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IL RUOLO DEL CURATORE FALLIMENTARE ASPETTI OPERATIVI E GIURIDICI IL CASO PRATICO

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____________________________________________CAPITOLO 1

“I

CARATTERI STRUTTURALI DELLA PROCEDURA FALLIMENTARE

1.1 La crisi del sistema aziendale1

Il supremo obiettivo dell’imprenditore è la necessaria continuità economica della sua impresa nel medio e lungo periodo, per poter ottenere ciò esso deve ricercare le condizioni tali che permettano al sistema azienda la propria autosufficienza2. Si può, infatti, definire la vita dell’azienda3 come un insieme di operazioni tra loro collegate che costituiscono un sistema, il quale deve avere carattere economico.

Perché tale sistema perduri nel tempo occorre che si raggiunga un livello d’equilibrio, ed esso si può raggiungere quando un’impresa opera in una situazione di “normalità”.

1 GIANNESSI E.: “L’azienda è come un branco di pesci il quale ha sempre determinati confini

che, però, non sono mai gli stessi. In un certo momento infatti, essi non sono più quelli dell’istante che immediatamente precede e non ancora quelli del successivo”, in

“Considerazioni critiche intorno al concetto azienda, ed. Giuffrè, Milano, 1973, pag. 506. Sul concetto di sistema in Economia Aziendale si veda anche: CERBONI G., “La ragioneria scientifica”, vol. I, ed. Loescher, Roma,1886, pag. 67; CARAMIELLO C. “L’azienda”, Milano, ed. II ed. Giuffrè, 1993, pag. 19; FERRARIS FRANCESCHI F., “L’azienda: forme, aspetti, caratteri e criteri discriminanti”, ed. Kappa, Roma, 1995, pag, 21; ZAPPA G., “Il reddito dell’impresa”, ed. Giuffrè, Milano, 1950, pag. 13-14; BERTINI U. “Il sistema d’azienda. Schema di analisi”, ed. Giappichelli, Torino,1990, pagg. 18-22.; AMADUZZI A. “Studi di economia aziendale”, ed. Kappa, Roma, 1995, pag. 42-43; FERRERO G., “Impresa e Management”, ed. Giuffrè, Milano, 1987, pag. 7; BESTA F. “La ragioneria”, vol.I, II ed. Vallardi, Milano, 1922, pag. 41; MARCHI L. “Introduzione all’economia aziendale”, ed. Giappichelli, Torino, 2003, pag. 24-28; CECCHERELLI A. “Economia aziendale”, ed. Barbèra, Firenze, 1948, pagg. 51-55.

2 Da intendersi per autosufficienza del sistema aziendale, “Il complesso di condizioni che

consentono all’organismo impresa attraverso lo scambio, e pur nel quadro di mutevoli rapporti di forza in cui trovasi ad operare, la ricostruzione delle risorse impiegate per lo svolgimento delle funzioni assunte ad oggetto di attività, in guisa da assicurare al sistema il reiterato compimento di quelle funzioni e la evoluzione del sistema medesimo”, FAZZI R. “Il governo d’impresa”, vol. I, ed. Giuffrè, Milano, 1982, pag. 20.

3 Per un maggior approfondimento sul concetto “azienda” e i suoi risultati interpretativi si veda

GONNELLA E., “Il fenomeno azienda”, ed. Franco Angeli, Milano, 2004, pagg. 27-30; ANSELMI

L., “L’inflazione e il sistema d’azienda”, ed. Opera universitaria, Pisa, 1981, pagg. 1-10; ALLEGRINI M., “L’informativa di periodo nella comunicazione economico-finanziaria”, ed.

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Tale stato non si può pensare come situazione di totale armonia tra i vari elementi, perché non bisogna dimenticare che esso opera in un ambiente sociale ed economico in continuo cambiamento, e che tale dinamicità comporta obbligatoriamente la rottura degli equilibri parziali raggiunti.

Quindi la presenza di sconnessioni all’interno del sistema azienda, deriva dalla dinamicità degli elementi presenti nel sistema stesso ed è il perdurare di tali squilibri e la mancata capacità di adattamento del sistema alle nuove situazioni4, crea una incoerenza “parziale”.

Si avranno incoerenze interne, quando l’interruzione dei nessi di correlazione si è avuta all’interno del sistema-impresa, mentre si hanno incoerenze esterne, quando l’interruzione dei rapporti di correlazione riguarda l’impresa e l’ambiente esterno.

Le prime si creano tra gli elementi interni e sono di particolare rilevanza in quanto direttamente riconducibili al sistema operativo, sono chiamate “incoerenze da inefficienza” perchè derivano dal compimento di errori nella programmazione o nell’attuazione del sistema aziendale, o di sue parti componenti; le seconde sono legate ad un rapporto non sufficientemente integrato tra l’imprenditore e il sistema operativo, tali incoerenze si hanno quando la disfunzione tra l’impresa e l’ambiente perdura nel tempo evidenziando l’incapacità del sistema a soddisfare le esigenze nate sul mercato, esse possono essere definite di rigidità, ciò significa che l’impresa è impossibilitata o incapace di adattarsi tempestivamente e senza perdite economiche ai cambiamenti che si verificano nell’ambiente esterno. L’attitudine del sistema all’adeguamento dei cambiamenti dipende, dal grado di elasticità dell’impresa che e’ sinonimo del concetto di flessibilità, più un’impresa è flessibile maggiore e’ la sua capacità di reazione e quindi minore, almeno in ipotesi, la sua probabilità di cadere in crisi. La singola disfunzione non è una minaccia per l’equilibrio complessivo del sistema, se essa viene individuata tempestivamente prima che si inneschi il

4 Per un maggior approfondimento si veda PASSERI R., “Il governo della crisi d’impresa nelle

operazioni straordinarie”, ed. Prato, Firenze, 2005, pagg. 21-22; si veda anche VERGARA C.,

“Disfunzioni e crisi d’impresa: introduzione ai processi di diagnosi, risanamento e prevenzione”, Giuffrè, Milano, 1988, pagg. 39-40.

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“processo infettivo”, può essere rimossa attraverso adeguamenti che riportano il sistema verso livelli di equilibrio più alti lungo le tre direttrici fondamentali della competitività5, della soddisfazione degli interlocutori e della economicità.

Quindi la ricerca delle condizioni di equilibrio del sistema aziendale per poter esistere deve supportare una serie di incoerenze derivanti, dal rapporto delle singole componenti del sistema e derivanti dal rapporto impresa e ambiente esterno; tali incoerenze hanno origine dal fattore rischio cui l’azienda si deve confrontare, essi si possono suddividere in due tipologie; i rischi necessari che derivano appunto dai mutamenti dell’ambiente e che derivano dal fatto di operare in un sistema economico soggetto a cambiamenti non facilmente prevedibili, ed i rischi volontari, creati dalle scelte dell’azienda, la vulnerabilità dell’impresa dipende da questi due fattori di rischio e tale vulnerabilità sarà tanto più elevata quanto meno sarà realizzabile il bilanciamento tra i due tipi di rischio.

Affinché la crisi non si verifichi, occorre prevenire e poter gestire i rischi, per raggiungere tale scopo occorre una buona capacità di anticiparli il più possibile, mediante l’avvertimento di segnali deboli, come i fabbisogni netti di cassa e nella possibilità, all’interno dell’azienda, di disporre di mezzi per farvi fronte, rimuovendo contestualmente le cause delle crisi.

“Un sistema va visto nell’insieme e nelle parti componenti. L’economicità su cui

si fonda l’esistenza dell’azienda deve essere quindi perseguita e controllata in termini complessivi e particolari”6.

Quindi nella prevenzione della crisi, un ruolo importante è giocato dall’elemento soggettivo ovvero dal proprietario e nelle realtà più complesse dal management, e dalle capacità di questi di trovare il giusto equilibrio tra rischi necessari e volontari in modo da individuare i segnali di crisi e dare la possibilità di porvi rimedio7. Occorre un imprenditore che sia capace grazie alle sue capacità di

5 Capacità di un’impresa di un settore o dell’intera economia di un paese ad occupare una

posizione importante sul mercato, sia estero che nazionale. La competitività può essere quantitativa o qualitativa a seconda che si riferisca, rispettivamente, ai prezzi e ai costi, oppure alle caratteristiche dei beni presenti sul mercato. PASSERI R., “Il governo della crisi d’impresa

nelle operazioni straordinarie”, ed. Prato, Firenze, 2005, pagg. 28-30.

