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Il più antico testimone di Palladio volgare: il codice Lucca, Biblioteca Statale, 1293. Edizione e studio linguistico.

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UNIVERSITÀ

DI

PISA

Facoltà di Lettere e Filosofia

Corso di Laurea Magistrale in Lingua e Letteratura Italiana

Tesi di Laurea

Il più antico testimone di Palladio volgare:

il codice Lucca, Biblioteca Statale, 1293.

Edizione e studio linguistico

RELATORI CONTRORELATORE Prof. Mirko TAVONI Prof. Luca D’ONGHIA Prof. Claudio CIOCIOLA

Candidata Valentina NIERI

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Premessa

Questo lavoro raccoglie i primi risultati di uno studio complessivo sui volgarizzamenti italiani dell’Opus agriculturae di Palladio Rutilio Tauro Emiliano.

L’acquisizione più rilevante consiste nell’indentificazione di una nuova versione del volgarizzamento, tràdita — oltre che da un malnoto manoscritto (Bologna, Biblioteca Universitaria, 1789) — da un testimone da me riscoperto (Lucca, Biblioteca Statale, 1293): il codice di Lucca, che al momento risulta essere il più antico (sec. XIV p.q.) dell’intera tradizione di Palladio volgare, costituisce, dunque, un elemento chiave nella storia del testo.

Nell’ambito di un progetto più ampio, che prevede l’edizione dei tre volgarizzamenti e la compilazione di un glossario sinottico dei tre testi, si forniscono qui uno studio approfondito del codice lucchese, da un punto di vista sia codicologico-paleografico sia storico-linguistico, e l’edizione del testo da esso tràdito.

La mia ricerca sui volgarizzamenti di Palladio si colloca all’interno del progetto DiVo (Dizionario dei Volgarizzamenti), coordinato presso la Scuola Normale Superiore di Pisa e l’Opera del Vocabolario Italiano di Firenze da Giulio Vaccaro e Elisa Guadagnini. Ringrazio Giulio Vaccaro per la lettura e i preziosi consigli.

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4

Introduzione

IL MANUALE DI PALLADIO: L’AUTORE E L’OPERA

La figura storica di Palladio Rutilio Tauro Emiliano, autore di un trattato di agricoltura in lingua latina composto da tredici libri (Opus agriculturae) — cui si aggiungono un quattordicesimo libro De veterinaria medicina e un Carmen de insitione in distici elegiaci1 — è «purtroppo evanescente»2.

Verosimilmente fu un proprietario terriero originario della Gallia — come farebbero pensare i molti riferimenti a pratiche agricole dei territori settentrionali3 —, ma con possedimenti in Italia, sicuramente in Sardegna (cfr. Opus agriculturae, IV.X.16: «[...] quod ego in Sardinia territorio Neapolitano in fundis meis comperi»4).

Alcuni studiosi ritengono che si tratti dello stesso Palladio, parente di Rutilio Namaziano, citato nel De reditu suo (I, 208-12: «Palladium, generis spemque decusque mei. / Facundus iuvenis Gallorum nuper ab arvis / missus Romani discere iura fori, / illae meae secum dulcissima vincula curae / filius affectu, stirpe propinquus habet»), ma l’assenza di prove più consistenti che non la compatibilità con l’origine gallica e la qualifica di facundus (attribuita a Palladio anche da Cassiodoro; vedi infra), impediscono di far passare in giudicato tale ipotesi5.

1 I tre testi si leggono nell’edizione di R

ODGERS 1975a, da cui sono tratte le citazioni del testo latino.

2 DALMASSO 1915, p. 85. 3

Questa l’ipotesi di DALMASSO 1915, pp. 90-93, accettata da MAGGIULLI 1982, pp. 129-31. Tale collocazione geografica sarebbe avvalorata anche da calcoli di tipo astronomico legati alla lunghezza delle ombre citata da Palladio nei capitoli sulla determinazione delle ore, che individuerebbero una latitudine corrispondente alla Gallia settentrionale (HARRIS 1882, p. 416).

4 Il passo, così edito da R

ODGERS 1975a e, prima di lui, da SCHMITT 1898, ha suscitato negli editori

alcune perplessità per la menzione di un territorium Neapolitanum in Sardegna. Già l’edizione aldina (VENEZIA 1514), correggeva: «in Sardinia [et] in territorio Neapolitano», correzione accolta nell’edizione di GESNER 1734, interpretando l’indicazione Neapolitanum come un riferimento a

Napoli. In realtà, la lezione del testo (mantenuta nelle edizioni di Rodgers e Schmitt) è perfettamente giustificata, poiché si tratta, come ha ben dimostrato Gigliola Maggiulli, di un riferimento all’antica città sarda di Neapolis, oggi nel comune di Giuspini. La studiosa riporta, a sostegno di questa lettura, le conclusioni di Bellieni circa i numerosi riferimenti a pratiche agricole tipicamente sarde all’interno dell’Opus agriculturae (cfr. MAGGIULLI 1982, pp. 123-24).

5 A favore dell’identificazione dell’autore dell’Opus agriculturae con il Palladio citato da Rutilio Namaziano si sono espressi Dalmasso (1915, p. 89) e, più recentemente, Martin (1971, p. 24, n. 1), mentre Maggiulli ritiene che tale ipotesi non possa che rimanere una «pura supposizione» (MAGGIULLI 1982, p. 130); scettico si dichara anche Di Lorenzo (2006, p. 14). Altrettanto sterili sono

(7)

5 Siamo invece in grado di ricavare informazioni più certe relativamente all’epoca in cui Palladio visse. Nell’Opus agriculturae l’opera più tarda citata è il De hortis di Gargilio Marziale, databile ante 260 d.C. — anno della morte dell’autore6 —, che può dunque essere assunto come terminus post quem. Studi più recenti, inoltre, hanno confermato l’ipotesi di Oder secondo cui Anatolio di Berito sarebbe il tramite da cui Palladio trasse le citazioni di Democrito e Apuleio, così che il terminus post quem si potrebbe abbassare al 360, anno di morte di Anatolio7, ma la Maggiulli propone di posticiparlo ulteriormente al 372, anno cui risale l’istituzione — da parte dell’imperatore Valentiniano — del titolo di vir illustris, che accompagna spesso il nome di Palladio sia nella tradizione manoscritta sia nelle fonti indirette8.

È Cassiodoro, invece, a fornirci un sicuro terminus ante quem per la composizione del trattato, menzionando l’opera di Palladio nelle sue Institutiones composte nel 540 d.C.9; anche in questo caso la Maggiulli ritiene che si possa ulteriormente delimitare il periodo da considerare, proponendo come terminus ante quem l’invasione vandala della Sardegna (455 d.C.), le cui conseguenze sul territorio furono tali che Palladio, proprietario di territori caduti sotto la nuova dominazione, non avrebbe potuto tacerne nella sua opera10.

L’arco cronologico così individuato (372-455) coincide con il momento in cui, causa la progressiva crisi dell’Impero, vi fu un ritorno alla coltivazione della terra e al sistema di villae autosufficienti: perfettamente compatibile con tale contesto sarebbe dunque il modello di villa descritto nell’Opus agriculturae11, che si presenta come un vero e proprio manuale per la gestione della proprietà da parte del dominus. LORENZO 2006, p. 14, ma già DALMASSO 1915, pp. 83-87 aveva mostrato come i tentativi di identificazione di Pasifilo non avessero condotto a risultati soddisfacenti).

6

Cfr. DALMASSO 1915, p. 83 e DI LORENZO 2006, p. 13. Su Gargilio Marziale si veda MAIRE 2002 (alle pp. XI-XIV le informazioni biografiche).

7 O

DER 1890, pp. 70, 79 e poi SVENNUNG 1927, p. 168 e RODGERS 1975b (Svennung — ed è ipotesi

accolta da Rodgers — ritiene che Palladio si riferisca ad Anatolio attraverso la generica indicazione

Graeci, che più volte compare nel testo). La proposta di Oder sulla dipendenza di Palladio da Anatolio

sembrerebbe essere accolta dalla Maggiulli, per quanto la studiosa si limiti a citarla in nota — peraltro con imprecisioni nel riferimento bibliografico (MAGGIULLI 1982, p. 122, n. 6, dove si rinvia a ODER

1890, p. 58, n. 70). Per la cronologia di Anatolio di Berito, cfr. PORTMANN 1996. 8 M

AGGIULLI 1982, p. 126 e n. 24; più precisamente, la studiosa proporrebbe come terminus post

quem il 380, sostenendo che prima di tale data il titolo non costituisse una qualifica di rilievo tale da

poter diventare parte integrante del nome, così come avviene nel caso di Palladio. La proposta, tuttavia, non è argomentata in modo stringente ed è più prudente attenersi al termine sicuro del 372. 9 Vedi infra, La fortuna del testo, p. 6.

