AGOSTINO E LA SCOPERTA DELLA
LIBERTÀ
Le origini di Pelagio
• Pelagio nasce in Britannia, tra il 355 e il 360 d. C.
da genitori probabilmente cristiani. Sembra che
sia stato educato in scuole romane operanti in
Inghilterra (lo si deduce dalla sua cultura
classica).
• A Roma giunge forse ventenne nel 375-380 per
compiere studi giuridici e qui decide di
battezzarsi, assumendo in modo consapevole e
responsabile gli impegni dello stato di vita
cristiano.
Pelagio asceta
• Da questo momento ha inizio un percorso di perfezione ascetica che conduce il nostro
• ad approfondire le Scritture, soprattutto i libri sapienziali dell’Ecclesiastico, dei Proverbi e dei Salmi;
• a leggere con passione gli scrittori cristiani come Cipriano, per l’accento sulle virtù cristiane e l’esortazione alla loro pratica,
Lattanzio per l’idea che egli ebbe del cristianesimo come della
migliore e più sublime tra le filosofie morali e Ambrogio per l’umanità e la bellezza della sua concezione cristiana;
• e soprattutto a mettere in pratica i contenuti di quanto appreso nell’attenzione rigorosa alla sequela di Gesù e all’imitazione del suo modus vivendi in tutte le circostanze della vita.
Pelagio laico
• Per condurre la vita nello stile di un’autentica sequela
di Cristo l’importante non era lo stato di vita, quanto il
comportamento effettivamente tenuto in ogni stato di
vita. Dunque Pelagio non ritenne necessario prendere i
voti e diventare ufficialmente un monaco, né ordinarsi
e diventare sacerdote ma «visse laico in piena libertà
d’una professione di vita ascetica non comune,
spontaneamente abbracciata, esercitando, per la nota
personale di un intenso ardore religioso, un’efficace
influenza nell’ambiente romano della fine del secolo IV
e un vero apostolato con l’azione e con gli scritti» (S.
Prete, Pelagio, Morcelliana, Brescia, 1961, p. 16)
Le opere 1
Sappiamo che Pelagio scrisse molto, non solo opere organiche, ma anche una gran quantità di lettere con cui si manteneva in contatto con le più influenti personalità cristiane del suo tempo e per mezzo delle quali approfondiva i rapporti con quelle persone, spesso appartenenti alla nobiltà romana , che in lui vedevano una guida per la vita cristiana.
•Durante il suo soggiorno a Roma, Pelagio avrebbe composto diverse opere come il De fide Trinitatis libri III, oggi perduto, ma molto apprezzato da Gennadio in quanto «lettura indispensabile per gli studenti»
•o come l’ Eclogarum ex divinis Scripturis liber unus , una collezione passaggi biblici compilata sulla base del Testimoniorum libri III di Cipriano, di cui Agostino ha conservato un certo numero di frammenti.
Le opere 2
• Ci sono noti da un po’ di tempo delle Expositiones in epistolas S.
Pauli, elaborate senza dubbio prima della distruzione di Roma da
parte di Alarico (410) e conosciuti da S. Agostino sin dal 412. Lo Zimmer ha il merito di aver riscoperto questo testo come opera originale di Pelagio , dopo la sua antica attribuzione a Girolamo (PL, XXX, 645-902) (un più attento esame di questo lavoro ha portato alla luce il fatto che esso contiene in nuce le idee che poi la Chiesa avrebbe condannato come eretiche). Cfr. ”Catholic enciclphedia”, s.v. Pelagius and Pelagianism.
• Infine ci è giunta una Epistula ad Demetriadem di argomento ascetico e un breve Libellus fidei ad Innocentium papam.
• Il contenuto di altri suoi testi, come i notevoli De natura e De libero
arbitrio, ci è noto indirettamente attraverso Agostino (perché
confutati nel De natura et gratia e nel De gratia Chirsti) e altri Padri che ne hanno riportato i concetti per confutarli .
