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"VALUTAZIONE DELLO STATO VITAMINICO E DEI FATTORI DI RISCHIO ASSOCIATI A IPOVITAMINOSI D IN UNA POPOLAZIONE MULTIETNICA DI MADRI E LORO NEONATI"

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INDICE

Riassunto………….………….………….………….………….………….……… pag. 2 Introduzione

- Scoperta del concetto di vitamina D……….………….………….…………. pag. 5

- Fisiologia del sistema endocrino della vitamina D……….……… pag 6

- Effetti metabolici di 1α,25(OH)2 vitamina D3……….………….……… pag 10

- Deficit di vit. D: effetti su scheletro ed altri apparati……….…………. pag. 12

- Fattori di rischio di ipovitaminosi D……….………….………….…………. pag 17

- Apporti vitaminici consigliati in età pediatrica……….………….……… pag 19

- Vit. D, gravidanza, benessere fetale e neonatale……….………….……. pag 21 Scopo dello studio………….………….………….………….………….………. pag 26 Popolazione………….………….………….………….………….……….. pag 26 Materiali e Metodi………….………….………….………….……….. pag 27 Risultati.

- Caratteristiche socio-demografiche dei 2 gruppi……….………….…… pag 31

- Confronto risultati tra i 2 gruppi……….………….………….………….…. pag 33

- Analisi delle caratteristiche del gruppo a rischio……….………….…… pag 36 Conclusioni………….………….………….………….………….………….……… pag 39 Bibliografia……….………….………….………….………….………….…………. pag 44

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RIASSUNTO

Obiettivo: Determinare la prevalenza di ipovitaminosi D in

donne in gravidanza e nei loro neonati e esaminare i fattori associati alla carenza di vitamina D.

Metodi: - Somministrazione di un questionario a donne sane in

gravidanza a termine per rilevare dati socio-demografici, abitudini culturali e alimentari, fototipo cutaneo.

- Assegnazione coppia madre-bambino a due gruppi: un gruppo a rischio (gruppo di studio) di donne in gravidanza con la pelle nera o che non espongono la loro pelle alla luce solare (n = 93) e un gruppo di controllo di donne in gravidanza senza fattori di rischio noti (n = 92)

- Determinazione di calcio, fosforo, fosfatasi alcalina, fosfatasi alcalina ossea, vitamina D e livelli di ormone paratiroideo su campione di sangue venoso sangue di cordone ombelicale e materno.

Risultati: Livelli di vitamina D erano significativamente più bassi

nelle donne del gruppo di studio rispetto al gruppo di controllo: 33,0 ng / ml vs 58,9 ng / ml (p <0,001).

Il 29% delle donne in gravidanza a rischio aveva valori <20ng/ml, il 25% aveva un valore di 20-30ng/ml e solo il 46% aveva livelli sopra 30ng/ml.

I livelli di PTH erano nettamente superiore nel gruppo di rischio rispetto al gruppo di controllo: 48,4 vs 33,0 (p <0.001). La concentrazione di 25OH-VitD3 era significativamente più

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controllo: 29.0 ng / ml vs 44.0 ng / ml (p <0.001). 46% dei bambini del gruppo a rischio aveva valori inferiori a 20ng/ml e solo il 38% aveva valori di protezione. 20 dei 27 neonati di madri con ipovitaminosi D del gruppo a rischio presentavano valori di vitamina D <20ng/ml, dimostrando una forte correlazione tra i livelli materni di VITD e quelli trovati nel sangue del cordone ombelicale.

Conclusioni: I nostri dati confermano che le donne con la pelle

scura e di quelli che non si espongono al sole hanno livelli di vitamina D inferiori e loro bambini sono ad alto rischio di ipovitaminosi D.Una supplementazione con adeguate quantità di vitamina D durante la gravidanza è necessaria per prevenire la carenza di vitamina D neonatale. Secondo le linee guida di Endocrine Society, il fabbisogno consigliato di vitamina D per le donne in gravidanza è di 1400 UI al giorno. Allo stesso tempo è importante sottolineare l'utilità della somministrazione di vitamina D per tutti i bambini fin dai primi giorni di vita. L'apporto minimo consigliato è di 400 UI al giorno per il primo anno.

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Introduzione

La scoperta del concetto di vitamina D

Benchè rachitismo, scorbuto, beri beri ed altre malattie simili fossero conosciute da secoli, le cause rimasero ignote fino agli inizi del 20° secolo.

Funk per primo ipotizzò l’esistenza di “amine vitali” presenti in alcuni cibi, importanti per la salute e la sopravvivenza (1), ma non riuscì a dimostrare direttamente la loro esistenza.

Più tardi McCollum e collaboratori scoprirono l’esistenza di un fattore liposolubile contenuto nell’olio di fegato di merluzzo capace di prevenire la xeroftalmia e di un fattore idrosolubile in grado di curare il beri beri (2,3); Mc Collum riprendendo l’idea visionaria di Funk chiamò queste sostanze vitamine, A e B rispettivamente. Poco più tardi venne scoperto un altro fattore idrosolubile, in grado di prevenire lo scorbuto, che fu quindi chiamato vitamina C.

I tempi erano maturi per la scoperta della vitamina successiva. Fu Sir Edward Mellanby in Gran Bretagna un secolo fa, colpito dall’ elevata incidenza di rachitismo nel Regno Unito a riprendere il lavoro di McCollum, ipotizzando che anche il rachitismo potesse essere una malattia carenziale. Dimostrò che era possibile curare cuccioli di cane che avevano sviluppato rachitismo, nutriti con la stessa semplice dieta dei suoi concittadini (e mantenuti

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merluzzo (4). Pensò che il merito fosse della vitamina A, ma McCollum ancora dimostrò che olio di fegato privato di questa vitamina manteneva la capacità di prevenire il rachitismo. Concluse quindi che il fattore curativo era un’altra sostanza, la vitamina D (5).

Nello stesso periodo altri ricercatori dimostrarono che era possibile curare bambini affetti da rachitismo esponendoli alla luce solare a raggi UV artificiali. (6)

Steenbook concluse che un lipide inattivo presente sia nella dieta che sulla cute poteva essere convertito dai raggi ultravioletti in una sostanza attiva, capace di prevenire e curare il rachitismo. (7) Anni dopo Holick ed altri dimostrarono che un precursore della vitamina D si forma sulla cute umana per effetto delle radiazioni UV (8); Esvelt isolò ed identifò la vitamina D3 grazie alla spettrometria di massa. (9).

