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La L.R. 28 Dicembre 2015 n. 84, sfide ed opportunita per le Professioni sanitarie della Riabilitazione

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Premessa

In un corso di laurea specialistica il cui scopo è formare i professionisti sanitari della riabilitazione, al fine di farli diventare dirigenti delle professioni sanitarie, docenti universitari e ricercatori in ambito riabilitativo, trovarsi di fronte ad un corpus di docenti a maggioranza medico apre inevitabilmente la domanda su quale sia la reale autonomia delle professioni sanitarie nelle pubbliche amministrazioni. Per quanto la collaborazione tra professionisti della salute, medici e non, sia fondamentale per la buona riuscita di un percorso assistenziale così come per quella di un percorso formativo e di ricerca, rimangono ancora numerose le conquiste che le professioni non mediche devono fare, specialmente in ambito giuridico, al fine di avere una regolamentazione chiara, un corpus riconoscibile che garantisca diritti e doveri ed altro ancora.

Pertanto questa tesi nasce con lo scopo di ripercorrere le tappe che, con il progressivo evolversi del Sistema Sanitario Nazionale e di quelli regionali, hanno consentito a tutte le professioni sanitarie di acquisire una propria autonomia e con essa delle responsabilità. L’ipotesi su cui si baserà questo scritto è che vi siano ancora molti elementi, di natura varia, tra cui economica e politica oltre che clinica, che potrebbero essere modificati per favorire un’ulteriore sviluppo di queste professioni.

Dunque sarà necessario analizzare l’evoluzione legislativa del sistema sanitario pubblico con particolare riguardo per quella che è la situazione della Toscana, in quanto territorio su cui si colloca l’Università di Pisa presso cui si tiene il suddetto corso di laurea, e quelli che sono i cambiamenti principali introdotti dalla nuova legge regionale, per cercare di capire quali siano gli aspetti che hanno consentito o che potrebbero consentire una valorizzazione della figura del professionista sanitario e quali invece potrebbero rivelarsi limitanti.

L’obiettivo di questo scritto quindi è quello di chiarire i meccanismi che stanno alla base dell’assetto sanitario, per di più in termini di cambiamenti epidemiologici ed economici, di descrivere l’attuale struttura del Sistema Sanitario Toscano, di individuare le occasioni di crescita professionale per il personale non medico e di rilevare come questa evoluzione strutturale viene promossa dall’alto e come per contro viene recepita dal basso.

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Indice

Introduzione……….…..pag. 4

1. Evoluzione della sanità italiana

1.1 Dalla legge 833/78 alle riforme degli anni novanta e duemila……….pag. 6 1.2 Sistemi sanitari regionali………pag. 10 1.2.1 Modelli regionali a confronto………..…pag. 10 1.2.2 Servizio Sanitario Toscano……….pag. 13 1.3 Professioni sanitarie: evoluzione normativa, formazione universitaria e acquisizione della responsabilità e dell’autonomia lavorativa…………..…pag. 15

2. Cambiamenti epidemiologici e aspetti economici

2.1 Invecchiamento della popolazione e miglioramento dei processi assistenziali……….………..pag. 27 2.2 Dati nazionali e regionali………pag. 33 2.3 Risvolti economici……….pag. 44

3. Nuovo assetto organizzativo del Sistema Sanitario Toscano

3.1 Modifca della legge regionale 40/2005………..….pag. 51 3.2 I dipartimenti delle professioni sanitarie……….………..pag. 56

4. L'esperienza dell’AUSL Toscana Nord-Ovest

4.1 Strumenti di diffusione del nuovo sistema organizzativo……….………pag. 61 4.3 Cambiamenti strutturali e nell’organizzazione del lavoro………..……….pag. 64 4.3 Strutturazione del Dipartimento delle Professioni Tecnico Sanitarie e della Riabilitazione e della Prevenzione……….pag. 69 4.4 Percezione del cambiamento da parte del personale sanitario della riabilitazione……….………pag.83 4.4.1 Background ed obiettivi……….……….…………pag. 83 4.4.2 Materiali e modalità di diffusione………..………pag.84

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5. Analisi dei risultati

5.1 Adesione al questionario e profilo del campione coinvolto…..………...pag. 86 5.2 Conoscenza della legge………..pag. 90 5.3 Opinioni emerse riguardo ai cambiamenti in atto……….pag. 94 5.4 Discussione………....pag. 99

6. Conclusioni e prospettive future………..……….pag. 101

Ringraziamenti……….………pag. 103

Bibliografia……….…………pag. 104

Sitografia……….pag. 110

Appendice A

Questionario sulla percezione del cambiamento generato dalla L.R. 84/2015... ...……….…………pag. 111

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INTRODUZIONE

A partire dalla legge 833/78 la sanità in Italia ha subito numerose riforme, che hanno interessato anche le professioni sanitarie della riabilitazione, che da figure ausiliarie della professioni medica sono divenute professioni dotate di formazione universitaria e conseguenti autonomie e responsabilità. Affianco ad un sistema sanitario nazionale che tutela la salute di tutti i cittadini garantendo equità nell’accesso alle cure, esistono modelli regionali che possono differire non poco tra loro, pertando nell’analisi di tale evoluzione normativa e professionale va tenuto in opportuna considerazione anche il contesto locale di riferimento oltre alla cornice nazionale.