Le attribuzioni
• Caspari alla fine del sec. XIX ha condotto un ampio studio su una serie di trattatelli morali di cui ha individuato la medesima impronta pelagiana e l’origine nella mano di un unico autore. Successivamente il De Plinval ha ritenuto che questo autore fosse direttamente il nostro Pelagio. Ciò ha suscitato ampi dibattiti tra gli studiosi e la questione non è ancora definitivamente acclarata. In ogni caso, estremamente interessanti per un esame delle idee di Pelagio o di alcuni suoi immediati discepoli è lo studio dei seguenti testi (i cui titoli già ci illuminano sugli argomenti trattati):
De divitiis, De malis doctoribus, De castitate, De vita christiana, De possibilitate non peccandi; De divina lege; De ferendis opprobriis, Epistula ad Marcellam, Epistula ad Celantiam, De induratione cordis Pharaonis.
Da Roma alla Palestina
• Il sacco di Roma da parte di Alarico è una data
importante anche per il nostro Autore, poiché
dalla minaccia barbarica egli è spinto a trasferirsi
in Africa – passa anche da Ippona ed è incontrato,
seppur di sfuggita, da Agostino – e poi a
Gerusalemme, dove si stabilisce definitivamente.
Da questo momento comincia la vera e propria
quaestio pelagiana, perché è proprio dal 411 che
alcune influenti personalità della Chiesa africana
vengono a conoscenza delle dottrine del monaco
circa la grazia, il peccato e la libertà umana, i temi
che saranno al centro della controversia.
Agli inizi della controversia
• L’esordio della controversia è dovuto all’intervento del suo amico e discepolo Celestio nel 411 ad una riunione di vescovi che trattava della questione donatista. Qui i vescovi sostenevano che il battesimo conferito dagli eretici doveva essere reiterato.
• In questo contesto emerge la questione spinosa del battesimo dei
fanciulli appena nati (pedobattesimo).
• Celestio, pur non negando la necessità di amministrare il sacramento della remissione dei peccati anche a loro, secondo una prassi consueta nella Chiesa, sebbene non oggetto di preciso approfondimento teologico, sostiene le seguenti tesi:
1) I bambini si trovano nella condizione di Adamo ante peccatum e dunque sono senza colpa;
2)Il peccato di Adamo riguarda esclusivamente la sua persona;
3)Adamo sarebbe comunque morto, a prescindere dal suo peccato, perché creato mortale.
La prima condanna a Cartagine
• Il diacono milanese Paolino di Nola, avendo avuto notizia di queste prese di posizione che egli riteneva fuori dall’ortodossia, fa comparire Celestio davanti ad un’assemblea di vescovi per giustificarsi e/o ritrattare (siamo nel 411, Agostino in quell’occasione era assente). Constatata l’ostinazione di Celestio nelle sue opinioni eretiche, il sinodo lo sconfessa e lo costringe a lasciare la città.
• Fino ad ora tuttavia il problema aveva coinvolto solo marginalmente l’asceta inglese, più prudente e accorto che non l’amico Celestio nel divulgare e insistere su dottrine di dubbia ortodossia.
A Gerusalemme
• Il problema si ripropone a Gerusalemme, luogo in
cui si era stabilito Pelagio, con il favore del
vescovo Giovanni, e luogo dove però viveva anche
Gerolamo. Quest’ultimo viene a conoscenza delle
dottrine pelagiane da un amico e allievo del
monaco britannico, il quale, non conoscendo
evidentemente l’irruenza e la passionalità del
padre traduttore delle Scritture, gli sottopone una
questione circa la possibilità dell’uomo di non
peccare e l’identificazione della grazia di Dio con
i doni che l’uomo ha ricevuto nel suo essere
naturale.