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Fisiologia del sistema endocrino della vitamina D

La fisiologia della vitamina D, dalla sintesi cutanea alla formazione del metabolita attivo, venne pienamente compresa nella seconda metà degli anni ’70.

Il colecalciferolo non è una vitamina nel senso proprio del termine, in quanto può essere prodotto dal nostro organismo attraverso l’esposizione a raggi UV.

I raggi UV B (lunghezza d’onda 290-350 nm) penetrano la cute e convertono il 7-deidrocolesterolo in previtamina D che viene rapidamente trasformata in vitamina D (8).

La fotoproduzione è soggetta ad una serie di variabili, quali entità di esposizione ai raggi UV (che dipende da latitudine, stagione, uso di schermi solari, abbigliamento), pigmentazione della cute, età (10). L’esposizione massiccia a raggi UV determina la degradazione di vitamina D a prodotti inattivi, prevenendo eccesso di produzione.

Normalmente solo il 10% della vitamina D in circolo deriva effettivamente dalla dieta. Essa è presente in natura sottoforma di vitamina D2 (ergocalciferolo, di origine vegetale) e D3 (colecalciferolo, di origine animale).

La tabella 1 riporta i contenuti vitaminici medi di alimenti e integratori e una stima dell’apporto di vitamina D fornito dall’esposizione ai raggi UV.

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Una volta in circolo, la vitamina D si lega ad una proteina specifica (DBP) e viene trasportata al fegato, dove è convertita ad opera dell’enzima 25-idrossilasi in 25(OH)vitamina D, conosciuta anche come calcidiolo. Due sono gli enzimi maggiormente coinvolti in questo processo di idrossilazione, l’enzima CYP27A mitocondriale e l’enzima CYP2R1 microsomiale.

Il calcidiolo è quindi convertito nel rene a 1α,25(OH)2 vitamina D, forma metabolicamente attiva. In particolare 25(OH) vitamina D legata alla DBP penetra all’interno delle cellule tubulari renali attraverso uptake mediato da recettore, degradazione di DBP e internalizzazione endocitica; subisce quindi traslocazione mitocondriale e all’interno dei mitocondri viene sottoposta ad idrossilazione ad opera di un’enzima chiamato 1α idrossilasi renale (CYP27B1) (12). L’attività di questo enzima è regolata da una quantità di fattori: calcio e fosoforo sierico, fattore di crescita fibroblastico 23, ormone paratiroideo (PTH), ormone GH, IGF1, calcitonina. La stessa 1α,25(OH) vitamina D regola la propria produzione attraverso un meccanismo di feedback negativo (13). La 1α,25(OH)2 D induce la propria degradazione attivando la 25-idrossivitamina D-24-idrossilasi (24-Ohasi) che conduce al catabolismo di 25(OH) e 1α25(OH)2 vitamina D a molecole idrosolubili metabolicamente inattive, come l’acido calcitroico. La vitamina D è un ormone steroideo e il metabolita attivo è il ligando per un fattore trascrizionale, un recettore intracellulare chiamato recettore della vitamina D (VDR), espresso ampiamente

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l’espressione di geni i cui promoter contengono una specifica sequenza DNA (VDRE). Una serie di fattori trascrizionali, coattivatori e coregolatori, provvedono a conferire specificità di target, tessuto e contesto di azione.

Il VDR può anche reprimere l’espressione genica interferendo con l’attività di fattori di trascrizione attivanti o reclutando specifiche proteine che determinano repressione trascrizionale.

Il recettore della vitamina D è stato inizialmente localizzato nei tessuti implicati nella regolazione della omeostasi del calcio: intestino, osso e rene.

Verosimilmente alcune delle azioni della vitamina D vengono mediate anche da recettori di membrana non nucleari, che agiscono più velocemente. Essi potrebbero regolare effetti rapidi sullla membrana , quali attività del canale cloro-calcico, attivazione e distribuzione della proteina C kinasi e attività della fosfolipasi C (14).

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Effetti metabolici di 1α,25(OH)2 vitamina D

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L’effetto principale, il più conosciuto, la vitamina D lo esercita sul metabolismo calcio-fosforo, contribuendo all’omeostasi di questi minerali, alla normale calcificazione della cartilagine di accrescimento, alla mineralizzazione delle ossa ed altre importanti funzioni metaboliche. Aumenta l’efficacia di assorbimento intestinale di calcio da 10-15% a 30-40%, attraverso l’espressione di trasportatori di calcio presenti nell’epitelio intestinale e di una proteina legante il calcio chiamata calbindina, che svolge probabilmente il ruolo di trasporto attivo di calcio attraverso l’enterocita.

Allo stesso modo si stima che aumenti l’assorbimento intestinale di fosforo da 50-60% ad 80% (15,16).

Il VDR regola l’espressione di numerosi geni della matrice ossea, stimolando la differenziazione e l’attività degli osteoclasti.

Inibisce direttamente la screzione di PTH a livello delle ghiandole paratiroidi, completando un feedback negativo. La secrezione di PTH è inibita anche dall’aumento della calcemia indotto da 1α,25 (OH)2 vitamina D.

Nuovi siti di azione

Negli ultimi anni VDR è stato trovato in oltre 35 tessuti che non sono coinvolti nel metabolismo dell’osso. Si stima che il sistema endocrino della vitamina D sia responsabile della regolazione di 100-1250 geni (0,5-5% del totale del genoma umano) (19, 20).

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L’enzima 25(OH)-1α-idrossilasi, che converte la 25(OH)D nella forma attiva 1α,25(OH)2D, è presente a basse concentrazioni in molti altri cellule e tessuti oltre al tubulo prossimale renale, quali osso, placenta, prostata, cheratinociti, macrofagi, linfociti T, cellule dendritiche, cellule cancerose, cellule della ghiandola paratiroide. Il calcitriolo quindi potrebbe avere sia effetti autocrini, agendo su recettori di superficie delle stesse cellule da cui è prodotto, sia effetti paracrini, agendo su cellule adiacenti (16).