10 M

AGGIULLI 1982, pp. 125-26.

11 Sulla coerenza fra collocazione cronologica dell’opera e contesto storico cfr. D

I LORENZO 2006, pp.

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6 Dei tredici libri, il primo offre un’introduzione generale, trattando principalmente di come scegliere il sito di costruzione della villa, di quali edifici si componga quest’ultima e di quali siano gli strumenti per il lavoro dei campi; i restanti dodici corrispondono ognuno a uno dei mesi dell’anno, costituendo una sorta di calendario dei lavori della villa. Il testo, così come gli altri due facenti parte del corpus Palladianum, offre perlopiù informazioni di seconda mano: Palladio, infatti, fa propri i contenuti di altre opere, attingendo a diverse fonti a seconda dell’argomento in esame12. Se Columella è la fonte principale per la coltivazione dei cereali, per la viticoltura e per l’allevamento13, l’epitome di Vegezio eseguita da Faventino è l’ipotesto dei capitoli sull’edilizia, mentre da Gargilio Marziale sono tratte le informazioni su giardini e frutteti14.

LA FORTUNA DEL TESTO

Dell’ampia circolazione dell’Opus agriculturae sono testimoni i circa cento manoscritti noti15, mentre assai meno fortunati furono gli altri due testi di Palladio: se il Carmen de insitione conta diciassette testimoni16, il De veterinaria medicina è tràdito nella sua interezza da un solo codice, Milano, Biblioteca Ambrosiana, C 212 inf. (sec. XIII ex - XIV in) 17, individuato nel 1925 da Svennung18: si tratta dell’unico manoscritto a contenere tutti e tre i testi insieme.

La fortuna del manuale di Palladio si lega soprattutto alle caratteristiche proprie dell’opera; si legga, a questo proposito, il passo relativo agli scriptores rei rusticae delle Institutiones di Cassiodoro:

12 R

ODGERS 1975b, p. 8, COSSARINI 1978, p. 179, n. 13eDI LORENZO 2006, p. 18.

13

Proprio grazie alla stretta dipendenza dalla fonte, il XIV libro De veterinaria medicina costituisce una testimonianza fondamentale per ricostruire la sezione di mulomedicina dell’opera di Columella, il cui testo ci è giunto assai lacunoso (RODGERS 1975b, p. 10 e n. 44).

14 RODGERS 1975b, p. 9 e DI LORENZO 2006, pp. 18-27. 15

RODGERS 1975a, p. VII e RODGERS 1975b, p. 15. I codici più antichi sono tutti di origine francese, in particolare del nordest, mentre a partire dal X secolo si trovano anche codici di area tedesca. A seguito dell’invasione normanna, il testo fu portato in Inghilterra, come testimoniano i codici lì prodotti nel XII secolo. Il più antico codice copiato in Italia è l’Ambrosiano (vedi infra), non anteriore alla fine del XIII secolo (cfr. RODGERS 1975b, pp. 66-68).

16 R

ODGERS 1975b, p. 59.

17 Ibid., p. 45. 18 S

VENNUNG 1926. La scoperta dell’esistenza di un quattordicesimo libro consentì di risolvere

l’enigma dei vv. 3-4 del Carmen, in cui si fa riferimento a quattordici libri sull’agricoltura («Bis septem parvos, opus agricolare, libellos / quos manus haec scripsit, parte silente pedum»). A Svennung si deve anche il più ampio studio esistente sulla lingua e lo stile di Palladio (SVENNUNG

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7 Quod si huius studii requirantur auctores, de hortis scripsit pulcherrime Gargilius Martialis, qui et nutrimenta holerum et uirtutes eorum diligenter exposuit, ut ex illius commentarii lectione praestante domino unusquisque et saturari ualeat et sanari; quem uobis inter alios codices reliqui. Pari etiam modo in agris colendis, in apibus, in columbis necnon et piscibus alendis inter ceteros Columella et Emilianus auctores probabiles extiterunt. Sed Columella sedecim libris per diuersas agriculturae species eloquens ac facundus illabitur, disertis potius quam imperitis accommodus, ut operis eius studiosi non solum communi fructu, sed etiam gratissimis epulis expleantur. Emilianus autem facundissimus explanator duodecim libris de hortis uel pecoribus aliisque rebus planissima lucidatione disseruit, quem uobis inter alios lectitandum domino praestante dereliqui19.

L’Opus agriculturae si distingue, dunque, per la chiarezza della lingua, offrendosi al lettore senza l’ostacolo di una ricercatezza stilistica quale quella del trattato di Columella, adatto a disertis potius quam imperitis; questa sembra essere una scelta stilistica programmatica dell’autore, se si considera ciò che egli stesso scrive in apertura dell’opera (I.I.1):

Neque enim formator agricolae debet artibus et eloquentiae rhetoris aemulari, quod a plerisque factum est, qui dum diserte locuntur rusticis adsecuti sunt ut eorum doctrina nec a disertissimis possit intellegi.

L’intento dichiarato è dunque quello di fornire un manuale intellegibile e adatto alle necessità del pubblico cui si rivolge, rinunciando a una maggiore cura retorica e letteraria20. Non si dovrà, tuttavia, pensare che vi fosse l’intento di rivolgersi a un pubblico “popolare”, poiché la lettura del testo era comunque appannaggio dei ceti istruiti e non dei più umili lavoratori delle terre. I destinatari dell’opera, coerentemente con quella che Cossarini ha definito «ideologia della terra» di Roma antica, sono infatti i proprietari terrieri che, come Palladio stesso aveva fatto con i rerum rusticarum scriptores che lo avevano preceduto, si servivano di questo tipo di testi per imparare a gestire le proprie risorse e a organizzare i lavori delle proprie

19 M

YNORS 1961, pp. 71-72. Il fatto che Cassiodoro menzioni dodici libri e non tredici è

probabilmente dovuto al ricordo dell’impostazione strutturale dell’opera secondo il calendario dei mesi e non all’esistenza di una diversa versione in dodici libri (DI LORENZO 2006, p. 29).

20 Da ciò non si deve concludere che a Palladio mancassero i mezzi stilistici; il Carmen de insitione è prova di notevole padronanza degli strumenti poetici e nei libri in prosa, come messo in luce nello studio stilistico di Svennung (1935), l’autore dimostra di non rinunciare all’impiego di artifici retorici (DI LORENZO 2006, pp. 17-18).

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8 tenute21. Lo stesso uso ne fecero, più tardi, i numerosi conventi nelle cui biblioteche si trovavano copie dell’opera22.

Tornando al testo, la dichiarazione iniziale di Palladio trova effettivamente riscontro non solo nella lingua, ma anche nella struttura dell’opera. Il latino del trattato, infatti, presenta una sintassi piuttosto semplificata, in cui si succedono periodi brevi e con pochissime subordinate; più complessa è invece la tessitura lessicale, in virtù della densità di termini tecnici impiegati dall’autore. Da un punto di vista strutturale, poi, l’organizzazione dei contenuti sulla base di una scansione annuale dei lavori e la presenza di moduli ricorrenti nella distribuzione dei contenuti all’interno dei singoli libri23 ne consentono una fruizione per consultazione — e quindi più rapida — in luogo della lettura integrale e continua24.

A questi elementi intrinseci si aggiunse, nel medioevo, un fattore contingente che rese attuale e interessante il testo, ossia l’assimilabilità della villa descritta nel trattato alla curtis, mentre ormai anacronistico era il sistema del latifondo con manodopera schiavile descritto da Columella25. Proprio il medioevo fu forse il momento di maggior fortuna dell’opera principale di Palladio, che non solo venne copiata in tutta Europa nella versione latina, ma iniziò anche a essere tradotta26.

21 Cfr. C

OSSARINI 1978, p. 178, n. 11: «Il trattato, per impostazione ideologica, stile, espressa

indicazione dei destinatari, si rivolge ai tradizionali interlocutori degli scrittori latini di agricoltura, i medio-grandi proprietari terrieri» e p. 181: «la gestione della scienza agricola è nelle mani della proprietà terriera, che in tal modo non si limita a possedere la terra e ad affidarla ai suoi praesules, ma ne controlla e dirige la produttività, traducendo in termini operativi il sapere agricolo che possiede. L’aristocrazia terriera legge gli antichi trattati di agricoltura, ne scrive di nuovi e ne insegna i precetti ai praesules e agli schiavi subordinati».

22

Sull’importanza delle abbazie cistercensi nella conservazione e uso dei testi agronomici latini, ivi compreso Palladio, cfr. MARTIN 1971, p. 34, n. 4, a p. 35. Per ciò che riguarda il medioevo, tuttavia,

non si dovrà insistere troppo sull’uso pratico del testo, o quantomeno non considerarlo esclusivo, dal momento che la tradizione del testo conosce testimoni assai pregiati, corredati di costosi apparati iconografici, per i quali si dovrà pensare a un intento collezionistico-librario oltre che a un uso concreto dell’opera.