6 CORTICELLI R. “La crescita dell’azienda”, II ed. Giuffrè, Milano, 1998, pag. 99.

7 Il modello più conosciuto è il risk management che suggerisce come obiettivo la creazione del

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gestire in modo flessibile il sistema azienda attuando le strategie da lui ritenute più opportune; la visione finale dell’azienda la si può quindi pensare non come sistema statico ma come sistema che deve continuamente adattarsi ai cambiamenti dell’ambiente circostante e tale adattamento è nelle mani dell’imprenditore stesso8.

E’ opportuno precisare che l’imprenditore deve gestire gli squilibri parziali ma non occorre che raggiunga costantemente l’equilibrio, l’importante è la sua consapevolezza di effettuare una gestione per il perseguimento di un equilibrio globale9.

In seguito a quanto detto, nel momento in cui si manifesta una crisi e non vi si pone rimedio, l’impresa si può trovare di fronte a periodi di declino e di crisi. L’impresa è in declino quando distrugge il valore del capitale economico, cioè quando perde valore nel tempo, mentre il processo di crisi si sviluppa lentamente e può essere suddiviso in quattro stadi:

1. lo stato di incubazione, le cui manifestazioni sono quelle di squilibri e inefficienze;

2. lo stadio di maturazione, il quale si manifesta con perdite da un punto di vista reddituale e con perdite di valore del capitale,

3. lo stadio delle gravi ripercussioni:sui flussi finanziari, sulla capacità di credito e sulla affidabilità dell’impresa. Le manifestazioni sono le carenze di cassa, la perdita di credito e di fiducia, perdita rilevante o totale del valore del capitale, rischio di sopravvivenza;

modo da ridurre la probabilità di conseguire i risultati negativi. Per un maggior approfondimento si veda C. VERGARA, “Disfunzioni e crisi d’impresa:introduzione ai processi di diagnosi, risanamento e prevenzione”, ed. Giuffrè, Milano, 1988, pagg. 50-53.

8 Si identificano tre tipologie di rischi:

- accelerazione del processo tecnologico che fa diminuire il ciclo di vita dei prodotti e dei processi rendendo incerto il contesto in cui operano le imprese;

- allargamento degli spazi economici attraverso l’intensificarsi del rapporto internazionale che se da un lato consente di omogeneizzare i consumi, dall’altra l’entrata di nuovi prodotti che si posizionano sul mercato;

- la crescente scientificazione della finanza ed in particolare degli strumenti finanziari che risolvono il problema in modo più sofisticato da creare un crescente rischio generale di mercato. C. VERGARA, “Disfunzioni e crisi d’impresa:introduzione ai processi di diagnosi, risanamento e

prevenzione”, Giuffrè, Milano, 1988, pag. 61.

9 Cfr: PASSERI R. “Il governo della crisi d’impresa nelle operazioni straordinarie”, ed. Il Prato,

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4. lo stadio che si ripercuote sugli stakeholders dell’impresa: insolvenza e dissesto sono le manifestazioni più probabili.

Lo stato terminale della crisi è quindi l’insolvenza, cioè l’incapacità dell’impresa di affrontare con regolarità le obbligazioni e quindi i pagamenti in scadenza. L’intero sistema viene colpito e profondamente sconvolto, a tal punto che ogni intervento riparatore sembra difficile e con probabilità di successo molto ridotte, si distingue in questo caso tra insolvenza temporanea e definitiva.

L’insolvenza è giudicata temporanea nel momento in cui lo squilibrio finanziario è attenuato da due fattori essenziali, quali la permanenza di un residuo equilibrio patrimoniale dell’azienda, cioè un capitale netto positivo; e la presenza di prospettive economiche favorevoli, che permettano anche in seguito la possibilità di interventi per la ristrutturazione e il rilancio10 dell’impresa.

Quando invece l’insolvenza è definitiva non si può più pensare di risanare l’impresa, sempre che non esista da parte dei creditori la disponibilità di cancellare parte dei loro crediti.

La crisi, contrariamente alle disfunzioni costituisce una minaccia per l’equilibrio dell’intero sistema aziendale, e può causare la fase terminale dell’azienda stessa11.

Al verificarsi, delle condizioni che sfociano nella prospettiva di fase terminale dell’azienda, esistono tre soluzioni alternative, la prima delle quali corrisponde alla convenienza della cessione in blocco del complesso aziendale, nella seconda riposa la convenienza alla liquidazione volontaria e nella terza, infine, prende forma la necessità della liquidazione fallimentare.

10 La seconda condizione ha due significati:

- se non c’è recupero dell’equilibrio economico è da escludere la possibilità di recupero dell’equilibrio finanziario;

- in secondo luogo l’attesa ragionevole di un equilibrio economico è un elemento necessario per affermare l’esistenza in un futuro di un valore positivo del capitale netto.

Cfr: C. VERGARA, “Disfunzioni e crisi d’impresa:introduzione ai processi di diagnosi,

risanamento e prevenzione”, Giuffrè, Milano, 1988, pag. 70.

11 In tema di cause di “cessazione relativa” la dottrina economico-aziendale accoglie

correntemente la distinzione fra cause aziendali (fisiologiche, quali l’esaurimento del termine, compimento dell’oggetto di attività, cambiamento di investimento; patologiche, costituite da disfunzioni patrimoniali, finanziarie o economiche) e cause extra- aziendali (come malattia, disaffezione, morte del soggetto aziendale, impedimenti di legge, espropriazione…).

Cfr: PASSAPONTI B. “Premesse all’indagine sulle cause della fase terminale d’azienda”, ed.

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La scelta di una soluzione rispetto ad un’altra dipende dal livello di crisi che l’azienda attraversa e dal grado di “appetibilità” che essa ha sul mercato. Quando la dinamica aziendale comincia a manifestare sintomi di difficoltà funzionale il primo tentativo da porre in essere è cercare la ristrutturazione della combinazione, cioè occorre cercare di ristabilire l’equilibrio economico, in questa prima fase soltanto turbato ma non ancora compromesso. In questa fase si preferisce per le imprese di piccole e medie dimensioni attuare l’istituto della cessione12 o dell’intera azienda o di una parte di essa13, mentre invece nel caso di medio-grandi imprese, è la fusione14 che predomina come forma più risolutiva anche per salvaguardare determinati interessi sociali15.

Soltanto laddove tali situazioni non fossero più perseguibili, l’azienda entra nella sua ultima fase16 che è quella terminale17, la liquidazione rappresenta l’ultima “ratio” a cui il soggetto economico incorre quando la dinamica aziendale è tale da non permettere una possibilità di prosecuzione, con tale operazione si ha la

12 Per un maggior approfondimento sull’operazione di cessione d’azienda si veda AA.VV.,

“Manuale di Tecnica Professionale”, ed. Cedam, Padova, 2004, pag. 48 e segg.

13 Nel primo caso il complesso aziendale viene ceduto senza intaccarne l’unità, nel secondo caso

invece il complesso viene smembrato e le sue parti componenti vengono cedute ad operatori economici diversi, o comunque realizzate separatamente.

Secondo GIANNESSI nel caso di cessione totale “è possibile ottenere un compenso per il

maggior valore della combinazione nei confronti della somma dei valori dei singoli componenti, nel caso di liquidazione questa possibilità viene meno e non resta che il realizzo graduale dei fattori utilizzati” da “Le aziende di produzione originaria”, vol. I, ed. Le aziende

agricole, Pisa, 1960, pag. 457.

14 Per un maggior approfondimento su tale argomento si veda AA.VV. “Manuale di tecnica

Professionale”, ed. Cedam, Padova, 2004, pagg. 99- 183.

15 Interessi derivanti dalle imprese che collaborano a stretto contatto con l’impresa in crisi e che

rischiano anche loro la propria “vita” e non bisogna dimenticare il fattore lavoro, basti pensare che un’impresa di medio-grandi dimensioni ha livelli occupazionali, medio-alti, e che il cessare di questi rapporti causerebbe problematiche rilevanti.