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Deficit di vitamina D: effetti su scheletro ed altri apparati

Vitamina D scheletro e muscoli

Nei bambini e negli adolescenti il deficit di vitamina D determina demineralizzazione ossea, deformazioni ossee, sviluppo di rachitismo. Una carenza di vitamina D non severa influisce comunque sul metabolismo osseo, impedendo all’organismo in crescita di raggiungere il picco di massa ossea.

Il deficit di vitamina D determina ridotto reclutamento e differenziazione di osteoclasti in osteoclasti maturi e ridotta sintesi di proteine negli osteoblasti. Causa indirettamente riduzione della mineralizzazione ossea per ridotto assorbimento intestinale di calcio e fosforo e per iperparatiroidismo compensatorio.

Nell’adulto deficit ed insufficienza di 25 (OH) vitamina D sono associati a dolore muscolare, sviluppo di osteomalacia, osteoporosi, aumentato rischio di frattura di femore e di altre fratture non vertebrali, non solo per l’effetto che la vitamina esercita sulla densità ossea ma anche per l’azione protettiva e trofica che ricopre sul tessuto muscolare.

Vitamina D e infezioni

L’associazione tra rachitismo infantile e rischio di infezioni respiratorie è nota già da un secolo. La vitamina D venne utilizzata per il trattamento della tubercolosi prima della scoperta di chemioterapici ed antibiotici (27, 29).

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Gli attuali studi epidemiologici su popolazioni numerose e alcuni trial clinici randomizzati confermano la correlazione inversa tra incidenza di infezioni delle prime vie respiratorie e i livelli sierici di 25(OH) vitamina D (28,30).

Negli ultimi anni numerosi sforzi sono stati fatti per comprendere i meccanismi sottostanti gli effetti della vitamina D sull’immunità. Le cellule macrofagiche, una volta venute a contatto con alcuni patogeni (come Mycobacterium tuberculosis), aumentano l’espressione di VDR e 1α idrossilasi determinando produzione di 1α,25 (OH)2 D che stimola con meccanismo autocrino la sintesi di catelicidina, un peptide antimicrobico in grado di distruggere l’agente infettivo(16) .

Vitamina D e autoimmunità

Molti studi osservazionali hanno dimostrato associazione tra deficit di vitamina D e malattie autoimmuni quali artrite reumatoide, lupus eritematoide sistemico, sclerosi multipla, diabete mellito tipo 1, malattie infiammatorie croniche intestinali, psoriasi (31).

La 1α,25 (OH) 2D ha azioni anti-infiammatorie e antiproliferative, determina down-regulation della sintesi di TNF-α e riduzione della risposta aspecifica delle cellule T, sopprime la produzione di citochine da parte dei linfociti T helper Tipo 1 (Th1) a favore di citochine Th2.

Ipoteticamente 1α,25(OH)2D prodotta all’interno dei macrofagi potrebbe agire per via paracrina su linfociti T e linfociti B,

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regolando la sintesi di mediatori immunitari e immunoglobuline (16).

Un trial randomizzato effettuato in Finlandia ha evidenziato che la supplementazione con vitamina D durante l’infanzia è associata in età adulta ad un ridotto rischio di sviluppare diabete di tipo I, ma aumentato rischio di malattia atopica (Th2 mediata), suggerendo che l'effetto della vitamina D sulla funzione delle cellule immunitarie può avere implicazioni cliniche a lungo termine (32).

Vitamina D e neoplasie

Anni fa alcuni studi evidenziarono una correlazione tra latitudine, frequenza e mortalità per cancro di colon, mammella e prostata (33). Venne ipotizzata un associazione tra deficit di vitamina D e sviluppo di neoplasie, confermata da alcuni studi prospettici successivi (34).

Ricerche recenti suggeriscono che la vitamina D regoli la crescita cellulare, inibisca la proliferazione, induca la differenziazione nelle cellule sane, riduca l’angiogenesi e incrementi l’apoptosi delle cellule neoplastiche (35).

Vitamina D e malattie cardiovascolari

E’ stato evidenziato che il deficit di vitamina D è associato ai comuni fattori di rischio per malattie cardiovascolari, alle malattie cardiovascolari stesse, alla mortalità cardiovascolare e che esso stesso può essere considereato fattore di rischio cardiovascolare (36).

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L’esatto meccanismo attraverso il quale un’adeguata concentrazione di vitamina D protegga da tali malattie non è noto, sappiamo che essa regola il flusso di calcio all’interno delle cellule miocardiche, la proliferazione della matrice extracellulare, la secrezione dei peptidi natriuretici atriali, il sistema renina angiotensina e quindi di conseguenza la pressione arteriosa (37, 38).

Vitamina D, obesità e sindrome metabolica

Attualmente lo studio della relazione tra vitamina D e adiposità rappresenta un importante settore della ricerca. L'epidemia di obesità in continua espansione è stata associata ad una prevalenza crescente di carenza di vitamina D.

Allo stato attuale la maggior parte degli studi di coorte osservazionali e longitudinali suggeriscono questa relazione, ma sono necessari studi randomizzati controllati perché certe conclusioni possano essere fermamente stabilite e possano essere stabiliti rapporti di causa-effetto.

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Fattori di rischio per ipovitaminosi D

I principali fattori di rischio per deficit o carenza di vitamina D nella popolazione pediatrica si sono dimostrati essere: stagione invernale, trascorrere poco tempo all'aperto, etnia non-bianca, età e stadio puberali avanzati, obesità, basso consumo di latte (fortificato), basso status socio-economico e genere femminile (21). La variabilità stagionale ha un impatto importante sullo status vitaminico; i livelli di vitamina D sono più bassi in inverno, rispetto a primavera, estate e autunno.

In alcuni studi è stato evidenziato che le ragazze sono particolarmente a rischio di ipovitaminosi D, questo probabilmente a causa di stili di vita, uso frequente di creme solari o copertura della cute con indumenti che potrebbero influenzare la sintesi cutanea di vitamina D (22).

Prove crescenti suggeriscono che ci sono differenze tra le diverse etnie in merito a concentrazione sierica di 25OH vitamina D. Soggetti di pelle nera hanno livelli plasmatici inferiori a quelli dei bianchi, ciò può essere attribuito principalmente alla diminuzione della sintesi cutanea di vitamina D a causa di una maggiore pigmentazione della pelle (23,24).