23 Ad esempio, l’ultimo capitolo di ogni libro riguarda la determinazione delle ore del giorno sulla base della lunghezza delle ombre e quasi in ogni libro sono ricorrenti i capitoli relativi ad argomenti quali apicoltura, viticoltura e arboricoltura, spesso con lo stesso titolo (De hortis, De pomis, etc.). 24 D

I LORENZO 2006, p. 27; MARTIN 1971, p. 34, n. 4, a p. 35.

25 Questa l’opinione di A

MBROSOLI 1983, che scrive a p. 16: «l’azienda di Palladio sembrava più

vicina alla curtis medievale, legata a problemi di sussistenza e autarchia dal mercato dei prodotti e del lavoro, e non raccomandava costose lavorazioni fondate sul lavoro schiavistico tendenti alla produzione mercantile, come aveva fatto il massimo esperto di agricoltura della Roma del I secolo, Columella».

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9 Trecenteschi sono due volgarizzamenti catalani, uno aragonese27 e tre toscani28, mentre al secolo successivo risale un volgarizzamento in middle English29. Non si conoscono, invece, volgarizzamenti di area francese30, forse perché la traduzione dei Ruralium Commodorum Libri XII di Pier de’ Crescenzi — commissionata nel 1373 da Carlo V — fu considerata sufficiente a dotare la Francia di un testo di riferimento31.

Nei secoli successivi, il testo iniziò a circolare anche a stampa: molte furono le edizioni del testo latino che seguirono la prima del 1472 di Nicolas Jenson32, nelle quali il testo di Palladio era sempre inserito all’interno di raccolte di rerum rusticarum scriptores33, ma quest’epoca conobbe anche numerose traduzioni del testo34. Il XVI secolo vide fiorire le traduzioni italiane, dalla prima di Pietro Marino

27 Per il primo volgarizzamento catalano, inedito, si veda lo studio di CAPUANO 2006. Il secondo volgarizzamento catalano, anch’esso inedito, è stato attribuito da Tramoyeres Blasco a un funzionario di Eleonora d’Aragona, Ferrer Sayol, sulla base del prologo presente nell’unico testimone, il codice 6437 della Biblioteca del Ajuntamiento di Valencia; la presenza dello stesso prologo nel manoscritto che conserva la versione aragonese (Madrid, Biblioteca Nacional de España, 10211) ha portato lo studioso a estendere l’attribuzione a Sayol anche a questa versione, che considera direttamente tradotta dalla catalana (cfr. TRAMOYERES BLASCO 1911a e TRAMOYERES BLASCO 1911b). Tale ipotesi attributiva, ancora accettata da Capuano nella sua edizione della versione aragonese (CAPUANO 1990 e già CAPUANO 1987), è stata smentita sia da BUTIÑA JIMÉNEZ 1996, sia, più recentemente, da

MARTÍNEZ ROMERO 2008.

28 Vedi infra, I volgarizzamenti italiani.

29 Si tratta di un volgarizzamento di particolare interesse sia perché fu eseguito su commissione per volontà del Duca Humphrey di Gloucester tra il 1439 e il 1447 circa (tale collocazione cronologica si basa sulla datazione del manoscritto originario del Duca), sia perché è il solo volgarizzamento noto in cui l’opera di Palladio sia stata resa in versi. Del testo esiste un’edizione ottocentesca (LIDDLE 1896),

basata sul codice appartenuto al Duca (Oxford, Bodleian Library, Duke Humfrey d.2), con la collazione di un secondo testimone (Oxford, Bodleian Library, Add. A 369). Di quest’ultimo codice esiste anche una precedente edizione (LODGE 1873). Liddle, contrariamente a Lodge, considerava il

codice Add. A 369 posteriore a quello appartenuto al Duca (LIDDLE 1896, p. VI). Dell’edizione di Lodge fu eseguita poco dopo una ristampa (LODGE 1879). Sulle difficoltà per il volgarizzatore inglese nel comprendere, e quindi tradurre, il lessico botanico del testo - il cui referente principale è una flora prettamente mediterranea, e sconosciuta, dunque, in territorio inglese - si veda AMBROSOLI 1983, pp. 27-31.

30 Nulla è emerso dal recente censimento compiuto all’interno del progetto Transmédie, i cui risultati sono stati pubblicati in GALDERISI 2011.

31

Questa l’ipotesi di Ambrosoli (1983, p. 20). Sul volgarizzamento di Crescenzi — o Rustican — cfr. NAÏS 1957, in partic. pp. 116-32.

32 VENEZIA 1472 (IGI 8853). 33

Così, ad esempio, l’edizione aldina (VENEZIA 1514), l’edizione di COMMELIN 1585, di GESNER

1734 e di SCHNEIDER 1794-97. La prima edizione critica delle opere di Palladio, comprendente -

essendo antecedente la scoperta del codice ambrosiano - solo i tredici libri dell’Opus agriculturae e il

Carmen, fu curata da Schmitt per Teubner nel 1898 (SCHMITT 1898).

34 Un recente censimento delle antiche traduzioni italiane di Palladio si legge in A

CCORTI 2000, pp.

177b-78b. Rispondendo all’istanza dello stesso Accorti (p. XLIII:«È evidente da quanto anticipato nella premessa che questa Bibliografia non può considerarsi un lavoro concluso. Solo la collaborazione di utenti critici potrà emendare gli errori e le imprecisioni, approfondire i dubbi e integrare le parti mancanti. Dunque un invito alla collaborazione affinché giungano osservazioni

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10 da Foligno35 alla più famosa di Francesco Sansovino36, mentre, nel 1553, l’Opus agriculturae conobbe la sua prima traduzione in lingua francese37. Dell’opera circolarono anche traduzioni parziali, come quella — di cui dà notizia l’Argelati — dei soli capitoli sulle ore38.

Per completare il quadro della fortuna di Palladio sarebbe sicuramente necessario un approfondito studio di tipo intertestuale, con lo scopo di valutare l’utilizzo che si fece, dal medioevo in poi, sia dell’originale latino che delle traduzioni volgari. Sappiamo infatti che dell’Opus agriculturae latino si servirono sia Vincenzo di Beauvais nello Speculum doctrinale (VI, 16-149)39, sia Brunetto Latini nel Tresor (III, 5-9)40, oltre al già citato Pier de’ Crescenzi, che vi attinse a piene mani. Anche per ciò che riguarda i volgarizzamenti italiani è possibile individuare tracce della loro lettura in altri testi: per esempio, se ne servì Antonio Pucci per alcuni precetti agricoli riportati nel suo Libro di varie storie41.

circostanziate. Fin d’ora grazie»), si segnalerà che delle dieci traduzioni italiane citate, ben cinque sono in realtà edizioni del testo latino (si tratta dei testi inventariati con i numeri 2445 [IGI 8853], 2446 [IGI 8854], 2450, 2451, 2452); inoltre, si cita fra le traduzioni anche l’edizione di uno dei volgarizzamenti (ZANOTTI 1810, inventariato con il numero 2454); infine, tre delle edizioni latine (2450, 2451, 2452), datate 1541, 1543 e 1549, vengono erroneamente indicate con il titolo dell’edizione della traduzione del Sansovino (vedi infra, n. 36), stampata nel 1560.

35

SIENA 1526; questa traduzione conobbe anche due successive ristampe: VENEZIA 1528 e VENEZIA

1538 (cfr. AMBROSOLI 1983, p. 26).

36 V

ENEZIA 1560 (cfr. AMBROSOLI 1983, pp. 26-27).

37 PARIS 1553. 38

ROMA 1545; cfr. ARGELATI 1747, vol. IV, pp. 350-51. 39 Cfr. l’incipit del cap.

XVI: «Palladius in libro de Agricultura» (BEAUVAIS 1624, p. 491).

40 BELTRAMI 2007, p. XVII. 41

Varvaro sostiene che Pucci avesse letto il volgarizzamento I sulla base di tre soli esempi selezionati (in cui si mettono a confronto il Libro e i volgarizzamenti I e II), a fronte — a detta dello studioso — di un numero piuttosto ampio di citazioni di Palladio nel testo (VARVARO 1957, p. 376). Dei tre

esempi, tuttavia, solo due sembrerebbero indicare una dipendenza da I, mentre il terzo indicherebbe piuttosto la lettura di II (in nessun caso è ipotizzabile un rapporto, invece, con il volgarizzamento III). Indipendentemente da quale versione (o quali versioni) sia la fonte di Pucci - il che andrà comunque approfondito sulla base dell’intera serie di citazioni di Palladio nel Libro -, si tratta di una prova notevole della circolazione del testo e del suo essere considerato fonte autorevole per gli insegnamenti di agricoltura.