È noto ormai che il nostro paese attraversi un periodo di crisi economica piuttosto importante e duraturo e che l’Italia, così come moltissimi altri paesi industrializzati, si trovi di fronte a dei cambiamenti epidemiologici, esemplificabili soprattutto con l’invecchiamento della popolazione e la riduzione della natalità con corrispettivo mutamento dei quadri patologici più comuni da quelli di natura infettiva a quelli di natura cronico-degenerativa. Il Servizio Sanitario Toscano è uno dei sistemi regionali che più risente dell’invecchiamento della propria popolazione, tra le più longeve in Italia, e che ha sempre posto un occhio di riguardo alla valutazione e quindi al miglioramento dei processi assistenziali. Per tali ragioni si è vista la necessità, con la legge 84/2015, di dare un nuovo assetto organizzativo al Sistema Sanitario Toscano, in cui tra i punti principali, oltre alla riduzione del numero di Aziende USL e all’organizzazione in rete dei presidi ospedalieri, vi è anche la creazione di nuovi dipartimenti, tra cui quelli delle professioni sanitarie. In questa tesi si utilizza l’Azienda USL Toscana Nord-Ovest per analizzare come, nel primo anno di cambiamento dall’entrata in vigore della riforma, sia stato diffuso il nuovo sistema organizzativo, se abbia prodotto cambiamenti strutturali e nell’organizzazione del lavoro, come è avvenuta la creazione del Dipartimento delle Professioni Tecnico Sanitarie e della Riabilitazione e della Prevenzione, come può questa costituire un ulteriore gradino nella crescita professionale di questi lavoratori e se proprio questi ultimi hanno compreso le innovazioni che la riforma ha portato e con quale spirito le stiano vivendo. Il tutto è stato possibile attraverso la messa a punto di un questionario online di cui è stato fornita la possibilità di accesso a tutto il personale della riabilitazione della suddetta neocreata

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Azienda USL. Gli intervistati hanno potuto esprimere quanto pensavano di essere informati riguardo alla riforma, quali elementi ritenessero causa della sua promulgazione, quali fossero le principali fonti da cui avevano ricevuto informazioni attinenti, quanto ritenessero adeguate le strategie regionali e aziendali alla risoluzione dei problemi del Servizio Sanitario Regionale, hanno potuto dare un’impressione sulle opportunità che il nuovo Dipartimento delle professioni sanitarie può forrnire all’evoluzione proprio profilo lavorativo ed altro ancora. Le 72 risposte ricevute hanno quindi permesso un’analisi implicita su come questo cambiamento sia stato percepito e su quanto il personale sanitario della riabilitazione si sia sentito incluso in esso, cogliendone sfide ed opportunità.

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CAPITOLO 1

Evoluzione della sanità italiana

1.1 Dalla legge 833/78 alle riforme degli anni novanta e duemila

Dalla fine degli anni ottanta i sistemi sanitari dei paesi europei sono soggetti ad ondate successive di riforme strutturali che non sembrano avere mai fine, tanto che si è parlato di “epidemia delle rifome” (Maciocco, 2008) per definire una tensione continua al cambiamento che mette in discussione strutture, regole, strumenti gestionali e amminisrtativi.

In Italia comunque il cambiamento più importante rimane quello iniziato alla fine degli anni settanta. La legge (L.) 23 Dicembre 1978 n.833, istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale (SSN) che va a sostituire il sistema mutualistico, ha costituito uno degli eventi politico-sociali più rilevanti degli ultimi cinquantanni di storia italiana. Ai sensi dell’articolo (art.) 1, comma 3, di tale legge il Servizio Sanitario Nazionale è costituito dal “complesso delle funzioni, delle strutture, dei servizi e delle attività destinate alla promozione, al mantenimento e al recupero della salute fisica e psichica di tutta la popolazione senza distinzione di condizioni individuali o sociali e secondo modalità che assicurino l’eguaglianza dei cittadini nei confronti del Servizio. L’attuazione del Servizio sanitario nazionale compete allo Stato, alle Regioni e agli enti locali territoriali, garantendo la partecipazione dei cittadini”. Questa legge quindi definisce tale servizio, ne esplicita gli obiettivi, ne ripartisce le funzioni tra i livelli istituzionali, ne individua le competenti strutture centrali e territoriali e le prestazioni che esse devono erogare ponendo fine ad un sistema disorganico, frammentario e diseguale e dando realmente attuazione all’articolo 32 della Costituzione1. Con essa si intende abbandonare la disparità di trattamento e la limitatezza degli interventi che contraddistingueva il sistema mutualistico, per definire un vero e proprio servizio pubblico, caraterizzato da principi di universalità, uguaglianza e globalità degli interventi, che intendono assicurare la

1 Recita tale articolo:

“La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti.

Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana.”

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prevenzione delle malattie e l’accesso di tutti i cittadini alle cure. Viene adottato il metodo della programmazione dei servizi, articolato su di un Piano sanitario nazionale, da attuarsi attraverso i Piani sanitari regionali con i quali stabilire periodicamente le priorità, gli indirizzi e le modalità di svolgimento delle attività istituzionali rivolte alla tutela della salute. L’esercizio dei compiti in materia spetta infine ai Comuni, che hanno come strumento operativo le Unità Sanitarie Locali (USL).

Nell’operatività pratica tuttavia si verificarono situazioni di inefficienza gestionale e carenza di risorse finanziarie (si consideri che le prestazioni poteva di fatto essere erogate illimitatamente a livello locale con il successivo ripiano della spesa da parte degli organi regionali e statali), a cui nemmeno interventi tampone, quali ad esempio l’introduzione di ticket, potettero sopperire. Pertanto, sulla scia di altre importanti riforme, negli anni novanta si arrivò all’approvazione del riordino della disciplina in materia sanitaria allo scopo di ridare efficienza al sistema e contenere la spesa sanitaria.

L’orientamento delle normative di riforma non ha modificato l’identità della L. 833/78 né è venuto meno ai principi ispiratori di universalità dell’utenza, di uguaglianza, di globalità degli interventi e di partecipazione democratica del cittadino/utente (quest’ultima intesa come controllo sulla funzionalità delle strutture sanitarie). Nel Decreto Legislativo (D.Lgs.) 30 Dicembre 1992, n. 502 gli obiettivi del SSN di superamento degli squilibri territoriali e di tutela della salute nei vari ambiti (lavoro, maternità, infanzia, sport, età senile e malattia mentale) vengono ridotti all’unico obiettivo di assicurare i livelli essenziali ed uniformi di assistenza definiti negli standard minimi della programmazione nazionale, ovvero di assicurare quelle funzioni assistenziali che soddisfino i bisogni sanitari primari della popolazione, il cui grado di conseguimento dovrà essere verificato sulla base di indicatori, coerentemente con le scelte organizzative adottate da ciascuna regione e dalle risorse stabilite dalla legge finanziaria. Il D.Lgs. 502/1992 ha avviato un processo per cui l’articolazione organizzativa del SSN ha perso la natura centralista con cui era stato disegnato dal legislatore del 1978 in favore di una regionalizzazione in cui le Regioni diventano centri di imputazione e di responsabilità gestionali di tipo programmatorio, organizzativo e finanziario, allentando il potere dei comuni, le cui USL acquistano personalità giuridica e particolari forme di autonomia che le rendono Aziende (AUSL). Anche il sistema di finanziamento dei servizi viene modificato con l’introduzione di tariffe predeterminate e di un regime di erogazione che contempla anche elementi di

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competizione tanto da da essere appellato dagli economisti come “quasi mercato” (le strutture private possono essere accreditate per divenire fornitori di servizi la cui committenza rimane comunque pubblica). L’ottica diviene conferire al sistema la massima efficienza, oltre che efficacia.

Tale processo viene potenziato dalle leggi del 1998 e 1999, in particolare il D.Lgs. 19 Giugno 1999, n.229 (riforma Bindi) ridisegna il quadro delle funzioni organizzative del SSN sul principio della sussidiarietà verticale, ovvero sull’idea che il SSN per perseguire la tutela del diritto alla salute deve strutturarsi come servizio il più possibile vicino ai suoi fruitori. Dunque con esso si completa il processo di aziendalizzazione, i Comuni riacquistano parte dei poteri per quanto riguarda le funzioni di verifica e programmazione dei servizi, mentre vengono contemporaneamente rafforzate le funzioni regionali, si riequilibrano le modalità di competizione tra strutture pubbliche e private e si introducono norme sul rapporto di lavoro del personale dirigenziale con il regime dell’esclusività dell’impiego presso il SSN.