16 Le diverse fasi aziendali di vita di un’azienda si distinguono in fase pre-aziendale,

istituzionale, di funzionamento e terminale. La pre-aziendale e l’istituzionale costituiscono le fasi di preparazione per il successivo svolgimento dell’attività vera e propria del complesso aziendale. Nella prima si matura la scelta fondamentale della costituzione dell’azienda e si impostano, tra gli altri, i problemi della forma, delle dimensioni e dell’ubicazione da darle nonché della predisposizione dei fattori produttivi. Tali problemi verranno poi affrontati nella seconda fase. Nella fase di funzionamento si sviluppano le operazioni tipiche della gestione della combinazione produttiva. La fase terminale è, infine, quella in cui si ha la cessione dell’azienda. Per un maggior approfondimento sull’operazione di cessione d’azienda si veda AA.VV., “Manuale di Tecnica Professionale”, ed. Cedam, Padova, 2004, pag. 53 e segg.

17 Un’ azienda entra nella fase terminale quando i costi dei suoi fattori produttivi utilizzati e il

margine di compenso per soggetto titolare del capitale investito non possono trovare adeguata copertura nei ricavi, soprattutto con riferimento al lungo andare. Da CARAMIELLO C. “L’azienda

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rottura dei nessi che caratterizzano la combinazione aziendale, e quindi con un inevitabile declassamento di valori dal livello funzionale a quello di realizzo18. Con la fase terminale, non cessa la vita dell’azienda ma soltanto nel momento finale di questa; durante la fase terminale si modifica lo scopo dell’azienda da raggiungimento dell’oggetto sociale, e quindi una fase dinamico-probabilistica, ad uno scopo che è il miglior soddisfacimento dei creditori e soci, è proprio a tal fine che si effettua la liquidazione aziendale, liquidazione intesa nel vero senso del suo significato, come conversione in denaro dei mezzi economici costituente il capitale19, con il fine del raggiungimento del nuovo scopo.

Si distingue tra liquidazione volontaria e liquidazione forzata, a seconda che la messa in liquidazione dell’azienda discenda da un atto consapevole dalla volontà del soggetto economico, oppure derivi da forze maggiori esterne20; ovviamente se tutti i soggetti aziendali decidessero la liquidazione al primo sintomo di antifunzionalità, logicamente suffragato da prospettive di sanatorie, non esisterebbero liquidazioni fallimentari. La liquidazione fallimentare la si può quindi definire come stati aziendali non funzionali per i quali non sono state prese in tempo utili decisioni di sanatoria o di fase terminale, a tale fase si arriva

18 “Il presupposto della cessione è l’esistenza di un complesso di beni e servizi legati da un

vincolo di complementarietà per il conseguimento di flussi di reddito duraturi e soddisfacenti. E’ tale prospettiva che qualifica l’impresa come avviata e che permette di negoziarla ad un prezzo orientato sul valore economico del suo capitale, calcolato proprio in funzione dell’economicità futura; viceversa, i presupposti su cui si fonda la liquidazione escludendo tali prospettive”, AA.VV., “Manuale di Tecnica Professionale”, Cedam, Padova, 2004, pagg. 273- 274.

19 Il capitale aziendale è variamente composto: in esso si trovano mezzi liquidi, per i quali non

sorge alcun problema di liquidazione, ma soprattutto mezzi non liquidi, per i quali nasce il problema della realizzazione. Il soggetto economico, deve cercare di perseguire in questa fase una realizzazione economica, cioè deve rendere convertibili in denaro i mezzi non liquidi in termini di massima convenienza economica.

20 AMADUZZI A. definisce “volontarie” le liquidazioni che sono espressione della libera volontà

dell’imprenditore, “forzate” quelle che dipendono da cause di forza maggiore, quali impedimenti di legge e procedimenti concorsuali; per CECCHERELLI, la differenza sostanziale

tra questi due tipi di liquidazione deve rinvenirsi nel fatto che quella volontaria postula la completa estinzione dei debiti e viene condotta nell’interesse del soggetto al quale attribuire l’eventuale residuo netto. Quella forzata, invece, non permette l’integrale soddisfacimento dei creditori, per cui la procedura verrebbe posta in essere al fine di ripartire tra essi il patrimonio, nel rispetto del fondamentale principio della “par conditio creditorium”. AA.VV. “Manuale di tecnica Professionale”, Cedam, Padova, 2004, pag. 276, CECCHERELLI A. “Economia

Aziendale”, ed. Barbèra, Firenze, 1948, pag. 60, AMADUZZI A. “Studi di economia aziendale”,

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quando dal perdurante disequilibrio, si verifica una “protesta” dell’ambiente nei confronti dell’azienda, manifestandosi nella richiesta e nella successiva decisione atta a fare cessare forzatamente l’attività21. Nelle varie ipotesi di liquidazione fallimentare, esiste sempre una responsabilità generica del soggetto aziendale, identificabile in un comportamento, variamente motivato, di rinuncia a decisioni atte a determinare l’ingresso dell’azienda nella fase terminale22.

La liquidazione fallimentare, o meglio il fallimento, è una situazione che determina danni non indifferenti, proprio a causa, come già accennato dell’interagire dell’azienda con l’ambiente esterno, si mettono quindi in gioco una molteplicità di interessi soprattutto quando a fallire sia un’azienda avente notevole rilevanza sul mercato, si può addirittura avere procedure riflesse di aziende di più piccole dimensioni, la cui esistenza era strettamente dipendente da quella dell’azienda fallita, basti pensare anche ai riflessi che si hanno nel mercato del lavoro23, si può quindi sostenere che, quando si manifestano delle crisi di mercato, queste spesso diventano sistematiche coinvolgendo a cascata una molteplicità di imprese.

Il Giannessi sosteneva che le aziende sono dotate di vita propria e riflessa: di vita propria, perché il moto di ciascuna azienda è differente da quello di ogni altra e dal moto stesso del sistema economico-generale; di vita riflessa, perché

21 Anche quando l’iniziativa parte dal soggetto economico stesso si può pensare che tale

iniziativa sia stata presa sotto pressione dei creditori, i quali si rivolgerebbero altrimenti direttamente all’autorità; quindi non si tratta di un’iniziativa volontaria ma di una riflessa.

22 Può esistere o può mancare del tutto, invece, una responsabilità specifica, relativa a varie

situazioni di fatto convergenti nell’ingiustificata estrazione di valori del capitale di funzionamento per scopi non connessi allo svolgimento della gestione. La legge fallimentare prevede le ipotesi di bancarotta fraudolenta di bancarotta semplice, collegabili rispettivamente alle situazioni di responsabilità specifica di cui si è detto. La responsabilità generica è inequivocabilmente attribuibile al soggetto titolare dei diritti e delle obbligazioni relativi all’attività aziendale, ma essa può essere diffusa a più livelli, cioè variamente ripartita fra le diverse figure di soggetto economico alle quali, con intensità differenti da caso a caso, è attribuito il potere decisionale. La responsabilità specifica, è maggiormente definibile in termini soggettivi. Per un maggior approfondimento si veda: GUGLIELMUCCI L., “Lezioni di diritto

fallimentare”, ed. Giappichelli, Torino, 2004, pag. 30; APICE U., “Soggetti e rapporti giuridici

nelle procedure concorsuali”, ed. Cedam, Padova, 2002, pag. 25.

23 “… E’ la struttura essenziale, quindi, di molteplici processi economici. Per ciò stesso assume

un rilievo sociale che viene meglio colto e apprezzato ove si consideri che essa ha la prerogativa di valorizzare il capitale e le energie di lavoro umano impiegando utilmente entrambe le risorse per produrre beni e servizi atti a soddisfare i bisogni dell’uomo. L’azienda è dunque una naturale fonte di lavoro e di ricchezza per la società”. PASSAPONTI B. “Premesse all’indagine

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un’azienda strappata dal mercato e dall’ambiente non è concepibile, ritrovando essa in questi elementi le sue ragioni essenziali di vita. La vita del sistema economico-generale si fonda sulla vita delle singole aziende e di questa assume le caratteristiche e le tendenze essenziali24.

1.2 La necessità di una nuova riforma

Come fin qui illustrato, ogni procedura fallimentare provoca un impatto sociale e dei riflessi economici importanti, lo strumento giuridico che ha permesso dal 1942, la tutela di tale procedura, è la Legge Fallimentare Regio Decreto 16 marzo 1942 n. 267, che ad oggi ha subito diverse modifiche che andrò qui di seguito ad illustrare.