Un altro fattore che contribuisce all’aumentato rischio di sviluppare deficit di vitamina D è l’obesità. La 25(OH)D è liposolubile, tende a legarsi al tessuto adiposo e a ridurre così la propria biodisponibilità (25). Alcuni studi hanno infatti

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livelli sierici di 25(OH)D e 1α,25(OH)2D e una associazione positiva tra BMI e PTH (26)

Inoltre determinano deficit di vitamina D alcuni farmaci come gli antiepilettici, i barbiturici e la rifampicina che causano un aumento del catabolismo della vitamina.

Infine altri fattori di rischio per il deficit di vitamina D sono la malnutrizione, il malassorbimento, l’insufficienza epatica e l’insufficienza renale.

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Apporti vitaminici consigliati in età pediatrica

Recentemente, in seguito al miglioramento delle conoscenze su metabolismo, funzioni, concentrazioni target di vitamina D, abbiamo assistito ad un profondo cambiamento culturale che ha portato al superamento del concetto di prevenzione del rachitismo a favore di un concetto più ampio di prevenzione di ipovitaminosi D (39).

Allo stesso modo negli ultimi anni gli apporti di vitamina D consigliati durante l’età evolutiva hanno subito alcuni cambiamenti.

Ad esempio la American Academy of Pediatrics (AAP) fino al 2008 indicava che 200 UI al giorno di vitamina D erano sufficienti a prevenire il rachitismo da deficit di vitamina D (40). Tuttavia studi successivi hanno dimostrato che segni di rachitismo potevano essere presenti anche in bambini che mostravano concentrazioni di 25-OH-vitamina D precedentemente considerate protettive (41).

Queste evidenze hanno condotto la AAP a modificare gli apporti di vitamina D consigliati in età pediatrica (42).

Per quanto riguarda l’Italia gli ultimi LARN (Livelli di Assunzione Raccomandati di Nutrienti) risalgono al 1996 (43). Recentemente un comitato appartenente alla Endocrine Society ha stilato linee guida pratiche riguardo a valutazione, trattamento e prevenzione del deficit di vitamina D.

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Dalle raccomandazioni emerge come gli apporti consigliati dagli esperti e dalle società preposte abbiano finora avuto come obiettivo la prevenzione del rachitismo nel lattante, nel bambino e nell’adolescente, ma non esiste nessuna evidenza che ci assicuri che questi apporti garantiscano tutti i potenziali benefici associati alla vitamina D (17).

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Vitamina D, gravidanza, benessere fetale e neonatale

Madre e feto hanno sistemi autonomi di produzione di 1α,25 (OH) vitamina D, sistemi che sono in comunicazione tramite placenta, organo barriera tra circolazione materna e fetale.

La placenta controlla il passaggio di metaboliti della vitamina D in modo che 25 (OH) D possa attraversare liberamente la barriera mentre 1α,25 - (OH) 2D venga bloccata (46). Questo spiega perché nel sangue cordonale la concentrazione di 25 (OH) D è in genere circa 75-100% dei valori materni a termine di gravidanza, mentre 1,25 - (OH) 2D è il 25-40% dei livelli materni (47).

Dal 1970 sappiamo che trofoblasto e decidua materna possono convertire 25 (OH) D a 1α,25 - (OH) 2D, grazie all’ espressione di CYP27B1 (48).

La nefrectomia materna non altera le concentrazioni di 24,25-diidrossivitamina D o 1,25 - (OH) 2D fetale, confermando che questi metaboliti sono sintetizzati in modo indipendente dall'unità feto-placentare (49).

Per quanto riguarda la madre, i livelli materni di 1α,25-(OH)2 D raddoppiano o triplicano durante la gravidanza, mentre i livelli liberi non aumentano fino al terzo trimestre (47). Questa produzione sovrafisiologica sembra svincolata dai normali meccanismi feedback regolati da calcio e paratormone. Per spiegare gli elevati valori materni di 1,25 (OH)2 D è stata spesso chiamata in causa la placenta, ma questo non è corretto. I modelli

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suggeriscono che la placenta contribuisce solo ad una piccola quota dell’1α,25 - (OH) 2D presente nella circolazione materna (50). In definitiva si può affermare che il calcitriolo prodotto dall’unità feto-placentare non influisce sui valori materni.

Nel 1983 veniva segnalato che recettori della vitamina D (VDR) erano localizzati anche nella placenta; studi successivi hanno confermato che trofoblasto, sacco vitellino, e decidua di esseri umani, pecore, topo e ratto esprimono VDR (51).

La 1α,25-(OH)2 D prodotta dalla placenta potrebbe regolare per via autocrina, paracrina o endocrina difese immunitarie, impianto del trofoblasto, scambio di nutrienti e gas, emopoiesi, produzione di ormoni, crescita e sviluppo fetale.

Omeostasi del calcio e integrità scheletrica

La vitamina D è senz’altro importante per l’omeostasi del calcio e l’integrità scheletrica del feto e del neonato.

Il deficit di vitamina D materno è associato a complicanze neonatali che comprendono ipocalcemia con o senza convulsioni, sviluppo precoce di rachitismo (craniotabe) e difetti dello smalto dentario (52,53).

Il deficit materno di vitamina D durante la gestazione potrebbe inoltre avere un impatto sul benessere scheletrico nelle fasi successive della vita: all'età di nove anni bambine le cui madri durante la gravidanza avevano concentrazioni carenti o insufficienti di 25(OH) vitamina D mostravano contenuto minerale osseo ridotto rispetto ai controlli (54).

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Sappiamo che durante la gravidanza il metabolismo del calcio materno subisce notevoli modificazioni: aumentano assorbimento intestinale di calcio e mobilizzazione di calcio dalle ossa.

Studi su modelli animali suggeriscono che la gravidanza stessa sovraregola a questi cambiamenti, indipendentemente dal sistema vitamina D – VDR (55). I dati di un recente trial clinico randomizzato sembrano confermare la relativa mancanza di effetto della vitamina D sui sistemi omeostatici di calcio e scheletro durante la gravidanza (56).