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I volgarizzamenti italiani

La Toscana della prima metà del Trecento conobbe tre volgarizzamenti dell’Opus agriculturae. Diversi per lingua, modalità di traduzione, struttura del testo, tradizione manoscritta e sorte editoriale, i testi, pur anonimi, si presentano con profili ben individuabili, che si cercherà di delineare nei capitoli seguenti.

Mettendo a frutto le suggestioni e le linee di ricerca degli studi42, si illustreranno

le caratteristiche dei singoli volgarizzamenti e si darà conto delle nuove acquisizioni relativamente alla tradizione manoscritta, affiancando alle due versioni già note agli studi (I e II), la terza (III), testimoniata dal codice lucchese43.

Si concluderà con un confronto di tipo stilistico fra i tre testi, proponendo alcune ipotesi circa le tipologie di traduzione offerte dai tre volgarizzatori.

IL PALLADIO DELLA CRUSCA

La versione I è quella che ha goduto di più ampia diffusione nella tradizione manoscritta; agli undici testimoni noti (Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, Plut. 43.12, Plut. 43.28, Segni 12; Nazionale Centrale, II.II.92, Conv. Sopp. D.I.835,

Pal. 562; Riccardiana, 1646 e 2238; Napoli, Biblioteca Nazionale “Vittorio Emanuele III”, XIII F 13; Parigi, Bibliothèque Nationale de France, ital. 930; Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana, ital. XI. 100)44, la mia recensio ne ha aggiunti altri due: Harpenden (Hertfordshire), Rothamsted Experimental Station Library, ms s.n.45 e Siena, Biblioteca Comunale degli Intronati, I. VII. 846, per un

42 Si vedano M

ARCHESI 1907, pp. 414-32, AMBROSOLI 1983, pp. 15-43 e FROSINI 1993, pp. 48-49; il

merito di Ambrosoli è soprattutto quello di segnalare nuovi testimoni, mentre le informazioni relative al testo dei volgarizzamenti sono alquanto inesatte: nessuna distinzione viene fatta tra i volgarizzamenti I e II, ma ci si riferisce a una sola «traduzione [...] attribuita al notaio Andrea Lancia e databile al 1350» che «fu uno dei testi in prosa preferiti dall’Accademia della Crusca per la compilazione del Dizionario» (p. 20); inoltre, lo studioso interpreta gli spogli per i Vocabolario del Salviati (vedi infra) come prove di edizione del testo: «Il proposito della pubblicazione completa del testo [...] rimase allo stato di una serie di note manoscritte, probabilmente di mano del Salviati» (ibid.).

43 I nomi delle versioni sono quelli stabiliti in NIERI 2013; diversamente MARCHESI 1907 indicava le

versioni I e II come A e B rispettivamente.

44 Si vedano infra (Testimoni di I) le schede relative ai codici. 45 N

IERI 2013, n. 6.

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12 totale — dunque — di tredici codici. Il testimone più antico è il codice Riccardiano 2238, databile al decennio 1330-4047: la patina linguistica del manoscritto è spiccatamente senese, ma Giovanna Frosini, sulla base di acuni tratti fonetici divergenti, ha avanzato l’ipotesi di un antigrafo di area pratese o, più probabilmente, pistoiese48.

Della versione I esiste un’edizione integrale, pubblicata a Verona nel 181049, curata dall’abate Paolo Zanotti sulla base di una copia fornitagli dal filologo ed esperto di agronomia Benedetto del Bene (1749-1825)50 del già citato codice Riccardiano 223851. Zanotti dichiara di aver riscontrato il testo di tale copia con i due testimoni, assai più tardi, usati per gli spogli del Vocabolario della Crusca: il cinquecentesco BML Segni 12 e il quattrocentesco BNCF II.II.92, per concluderne

che il testo del Riccardiano (di cui il suo codice, secondo il parere di Francesco Del Furia, era copia fedelissima52) è assai più corretto, anche in virtù della sua antichità53. La patina senese del Riccardiano, come segnala lo stesso Zanotti, è stata corretta nell’edizione in senso fiorentino sulla base dei BML Plut. 43.12 e 43.28 — testimoni, in realtà, della versione II —, di cui sono riportate nell’edizione alcune varianti54. A ciò si aggiungono ulteriori interventi editoriali volti a una “modernizzazione” grafica del testo, tali da obliterare, talvolta, fatti fonetici.

La storia del volgarizzamento I vede il suo capitolo più importante nell’uso che ne venne fatto per gli spogli del Vocabolario della Crusca: il testo di Palladio, infatti, fu fornito agli accademici da Bernardo Davanzati — possessore del codice BNCF II.II.92 — sin dalla prima edizione, come si evince dalle indicazioni nella Tavola dei

47 F ROSINI 1993, p. 48. 48 Ibid., p. 48, n. 3. 49 Z

ANOTTI 1810; dell’edizione esiste una ristampa (ZANOTTI 1853).

50 Cfr. A

DORNO 1988.

51 Cfr. ZANOTTI 1810, p. VII, dove si legge che la copia fu tratta da Vincenzo Benini (in parte di sua mano) quando Salvino Salvini mandò il BR 2238 a Gaetano Volpi. Su Vincenzo Benini (1713-1764) si veda TORCELLAN 1966. Il manoscritto base di Zanotti è probabilmente da identificarsi con il codice

Marciano (cfr. infra, Testimoni di I), che sappiamo essere appartenuto al Volpi (cfr. BETTIO, vol 6, p. 192). Pur trattandosi di “copia di una copia”, l’edizione Zanotti è portatrice di una lezione nel complesso affidabile, nonostante gli interventi fiorentinizzanti e modernizzanti sulla lingua del testo (vedi infra) e gli inevitabili errori di trascrizione, per i quali solo previa collazione del Riccardiano e del Marciano si potrà valutare in che misura siano imputabili a Zanotti e non piuttosto ai copisti del Marciano stesso. Gli interventi linguistici e gli errori di trascrizione suscitarono il giudizio negativo di Francesco Novati, che definì l’edizione «poco felice» (NOVATI 1891, p. 337).

52 Z

ANOTTI 1810, p. VII.

53 Ibid., p.

VIII.

(15)

13 citati55 e da ciò che scrive Salviati nel “quaderno” Riccardiano. Si legge in quest’ultimo (BR 2197, cc. 101va-b)56:

Libro avuto da Bernardo Davanzati. Volgarizzamento di Palladio.

Questo libro è antico e di buona lingua, ma scorretto. Vi sono secondo me anche de’ vocaboli toscani e non fiorentini, e molti de’ latini; e talora pare che l’autore non peschi molto adentro nella lingua latina, e l’ho per più antico che ’l Boccaccio. Scrive quando col ‘z’ e quando col ‘t’ indifferentemente. Stimasi scrittura del ’350.

Il Salviati si pronuncia dunque sulla scorrettezza del codice Davanzatino, riscontrata in seguito anche da Zanotti, e sul fatto che il testo, non fedelissimo al latino, contenga sia «vocaboli [...] non fiorentini» sia molti latinismi.

Sul testo di Palladio volgare il Salviati interviene anche nei suoi Avvertimenti, I, l. II, cap. 12, p. 11757:

Palladio volgarizzato: lingua pura di quell’età, ma sparsovi delle parole gramaticali, e alcune non fiorentine, ma d’altri volgari di Toscana. Della sincerità della traslazione, né di questa, né d’altre del buon secolo della favella, non fa luogo di ragionare; perciocché son quasi tutte a un modo, avendo allora picciol numero, da cui altra lingua che la sua propria s’intendesse mezzanamente. Questo, che s’è letto da noi, tutto che a dirne il vero non sia molto corretto, alla lettera e alla carta mostra vecchiezza di più di dugento anni, né sentiamo anche che ce n’abbia altro di miglior qualità. E questa copia di Bernardo della nobil famiglia de’ Davanzati, prima detti Bostichi, che per antichi e per nobili infimo al tempo di messer Cacciaguida furono nel

Paradiso celebrati da Dante. Ha questo gentiluomo alcuni altri libri, oltr’a questo, di quel buon

secolo della favella, e bene ottimamente mostra d’avergli letti. Perciocché tra quanti ne’ nostri tempi nel piano stile hanno scritto, niuno per nostro credere, in purità e semplice leggiadria, al

Galateo del Casa s’è più di lui accostato.

Proprio la scorrettezza del codice Davanzatino indusse Zanotti, collaboratore di Antonio Cesari nella redazione della Crusca veronese, a servirsi per i nuovi spogli di un manoscritto diverso, lo stesso di cui poi pubblicò la trascrizione; si legge infatti alla fine della Prefazione del compilator veronese:

Palladio è la copia esattissima d’un buon codice, che fu già del Salvini, e poi del Volpi; il quale vedrà in breve la luce58.

