cuor leggero a fantomatici dietologi che smerciano la Dieta Vegana come il Sacro Graal delle diete, perché non basta privarsi dei prodotti di derivazione animale per seguire una corretta “vegan-friendly diet”.

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CAPITOLO 6 LE COORDINATE SPERIMENTALI

6.1 Disegno dello Studio

Per lo studio sono stati arruolati 20 soggetti di età media pari a 33 anni presso la sezione Dipartimentale di Medicina dello Sport dell’Università di Pisa. Dopo averne valutato gli stili di vita attraverso un questionario (Eating Habits), sono stati suddivisi in due gruppi: un gruppo di soggetti vegani (di cui 9 di sesso femminile e 1 di sesso maschile) e un gruppo di onnivori (di cui 9 di sesso femminile e 1 di sesso maschile). Successivamente i due gruppi sono stati sottoposti a valutazione della composizione corporea (misurazione del peso, dell’altezza, del BMI e delle circonferenze corporee) e del metabolismo basale mediante calorimetria indiretta. Tutti i pazienti hanno dato il consenso informato allo studio e lo studio è stato approvato dal Comitato Etico Nord-Ovest Toscano.

6.2 Calorimetria Indiretta

Il metabolismo del glucosio e dei grassi dipende dalla disponibilità di O2 con produzione di CO₂ e acqua. Sulla base di queste conoscenze si può valutare il dispendio calorico misurando i gas respiratori. Questo metodo di valutazione del dispendio energetico è definito CALORIMETRIA INDIRETTA.

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