Effetti non scheletrici della vitamina D in gravidanza

I risultati degli studi effettuati su modelli animali e linee cellulari fanno ipotizzare che 1α,25(OH)2 vitamina D possa agire per via paracrina o autocrina influenzando la crescita del trofoblasto e la risposta ad infezioni e infiammazione. La perdita di tali azioni potrebbe creare situazioni predisponenti allo sviluppo di preeclampsia, infezioni placentari e insufficienza placentare, parto pretermine e disturbi immuno-correlati (ad esempio, diabete di tipo 1).

La ricerca negli ultimi anni ha cercato di dimostrare la correlazione tra status vitaminico ed esiti della gravidanza, ma i livelli di evidenza sono ancora molto bassi, in parte per la scarsa numeosità delle popolazioni in esame.

Alcuni studi osservazionali hanno rilevato che bassi valori materni di 25 (OH) D predicono un aumento del rischio di parto pretermine , minaccia di parto pretermine (57) e taglio cesareo

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(58), altri studi al contrario non hanno trovato associazioni significative con questi outcome (59,60) .

Il significato di questi studi è complessivamente mal valutabile dal momento che essi differiscono nel metodo di misurazione di 25 (OH) D, e nei cut-off utilizzati per definire la carenza di vitamina D. Sono inoltre gravati da importanti fattori di confondimento che potrebbero predire sia bassa concentrazione di 25 (OH) vitamina D sia gli outcome in esame, tra cui razza/etnia, sovrappeso/obesità materna, status socio-economico più basso, cattiva alimentazione (61).

Un altro filone di studi di associazione ha provato ad eplorare il concetto di “programmazione fetale”, secondo il quale qualsiasi stimolo o insulto in un momento tanto delicato dello sviluppo avrebbe un effetto permanente sulla struttura, sulla fisiologia o sulla funzionalità della persona.

Un apporto dietetico materno più elevato di vitamina D durante la gravidanza è stato associato con una diminuzione della prevalenza di anticorpi anti-cellule insulari e di diabete nei bambini (62), ma non tutti gli sudi hanno confermato questa associazione (63). Alcuni autori hanno riscontrato che una maggiore assunzione materna di vitamina D durante la gravidanza diminuisce il rischio di asma e malattie allergiche (64), mentre altri hanno segnalato che alti livelli materni di 25 (OH) D durante la gravidanza aumentano fino a 5 volte il rischio di queste condizioni (65).

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Gli altri dati disponibili provengono da trial clinici di supplementazione vitaminica versus placebo.

Come atteso, la supplementazione di vitamina D nella madre aumenta i livelli di 25 (OH) D nel sangue del cordone ombelicale del neonato (66), ma nessuno studio ha dimostrato alcun altro beneficio ostetrico, compresi quelli specificamente riferiti a preeclampsia, parto pretermine, basso peso alla nascita, infezioni, tagli cesarei, diabete gestazionale (56,67).

Gli studi citati, presi nel complesso, forniscono risultati spesso contraddittori e mancano prove che una maggiore assunzione di vitamina D durante la gravidanza prevenga eventuali esiti negativi non scheletrici.

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Scopo dello studio

Studi di prevalenza condotti in paesi come Stati Uniti, India, Grecia, Iran, Regno Unito, Olanda, Australia, Cina, Egitto, Turchia, affermano che il deficit di vitamina D è comune nelle donne in gravidanza, soprattutto tra quelle di pelle non bianca e/o abitualmente non esposta alla luce solare.

In Italia abbiamo a disposizione solo pochi dati che descrivano la frequenza di deficit vitaminico D in donne gravide e neonati (68,69), lo scopo del seguente studio è quindi quello di determinare la prevalenza di ipovitaminosi D in coppie madre-neonato di una comunità multietnica italiana e di stabilire una relazione tra deficit vitaminico e fototipo cutaneo/grado di copertura della cute.

Popolazione

Lo studio è stato avviato a giugno 2009 presso il Dipartimento Materno-infantile dell’Ospedale Santa Maria degli Angeli di Pordenone (latitudine 45°57'45" N) ed è terminato il 19 giugno 2010.

Sono stati arruolati donne a termine di gravidanza e loro neonati, escluse gravidanze complicate e/o neonati patologici.

Le coppie arruolate sono state suddivise in due gruppi di studio: Gruppo 1) donne di pelle nera o gravide che per motivi etnico religioso non espongono la cute alla luce solare (n=93)

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Gruppo 2) donne di pelle chiara senza fattori di rischio per ridotta sintesi cutanea di vitamina D (n=92).

Materiali e metodi

Tramite questionario dettagliato abbiamo rilevato le condizioni socioculturali della donna, il grado di pigmentazione cutanea, le abitudini in termini di esposizione quotidiana al sole, il tipo di abbigliamento, l’uso di vitamine e il tipo di alimentazione (consumo di latte, eventualmente fortificato, formaggi e yogurt, uova, burro, pesci grassi). Sono stati acquisiti dati riguardo l’età, il paese di provenienza, il titolo di studio (scuola elementare, media, superiore, laurea), l’attività lavorativa (operaia, impiegata, dirigente, casalinga, altro), la religione, l’eventuale uso del velo (completo o parziale).

L’identificazione del fototipo cutaneo è stata attuata tramite la classificazione di Fitzpatrick semplificata (I, II, III):

fototipo I: si ustiona facilmente e si abbronza lentamente e poco (capelli biondi, occhi chiari)

fototipo II: si ustiona poco e si abbronza sempre (capelli scuri, occhi marroni/scuri)

fototipo III: raramente si ustiona e si abbronza molto facilmente (marrone/nero)

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Abbiamo misurato le concentrazioni di calcio, fosforo, fosfatasi alcalina, fosfatasi alcalina ossea, 25 idrossi-vitamina D e paratormone su campioni di sangue periferico prelevato alla madre al momento del parto e su campioni di sangue di cordone ombelicale del neonato. I campioni di sangue materni e del neonato sono stati analizzati immediatamente dopo il prelievo.

Apparecchiature utilizzate

La concentrazione di 25 (OH) vitamina D è stata determinata con metodica radioimmunologica, tramite Gamma Counter Beckman GAMMA 5500 (limite di rilevabilità 0,6 ng/mL, intervalli di misura 0,6 – 154 ng/mL, accuratezza espressa come incertezza della misura: livello 38 bias 8.99% - livello 83 bias 8,45%).