L’inadeguatezza della normativa italiana in materia di crisi d’impresa, fondata in gran parte appunto sulla legge fallimentare del 1942 era da tempo comunemente riconosciuta, i difetti erano abbastanza evidenti dall’ eccessiva lunghezza delle procedure, ai costi elevati, all’incapacità di preservare i valori aziendali e soprattutto si riconoscevano rimborsi minimi se non assenti per i creditori. Le radici di tali problemi affondavano nella scarsa efficienza del sistema giudiziario, ma anche in una visione dell’economia e dell’impresa da parte del legislatore non più adeguate ai tempi. Basti pensare che il sistema produttivo italiano di oggi presenta caratteristiche ben diverse da quelle in cui si trovava all’epoca della promulgazione della legge fallimentare.

L’Italia ha compiuto, infatti, passi enormi in termini di sviluppo economico – sociale soprattutto con l’apertura ai mercati mondiali.

La struttura produttiva ha quindi cambiato volto; da un’economia agricola con poche imprese industriali impegnate nelle produzioni belliche si è passati ad una struttura produttiva di dimensioni rilevanti, molto articolata e distribuita in quasi tutto il paese. Il sistema delle imprese si presenta ad oggi così stratificato: una moltitudine di microimprese, artigianato e di imprese piccole dimensioni un

24 GIANNESSI E., “Considerazioni critiche intorno al concetto azienda”, ed. Giuffrè, Milano,

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rilevante segmento di medie imprese, (spesso grandi per le nicchie di mercato in cui operano), dalle quali in un prossimo futuro ci si attende un significativo sviluppo e pochissime grandi imprese multinazionali.

Con il passare del tempo è cambiata anche la visione dell’impresa in crisi, prima la si vedeva come qualcosa da “vendere e chiudere”, senza considerazioni dei valori intangibili quali ad es. marchi, know how, quote di mercato, logistica,…25 che si disperdono se l’impresa si arresta e che non diventa più appetibile per il mercato con la conseguenza di una grave perdita di valore che poi ovviamente si ripercuoteva sul minor realizzo e sulla minore soddisfazione dei creditori concorsuali.

Occorreva quindi diffondere una nuova cultura d’impresa e con essa anche la fiducia dell’imprenditore nelle soluzioni preventive della crisi, evitando che egli agisse per proprio conto, sperimentando operazioni rischiose, o ricorrendo a finanziamenti usurai o proseguendo nell’attività in perdita.

L’inadeguatezza del nostro sistema di diritto fallimentare, era resa ancora più evidente dal fatto che diversi paesi industrializzati, con le imprese dei quali le nostre aziende si trovano a competere quotidianamente, hanno approvato negli ultimi anni una nuova disciplina dell’insolvenza: è questo il caso di, Belgio, Germania, Regno Unito e da ultimo anche la Spagna e Francia26.

25 “Soprattutto era sorta l’esigenza di un recupero dei valori aziendali, del management, della

stessa organizzazione dei beni economici, non più individuabili nella proprietà di cose materiali, quanto piuttosto nei beni immateriali, nei risultati della ricerca, nelle esperienze di mercato e nell’organizzazione di servizi”. LO CASCIO G. “La nuova legge fallimentare: dal progetto di legge delega alla miniriforma per decreto-legge”, Il Fallimento, n. 04/2005, pag. 361.

26 La filosofia di fondo di questa riforma è “prevenire per non reprimere” avvicinando le

legislature a quella del Chapter 11, il diritto fallimentare negli Stati Uniti, che ha dato prova di funzionare bene e che permette agli imprenditori di chiedere la sospensione provvisoria dei debiti, prima di arrivare alla cessazione dei pagamenti. E’ dunque nel cercare di prolungare l’operatività delle aziende, limitare al minimo i casi di fallimento e sopperire alle fatalità delle scadenze finanziarie, che la nuova legge ha deciso di muoversi in due diverse direzioni, l’una direttamente legata all’altra. La prima è quella che permette di sospendere il pagamento dei debiti in modo da rinegoziare le condizioni e le scadenze con i creditori, il tutto assistiti da amministratori giudiziari che seguono da vicino la situazione e gestiscono direttamente i rapporti con le banche e fornitori. In questo modo l’azienda ottiene un’importante boccata d’ossigeno, oltre al fatto che l’imprenditore può continuare a dedicarsi anima e corpo alla gestione della società. La seconda procedura, detta di conciliazione, alle società che sono sull’orlo del fallimento di domandare l’intervento di un conciliatore incaricato di negoziare con i principali creditori. In questo caso la banca che deciderà di accordare un nuovo credito, sarà garantita di essere in posizione privilegiata per il rientro della sua esposizione. Nel caso poi che

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Tutti questi interventi riformatori che si sono succeduti in Europa hanno trovato ispirazione nel principio generale proprio del Bankrupcty Code Americano27 secondo il quale i creditori possono ricevere un maggior beneficio se l’impresa debitrice ha un’opportunità di riorganizzarsi e di continuare la propria attività, preservando il valore dell’avviamento, invece di procedere a una semplice liquidazione nelle condizioni economiche peggiori. Tale situazione penalizzava indubbiamente il nostro ordinamento nella concorrenza con gli altri paesi Europei, considerando in aggiunta anche l’entrata del nostro paese nella Comunità Europea.

Sembra quindi evidente come si sentisse una necessità di una riforma della legge fallimentare, che dal 1942 non aveva più subito modifiche28, a tal fine il 16

luglio 2006 è entrato in vigore il decreto legislativo del 9 gennaio 2006 n. 5, emanato in esecuzione della delega contenuta all’art. 1 comma 5 della legge del

lo stato, o ente decidesse di rinunciare per un certo periodo di incassare tasse e contributi, questa procedura può consentire loro di trasformare i crediti in azioni e diventare soci dell’impresa” CALCATERRA M. “Sospendere i pagamenti per prevenire le crisi”, Il sole 24 ore,20-03-2005, pag. 24.

27 Negli Stati Uniti, il diritto fallimentare è regolato dalla Bankruptcy code, emanato dal

congresso e contenuto nella Sezione 11 dello United States Code. Gli obiettivi primari perseguiti dalle norme fallimentari americane sono sostanzialmente quelli di:

- concedere al debitore onesto la possibilità di ricominciare, sollevandolo dalla maggior parte dei propri debiti;

- consentire ai creditori di rientrare in possesso di quanto loro dovuto in modo equo e secondo le concrete possibilità di cui dispone il debitore;

- riorganizzare un’attività economica mediante la ristrutturazione del debito o dell’impresa stessa o, in alternativa, fornire un quadro di riferimento per la liquidazione ordinata dell’azienda fallita; - impedire e/o porre rimedio ad azioni fraudolente poste in essere da debitori e/o creditori e che

non rientrano negli obiettivi perseguiti dalle leggi fallimentari.

Per un maggior approfondimento su tale disciplina si veda LINARES S. “La procedura fallimentare negli Stati uniti d’America”, LINARES ASSOCIATES, PLLC,

www.italy.newyork.com.

28BIANCHI A. L.“ contrariamente a una diffusa opinione, che la legge sul “fallimento” sia ferma

al 1942…. Se si considera la più ampia categoria delle procedure concorsuali, delle quali il fallimento in senso tecnico costituisce una parte, e non sempre la più significativa, molte sono state le riforme in questa materia. Dalla legge Prodi del ’79 rivista nel ’99 alla miniriforma dell’amministrazione controllata del 1978: alla recente una disciplina della liquidazione coatta amministrativa per banche e intermediari finanziari, numerosi sono stati gli interventi di riforma. Bene o male, la stessa disciplina del fallimento è assai cambiata in questi decenni: a volte indirettamente, essendo cambiate disposizioni di legge alle quali essa faceva riferimento, altre volte grazie a interpretazioni evolutive della magistratura, anzitutto per i numerosi interventi della Corte Costituzionale……. In molti tribunali, poi, si applicano regole e “riti” (celebre quello ambrosiano) che non stanno scritti nella legge, ma ai quali operatori e professionisti, volenti o nolenti, si adeguano scrupolosamente…”, BIANCHI A. L., “Per i

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14 maggio 2005 n. 80. Questo decreto, insieme con l’art. 2 del D. L. 35/2005 (“decreto sulle competitività”) ha completato la tanto attesa riforma delle procedure concorsuali e porta l’intitolazione di riforma “organica”.