La presa di posizione di Gerolamo
• Immaginiamo Gerolamo che prende la lettera del
pelagiano Ctesifonte e in un impeto di rabbia la
getta tra le fauci del docile leone che sempre lo
accompagna nell’iconografia tradizionale. Sì
perché la risposta è molto veemente. Si tratta per
Gerolamo di opinioni decisamente eretiche, anzi
di una summa di eresie in cui sembrano
convergere tutte le opinioni più esecrabili della
storia del cristianesimo, dovute quasi sempre alla
perversa influenza dei filosofi pagani sulla
Girolamo e Orosio
• Non contento Girolamo pensa di stendere un’opera sistematica contro i Testimonia di Pelagio. Ciò avviene mentre arriva a Gerusalemme nel 415, inviatovi da Agostino, lo spagnolo Orosio. Costui, informato e catechizzato da Girolamo, prende subito posizione. I due forcano e brigano finché Pelagio non viene convocato di
fronte ad un sinodo alla presenza del vescovo Giovanni e
dei due accusatori. Dopo una discussione non certo serena, in cui però Pelagio può avvalersi della precisa volontà di imparzialità da parte del vescovo, si decide concordemente di rimandare la questione e gli atti della discussione a Roma.
• Il primo scontro che vede protagonista Pelagio si risolve dunque in un pareggio.
I nemici di Pelagio
• I nemici di Pelagio avrebbero voluto che egli fosse condannato in base alla precedente esito del concilio di Cartagine e dei testi che Agostino aveva cominciato a scrivere contro la dottrina pelagiana del battesimo (De
peccatorum meritis et remissione del 412-13) senza peraltro
pronunciarsi direttamente su Pelagio, le cui affermazioni non conosceva ancora con precisione. Tuttavia una condanna era impossibile: non si poteva prendere alcun provvedimento contro una persona senza che egli, e non altri, avesse dichiarato qualcosa di eretico. Di qui la sospensione della causa e l’invio degli atti a Roma.
Orosio e il Liber apologeticus
• Frustrato dalla sconfitta, Orosio pubblica il Liber apologeticus per dare la propria versione dell’accaduto e per associare alla reiterazione delle accuse a Pelagio, il sospetto di una posizione pregiudizialmente favorevole al monaco britannico da parte del vescovo di Gerusalemme. L’atteggiamento polemico di Orosio è così forte da spingersi oltre quelli che saranno definiti come i confini della dottrina cattolica sulla questione. Orosio arriva a dire che tra l’uomo e Dio solo a Dio può riferirsi il termine «agire», solo Dio agisce per la salvezza, solo Dio ha un qualche potere di intervento, mentre all’uomo ogni potere in questo senso è negato ed è di conseguenza negata ogni collaborazione dell’uomo al suo proprio destino e alla sua propria salvezza.
Lontani e sordi
• Il testo di Orosio mostra come i contendenti siano resi dalla vis polemica ancor più lontani tra loro e incapaci di ascoltarsi, come accade per esempio a proposito dei termini «santità» e «giustizia»: per i cattolici intese come assoluta perfezione e assenza di peccato e per i pelagiani come ideale di perfezione proposto come meta da perseguire obbligatoriamente ma non necessariamente raggiungibile. Ciò rendeva il discorso reciproco ricco di fraintendimenti: dire che le forze umane possono raggiungere santità e giustizia significava per i cattolici negare la grazia e attribuire all’uomo un potere enorme, per i pelagiani invece significava che l’uomo si poteva mettere sulla strada della perfezione senza che questo significasse averla già conseguita con l’uso esclusivo delle proprie forze.
Pelagio ortodosso a Diospolis (416)
• Dopo Gerusalemme, la questione eslose nuovamente
a seguito delle accuse rivolte a Pelagio da due
vescovi delle Gallie, dalla non buonissima
reputazione, Erote e Lazaro. Questi racchiusero in un
«libellus» alcun affermazioni desunte dalle opere di
Pelagio, e le inviarono al vescovo Eulogio,
importante metropolita di Cesarea in Palestina. Il
pastore dovette convocare un concilio, cui
parteciparono, insieme a Pelagio, 14 vescovi
palestinesi, per dirimere la questione.