Intervalli limite secondo Endocrine Society (17):

- sufficiente concentrazione di 25 (OH) vit. D: > 30 ng/mL - insufficiente concentrazione di 25 (OH) vit. D: 21-29 ng/mL - deficiente concentrazione di 25 (OH) vit. D : <20 ng/mL La concentrazione di paratormone (PTH) è stata misurata con dosaggio non competitivo in chemiluminescenza, tramite strumento Immulite (limite di rilevabilità 4 pg/mL, intervalli di misura 4-2500 pg/mL, accuratezza: livello 5 pg/mL bias -12,5% livello 37,1 pg/mL bias -9,6%).

Intervalli di riferimento: 12-72 pg/mL

Calcio, fosforo, fosfatasi alcalina sono stati misurati attraverso analizzatore automatico ADVIA SIEMENS.

(30)

Analisi statistica

I dati statistici descrittivi sono stati espressi come media ± ds e intervallo di range.

I confronti tra serie di dati a distribuzione normale sono stati eseguiti utilizzando test di Student, i dati a distribuzione non normale sono stati analizzati con il test di Mann-Whitney.

L’analisi di regressione lineare è stata utilizzata per dimostrare la dipendenza di due variabili.

(31)

Risultati

Caratteristiche socio-demografiche dei due gruppi

Le caratteristiche demografiche dei due gruppi di madri sono riportate nella tabella di seguito

L’età media materna è risultata sensibilmente più bassa tra le donne immigrate rispetto al gruppo di controllo: 29,7 anni (ds 5,7) per le prime e 33,2 anni (ds 5,4) per le seconde. La durata della

Gruppo controllo (n=92)

Gruppo studio

(n= 93) p

Età materna (anni, media -

ds) 33,2 (ds 5,4) 29,7 (ds 5,7) <0,001 Età gestazionale (sett,

media-ds) 39,5 (ds 1,0) 39,4 (ds 1,1) 0,420 Grado di istruzione (n, %) Elementari Medie Superiori Laurea 0 14 (41,3) 40 (43,5) 38 (41,3) 8 (8,6) 38 (40,8) 38 (40,8) 9 (9,7) <0,001 Attività lavorativa (n, %) occupata non occupata 77 (83,7) 15 (16,3) 18 (19,3) 75 (80,7) <0,001 Modalità di parto (n, %) Vaginale T. Cesareo programmato T. Cesareo urgente 69 (75,0) 16 (17,4) 7 (7,6) 61 (65,6) 16 (17,2) 16 (17,2) 0,143 Stagione al parto (n, %) inverno primavera estate autunno 20 (21,7) 39 (42,4) 8 (8,7) 25 (27,2) 21 (22,6) 38 (40,9) 11 (11,8) 23 (24,7) 0,915

Sesso del neonato (n, %) M F 52 (56,5) 40 (43,5) 43 (46,2) 50 (53,8) 0,162 Peso nascita (grammi,media-ds) 3345 (ds 370) 3307 (ds 402) 0.487

(32)

maggior parte dei parti è avvenuta per via vaginale in entrambi i gruppi. Non vi erano differenze significative tra il sesso del neonato e il peso alla nascita (il peso medio era di 3345g nel gruppo di controllo e di 3307g nel gruppo di studio).

La popolazione materna italiana aveva un titolo di studio significativamente più elevato rispetto alle donne immigrate (p<0,001). Anche dal punto di vista occupazionale le donne italiane lavoravano nel 77% dei casi, mentre le donne immigrate erano casalinghe nel 75% dei casi (p<0,001).

La distribuzione stagionale al momento del parto era simile in entrambi i gruppi.

La regione di provenienza, il fototipo cutaneo, la prevalenza e il tipo di velo utilizzato dalle donne nel gruppo a rischio sono riassunte di seguito

Sud Est Asia 26% America latina 10% Africa Sub-Sahariana 37% Nord Africa 27% F o t o t i p o 1 9 % F o t o t i p o 2 10 % F o t o t i p o 3 8 1% Non velate 70% Velo totale 19% Velo parziale 11%

(33)

50 1 0 0 1 5 0 0.p chiara 1.p scura vi td 3 _ m

Confronto risultati tra i due gruppi

I livelli di calcio, fosforo, fosfatasi alcalina e fosfatasi alcalina ossea non mostravano differenze significative tra i due gruppi di madri.

Al contrario i livelli di vitamina D erano sensibilmente più bassi nelle donne del gruppo di studio rispetto a quello di controllo: nel primo caso la media era di 33,0ng/ml (ds 21,4), nel secondo di 58,9ng/ml (ds 30,7) con p<0,001 (tab 2 , 3 e fig 1).

Anche per i livelli di paratormone vi erano differenze significative: 48,4 (ds 28,5) nel primo caso e 33,0 (ds 18,3) nel gruppo di controllo con p<0,001.

Tabella 1: risultato dosaggi su sangue materno suddivisi per gruppo di studio

Gruppo a rischio (n=93) media (ds)(range) Gruppo controllo (n=92) media (ds)(range) p Ca (mg/dl) 8.9 (0,5) (7,3-10,2) 9 (0,6) (7,2-11,1) 0,337 P (mg/dl) 3,9 (0,7) (2,2-5,5) 3,6 (0,7) (2,4-6,9) 0,002 FA (U/L) 187,2 (68.8) (57-418) 176,8 (55.7) (74-384) 0,411 VitD (ng/ml) 33,0 (21,4) (4,4-100,2) 58,9 (30,7) (11,4-149) <0,001 PTH (pg/ml) 48,4 (28,5) (14,4-155) 33,0 (18,3) (8,4-114,1) <0,001 Figura 1: distribuzione 25 (OH) vitamina D nei due gruppi di mamme (la linea centrale del rettangolo rappresenta la mediana, il lato inferiore del rettangolo rappresenta il 25esimo

(34)

Analizzando la concentrazione degli stessi metaboliti nei neonati appartenenti ai due gruppi si rileva che la 25 OH-VitD3 è significativamente più bassa nei neonati del gruppo di studio rispetto al gruppo di controllo: nei neonati del gruppo a rischio la media è risultata 29,0ng/ml (ds 20,6), nel gruppo di controllo 44,0ng/ml (ds 20,6) con p<0,001.