55 Si vedano gli estratti relativi a Palladio nella Tavola dei citati della prima, terza, quarta e quinta Crusca in STANCHINA 2005, pp. 701-2.

56 Si cita il testo da S

TANCHINA 2009, p. 185.

(16)

14 Non sarà stata piccola soddisfazione poter disporre di un codice migliore di quello posseduto dagli accademici fiorentini, e fornirne un’edizione grazie alla quale era possibile vedere i «molti errori, che macchiarono il Vocabolario, [...] corretti»59.

Tornando a considerazioni inerenti la tradizione del testo, la versione I si contraddistingue per la presenza di due “paratesti” che corredano il volgarizzamento in più di metà dei testimoni: in coda al trattato, infatti, si leggono un breve glossario (Esp. voc.)60 e una tavola di definizioni di misure (Mis.)61. Questi testi non sono caratteristici dei volgarizzamenti, ma compaiono anche in alcuni testimoni trecenteschi del testo latino62. Le glosse non presentano caratteristiche peculiari e sembrano piuttosto derivare dalle fonti tradizionali per questo genere di paratesti: le Etymologiae di Isidoro, le raccolte di Papia e Uguccione e gli altri glossari sparsi nei manoscritti e raccolti da Goetz nel Corpus glossariorum latinorum. Relativamente a Esp. voc., si noterà una generica somiglianza con le definizioni reperibili nelle fonti63:

58

CRUSCA 1806, vol. 1, p. XIV. 59 Z

ANOTTI 1810, p. XII.

60 Così abbreviato sulla base della rubrica del Riccardiano 2238, c. 96ra: «Expositioni di vocaboli del Palladio». Questo glossario si legge anche nell’ultima carta del codice BNCF II.IV.55, testimone quattrocentesco (1413) del Crescenzi volgare, assieme al sonetto Io son Palladio dell’agricoltura, per il quale si veda infra la scheda del codice BR 2238 (SANTA EUGENIA 1998, p. 13).

61 Dei tredici testimoni, riportano sia Esp. voc. sia Mis. i BR 2238 e 1646, BML Plut. 43.12 e 43.28, i codici di Harpenden, Napoli (a precedere il testo) e Parigi. Entrambi i paratesti mancano in BML Segni 12 e BNCF II.II.92, mentre il BNCF Palat. 562 ha solo Esp. voc. Nulla si può dire al momento

sui codici di Siena e Venezia, non ancora visionati (ma se è corretta l’ipotesi di identificare nel Marciano il codice edito da Zanotti, lo si dovrà includere nella lista dei testimoni recanti i paratesti), mentre per ciò che riguarda il BNCF Conv. Sopp. D.1.835, il manoscritto ci è giunto mutilo ed è dunque impossibile pronunciarsi.

62 Si tratta, stando al censimento dei recentiores fornito da Rodgers, dei codici BAV, Pal. Lat. 1566 e BML Plut. 89 sup. 60, con l’aggiunta del quattrocentesco BAV, Pal. Lat. 1565 (cfr. RODGERS 1975b,

pp. 165 e 170, che rinvia, per i codici vaticani, a SVENNUNG 1935, p. 620; in tale sede, tuttavia, lo Svennung indica la presenza del paratesto nella descrizione del solo Palat. Lat. 1566, per cui, nel caso del 1565, occorrerebbe una verifica diretta sul codice). Sia il Pal. Lat. 1566 che il Plut. 89 sup. 60 sono di provenienza italiana (sul primo si veda CAFÀ 2005).

63

Il testo del volgarizzamento si trascrive dal BR 2238 e quello di Palladio latino dal BML Plut. 89 sup. 60 (vedi nota precedente). Isidoro si cita dall’edizione di LINDSAY 1911, con l’indicazione di

libro, capitolo e paragrafo; Papia si cita dall’edizione PAPIAS 1496, con l’indicazione della pagina;

Uguccione si cita dall’edizione CECCHINI 2004, secondo la divisione in paragrafi del testo. Per i

glossari anonimi si indica il titolo seguito, fra parentesi, da volume e numero di pagina nell’edizione GOETZ 1888-1923; Gloss. Werth. sono citate da GALLÉE 1894, con l’indicazione del numero di pagina). Manca dalla tavola la definizione di pulverare, che segue quella di pangere (BR2238: «Pulverare, ciò è cavare la vite d’intorno»; BML Plut. 89 sup. 60: «Pulvenire est vitem circumfodere»), poiché non si sono trovati riscontri nelle opere consultate.

(17)

15 Volgarizzamento I (c. 96ra) BML Plut. 89 sup. 60, c. 75r Fonti Ablaqueare, ciò è aprire la terra dintorno ale radici dela vite;

Allequeare est circa radices vitem aperire

ISIDORO XVII.V.31: Oblaqueare est circa codicem terram aperire et velut lacus efficere: hoc aliqui excodicare apppellant.

PAPIA (228): Oblaqueare circa codicem terram aperire et velut lacus efficere hoc quidam dicunt excodicare. Oblaqueatio putatio propaginatio fossio vitibus ista ista conveniunt.

UGUCCIONE L.67.10 (682): oblaqueo, -as, undique laqueare, vel oblaqueare est circa corticem terram aperire et velut lacus efficere: hoc quidam excodicare dicunt. Laqueo activum est cum omnibus suis compositis.

Pastinare è [Zanotti: cioè] cavare la terra e divellare [Zanotti: divellere] per porre vigna;

Pastinare est terram

fodere ad

plantandam vites

Glossae nominum (II, 589):

Pastinatio. plantatio. [...] Pastinator. plantator.

Glossae codicis vaticani 3321

(IV, 138): Pastinantes plantantes.

Glossae codicis sangallensis (IV,

267): Pastinantes plantantes.

Excerpta ex codice vaticano 1469

(V, 524): Pastinantes plantantes vel colentes.

Excerpta ex codice cassinensi 90

(18)

16 colentes.

Excerpta ex glossario Abavus maiore (V, 630): Pastinare colere

plantare.

Gloss. Werth (340): Pastinare

vineas plantare.

ISIDORO XX.XIV.8: Pastinatum vocant agriculae ferramentum bifurcum quo semina panguntur. Unde etiam repastinari dictae sunt vineae veteres quae refodiuntur.

UGUCCIONE P.35.4 (908): Item a pasco vel pastus pastino - as, idest colere, plantare, fodere, et proprie pertinet vineis plantandis; unde hoc pastinatum, vinea novella; pastinatum etiam vocant agricole ferramentum bifurcum quo semina aptantur et infodiuntur; [5] et componitur repastino - as, iterum pastinare; proprie quidem repastinari dicuntur vinee veteres que refodiuntur. Sarrire, ciò è sarchiare la terra, e mondare dall’erbe e verghe di soperchio

Sarrire vel sarculare est a superfluis virgis vel erbis mundare

Glossarium Ampl. primum (V,

388): Surculum idest ferrum uueadhoc.

UGUCCIONE S.38.6 (1058): et hinc

sarculo -as, sarculis aptare, purgare, sicut milium et huiusmodi.

(19)

17

piantar le viti plantare 318): Pangere ordinare

aplantando.

ISIDORO XVIII.V.33 (65): Propaginare vero flagellum vitis terrae submersum sternere et quasi porro pangere.

UGUCCIONE P.12.4 (895): invenitur etiam pango -xi pro palum figere et plantare.

Occare è cuprire

le radici dela vite

Occare est radices vitium aperire

Excerpta ex libro glossarum (V,

228): Occatorem insitorem abartorem subruncinatorem satorem vel actorem aratorem hos homines agricule pagani deos habuerunt.

ISIDORO XVIII.II.3: Occare igitur est operire terra semina, vites vel arbores.

PAPIA (230): Occare igitur est operire terram saemina vetes vel arbores

UGUCCIONE C.117.7 (204): et tunc est occatio quasi occecatio, sed ponitur pro scindere vel secare vel truncare sicut dictum est.

Spartea è quel

vime, o vero ebba [Zanotti: erba], di che si fanno le

Spartum vel spartea est illud vimen vel erba de quo fiant

ISIDORO 9.103 (223): Spartus

frutex virgosus sine foliis, ab asperitate vocatus. Volumina enim funium quae ex eo fiunt

(20)

18

sporte64 sporte65 aspera sunt.

PAPIA (329): Spartus frutex virgosus sine foliis.

UGUCCIONE S.279.2 (1152): et hic

spartus -ti, frutex virgosus sine foliis, vel dictus est ab asperitate.