Tale progetto di riforma predisposto dalla Commissione Trevisanato, è stato in gran parte influenzato dall’esperienza Americana, ma vista la realtà economica ben diversa del nostro paese, tale linea a seguito quella delle discipline dei principali paesi europei, e tutte convergono su tre passaggi: aiutare l’impresa che è in difficoltà, facendo in modo che la situazione venga in rilievo in tempo utile, lasciare spazio all’autonomia privata, riconoscere al giudice un controllo di legittimità sui patti tra debitore e creditore29.

Dopo 60 anni circa e dopo vari tentativi non andati a buon fine30, oggi la legge

fallimentare è stata rinnovata per adeguarsi quindi al nuovo contesto economico e per tenersi al passo con gli altri paesi

Molte sono state le critiche e i consensi a questo cambiamento, mi sembra doveroso riportarne i più incisivi.

Secondo l’ex capo ispettore generale del ministro della Giustizia G. Schiavon, in quel momento in carica, nel ribadire la necessità di una revisione della legge fallimentare del 1942, sosteneva che il tempo ha fatto modificare la filosofia del fallimento e i suoi ruoli. Il testo di riforma segue quest’evoluzione salvaguardando, per quanto possibile, il patrimonio aziendale, infatti la

29 “Non sarà un “Chapter 11” all’italiana, ma la “filosofia” è la stessa”, BELLINAZZO M., “La

rincorsa italiana”, Il sole 24 ore, sez. Commenti e Inchieste, 16-09-2005, pag. 10.

30 Una storia agitata quella della riforma nei diversi anni, soprattutto nella penultima legislatura

che ha poi è comunque riuscita a “portare a casa” anche questa riforma. Infatti, all’inizio della legislatura venne istituita una commissione, presso il ministero della Giustizia, con l’obiettivo di arrivare alla preparazione di un disegno di legge delega sulle nuove procedure concorsuali. Alla guida della commissione, Trevisanato, che si trovò alle prese con un organismo estremamente numeroso e probabilmente con un bilanciamento delle diverse professionalità e provenienze non del tutto equilibrato. A cristallizzarsi furono due opposte posizioni: da una parte chi puntava a un ammodernamento della disciplina senza abbassare la tutela dei creditori e conservando all’intervento del giudice un ruolo di primo piano; e quella di chi più fiducioso nelle capacità dell’autonomia privata di trovare un assetto soddisfacente agli interessi in gioco, credeva fosse arrivato il momento per rivedere da cima in fondo meccanismi vecchi di decenni. Si ebbe quindi come risultato un testo aperto con soluzioni proposte da maggioranza e opposizione su alcuni punti fondamentali, difficile quindi trovare un punto d’unione. Tanto è che il ministro Castelli, decise di ripartire dalle cose che a suo parere erano positive e mise a lavoro una minicommissione di tecnici, sempre guidata da Trevisanato, che in poche settimane tracciò la prospettiva di riforma delle procedure concorsuali. CALCATERRA M. “Sospendere i pagamenti

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preoccupazione principale deve essere mantenere in vita l’azienda e salvare i posti di lavoro31.

Il ex ministro della giustizia R. Castelli ha definito la riforma una “rivoluzione copernicana”: “… E’ uno strumento assolutamente importante e fondamentale per la competitività del nostro paese. E’ stato un iter difficile, complesso e travagliato, però ne siamo usciti con un testo largamente condiviso, soprattutto dagli operatori….. Dopo questa riforma il Paese sarà certamente più moderno e più competitivo. Cambierà praticamente tutto. Il provvedimento fallimentare non sarà più destinato a giacere nelle aule dei tribunali per anni, alcune volte addirittura decenni, ma saranno i creditori, assieme ai vari personaggi che stanno subendo questo stato di crisi a decidere cosa fare dell’azienda e possibilmente salvarla”32; secondo Michele Vietti ex sotto segretario all’economia, “con questa riforma è l’intera filosofia della crisi d’impresa che viene adeguata alla moderna realtà economica in cui le regole giuridiche devono essere funzionali alle dinamiche di mercato rinunciando ad impostazioni dirigistiche e a ruoli impropri dell’intervento pubblico”33, il presidente dell’Abi, ha colto l’occasione per sollecitare l’approvazione di una riforma della disciplina sui fallimenti d’impresa. Il presidente dell’Abi ha fornito 4 motivazioni forti: “ il primo è che una recente indagine ha dimostrato come il costo supportato dall’intera collettività come effetti diretti e indiretti di un fallimento industriale è pari a 4 volte il fatturato dell’impresa, dopo 5 anni. Il secondo è che una riforma efficiente potrebbe consentire un abbassamento dell’1% nel costo del denaro. Il terzo motivo è che con una riforma efficace anche gli investimenti diretti dall’estero potrebbero aumentare. Infine con i nuovi accordi di Basilea 2 alle banche viene richiesto un accantonamento maggiore a scopo prudenziale se la previsione di perdita è maggiore. Dunque le banche italiane sono penalizzate

31 Cfr. Relazione da SEMINARIO ENTE DI PREVIDENZA DEGLI AVVOCATI, “Riforma del diritto

fallimentare e correzioni al nuovo diritto societario”, 30-06-2004.

32 AA.VV., “Legge sui crac, meno sanzioni e più mercato”, Il corriere della sera, 23-12-2005,

pag. 25.

33 AA.VV., “Legge sui crac, meno sanzioni e più mercato”, Il corriere della sera, 23-12-2005,

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rispetto alle consorelle straniere34” sempre il presidente dell’ Abi in un ulteriore intervento si esprime dicendo “sarà comunque il sistema economico ad avvantaggiarsi della logica perseguita dalla riforma: privilegiare, là dove possibile, il salvataggio delle imprese. Tanto che il centro studi dell’Abi ha stimato, un aumento stabile del Pil dello 0,5%”35; la vecchia normativa fallimentare secondo Micossi, direttore generale di Assonime, la nostra normativa fallimentare seguiva il paradosso della “trappola e del topo”, secondo il quale “nessuno, tanto meno dall’estero, è invogliato a investire in un sistema che intrappola chi vuole rischiare capitali con procedure che durano anni e anni. Un istituto come quello dell’esdebitazione, serve a restituire certezza ai rapporti giuridici. Di sicuro, poi, la riforma è più aderente a una realtà d’impresa sempre meno legata a schemi tradizionali, frutto di un meccanismo produttivo ormai superato. Oggi l’impresa è know how, marchi, capacità: tutti aspetti su cui è difficile mettere i sigilli dell’ufficiale giudiziario36” .

Da quanto fin qui detto, si può ricavare che si è posta nel tempo una nuova concezione del fallimento, non più considerato come una sanzione per l’imprenditore fraudolento o colpevole del dissesto, ma come rimedio per determinare la liquidazione dell’impresa nel modo meno traumatico alla quale era opportuno affiancare altre soluzioni della crisi, la previsione di conseguenze personali per il fallito che configurano uno “stigma” sociale possono minare l’incentivazione ad assumere il rischio.

Da un sistema legislativo orientato ai creditori si passa quindi ad uno orientato all’impresa. Da uno preoccupato soprattutto di proteggere, anche a costo di una liquidazione intempestiva, i diritti dei creditori ad un altro che induce a porre in primo piano la salvezza dell’impresa a certe condizioni e comunque con qualche rischio per i creditori.

34 BOCCIARELLI R., “Fallimenti non punitivi”, Il sole 24 ore sez. Norme e Tributi, 17-07-2004,

pag. 24.

35 AA.VV., “Sella: il paese ha bisogno di una revisione delle regole”, Il sole 24 ore, sez. Norme

e Tributi, 10-11-2004, pag. 25.

36 NEGRI G., “Fallimenti, sì da banche e imprese”, Il sole 24 ore, sez. Norme e Tributi,

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La nuova legge offre, alle imprese, la possibilità di meglio affrontare le crisi, togliendo molte remore alla loro tempestiva emersione accordando la facoltà di ricercare soluzioni stragiudiziali con i creditori e, se del caso, ricorrendo alle forme proposte di procedure concorsuali, si può dire che la risposta italiana all’esigenza di assecondare con una tutela giudiziaria anticipata ed efficiente le soluzioni privatistiche e di impronta negoziale alternative alle procedure concorsuali liquidatorie è realizzabile con l’utilizzo di due nuovi strumenti ; un concordato preventivo37 completamente rivisto38 e gli accordi di ristrutturazione dei debiti (art. 182 bis L.F.)39.

Per quanto invece riguarda il fallimento, le novità introdotte riguardano tutte le fasi della procedura, si può dire che l’intervento del legislatore si è verificato lungo cinque punti fondamentali.