Come per le loro mamme non vi erano differenze tra i livelli di calcio, fosforo e fosfatasi alcalina.

Non abbiamo riscontrato differenze significative tra i livelli di paratormone da sangue cordonale dei due gruppi di neonati (tab 3).

Tabella 3: risultato dosaggi su sangue cordonale, suddivisi per gruppo di studio

Riportando i livelli di 25OHD ai range di riferimento (17), 27 donne del gruppo a rischio, ossia il 29%, aveva valori < 20ng/ml, 23 avevano un valore intermedio 20-30ng/ml e solo 42 donne concentrazioni di vitamina D considerate “protettive” (>

Gruppo a rischio (n=93) media (ds) (range) Gruppo controllo(n=92) media (ds)(range) p Ca (mg/dl) 10,3 (0,9) (7,7-11,9) 10,5 (1,2) (4-12,3) 0,08 P (mg/dl) 6,02 (1,1) (3,3-8,8) 5,9 (1,1) (3-9,2) 0,412 FA (U/L) 173,0 (54,1) (79-325) 173,1 (64,6) (88-543) 0.769 VitD (ng/ml) 29 (20,6) (5,9-95,9) 44 (23,7) (10,6-157) <0,001 PTH (pg/ml) 24,9 (30,8) (2,3-145,3) 20,1 (34,7) (2,2-189,9) 0.212

(35)

Tabella 4: valori di 25 (OH) vitamina D materna secondo i range di riferimento Gruppo a rischio N* (%) Gruppo di controllo N (%) P < 20ng/ml 27 (29%) 8 (9%) <0,001 20-30 ng/ml 23 (25%) 8 (9%) > 30 ng/ml 42 (46%) 77 (82%)

*1 madre con 25-OH-D non valutabile per campione insufficiente.

Tra i neonati, 41 del gruppo a rischio (46%) avevano valori di 25(OH)D inferiori a 20ng/ml, mentre 34 avevano valori protettivi. (tabella 5).

Nel gruppo di controllo solo 8 mamme e 15 neonati avevano livelli di 25OHD inferiori a 20ng/ml.

Tabella 5: valori di 25 (OH) vitamina D cordonale secondo i range di riferimento

Gruppo a rischio N* (%) Gruppo di controllo N (%) P < 20ng/ml 41 (46%) 15 (16%) <0,001 20-30 ng/ml 14 (16%) 14 (15%) > 30 ng/ml 34 (38%) 64 (69%)

(36)

Analisi delle caratteristiche del gruppo a rischio

Abbiamo rilevato una correlazione inversa significativa tra livelli di 25-OH D e concentrazione sierica di PTH nel siero materno:

Livelli materni di 25-OH D al di sotto della soglia dei 20 ng/ml sono risultati associati a:

 Livelli di PTH più alti (p<0,05)

 Concentrazioni di calcio più basse (p<0,05)  Parto nella stagione invernale (p>0,001)

I valori medi di vitamina D sono risultati significativamente inferiori nelle donne che indossavano il velo (24 ng/ml vs 38 ng/ml p<0,05) , mentre l’esposizione della cute al sole è risultata associata a livelli ematici protettivi > 30 ng/ml (p<0,05).

(37)

Concentrazioni di PTH materno al di sopra del valore soglia (72 pg/ml) sono risultate associate a:

 concentrazioni di 25 OH vitamina D significativamente inferiori (in media 18 ng/ml vs 37 ng/ ml p<0,01)

 calcemia significativamente inferiore (8,6 mg/dl vs 9 mg/dl p<0,05)

 valori di fosfatasi alcalina ossea in media più elevati (45 vs 32 p<0,01)

Dall’analisi comparata delle coppie madri-neonato del gruppo a rischio risulta esistere una stretta correlazione tra le concentrazioni di 25(OH) D materne e quelle cordonali (p<0,001).

Madri con valori ematici < 30 ng hanno partorito nel 76% dei casi neonati con livelli di 25 (OH) D cordonale < 20 ng/ml.

(38)

Livelli ematici materni >30 ng/ml risultano invece statisticamente associati a livelli protettivi su sangue di cordone (p<0,01).

(39)

DISCUSSIONE

In questo studio abbiamo riscontrato una differenza significativa nella prevalenza di deficit di vitamina D tra madri appartenenti a categorie a rischio per fototipo cutaneo ed esposizione cutanea alla luce solare e madri senza apparenti fattori di rischio.

Risultati simili sono stati rilevati in studi su popolazioni di differente etnie condotti negli Stati Uniti, Olanda, Iran, Cina, Grecia, Pakistan, Turchia, Somalia, Australia (70-72).

Abbiamo osservato valori medi di 25(OH) D significativamente inferiori nelle donne appartenenti alla categoria a rischio che hanno partorito durante la stagione invernale. Del resto è noto che la concentrazione di vitamina D è direttamente correlata a tempo e grado di esposizione alla luce solare (73) e variazioni stagionali simili durante la gravidanza sono già state segnalate da precedenti studi (74,75).

Abbiamo rilevato che all’interno del gruppo di donne a rischio quelle che avevano l’abitudine di esporre la cute alla luce del sole avevano più spesso delle altre concentrazioni ematiche sufficienti di vitamina D. Ciò suggerirebbe che anche a queste latitudini e anche tra donne con fattori di rischio, certi stili di vita influiscono significativamente sullo status vitaminico.

Vitamina D e PTH materno mostrano un discreto grado di correlazione inversa. Nelle gravide a rischio con deficit vitaminico conclamato (<20 ng/ml) i livelli di PTH al momento del parto

(40)

materno è risultato correlato a concentrazioni più basse di vitamina D e calcio e valori più elevati di fosfatasi alcalina.

Il PTH è considerato il più importante regolatore dell’omeostasi di calcio e fosforo nell’organismo e il suo rilascio è direttamente regolato dai livelli di calcio. Anche la vitamina D agisce a feeback su paratormone e il suo deficit a lungo termine può risultare in una perdita di questa funzione regolatoria.

Allo stesso modo delle madri, figli di donne del gruppo a rischio hanno mostrato una concentrazione media di vitamina D cordonale notevolmente inferiore rispetto ai neonati dell’altro gruppo.