La tavola non mostra corrispondenze precise, soprattutto perché, mentre nelle fonti si trovano definizioni più genericamente riferite alle operazioni agricole, il glossario di Palladio è specificamente focalizzato sulla viticoltura (fa eccezione «pastinare vineas plantare» in Gloss. Werth.). È invece evidente la dipendenza da Isidoro per ciò che riguarda Mis., che si può considerare un vero e proprio estratto dalle Etymologiae, in particolare dai libri XV e XVI66:

BR 2238 (cc. 96ra-97ra) BML Plut. 89 sup. 60 (cc. 75r-76r)

Isidoro, Etymologiae

Cochlearium è la

menima [Zanotti: minima] parte dele misure ed è mezza dragma e contien VIIII silique e triplicando fa concula;

Coclearium est minima pars mensurarum et est dimidia pars dramme ponderans siliquas novem, qui triplicatus coculam facit;

[XVI.XXVI.3] Coclear, quod est dimidia pars dragmae, adpendens siliquas novem; qui triplicatus conculam facit.

Conchula è una dragma

e mezzo;

Concula est dramma una et dimidia;

[XVI.XXVI.4] Concula dragma una et dimidia

64 Sebbene collocata da Zanotti a conclusione di Esp. voc., nel codice Riccardiano la definizione di

spartea si trova alla fine di Mis.

65 Anche nel codice latino la definizione di spartea ha una diversa collocazione: si trova, infatti, tra

modius e amphora nella tavola delle misure.

66 Con il simbolo [...] nella tavola di confronto si indica che, in quell’intervallo, c’è perfetta corrispondenza di successione e definizioni fra i tre testi.

(21)

19 adimpletur.

Cyathus contien dragme XX

Ciatus continet x drammas

Cyati pondus decem dragmis adpenditur, qui etiam a quibusdam cuatus nominatur.

[...] [...] [...]

Cadus è anfora e contiene tre urne;

Cadus est amphora continens urnas tres

[XVI.XXVI.14] Cadus Graeca amphora est continens urnas tres.

Urna è misura la quale chiamano alcuni quartario

Urna est mensura quam quidam vocant quartarium

Urna mensura est

quam quidam

quartarium dicunt.

Corus è misura di XXX moggia;

Corus est mensura XXX modiorum;

Corus triginta modiorum mensura inpletur.

Acetabulum è ’l vaso nel quale si provava il [ ] s’egli era puro, del quale si doveva far sacrificio a Dio;

Acceptabulum dicitur vasculum in quo vinum deo in sacrificio offerendum probari debuit an esset purum vel corruptum;

[XVI.XXVI.5]

Acitabulus quartapars eminae est, duodecim dragmas adpendens.

Dolium è quel medesimo che Cado e contien moggia tre;

Dolium idem est qui cadus contine[n]s

modios tres;

[XX.VI.7] Dolium.

Lagena è ’l barile del vino, over cestarello [Zanotti: cesterello];

Lagena est vas viniferum qui vulgariter dicitur barillum vel

[XX.VI.1-3]

Oenophorum vas ferens vinum; [...]

(22)

20

costerellum; Lagoena et Sicula

Graeca nomina sunt.

Digitus, ciò è dito, è minima misura de’ campi;

Digitus est minima pars agrestium mensurorum;

[XV.XV.2] Digitus est

pars minima agrestium mensurarum.

[...] [...] [...]

Stadius greco è ottava parte di migliaio. Contien passi CXXV;

Stadius grece ottava pars est miliarii constans passibus CXXV. Egiptii sibi qui nos miliaria ipsi singnes vocant, Perse vero vocant perasangas;

[XV.XVI.1-3]

Mensuras viarum nos miliaria dicimus, Graeci stadia, Galli leugas, Aegypti schoenos, Persae parasangas. [...] Stadium octava pars miliarii est, constans passibus centum viginti quinque.

Il cubito geometrico contien VI de’ nostri secondo alquanti e secondo altri ne contien IX, ma, propriamente parlando, il cubito è un piede e mezzo.

Cubitus geometricus continet sex nostros

secundum quosdam vel

VIIII secundum alios proprie enim cubitus pedem et dimidium habet.

Assente cubitus

geometricus

La fonte di Mis. è dunque un repertorio “classico”, riprodotto in modo piuttosto fedele: difatti, mentre tutti i termini di Esp. voc. sono presenti nel Palladio latino, alcune delle misure elencate (per es. cotyla, oxyphabum) non sono mai citate nel testo e costituiscono quindi un portato passivo della fonte. La dipendenza da fonti latine e la perfetta corrispondenza fra i termini di Esp. voc. e le parole del testo di

(23)

21 Palladio — si citi il caso di allequeare (ma nello stesso BML Plut. 89 sup. 60 si leggono ablaqueandis alle cc. 15v e 16r e allaqueande a c. 16r) di contro a oblaqueare, con diversa etimologia, nelle fonti67 — indurrebbe a ricondurre l’innovazione del paratesto alla tradizione latina, con la conseguenza che il volgarizzatore della versione I (ma si veda infra, a proposito di Mis., anche il caso della versione II) avrebbe tradotto il paratesto, assieme al testo, a partire da un codice latino simile a quelli sopra citati68.

Per poter procedere oltre occorrerebbe sondare il testo tràdito da questo tipo di manoscritti, sia per poterne definire meglio la posizione all’interno della tradizione — indagine purtroppo non facilitata dall’usuale disinteresse degli studiosi dei testi classici verso i testimoni recentiores — sia per poter verificare la plausibilità della dipendenza del volgarizzamento da simili testimoni. Al momento si può dire che l’innovazione, stando ai censimenti disponibili, sembrerebbe circoscritta ai due codici trecenteschi citati, entrambi confezionati in Italia; innovazione e traduzione sarebbero perciò non solo coeve, ma anche geograficamente prossime.

67 Si trova solo «ablaqueata διορυχθεντα» nelle Glossae Latino-Grecae (GOETZ 1888-1923, vol. 2, p. 4).

68 A questo proposito, si possono fare alcune considerazioni ulteriori. La definizione di spartea, che conclude Esp. voc. nell’edizione ZANOTTI 1810, si legge sia nel BR 2238 che nei BML Plut. 43.12 e 43.28 alla fine di Mis. (cfr. n. 64 ); se tale definizione si trova interposta fra le misure nel BML Plut. 89 sup. 60 (cfr. n. 65), diversa è la situazione nel BAV Palat. Lat. 1566. SVENNUNG 1935, p. 620 la

riporta, infatti, come explicit del Worterklärungen del codice («Sparcum, vel sparca, est illud vimen. vel herba de qua fiunt sporte. Vasa sunt», e il dato è estremamente interessante: se il paratesto, stando alla descrizione di RODGERS 1975b, p. 170, occupa le cc. 93-96 del codice vaticano, è evidente che sia

inclusivo di Esp. voc. e di Mis. (la sola Esp. voc. non giustificherebbe tale ampiezza di spazio), e quindi, se la definizione di spartea costituisce l’explicit del paratesto, essa si viene a trovare alla fine di Mis., nella stessa posizione che ha nei testimoni del volgarizzamento I, portandoci dunque a pensare che il modello latino di I fosse un codice del tutto simile al BAV Palat. Lat. 1566.

(24)

22

Testimoni di I

Si segnalano con * i testimoni non ancora visionati direttamente, per le cui descrizioni ci si è basati sulla bibliografia segnalata.

1. Firenze, Biblioteca Riccardiana, 2238

Membr., 1330-1340, mm 252×173, cc. 98; PALLADIO, Opus agriculturae, volg.,

cc. 1ra-96ra.

A c. Ir si legge: «Tu che con questo libro ti trastulli / guarda cho lla lucierna e’ no· si açuffi / rendimelo tosto e guardalo da’ fanciulli». Il testo di Palladio è seguito da Esp. voc. (c. 96ra) e da Mis. (cc. 96rb-97ra). Ogni libro è preceduto dalla tavola dei capitoli.

A c. 97v sonetto caudato (da qui in avanti son.1), inc.: «Io som Palladio dell’agricultura, / arte da liber humo honesta e degna»; expl.: «Se quel ch’i’ ò nel cuor dar ti potesse, / e il dom di che sè degno, / per ch’io non posso, t’è il libro per segno» (IUPI, vol. 1, p. 795; per il metro della coda, variante dello schema tipico, cfr. BIADENE 1889, p. 73), e un estratto da Cicerone in lode dell’agricoltura (Cic., De

officiis, L. I, § 151) inc.: «Tulius in primo officiorum. Quibus autem artibus aut prudentia»; expl.: «multa diximus illa assumes qua ad hunc locum pertinebunt»; entrambi i testi sono di mano dello stesso copista che ha esemplato il volgarizzamento.

A c. 98r un secondo sonetto caudato, aggiunto da una diversa mano in corsiva umanistica, inc.: «Io comincio a gustare l’agrecultura, / entender delle piante et fructi et fiori»; expl.: «passione che ’ngombri l’alma o ver lo spirto / et non invido vostre lauro o mirto» (IUPI, vol. 1, p. 772).69

Bibliografia: MARCHESI 1907, p. 416; AMBROSOLI 1983, p. 21, n. 9; FROSINI 1993, p. 48, n. 2.