Il primo riguarda la struttura fondamentale del fallimento, inerente i compiti assegnati agli organi della procedura ed al conseguente equilibrio tra i

37 Nella nuova mappa il concordato preventivo si colloca come l’istituto centrale della disciplina

dell’insolvenza, lo si vede come la procedura atta a superare ogni genere di crisi è la via quasi obbligata da cui passare prima di incorrere alla liquidazione fallimentare, si mira al salvataggio dell’impresa e al soddisfacimento dei creditori;non esiste più l’amministrazione controllata, in quanto quello che tale procedura assicurava può oggi essere raggiunto attraverso la procedura di concordato preventivo. Le modifiche apportate prevedono la semplificazione dell’accesso a questa procedura; non sarà più necessario lo stato d’insolvenza dell’imprenditore, ma basterà un semplice stato di crisi per garantire l’ammissione al concordato; vengono limitati anche i requisiti di merito e le soglie di pagamento dei creditori, il tutto per favorire la procedura minore in luogo del fallimento. La precedente disciplina prevedeva inoltre, quale condizione per la proposta di concordato, che l’imprenditore offrisse il pagamento di almeno il 40% dei creditori chirografari. Tale disposizione viene eliminata dall’attuale disciplina rendendo possibile, anche un accordo che non soddisfi alcun requisito minimo posto a tutela dei creditori.Cfr:NEGRI G. “Tre fasi per cambiare. Decisivo il ruolo delle procedure in allerta”, Il sole 24 ore, sez. Norme e Tributi, 01-07-2004, pag. 25;

38 Per un maggior approfondimento si veda: BOZZA G., “La proposta di concordato preventivo,

la formazione delle classi e le maggioranze richieste dalla nuova disciplina”, Il fallimento, n. 10/2005, pag. 1208 e segg.

39 Ulteriore novità, come accordo extra-giudiziale è disciplinato dall’art. 182 bis L.F.,

prevedendo la possibilità per il debitore di depositare, unitamente alla proposta di concordato preventivo un accordo di ristrutturazione dei debiti stipulato con i creditori rappresentanti almeno il 60% dei crediti, a cui va poi allegata una relazione redatta ad assicurare il regolare pagamento dei creditori estranei. Tale accordo è ovviamente pubblicato sul registro delle imprese Per un maggior approfondimento si veda BONFATTI E. “La riforma della disciplina

dell’azione revocatoria, concordato preventivo e accordi di ristrutturazione”, ed. Cedam, Padova, 2006.

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medesimi40. E’ nel mutato assetto dei protagonisti della procedura che si manifesta la “rivoluzione copernicana” della nuova disciplina. Il comitato dei creditori da organo meramente consultivo, mai vincolante nei pareri (eccetto che nella prosecuzione dell’esercizio provvisorio) e quasi percepito come un intralcio dalle curatele, assume oggi poteri decisori e autorizzatori, nonché di vigilanza sull’intero processo fallimentare; tale aspetto sembra coerente con la filosofia “liberale” della riforma: riducendo l’intervento dello Stato (rappresentato dall’ordine giudiziario), nella valutazione degli interessi economici in gioco, e aumentando la disponibilità dei diritti in capo ai creditori, riuniti in un consiglio; tale rinnovato rilievo attribuito a quest’organo nasce sulla scia di quanto previsto negli ordinamenti dei paesi più evoluti. Per quanto riguarda la figura del curatore, esso vede considerevolmente aumentare i propri poteri e le proprie responsabilità e viene meno anche la regola, in virtù della quale la funzione del curatore poteva essere assunta soltanto da persone fisiche. Il giudice delegato e il tribunale vedono, fortemente ridimensionato il loro ruolo, ferma la loro insostituibile funzione per quanto concerne la risoluzione della controversia e la tutela giurisdizionale dei diritti soggettivi coinvolti nel fallimento41.

Il secondo è l’introduzione nel nostro diritto positivo dell’istituto dell’esdebitazione42: con tale istituto si riconosce al fallito, a seguito della conclusione della procedura di fallimento, il diritto a veder cancellati i debiti non soddisfatti attraverso la liquidazione dell’attivo attuata nell’ambito della procedura concorsuale43; si libera così il fallito dai vincoli connessi al mancato

40 Il presente argomento sarà successivamente approfondito nel paragrafo 1.5. Gli organi della

procedura fallimentare del presente lavoro.

41 Su questo punto le associazioni di categoria quali Confindustria, Abi, Ania e Assonime hanno

sottolineato in molte occasioni di non essere d’accordo con questa ridifizione degli organi. A tale proposito si veda: NEGRI G. “Fallimenti si tratta ancora”, Il sole 24 ore sez. Norme e

Tributi, 14-09-2005; BOCCIARELLI R. “Riforma dei fallimenti ancora da completare”, Il sole 24 ore, sez. Norme e Tributi, 15-02-2006; AA. VV., “Riforma fallimenti in aiuto del PIL”, Il sole 24 ore, sez. Norme e Tributi, 11-05-2006, pag. 23.

42 Tale istituto già noto ai sistemi anglosassoni (c.d. discharge) è stato recentemente accolto

anche dal diritto tedesco.

43 In tale modo, penso, si eviterà anche il fenomeno presente in cui ex falliti sono costretti ad

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pagamento dei creditori44. Tale istituto si applica ai casi in cui il fallito si è comportato bene durante lo svolgimento del fallimento, collaborando con gli organi della procedura e la si esclude quando vi siano stati, sia prima che dopo il fallimento, comportamenti fraudolenti45. Accanto all’esdebitazione va poi collocata la soppressione del pubblico registro dei falliti, come strumento per l’applicazione al fallito di incapacità personali46.

Il terzo sono le revocatorie fallimentari; il legislatore su tale argomento delicatissimo e parecchio controverso soprattutto negli ultimi decenni, in quanto costituisce uno dei capitoli portanti della procedura, è intervenuto con una disciplina radicalmente nuova, mediante la quale l’ambito di applicazione della revocatoria stessa è stato radicalmente ridimensionato, infatti si è dimezzato il “periodo sospetto47” e inoltre si è introdotto un corposo insieme di esenzioni48

44 Non vi sono limiti quantitativi all’esdebitazione, che dunque può condurre all’annullamento

del debito residuo, indipendentemente dalla sua consistenza. Cfr. AA.VV., “L’esdebitazione non fa residuo”, Il sole 24 ore, sez. Norme e Tributi, 20-02-2006, pag. 31; AA. VV., “La riabilitazione è il vero cambiamento”, Il sole 24 ore, sez. Professioni e Lavoro, 19-07-2006 pag. 11;

45 Per poter usufruire dell’esdebitazione occorre che l’imprenditore sia in possesso di

determinati requisiti, essi sono:

- aver cooperato con gli organi della procedura;

- non aver beneficiato di altra esdebitazione nei dieci anni precedenti; - nell’aver consegnato al curatore la propria corrispondenza;

- nel non aver tenuto comportamenti penalmente rilevanti, quali distrazione dell’attivo o esposizione di passività inesistenti, causazione o aggravamento del dissesto rendendo difficile la ricostruzione del patrimonio e degli affari, ricorso abusivo al credito ovvero nel non avere riportato condanne per bancarotta fraudolenta o per delitti contro l’economia pubblica.

AA.VV., “L’esdebitazione non fa residuo”, Il sole 24 ore, sez. Norme e Tributi, 20-02-2006, pag. 31.

46 L’art. 50 nella vecchia formulazione prevedeva carattere sanzionatorio tramite l’iscrizione

nell’albo dei falliti, cui si ricollega una serie di incapacità speciali.

Cfr: art. 50 L.F.PUBBLICO REGISTRO DE FALLITI: Nella cancelleria di ciascun tribunale è tenuto

un pubblico registro nel quale sono iscritti i nomi di coloro che sono dichiarati falliti dallo stesso tribunale, nonché di quelli dichiarati altrove, se il luogo di nascita del fallito si trova sotto la giurisdizione del tribunale. Le iscrizioni dei nomi dei falliti sono cancellate dal registro dei falliti in seguito a sentenza del tribunale. Finchè l’iscrizione non è cancellata, il fallito è soggetto alle incapacità stabilite dalla legge. Le norme per la tenuta del registro saranno emanate con decreto del Ministro per la Grazia e Giustizia. Fino all’istruzione del registro dei falliti le iscrizioni previste dal presente articolo sono eseguite nell’albo dei falliti attualmente esistente.