Il punto controverso
• Il punto controverso era se l’uomo potesse stare
senza
commettere
peccato
e
osservare
i
comandamenti fino a giungere alla santità senza
l’aiuto determinante di Dio. Interrogato, Pelagio
rispose che egli non intendeva che l’uomo potesse
giungere ad una santità assoluta, ma a quella santità
possibile in questa vita con il concorso
• 1) dello sforzo personale
• 2)dell’aiuto di Dio.
Pelagio sconfessa Celestio
• Di fronte ad un altro punto Pelagio fu costretto a venire
più allo scoperto: il termine GRAZIA significa l’aiuto
divino, il dono divino di una forza che l’uomo naturale
non possiede, oppure un dono che è stato dato all’uomo
sin dalla sua creazione e che coincide con la sua libertà di
scegliere e di perseverare nella scelta (come aveva
sostenuto Celestio, implicando che non ci fosse bisogno di
alcun ulteriore intervento divino per salvarsi)?
• Qui Pelagio sconfessa Celestio sostenendo la sua più
completa aderenza all’ortodossia della Chiesa, e la sua
condanna di tutto ciò che la Chiesa condannava.
Il concilio approva
• Date le risposte prima indicate, il concilio non può che riconosce Pelagio cattolico e in piena comunione con la Chiesa. Ciò fa con il rammarico di Agostino, il quale può leggere gli atti del concilio (noi li abbiamo grazie a lui che ce li riporta nel De gestiis Pelagii), e cogliere una serie di equivoci principalmente terminologici in cui sono caduti i vescovi a Diospolis e che hanno determinato il loro orientamento favorevole al monaco britannico. Nondimeo l’esito della vicenda rimane favorevole a quest’ultimo, il quale non esista a darvi il massimo risalto e a diffonderne il più possibile la notizia, a fronte invece delle lentezza con cui gli atti viaggiavano verso Roma e le altre sedi vescovili.
La reazione in Africa e a Roma
• La reazione cartaginese non si fa attendere. Saputo di
Diospolis da Orosio, nella città viene subito riunito un
concilio, e poi subito un altro a Milevi con
rispettivamente 67 e 57 vescovi, i quali, sentito il
resoconto orosiano e le notizie inviate per lettera da
Erote e Lazaro, decisero di anatemizzare Pelagio. Gli atti
dei concili vengono immediatamente spediti a Roma e
fatti conoscere a papa Innocenzo I, il quale approva la
condotta dei padri e anche il testo, speditogli in allegato,
della confutazione del De natura pelagiano steso da
Agostino (De natura et gratia).
Pelagio si difende
• Il monaco britannico a questo punto tenta un’autodifesa
spedendo a tal fine una lettera a Innocenzo in cui
riassume in termini chiari e apologetici la sua fede. La
lettera sarà ricevuta dal suo successore Zosimo il quale
decide di riesaminare dal principio la questione, visto che
Celestio si è recato a Roma per farsi sentire dal nuovo
papa, intuendo la possibilità di una riabilitazione. Il
vescovo di Gerusalemme successore di Giovanni intanto
invia al papa una nuova lettera in difesa di Pelagio. Tutto
ciò crea le condizioni più favorevoli possibile ai pelagiani.
Roma assolve
Al libello pelagiano di autodifesa e alla lettera del
vescovo di Gerusalemme si aggiunge il fatto che
Zosimo conoscesse bene il passato non edificante di
alcuni tra i principali accusatori di Pelagio (Erote e
Lazaro) e infine il contegno appropriato di Celestio,
che con le sue risposte sembra soddisfare appieno i
criteri dei suoi esaminatori romani. Questi ultimi
infatti lo trovano ortodosso e lo confermano
appieno nella Chiesa cattolica.