2. Firenze, Biblioteca Riccardiana, 1646

(25)

23 Cart., sec. XVI in., mm 280×215, cc. 160; PALLADIO, Opus agriculturae, volg.,

cc. 1r-155r.

A c. 155r si leggono le sottoscrizioni del possessore: «Zenobij Bartolini optimatis florentini» — in cui sarà da identificarsi il capitano fiorentino Zanobi Bartolini Salimbeni (1485-1533; cfr. CANTAGALLI 1964) — e del copista: «Bartholomeus

Philiarcus Pistoriensis scripsit» — forse lo stesso Bartolomeo Filiarchi copista delle traduzioni di Gino Lascaris nei codici Vat. Reg. Lat. 1579 e Par. Lat. 2620 (cfr. PONTANI 1992, pp. 432-3370) —; il possessore si firma ancora a c. 158r: «Zenobi

Bartholini καὶ τών φυλων».

Seguono il testo Esp. voc. (156r) e Mis. (156r-157v). Ogni libro è preceduto dalla tavola dei capitoli.

A c. 158r, estratto da Cicerone (De officiis, L. I, § 151; cfr. supra, BR 2238), inc.: «Quibus autem artibus aut Prudentia»; expl.: «nihil homine libero dignius».

Bibliografia: MARCHESI 1907, p. 417; AMBROSOLI 1983, p. 21 e n. 9; FROSINI 1993, p.

48, n. 2.

3. Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, Plut. 43.12

Cart., 1443, mm 280×204, cc. 117; PALLADIO, Opus agriculturae, volg., cc.

1r-115v.

Il testo di Palladio è seguito da Esp. voc. (c. 116r) e Mis. (cc. 116r-117r). Ogni libro è preceduto dalla tavola dei capitoli.

Nel codice vi sono numerose annotazioni marginali di mano del copista.

A c. 117r si legge la sottoscrizione del copista: «Expliciunt sinonime Palladii finito questo dì XXII agosto MCCCCXLIII per me Jachopo di Baldo di Barone Balducci

proprio di Ghuardistallo citadino fiorentino laus deo».

Bibliografia: MARCHESI 1907, pp. 416-17; AMBROSOLI 1983, p. 21, n. 9; FROSINI 1993, p. 48, n. 2.

4. Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, Plut. 43.28

70 La Pontani annuncia qui un prossimo articolo di Aldo Lunelli su Bartolomeo Filiarchi, non più pubblicato.

(26)

24 Cart., sec. XV, mm 257×198, cc. 90; PALLADIO, Opus agriculturae, volg., cc.

13-89r.

Seguono il testo di Palladio Esp. voc. (c. 89r) e Mis. (cc. 89r-90r). Ogni libro è preceduto dalla tavola dei capitoli.

A c. 90r, son.1, inc.: «Io sono Palladio dell’aglicholtura, / arte da liber huomo honesto et dengnio»; expl.: «se quel ch’i’ ò nel quuor dar ti potessi / il dono di che tu ne sè dengnio / per ch’io n’ò posto te, libro, per sengnio».

Bibliografia: MARCHESI 1907, pp. 417; AMBROSOLI 1983, p. 21, n. 9; FROSINI 1993, p.

48, n. 2.

5. Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, Segni 12

Cart., 1532, mm 230×167, cc. 127; PALLADIO, Opus agriculturae, volg., cc.

2r-126r, lacunoso.

Sul lato interno del piatto anteriore è incollata una carta membranacea su cui si legge il ricordo in volgare di un’invasione di bruchi che distrusse i raccolti nel 1474. A c. Ir, son.1 , inc.: «Io sono Pallario dell’agricoltura»; expl.: «per che io non posso ti do e· libro per segnio».

A c. Iv, alcune istruzioni sulla pollicultura, inc.: «A fare uno pollaio buono e bello e mantenerlo cum pocha spesa»; expl.: «e farà del’uova abondanza e manteranosi grasse».

A c. 126r, si legge la seguente sottoscrizione: «Finis et laus deo immortali per me Iohannem Batistam Signium. Die calendis Maii ab Incarnatione MDXXXII».

Alle cc. 126v-I’v, alcune regole per la produzione del vino: il testo continua sulla carta membranacea che riveste il piatto posteriore, inc.: «A fare el vino vermiglio dolce, lascia l’uve bene maturare»; expl.: «la bote e metevi dentro il vino e sarà guarita e buona botte».

La mano che scrive i testi aggiunti è sicuramente diversa da quella del copista; è dubbio se sia o no la stessa per tutti i testi.

Bibliografia: MARCHESI 1907, pp. 417-18; FROSINI 1993, p. 48, n. 2; STANCHINA 2005, pp. 701-2 e 707-9.

(27)

25 6. Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, II.II.92

Cart., sec. XIV s.m., mm 290×221, cc. 84; PALLADIO, Opus agriculturae, volg.,

cc. 1ra- 80va.71

A c. 1r, nel margine inferiore: «di Bernardo Davanzati»; il codice appartenne infatti all’erudito fiorentino (1529-1606), il cui interesse per l’agricoltura, conseguente anche al fatto che ebbe estesi possedimenti terrieri, è testimoniato dalla sua Coltivazione toscana delle viti e d’alcuni arbori72 (cfr. ZACCARIA 1987).

Sulla c. Ir è incollata una striscia di carta su cui si legge: «Questo testo è copiato da uno assai antico e di esso ritiene da per tutto manifesti vestigi, ma o per difetto del copiatore o per qualsiasi altra cagione è sparso di mancanze e di scorrezioni e spesso non corre il senso. Con tutto ciò è un testo da farne molto caso e da cavarne molto utile e da citarsi la sua autorità, poiché in esso si conserva un notabile avere di nostra favella. Di questo testo appunto ragiona il card. Salviati ne’ suoi Avvertimenti» (cfr. supra, Il Palladio della Crusca).

Bibliografia: IMBI, vol. IX, p. 16; MARCHESI 1907, p. 416; MORPURGO 1929, p. 261; VARVARO 1957,p. 375, n. 4; AMBROSOLI 1983, pp. 17 e n. 3, 21 e n.9; FROSINI 1993, p. 48,

n. 2; STANCHINA 2005, pp. 701-6; STANCHINA 2009, p. 185 e nn. 76 e 77.

71 Errata l’indicazione in B

ORRONI SALVADORI 1974, per cui il manoscritto sarebbe una miscellanea

contenente un sonetto per Vincenzo Viviani a c. 380; si tratterà di un errore nella citazione della segnatura.

72 Z

ACCARIA 1987, p. 100 scrive a proposito della Coltivazione: «Prendendo a modello un testo latino

rimasto sconosciuto, nel quale la materia era trattata in modo prolisso e disordinato, il D. ne risistemò il contenuto con uno stile elegante e preciso, aggiungendovi molte osservazioni personali. L’opera [...] si riallaccia alla fioritura di scritti agronomici del sec. XVI, dovuti all’evoluzione della campagna toscana in quel periodo, e tratta dei diversi metodi di coltvazione riguardanti la viticoltura e l’olivocoltura. Il D. fornisce anche una serie di regole e di avvertenze in materia, destinate ai piccoli proprietari, senza però suggerire prospettive di profitti o di investimenti produttivi, ma limitandosi a concepire una produzione destinata sostanzialmente all’autoconsumo». Un controllo sul testo consente di escludere la dipendenza della Coltivazione dall’Opus agriculturae: gran parte dell’opera del Davanzati, infatti (che si legge nell’edizione di BINDI 1853, vol. II, pp. 488-532), tratta della

viticoltura e illustra nel dettaglio la vendemmia e la produzione dei diversi tipi di vino, argomento, quest’ultimo, non affrontato da Palladio. Anche nella parte relativa agli alberi da frutto — dove, sia in Davanzati sia in Palladio, ogni capitolo è dedicato a una singola varietà, rendendo agevole la verifica — il confronto tra i due testi non ha rivelato alcuna significativa tangenza. Colpisce, invece, la somiglianza strutturale fra le tre parti in cui è suddivisa la Coltivazione (vitcoltura, arboricoltura, breve calendario dei lavori agricoli secondo i mesi dell’anno) e i libri, rispettivamente, IV, V e XII del trattato di Crescenzi.

(28)

26 7. Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, Conv. Sopp., D.1.835*

Cart., Sec. XIV, mm 280×215, cc. 89; PALLADIO, Opus agriculturae, volg., cc.

1ra-89vb, mutilo73.