47 Il lasso anteriore all’inizio del fallimento, nel quale possono essere stati compiuti atti

sottoposti a revoca.

48 Per l’approfondimento di tale argomento si veda paragrafo 3.4. “Le novità in tema di

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Il quarto punto fondamentale riguarda la gestione e liquidazione dell’attivo, non soltanto con una nuova disciplina dell’esercizio provvisorio dell’impresa ma anche mediante apposite norme sull’affitto49.

Il quinto è la nuova risoluzione delle controversie fallimentari, il legislatore ha assunto come modello, quello camerale50.

Una profonda modifica ha investito anche i presupposti per la dichiarazione di fallimento, cioè quei vincoli che devono essere soddisfatti perché si possa accedere alla procedura fallimentare, essendo tale argomento affrontato nel prossimo paragrafo, rimando a tale sede il confronto con la vecchia disciplina.

1.3 I presupposti della procedura

Non tutte le crisi patologiche aziendali sfociano nella procedura fallimentare,51 perché questo possa accadere occorre la coesistenza di due tipi di presupposti quello oggettivo e quello soggettivo, relativamente disciplinati all’art. 5 e all’art. 1 L.F..

L’apertura del fallimento richiede una situazione particolare: l’insolvenza, art. 5 L.F.52 che sussiste quando il debitore non è in grado di soddisfare regolarmente53

49 Per l’approfondimento di tale argomento si veda paragrafo 3.3. “L’affitto dell’azienda” del

presente lavoro.

50 “Dietro questa scelta non si deve vedere una presa di posizione di carattere concettuale, volta

a negare il carattere contenzioso dei procedimenti in questioni, ma vi si deve vedere invece la ben diversa idea, in virtù della quale il “rito camerale” è un “contenitore neutro”, capace di adattarsi anche alla giurisdizione contenziosa ogni qualvolta quest’ultima abbia bisogno di essere particolarmente celere”. RICCI E. “Cambiano i rapporti tra fallito, creditori e autorità giudiziaria”, Il sole 24 ore, sez. Le guide del professionista, 22-06-2006.

51 “Il sistema si fonda su una scelta politica, in virtù della quale, quando i presupposti del

fallimento sono presenti, il fallimento è preferito come mezzo di attuazione della responsabilità patrimoniale agli altri istituti del diritto positivo tendenti al medesimo fine; e si vuole che il fallimento abbia luogo, proprio affinché tale scelta si realizzi con coerenza e rigore. Si fa insomma in modo che alla constatazione dei presupposti faccia seguito l’effettivo inizio della procedura, affinché i creditori non abbiano più alcuna scelta sullo strumento da impiegare; e i creditori sa da un lato restano liberi di scegliere tra il rendersi attivi e non rendersi attivi, vengono vincolati quanto al mezzo:è il fallimento il mezzo posto a disposizione per coloro che vogliono perseguire la soddisfazione dei loro crediti”, C. CARANO “L’apertura del fallimento”,

ed. Giuffrè, Milano, 2001, pag. 11.

52 Art. 5 L.F. STATO DI INSOLVENZA: L’imprenditore che si trova in stato di insolvenza è

dichiarato fallito. Lo stato di insolvenza si manifesta con inadempimenti od altri fattori esteriori, i quali dimostrino che il debitore non è più in grado di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni.

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le proprie obbligazioni54, per essere venute meno le condizioni di liquidità e di credito.

Bisogna però evidenziare la differenza tra inadempimento e stato di insolvenza. L’inadempimento consiste nella mancata esatta prestazione di ciò che era dovuto e si riferisce ad una determinata obbligazione e si concretizza in una mancata prestazione, tale concetto però ha diverse sfaccettature nel senso che non sempre il mancato adempimento è sintomo di insolvenza può accadere che esso si verifichi per una semplice dimenticanza o per una ragione direttamente riferibile a quel particolare cliente, l’insolvenza invece è un concetto un pochino più particolare e riguarda una situazione più globale perché si riferisce a tutta la

53 L’avverbio regolarmente indica non solo alle debite scadenze, ma anche con mezzi normali in

relazione all’ordinario esercizio dell’impresa”. Sotto il profilo della tempestività dell’adempimento si distingue tra difficoltà momentanea, quando l’imprenditore è comunque in grado i reperire in un ragionevole lasso di tempo quei mezzi normali di pagamento che sono idonei ad estinguere le passività non più dilazionabili, in tal caso non è ravvisabile lo stato d’insolvenza e difficoltà temporanea nel senso che il debitore è in grado di reperire i mezzi necessari a far fronte alle proprie obbligazioni, ma non in un lasso di tempo ragionevole egli è insolvente (arco di tempo superiore ai 2 anni non può essere ammesso alla procedura di amministrazione controllata), GUGLIELMUCCI L. “Lezioni di diritto fallimentare”, Giappichelli, Torino, 2004, pag. 30 e segg. Cfr: “L’unico elemento che diversifica la temporanea difficoltà di adempiere le obbligazioni, quale presupposto oggettivo dell’ammissione alla procedura di amministrazione controllata, dallo stato d’insolvenza, quale presupposto oggettivo della dichiarazione di fallimento è la reversibilità della crisi che caratterizza la prima situazione, nel senso che, pur trovandosi l’imprenditore nell’impossibilità di adempiere regolarmente e con mezzi normali le proprie obbligazioni, sussistono tuttavia sintomi di una inversione di tendenza, tali da giustificare la formulazione della prognosi dell’evoluzione delle condizioni economiche dell’imprenditore verso la rimozione dello stato d’insolvenza” si veda la Sentenza della CASSAZIONE SEZIONI UNITE, 14 dicembre 1977, n. 4370.

54 “L’art. 683 dell’abrogato codice di commercio disponeva che il commerciante che cessa di

fare i suoi pagamenti per obbligazioni commerciali è in stato di fallimento,. Partendo dalla interpretazione letterale di questa norma, Bolaffio elaborò la tesi dell’equivalenza fra inadempienza e fallimento, che considerava il mero fatto esteriore della cessazione dei pagamenti come elemento necessario e sufficiente per la dichiarazione di fallimento, prescindendo dall’esame delle cause che avevano determinato detta cessazione. Tale teoria, però rimase ben presto isolata nella nostra dottrina, anche in epoca antecedente la riforma del 1942. Vivacemente la confutò Bonelli, indicando l’insolvenza piuttosto che l’inadempienza, quale fondamento causale della procedura di fallimento e riducendo gli inadempimenti a semplici fatti sintomatici dell’insolvenza, posti sullo stesso piano di altri fatti egualmente evidenzianti una situazione d’impotenza patrimoniale (es. fuga del commerciante, chiusura esercizio commerciale….) il commerciante insolvente si identificava, pertanto secondo Bonelli con il commerciante screditato per una evidente impotenza economica. Questa fu la tesi condivisa da tutta la dottrina dell’epoca e si riflesse su tutti i progetti di riforma della legislazione commerciale succedutasi dal primo dopoguerra fino alla codificazione del 1942 e che tutt’ora dopo la recente riforma non subisce cambiamenti. FIALE A., “Diritto fallimentare”, ed.

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situazione del soggetto e non consiste necessariamente in una mancata prestazione.

Si definisce infatti insolvente anche chi non può pagare tutti i suoi creditori, ma anche chi può pagarne alcuni o pagare parzialmente i suoi debiti; ovvero pagare tutto ma in tempo successivo alle scadenze o pagare ma non con mezzi normali di pagamento.

Cosi Ferrara ha definito lo stato d’insolvenza del debitore “l’imprenditore che non può soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni o perché non ha nel suo patrimonio i mezzi per effettuare il pagamento o perché non può procurarseli, cioè l’imprenditore che ha perso il credito e non ha attività sufficienti a fronteggiare il passivo”55.

Su tale concetto, bisogna precisare che, è del tutto irrilevante che l’attivo dell’impresa superi il passivo e che la valutazione globale dei beni dell’imprenditore consenta di ritenere raggiungibile, in astratto, la completa copertura dei debiti liquidi ed esigibili, occorre che al pagamento di tali debiti l’imprenditore possa provvedere senza ricorrere a mezzi anormali di pagamento56. Allo stesso modo, l’eccedenza del passivo sull’attivo che può invece a sua volta rappresentare a primo impatto una situazione d’insolvenza non vi si ricollega direttamente, tale situazione deve avere carattere permanente, non può ricollegarsi ad una incapacità temporanea di adempire. Infatti bisogna sottolineare che il sistema concorsuale non lascia spazio all’indagine sulle cause dell’insolvenza, quello che conta è l’obiettiva incapacità dell’imprenditore di adempiere e non le cause che hanno generato la crisi.