Procedure e tradizione
• A generare l’atteggiamento di Zosimo, subito rifiutato da Agostino e dalle Chiese africane, sono stati probabilmente un fatto di dottrina e uno procedurale. Il problema dottrinale è relativo alla questione del battesimo, da cui come ricordiamo tutto era partito. Il pedobattesimo era prassi ecclesiale confermata, su cui anche i pelagiani nulla trovavano da ridire. Tuttavia l’argomento del peccato originale come un vulnus che coinvolgeva anche i bambini e li destinava, in mancanza del sacramento, alla dannazione – come argomentava Agostino – non era dottrina tradizionale. Zosimo, che in nulla voleva discostarsi dalla tradizione, non ne era del tutto convinto. Sulla questione procedurale pesava invece l’assenza di un contraddittorio con gli accusati nei concili africani che condannano Pelagio e l’assenza anche di coloro che avevano steso i documenti su cui si basava l’accusa.
Nuova mobilitazione antipelagiana
• La notizia dell’assoluzione di Celestio e di Pelagio scatenaletteralmente gli antipelagiani, che hanno addentellati alla corte di Ravenna e preparano un nuovo grande concilio a Cartagine. Nella primavera del 418 una lettera di Zosimo ad Aurelio di Cartagine e ai vescovi che avevano partecipato al precedente concilio contro Pelagio, ammonendoli a non discostarsi dalle decisioni di Roma, li avverte però che nulla è cambiato rispetto al passato, come ad accennare ad una possibile correzione di rotta che riportasse Roma sul solco degli atteggiamenti di Innocenzo. Si tratta di un primo accenno ad una decisa inversione di rotta.
L’epistola tractoria
• Tale inversione si concretizza dopo che nell’aprile del 418 Onorio ha emesso un provvedimento legislativo contro i pelagiani e nel maggio dello stesso anno si è celebrato un grande e solenne concilio a Cartagine alla presenza di 214 vescovi, i quali concordemente hanno rigettato le dottrine pelagiane e condannato i suoi fautori. Dopo di ciò il papa spedisce una vera e propria enciclica dogmatica, nota con il nome di epistola Tractoria e di cui Agostino ci riporta qualche stralcio, nella quale parimenti il pelagianesimo è condannato in modo definitivo dalla Chiesa.
Il DE NATURA
• I testi più significativi per comprendere la dottrina
pelagiana sono, come si è detto, due: il De natura
e il De natura et gratia.
Il primo dei due è stato scritto anteriormente al 415
e nel 415 è stato ripreso e confutato da Agostino
nel De natura et gratia. Il testo originale è andato
perduto. Ora, analizzando il De natura et gratia di
Agostino vedremo meglio quali sono i termini
teologici e teologico-filosofici del contendere.
Agostino riceve il De natura
• Sono due allievi di Pelagio, Timasio e Giacomo, sorpresi e dubbiosi per alcune affermazioni del monaco che li aveva condotti alla fede e che essi continuavano a stimare, a sottoporre al vescovo di Ippona il testo.
• Agostino lo riceve e lo legge con un atteggiamento benevolo dato dalla buona reputazione ascetica del britannico, alla ricerca non di possibili errori da confutare, bensì di verità da condividere. Si tratta del primo libro completo che il vescovo ha sottomano e, data l’occasione per la quale gli è stato recapitato, egli lo legge attentamente e prepara un’analisi adeguata e approfondita.
Le due tesi
• In sostanza, rileva Agostino, nonostante l’intenzione benevola con cui ha preso in mano lo scritto pelagiano , non si può non notare che le posizioni sue e del britannico sono differenti in questo punto fondamentale:
Pelagio nel De natura difende la natura umana contro la grazia di Cristo, anche se tale opposizione non è da lui avvertita; mentre Agostino intende difendere nella sua risposta la grazia di Cristo «non contro la natura» ma come elemento per mezzo del quale la natura viene «liberata e guidata» (Agostino, Retractationes 2, 42, in A. Trapé, Introduzione al De natura et gratia, in Agostino, …. P. 367).