Il 61% dei neonati di madri a rischio aveva valori di 25(OH) D non protettivi.

Abbiamo verificato una strettissima correlazione tra livelli di vitamina D materni e livelli di vitamina D del cordone ombelicale del neonato, in accordo con numerosi altri studi. Ciò conferma il che i livelli di 25 (OH)D della madre hanno un ruolo chiave nel determinare il volume delle riserve del neonato (46).

Le concentrazioni medie di PTH nei due gruppi di neonati non differiscono significativamente, a differenza di quello che abbiamo osservato analizzando i risultati del PTH materno. Questo non deve stupire perchè il rilascio di PTH è regolato principalmente dalla concentrazione ematica di calcio, la quale nel feto è determinata dal trasporto attivo placentare, che garantisce alti livelli di questo minerale e quindi soppressione della

(41)

L’alta incidenza di deficit di vitamina D in gravidanza è un problema rilevante perchè neonati figli di madri carenti di vitamina D avranno probabilmente riserve vitaminiche ridotte nelle fasi precoci della vita.

I nati da madri con scarse riserve di vitamina D sono particolarmente a rischio di sviluppare deficit vitaminico nelle prime settimane di vita (43,44). Ipovitaminosi D neonatale è un fattore di rischio noto per lo sviluppo di ipocalcemia (con o senza convulsioni), rachitismo ad esordio precoce (craniotabe del lattante), difetti dello smalto dentario (52,53).

La concentrazione di vitamina D materna sembra anche influire in maniera determinante sul benessere scheletrico del bambino nelle età successive (54).

La ricerca futura potrà chiarire se questo deficit di mineralizzazione nell’infanzia aumenta il rischio di fratture osteoporotiche nella vita adulta.

Gli effetti extrascheletrici a lungo termine del deficit di vitamina D sono in gran parte sconosciuti, ma dobbiamo prendere atto che spesso nuove evidenze suggeriscono associazioni tra ipovitaminosi D e malattie autoimmuni, cancro, cardiopatie, sindrome metabolica.

E’ quindi possibile che alterazioni del sistema endocrino della vitamina D in un momento così delicato dello sviluppo come la vita fetale abbiano effetti permanenti sulla struttura, sulla fisiologia e sul benessere dell’individuo.

(42)

Studi di coorte in follow up potranno meglio definire i potenziali effetti avversi correlati a deficit di vitamina D in utero (76).

Migliorare lo status vitaminico generale della popolazione e in particolare delle donne in gravidanza potrebbe avere un impatto ancora poco immaginabile per la salute pubblica.

L’AAP consiglia la profilassi con 400 UI di vitamina D al giorno ad ogni bambino di età inferiore ai 12 mesi che non assuma almeno 1 litro al giorno di latte formulato supplementato (40). Secondo le raccomandazioni di Endocrine Society del 2011 nei pazienti a rischio la profilassi può essere somministrata a dosi maggiori (400-1.000 UI/die nel primo anno di vita)(17).

Riteniamo che pazienti a rischio possano essere considerati i figli di madri con pelle scura o che non espongono la propria cute all’azione dei raggi solari.

Allo stato attuale i paesi che praticano lo screening materno per 25(OH) vitamina D al 1°-2° trimestre di gestazione sono molto pochi, del resto non ci sono dati precisi che suggeriscano quali siano i livelli desiderabili di 25(OH) vitamina D per le donne gravide. Vengono comunemente utilizzati i limiti generali fissati da Endocrine Society o da IOM (17,77), nonostante alcune evidenze facciano ipotizzare che la produzione di vitamina D durante la gravidanza sia sovraregolata e che quindi la definizione di tali valori potrebbe essere sottostimata.

Non esiste un accordo unanime sul quantitativo di vitamina D giornaliero che la donna in gravidanza dovrebbe assumere.

(43)

Le linee guida al proposito variano da paese a paese, e all’interno dello stesso paese da istituzione a istituzione.

Ad esempio le linee guida IOM, formulate attraverso la valutazione dei risultati di trial clinici randomizzati, suggeriscono un apporto giornaliero in gravidanza compreso tra 400-600 UI. (77).

Bisogna considerare che l’efficacia di un trattamento integrativo con vitamina D può variare in base alla popolazione a cui viene proposto, che può avere differenti abitudini alimentari, utilizzare cibi già fortificati, presentare uno status vitaminico di base migliore rispetto ad un altra popolazione. Tuttavia risultati di studi recenti suggeriscono che questi quantitativi sono generalmente insufficenti per assicurare livelli di vitamina D protettivi per madre e feto, anche se prendiamo come punto di riferimento i valori soglia più bassi (70,76).

Endocrine Society, utilizzando tutta la vasta produzione scientifica disponibile, dai trial clinici agli studi osservazionali ritenuti di buona qualità, ha di recente stilato linee guida per la prevenzione e il trattamento dell’ipovitaminosi D, secondo le quali il quantitativo minimo consigliato in gravidanza è di 1400 UI (17). Le linee guida di Canadian Academy of Paediatrics consigliano un apporto di 2000 UI/die.

Un recente trial clinico randomizzato ha rilevato che 4000 UI al giorno non determinano comparsa di effetti da sovradosaggio ed assicurano livelli di vitamina D adeguati (76).

(44)

In conclusione possiamo affermare che il problema del deficit di vitamina D in gravidanza è conosciuto da anni, come del resto lo sono alcune delle conseguenze negative che esso comporta sulla madre e sul feto.

Il fatto che questo ed altri studi osservazionali su popolazioni continuino a rilevare tassi di prevalenza elevati, soprattutto ma non solo all’interno dei gruppi considerati a rischio, indica che molto ancora si può fare in termini di prevenzione e di salute pubblica.

Sono necessari trials randomizzati controllati di supplementazione di vitamina D, allo scopo di verificare i dati osservazionali e suggerire la necessità di un adeguato status vitaminico materno in gravidanza per un ottimale sviluppo scheletrico del bambino.

Una volta che la ricerca avrà compreso quali siano le reali richieste di vitamina D durante la gravidanza, il medico avrà a disposizione linee guida chiare e condivise da applicare con regolarità nell’attività clinica quotidiana.

(45)

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