55 Secondo la CORTE DI CASSAZIONE sentenza del 28 giugno del 1985 n. 3877, l’insolvenza, per

la suprema corte, si identifica con uno stato di impotenza funzionale e non transitoria a soddisfare le obbligazioni contratte dall’impresa e si esprime, secondo una tipicità desumibile dai dati dell’esperienza economica, nell’incapacità di produrre beni con margini di redditività tali da essere sufficienti per la copertura delle esigenze dell’impresa e fra queste, in primo luogo, l’estinzione dei debiti; nonché nell’impossibilità di ricorrere al credito a condizioni normali e senza essere costretti a ravvisare decurtazioni del patrimonio.

56 Operazioni di finanziamento e di liquidazione sono considerate fuori dal normale mezzo di

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Sotto l’altro aspetto quello soggettivo l’art. 157 della legge fallimentare stabilisce dei parametri, sia di tipo quantitativo che qualitativo,58 da un lato fornisce una definizione cosiddetta quantitativa e dell’altro identifica le categorie di soggetti fallibili, includendo gli imprenditori che esercitano un’attività commerciale ed escludendo gli enti pubblici e il piccolo imprenditore59.

Sotto il primo aspetto, quello di tipo quantitativo, l’introduzione nel nuovo testo di legge di specifici limiti dimensionali ha permesso di risolvere la questione dell’assoggettabilità delle piccole società commerciali e dei piccoli imprenditori, la cui incerta definizione in passato aveva generato diversi dubbi interpretativi

60, la nuova formulazione introduce una definizione oggettiva di “piccolo

57 Art. 1 L.F. : IMPRESE SOGGETTE AL FALLIMENTO E AL CONCORDATO PREVENTIVO: Sono

soggetti alle disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo gli imprenditori che esercitano un’attività commerciale, esclusi gli enti pubblici ed i piccoli imprenditori.

Ai fini del primo comma, non sono piccoli imprenditori gli esercenti, un’attività commerciale in forma individuale o collettiva che, anche alternativamente:

a) hanno effettuato investimenti nell’azienda per un capitale di valore superiore a euro trecentomila;

b) hanno realizzato, in qualunque modo risulti, ricavi lordi calcolati sulla media degli ultimi tre anni o dall’inizio dell’attività se di durata inferiore, per un ammontare complessivo annuo superiore a euro duecentomila.

I limiti di cui alle lettere a e b possono essere aggiornati ogni tre anni con decreto del ministro della giustizia sulla base della media delle variazioni degli indici ISTAT dei prezzi al consumo per le famiglie di operai e impiegati intervenute nel periodo di riferimento”.

58 Nel rispetto della legge delega (n. 80/2005) che richiedeva l’estensione dell’ambito dei

soggetti esclusi dal fallimento, con l’art. 1 del d lgs. 5/2006 è stato profondamente innovato l’art. 1 della legge fallimentare ridefinendo l’ambito soggettivo di applicazione dell’istituto in discorso. Infatti le modiche attengono all’ampliamento dei soggetti esonerati dalla procedura a tutti gli imprenditori commerciali, a prescindere dall’attività esercitata.

59 Come appare evidente, diversi sono i criteri adottati nell’una e nell’altra norma, infatti: nella

legge fallimentare si ha riguardo, quale indice delle dimensioni dell’impresa, alla quantità di reddito prodotto dall’imprenditore (criterio c.d. “quantitativo”) e nel codice civile, invece, si ha riguardo al modo in cui quel reddito è prodotto, e cioè alla circostanza che l’imprenditore si avvalga del lavoro proprio e dei componenti della propria famiglia (criterio c.d. qualitativo).

60 Nel sistema previgente, alla nozione codicistica di piccolo imprenditore si affiancava, in un

primo momento, la definizione data dall’articolo 1, comma 2, del regio decreto 267/1942, secondo cui: “sono considerati piccoli imprenditori gli imprenditori esercenti un’attività commerciale, i quali sono stati riconosciuti, in sede di accertamento ai fini della imposta di ricchezza mobile, titolari di un reddito inferiore al minimo imponibile. Quando è mancato l’accertamento ai fini dell’imposta di ricchezza mobile sono considerati piccoli imprenditori gli imprenditori esercenti un’attività commerciale nella cui azienda risulta essere stato investito un capitale non superiore a lire novecentomila. In nessun caso sono considerate piccoli imprenditori le società commerciali” la quale poneva un limite quantitativo basato su due criteri:il reddito prodotto e il capitale investito. Tale ultima definizione è venuta meno, a seguito dell’abolizione dell’imposta sulla ricchezza mobile e, della dichiarazione di incostituzionalità, per violazione dell’articolo 3 della costituzione, nella parte in cui prevedeva che, in caso di mancato accertamento ai fini dell’imposta di ricchezza mobile, sono piccoli imprenditori quelli

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imprenditore” stabilendo che non è tale l’imprenditore commerciale o collettivo, che anche alternativamente abbia effettuato in azienda investimenti per capitale di valore superiore ad 300.000 euro e61 abbia realizzato in qualunque modo risulti, ricavi lordi medi negli ultimi tre anni o dall’inizio dell’attività se di durata inferiore) superiori a 200.000 euro.

Per investimenti effettuati nell’azienda per un capitale superiore a 300.000 euro, non è del tutto chiaro cosa debba intendersi con l’espressione “investimenti effettuati nell’azienda” ovvero se questi debbano limitarsi al solo capitale proprio apportato dai soci, oppure, riferirsi al totale degli investimenti effettuati in azienda, con l’ausilio sia dei mezzi propri che dei capitale di terzi.

Aderendo alla seconda interpretazione, che sembra meglio rispecchiare la normativa, il parametro di riferimento sarebbe rappresentato dal totale dell’attivo patrimoniale.

Ci si trova di fronte quindi ad alcuni problemi che potrebbero sorgere nel corso dell’istruttoria pre-fallimentare, infatti si sottolinea che:

• non è chiaro se l’attivo patrimoniale debba intendersi al lordo o al netto delle sue poste rettificative (es. fondi ammortamento);

esercenti un’attività commerciale nella cui azienda risulta investito un capitale non superiore a 900mila lire, rendendo utilizzabile, quale unico criterio, la norma codicistica che pone criteri di tipo sostanziale. In particolare la giurisprudenza ha riaffermato che: “Nel fallimento, ai fini della distinzione tra piccolo, medio e grande imprenditore.. bisogna tener conto dell’attività svolta, dell’organizzazione dei mezzi impiegati, dell’entità dell’impresa e delle ripercussioni che il dissesto produce nell’economia generale, sottolineando la necessità di valutare, caso per caso, se l’imprenditore fosse o meno definibile come “piccolo”. La problematica si era posta soprattutto per quanto concerne l’inserimento, nella categoria dei piccoli imprenditori, dell’artigiano, elencato espressamente dall’articolo 2083 c.c., ma non per questo automaticamente, escluso dal fallimento. La suprema corte, sul punto, si è così espressa: “In particolare, l’artigiano diventa un normale imprenditore commerciale e, conseguentemente deve essere assoggettato al fallimento…. Quando organizzi la sua attività in modo da costituire una base di intermediazione speculativa e da far assumere al suo guadagno, normalmente modesto, i caratteri del profitto, realizzando cosi una vera e propria organizzazione industriale, avente autonoma capacità produttiva, in cui l’opera del titolare non è più essenziale né principale. La preminenza del criterio “sostanziale” rispetto a quello “formale”, implica che, per la suddetta impresa i requisiti per essere iscritta nell’albo non assurgono ai principi generali idonei a sovrapporsi alla regolamentazione codicistica, né in particolare alla disciplina posta dal citato art. 2083, con la già indicata conseguenza che solo a quest’ultima, e non alla richiamata legislazione speciale, può farsi riferimento per la soluzione dei problemi insorgenti in materia fallimentare”, AA.VV., “Introdotti parametri di tipo qualitativo per la definizione di piccolo imprenditore”, Il sole 24 ore, sez. Guida Normativa, 25-02-2006.

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