Due tesi collegate
In accordo con il Trapé ravvisiamo due tesi fondamentali con
le quali Pelagio vuole sostenere la sua difesa della natura dal
punto di vista sia razionale sia biblico:
La prima è una tesi morale: quando l’uomo pecca non deve
accusare la sua natura, ma se stesso e il proprio libero
arbitrio.
La seconda è di carattere dogmatico e viene citata proprio a
sostegno della prima. Dice infatti che Dio ha dato all’uomo il
potere di rimanere senza peccato (il POSSE) se lo vuole e che
la realizzazione di tale capacità (l’ESSE) è nelle sue mani.
Qual è la condizione dell’uomo?
• Per comprendere meglio queste due tesi, ne vediamo una terza, che esse
implicano. Si tratta della visione dell’uomo post-peccatum. Per Pelagio la natura umana non è stata ferita da nessun peccato originale. Adamo peccando ha dato solo un cattivo esempio all’umanità – tanto che quando si pecca si pecca ad imitazione di Adamo – ma tale cattivo esempio non ha mutato la natura umana. Infatti il peccato è un atto e non si vede come un atto, cioè un’azione possa mutare l’essere profondo e universale del soggetto che la compie, cioè la sua sostanza. Facciamo noi un esempio aristotelico: quale atto irrazionale può mutare la sostanza dell’uomo che, anche quando non usa la ragione è per natura «animale razionale»? Se non vi è atto che faccia dell’uomo un animale irrazionale per natura, allo stesso modo non vi è un atto che fa dell’uomo un essere peccatore per natura, in opposizione a come Dio lo ha voluto. Il quale Dio, peraltro, se la dottrina del peccato originale fosse giusta, avrebbe punito il peccato di Adamo con la peccaminosità umana di tutte le successive generazioni, cioè avrebbe punito il peccato moltiplicandolo.
Nella Bibbia
• Pelagio fa notare che nella Bibbia vi sono numerosi casi di personaggi santi di cui è detto che vissero senza peccato. Abele, Enoch, Melchisedec, Abramo, Isacco, Giacobbe, Giuseppe etc.
• Ad essi si deve aggiungere la Madonna, che «va necessariamente riconosciuta senza peccato dal nostro senso religioso».
Ecco allora in conclusione sostenute le tesi fondamentali del pelagianesimo: possibilità dell’impeccantia e necessità dello sforzo morale del libero arbitrio per rendere effettivo il possesso di quei doni del cui guadagno Dio ci ha creati capaci.
L’impostazione agostiniana
• L’impostazione agostiniana è fondata sull’idea che se è giusto, quando si pecca, accusare se stessi piuttosto che la natura umana, per evitare il peccato bisogna guardare all’unica sua medicina: la grazia di Cristo. Se noi viceversa ammettiamo la possibilità di salvarci senza di Lui, rendiamo vana la sua croce. Il De natura fa proprio così. Esso insiste sui doni del Creatore, e tra questi mette appunto la possibilità di non peccare, ma tralascia l’importanza dei doni del Salvatore (Dio infatti è creatore e salvatore e obbligatoriamente siamo chiamati a credere in entrambi), il cui sacrificio in croce è necessario per superare la condizione umana di peccato, contro la quale la volontà da sola, ammesso che sia possibile esprimerne una, non basta.
Il metodo teologico
• Il metodo con cui affrontare il problema rimane quello
del credere per comprendere, cioè nel dare per scontate
le verità di fede e i contenuti delle Scritture, per poi
indagarli con la ragione. Le Scritture affermano che la
natura umana è viziata dal peccato. Da questo dato si
deve partire. Poi bisognerà vedere come ciò sia stato
possibile e quale rimedio è proposto dalle Scritture
stesse, ma un’impeccantia naturale non è ammissibile,
così come non è ammissibile rendere inutile la croce.
Pelagio e la grazia
• Pelagio,
secondo
Agostino,
pur
affermando
vigorosamente di non negare la grazia, intende il
concetto in modo molto diverso dalle Scritture e dalla
tradizione della Chiesa.