A c. Iv si legge la tavola di corrispondenza tra i libri e le carte del codice; la completezza di tale tavola comporta che sia stata scritta prima della mutilazione finale del testo, che si interrompe in corrispondenza del capitolo XXVI del mese di

novembre. Ogni libro è preceduto dalla tavola dei capitoli.

Essendo il codice escluso dalla consultazione, la descrizione si fonda sulla visione del microfilm, che termina tuttavia con l’ultima carta del testo. Da POMARO 1980 si

ricava la notizia che all’interno del piatto posteriore due mani scrivono, ciascuna, un componimento in versi: il primo inc.: «Senpre si dice che un fa danno a cento» (IUPI, 2, p. 1567); il secondo inc.: «Un savio dice che più dolce cosa» (non individuato nei repertori).

Bibliografia: ORLANDI 1952, p. 31; POMARO 1980, p. 377; POMARO 1982, p. 319; AMBROSOLI 1983, pp. 17 e n. 3, 21 e n. 9; FROSINI 1993, p. 48, n. 2.

8. Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, Palatino 562

Cart., sec. XIV, mm 287×209, cc. 27; PALLADIO, Opus agricolturae, cc. 1ra-26vb,

lacunoso.

Il codice prevedeva una selezione di capitoli tratti da ciascun libro, ma per molti di quelli selezionati è stata effettivamente trascritta solo la rubrica; l’ultimo capitolo del testo è il quinto del mese di dicembre. I capitoli presenti, peraltro, sono spesso ridotti: AMBROSOLI 1983, p. 19, cita questo testimone tra gli esempi di riduzione del

Palladio volgare.

Il manoscritto è frammentario, a seguito della perdita di alcune carte.

Seguono Esp. voc. (c. 27ra) e un indice ragionato (cc. 27rb-27vb), in cui si raccolgono i capitoli che trattano degli stessi argomenti (Del mandorlo, Del pesco, Dei peri, Del melo ecc.).

73 Errata l’indicazione in K

RISTELLER, vol. V, p. 588b (probabilmente per uno scambio di segnatura

con il codice BNCF, Conv. Sopp. D.1.937, che segue il D.1.835 nel censimento di POMARO 1980),

(29)

27 Bibliografia: GENTILE, 1890, pp. 125-126; MARCHESI 1907, p. 418; AMBROSOLI 1983,

pp. 19, 20, n. 8, 21, n. 9, 24; FROSINI 1993, p. 48, n. 2.

9. Harpenden, Herthfordshire, Rothamsted Experimental Station, ms s.n. Cart., sec. XV s.q./t.q., mm 222×292, cc. 46; PALLADIO, Opus agriculturae, volg.,

cc. 1ra-45vb.

Seguono il testo Esp. voc. (c. 45vb) e Mis. (cc. 45vb-46rb). Ogni libro è preceduto dalla tavola dei capitoli.

A c. 46rb, son1, inc.: «Io sono Palladio della agricholtura / arte di libero huomo honesta e degnia»; expl.: «se quello ch’io ò nel chore / dar ti potessi, e il don di che sè degnio / per ch’io non posso, t’è i·libro per segnio».

Il manoscritto contiene la pagina del catalogo d’asta di Davis&Orioli con una descrizione, in cui si legge l’errata indicazione che il testo tràdito dal codice è diverso da quello dell’edizione Zanotti.

Bibliografia: KER 1977 p. 13.

10. Napoli, Biblioteca Nazionale “Vittorio Emanuele III”, XIII F 13* Cart., sec. XV, mm 234×174, cc. 114; PALLADIO, Opus agriculturae, volg.

A c. Ir si legge: «Liber Angeli Zanobi de Gaddis XVI».; il testo è preceduto da Esp. voc.

Bibliografia: MARCHESI 1907, pp. 417-18; KRISTELLER, vol. VI, p. 106a; FROSINI 1993, p. 48, n. 2.

11. Parigi, Bibliothèque Nationale de France, ital. 930* Membr., sec. XV, cc. 155; PALLADIO, Opus agriculturae, volg.

Il testo di Palladio è seguito da Esp. voc. e Mis.; il codice contiene miniature.

Bibliografia: MARSAND 1835-38, pp. 643-44; AMBROSOLI 1983, p. 21, n. 9; KRISTELLER, vol. III, p. 303b; FROSINI 1993, p. 48, n. 2.

(30)

28 12. Siena, Biblioteca Comunale degli Intronati, I.VII.8*

Cart., sec. XV s.m., mm 283×222, cc. 44; PALLADIO, Opus agriculturae, volg., cc.

1r-38v

Ogni libro è preceduto dalla tavola dei capitoli.

Bibliografia: ILARI 1847, p. 7; CODEX;TANGANELLI 2014,p. 253.

13. Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana, ital. XI 100* Cart., sec. XVIII; PALLADIO, Opus agriculturae, volg.

(31)

29

I

N YDIOMATE FLORENTINO REDUCTUS PER ME

A.L.

: LA VERSIONE DELLO PSEUDO-LANCIA

Pur avendo una tradizione manoscritta più esigua – quattro codici conservati a Firenze (Biblioteca Medicea Laurenziana, Plut. 43.13, Ashb. 524, Redi 128; Biblioteca Nazionale Centrale, II.II.91)74, cui ho aggiunto un quinto testimone:

Londra, British Library, Harley 329675 – la versione II godette di particolari attenzioni, a partire da metà Ottocento, a seguito dell’attribuzione del volgarizzamento ad Andrea Lancia, fondata esclusivamente sulla presenza della sigla «A.L.» nell’explicit di due dei testimoni76 (Laurenziano Pluteo 43.13 e BNCF II.II.91)77. Tale ipotesi attributiva è, come rilevato già da Concetto Marchesi78, priva

di fondamento79, essenzialmente per ragioni di carattere stilistico (i numerosi fraintendimenti e la presenza assai cospicua di latinismi duri fanno pensare a un volgarizzatore decisamente meno esperto del Lancia)80. Del resto, la stessa sigla «A.L.» — cui si contrappone la sigla «P.» nell’explicit sia del Laurenziano Redi 12881 sia del Laurenziano Ashburnham 52482 — è un elemento che ricorre in altri

74

Per le schede relative, vedi infra (Testimoni di II). 75 N

IERI 2013, n. 11.

76 Così C

OLOMB DE BATINES 1851-52, p. 20, che diede credito alla proposta del Mehus per cui tale

sigla sarebbe stata un inequivocabile “marchio di fabbrica” (sulla base della sigla A.L. in chiusura dell’explicit del BNCF Conv. Sopp. J.I.30, il Mehus aveva infatti proposto l’attribuzione al Lancia dell’Ottimo commento; cfr. CORRADO 2009, p. 35); per lo stesso motivo, ma con l’aggiunta di alcune

prove lessicali, accolse la paternità lanciana del testo di Palladio il Bencini (1851-52, pp. 149-50). Tale ipotesi attributiva, accettata anche da Barbi nella sua edizione parziale del testo (BARBI 1897, vedi infra), compare ancora, pur in modo dubitativo, in CERRONI 2004, p. 318.

77 Così si leggono gli explicit nei due testimoni: BML, Plut. 43.13, c. 118v: «Explicit liber Palladii ex gramatico sermone in ydiomate florentinus deductus per me A.L.» e BNCF, II.II.91, c. 143rb: «finito libro referamus gratia Cristo. Explicit liber Palladii ex gramatico sermone in ydiomate florentino reductus per me A.L.».

78 M

ARCHESI 1907, p. 432.

79 Assai scettico sull’attribuzione è Bellomo (1980, pp. 374-375), mentre Azzetta nell’edizione degli

Ordinamenti, provvisioni e riformagioni del comune di Firenze volgarizzati da Lancia dichiara

esplicitamente di non tenere in considerazione il volgarizzamento di Palladio per mancanza di prove sufficienti a dimostrarne l’attribuzione al notaio fiorentino (AZZETTA 2001, p. 10, n. 4).

80 Se ne vedano alcuni esempi infra, Roncioni, stalloni e guaragni: ipotesi sui profili stilistici dei

volgarizzatori.

81 A c. 82r: « Explicit liber palladii ex gramatico sermone in ydiomate florentino deductus per me .P.». Si noti che proprio Colomb de Batines rese nota questa informazione (vedi supra, n. 76).

82 A c. 128r si legge: «A dì

VI di novembre MCCCCLXIIII per me p». Il codice è stato oggetto di un

contributo specifico da parte di Moreno Campetella (2009). Campetella ignora i volgarizzamenti trecenteschi dell’Opus agriculturae e prende in esame tre codici «quattrocenteschi» da lui ritenuti latori di quattro differenti traduzioni «fiorentine» del testo (vedi infra). A suo parere, la traduzione di Palladio «montre la nature “pratique” des humanistes de la première generation» e sarebbe un prodotto culturale legato alla committenza medicea, in virtù del fatto che «tous les Médicis [...] étaient

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