• Per lui la grazia è:
1) La possibilità di non peccare data all’uomo con il libero
arbitrio dal Creatore che ha fatto così la natura umana;
2) La legge divina che fornisce un sostegno al cammino
umano, insegnando ciò che si deve fare o evitare;
Agostino e la grazia
• Per Agostino quella pelagiana è una concezione estremamente riduttiva della grazia, che invece va considerata la fonte della giustizia e della salvezza e loro unico fondamento. Ma
• 1) la natura umana così com’è oggi, dopo il peccato non può salvarsi e non può evitare il peccato se non con l’aiuto di Cristo e della fede in lui – quindi la grazia non è dono di Dio creatore e non coincide con la natura umana, ma è dono di Dio salvatore che restaura la natura umana dopo il peccato. • 2) La legge non dona libertà ma incute il timore. Essa non ha la facoltà di
salvare dal peccato, non solo perché, come dice nelle Diverse questioni, si limita a farlo conoscere, ma perché con il timore non si adempie ancora quella giustizia il cui presupposto non è nella paura della pena, ma nell’amore della giustizia stessa, come afferma nel De spiritu et littera.
• 3) Infine la grazia non ha solo una funzione di remissione del peccato, ma anche si aiuto indispensabile ad evitarlo nel futuro.
La preghiera
• Una delle conseguenze della posizione pelagiana è la
svalutazione della preghiera: «Si adest possibilitas ut quid
orant?» Se c’è possibilità (nel senso di possibilità di
salvarsi mediante le proprie forze) perché pregano?
• I pelagiani non arrivano a ritenere inutile la misericordia
di Dio, quindi una preghiera in quanto richiesta di
perdono essi la contemplano. Tuttavia si limitano a
questo: essi pregano quia peccavimus (perché abbiamo
peccato) non ne peccemus (affinché non pecchiamo in
futuro. Per Agostino invece la misericordia di Dio va
implorata anche per evitare il nostro peccato futuro.
Dio comanda l’impossibile?
• Allora se abbiamo bisogno della grazia per non
peccare, Dio comanderebbe ciò che è a noi
impossibile? Agostino concorda con Pelagio nel
sostenere che Dio non comanda l’impossibile; solo
che per il primo non peccare è possibile con l’ausilio
della grazia che si ottiene mediante la preghiera; per
il secondo con la forza che è stata data sin dall’inizio
alla natura umana, che all’uomo è dato di gestire e di
cui egli porta la responsabilità.
Il problema di Pelagio
• La radice degli errori di Pelagio sta secondo Agostino in una questione antropologica. Si tratta della considerazione che Pelagio ha della natura umana. Secondo il monaco britannico la natura dell’uomo di adesso è tale e quale l’ha creata Dio all’inizio. Essa non è dunque stata minimamente modificata dal peccato di Adamo. Questo fa sì che Pelagio riconosca la grazia che istituisce la natura umana, cioè quel dono che Dio fa all’uomo creandolo con determinate caratteristiche e capacità, ma non la grazia che RESTITUISCE la natura, cioè quella che lo salva dalla condizione di degradazione in cui l’uomo è caduto dopo il peccato.
Ignorantia et infirmitas
• Due sono le conseguenze del peccato su cui Agostino si concentra nel De natura et gratia:
- l’ignorantia, ovvero la cecità intellettuale, l’incapacità di scorgere il bene e di valutare rettamente le cose rilevanti per la vita;
- l’infirmitas della volontà, cioè l’incapacità della volontà di prendere una decisione corretta e di perseverare in quella nonostante le difficoltà.
Queste due malattie possono essere curate da un solo medico, Gesù Cristo. È chiaro però che per essere curati bisogna chiamare il medico e per farlo bisogna riconoscere di essere malati. Orbene, Pelagio non compie queste ultime due azioni necessarie e quindi implicitamente rifiuta il medico, Gesù Cristo, colui che solo può restituire all’umana natura la capacità di sollevarsi al di sopra della propria tendenza a peccare.
Tutti gli uomini eccetto Maria
• Tutti gli uomini nascono affetti da ignorantia et infirmitas eccetto la Madre del Salvatore. Nessuno si è salvato se non attraverso la grazia di Dio. Non esiste quindi nessuna
impeccantia per l’uomo post peccatum. Anche i giusti citati
dalle Scritture lo sono stati in virtù della grazia e però mai completamente, affinché non insuperbissero. Dio infatti, sapendo che la superbia, anche nel fare il bene, è la radice di tutti i peccati, laddove il giusto vi ceda anche per poco, lo abbandona per un istante a qualche lieve peccato, affinché anche il giusto abbia da essere perdonato e a mostrare la necessità dell’umiltà quale radice della salvezza.
Confutazione delle testimonianze
di Pelagio
• Le testimonianze con cui Pelagio sostiene le sue dottrine non sono, secondo Agostino, affatto decisive, anzi, a dire il vero, dicono cose che certo non si possono negare, ma che non sostengono affatto le dottrine di monaco britannico.
• Per esempio Pelagio riporta una frase del beato Ilario di Poitiers che dice: «Soltanto quando avremo raggiunto la perfezione dello spirito e saremo stati trasformati dall’immortalità, che è riservata unicamente ai mondi di cuore, vedremo la natura immortale di Dio». Tale frase, dice Agostino, è perfettamente condivisibile, ma non dice niente sulla questione di come sia possibile diventare «mondi di cuore» cioè se per grazia o autonomamente.
La testimonianza di Sisto
• Pelagio, oltre a testimonianze di ambrogio e Giovanni di Gerusalemme, tutte segnate dalla medesima debolezza, riporta anche una testimonianza vescovo e martire Sisto di Roma che dice: «Dio ha concesso agli uomini la libertà del loro arbitrio perché, vivendo con purezza e senza peccato, diventino simili a Dio». «Ma , dice Agostino, è compito dello stesso arbitrio ascoltare Dio che chiama, credere in lui e chiedere a lui – nel quale crede – l’aiuto per non peccare». E’ perfettamente possibile che la libertà sia stata data all’uomo per divenire simili a Dio, ma questo non esclude la necessità di un dono di grazia per realizzare questo fine a cui il libero arbitrio è ordinato.
L’autodifesa di Agostino
• Ma Pelagio cita anche il De libero arbitrio di Agostino, precisamente in quel luogo dove il santo di Ippona dice che lse la volontà cede ad una forza irresistibile non commette peccato, e lo commette solo se effettivamente può resistere. Questo dimostrerebbe che anche Agostino ha insistito su una possibile autonomia della volontà per vincere il peccato – dato che si può vincere e si deve vincere solo se si può. Ma agostino qui invita a tenere conto che nel suo testo invocava l’aiuto di Dio, citando il Padre nostro che dice. «Non ci indurre in tentazione». Questo sarebbe per Agostino una testimonianza da inserire all’interno di un contesto in cui è ben chiaro che la natura dell’uomo creato da Dio è ben diversa da quella dell’uomo afflitto dal peccato e perciò bisognoso necessariamente di invocare l’aiuto della grazia divina.
Conclusione
• In conclusione Agostino riprende Pelagio in ciò che sec ondo lui ha di positivo, cioè l’esortazione a vivere in santità. Essa è giusta ed è tuttavia possibile accettarla senza che questo divenga motivo per uscire dall’ortodossia. Questo si fa tenendo conto che i comandamenti sono tutti osservabili, e assai facilmente – nell’amore, che è compimento della legge, quell’amore che, è bene tenerlo presente, «non si riversa nei nostri cuori per le forze della natura o della volontà che si trovano in noi, bensì per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato, il quale soccorre alla nostra debilità e concorre alla nostra santità».