Sebbene il D.Lgs. 229/99 sia stato corretto rimanendo comunque in parte inapplicato, il modello decentrato a cui tendevano le riforme degli anni novanta non è stato smentito, ma, anzi, è stato definitivamente acquisito con le riforme del decennio successivo: in particolare il D.Lgs. 18 febbraio 2000, n.56, attuativo della legge 13 maggio 1999, n. 133, e del novellato art.119 della Costituzione; il Decreto Legge (D.L.) 18 settembre 2001, n.347, convertito nella L. 16 Novembre 2001, n.405; e la Legge Costituzionale (L. Cost.) 18 Ottobre 2001, n.3, che riscrive il Titolo V della Parte II della Costituzione in materia di Regioni, Provincie e Comuni. Con esse il nostro ordinamento giuridico, tradizionalmente fondato su una tipologia di Stato fortemente centralizzato, così come era il nostro fino agli anni ottanta, evolve in senso federalistico. Il federalismo fiscale ridisegna le fondamenta su cui poggiava il meccanismo del finanziamento pubblico, soprattutto di quello riguardante il sistema salute. Nella precedente architettura istituzionale l’autonomia finanziaria delle Regioni e degli enti locali risultava alquanto compressa e inadeguata, quasi inesistente. In sostanza le risorse destinate alle Regioni erano costituite da trasferimenti di provenienza statale e da entrate proprie esigue e comunque insufficienti a garantire il finanziamento delle rispettive funzioni. Ciò rendeva le risorse destinate alle Regioni dipendenti da una contrattazione annuale non molto obiettiva e caratterizzata da una forza contrattuale molto diversa da Regione a Regione. Le varie riforme hanno

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consentito una progressiva responsabilizzazione dei sistemi autonomistici regionali e locali nell’attribuzione delle funzioni amministrative e nell’adozione delle politiche tributarie. Agli enti territoriali è stata affidata non solo la gestione degli enti pubblici locali, ma anche il compito di finanziarli con risorse proprie con conseguente potere discrezionale per quanto riguarda l’individuazione degli obiettivi di soddisfacimento dei bisogni normalmente espressi con l’accesso ai servizi pubblici. Trattasi, sostanzialmente, di un meccanismo volto a responsabilizzare le Regioni e gli enti locali, sì da consentire, da una parte, di finanziare autonamente i servizi pubblici di loro competenza e, dall’altra, di garantire la maggiore corrispondenza possibile tra le prestazioni erogate e la soddisfazione del fabbisogno della popolazione amministrata, insediata sui rispettivi territori.

In maniera molto semplificativa si può affermare che attualmente:

 allo Stato compete la funzione legislativa di indirizzo e coordinamento, dunque lo Stato definisce gli obiettivi primari della politica sanitaria garantendo l’uniformità di disciplina nelle varie Regioni e il rispetto della programmazione economica nazionale nonché degli impegni presi a livello internazionale;

 alla Regione compete la funzione legislativa, che si esercita comunque nel rispetto delle leggi di stato sovraordinate, e le funzioni amministrative per cui può determinare l’organizzazione dei servizi e della attività di tutela della salute, stabilire i finanziamenti delle aziende sanitarie sulla base della quota capitaria corretta, la loro articolazione territoriale (distretti ecc..) e le attività di supporto e di coordinamento di esse, valutare la qualità delle prestazioni sanitarie;

 ai Comuni compete la funzione attuattiva in rispetto delle attività programmate e di controllo dell’operato delle AUSL.

Ad ogni livello viene prodotto un piano di programmazione ed attuazione dei propri obiettivi. Il piano sanitario nazionale, che ha durata triennale, è predisposto dal governo e definisce le aree di intervento garantite uniformemente all’intera collettività, i criteri e gli indicatori per la verifica di queste, l’orientamento che il SSN assume per il miglioramento continuo della qualità dell’assistenza, le finalità e i settori principali della ricerca biomedica. Entro 150 giorni dall’entrata in vigore del paino sanitario nazionale le Regioni devono adottare il proprio piano regionale, in cui sono definiti, oltre agli obiettivi

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da raggiungere nel trienno, anche le linee d’azione da perseguire. I piani attuativi locali poi organizzano la localizzazione ed il funzionamento dei servizi.

1.2 Sistemi sanitari regionali 1.2.1 Modelli regionali

È interessante come l’organizzazione della sanità pubblica precedentemente descritta abbia portato all’affermazione progressiva e sempre più netta di modelli regionali di organizzazione e gestione dei servizi sanitari, inizialmente differenziati per di più per la predisposizione degli assetti preposti all’erogazione delle prestazioni e poi anche per vere e proprie scelte riguardanti la qualità e quantità delle prestazioni erogabili e i sistemi di compartecipazione alle spese da parte dell’utente. Non sono comunque solo le posizioni normative alla base della distinzione tra i modelli regionali.

Innanzi tutto va considerata la diversità della realtà assistenziale di riferimento e dei bisogni della popolazione; domanda e offerta possono differire molto nelle realtà regionali, con la conseguenza che l’assistenza privata risulta indispensabile per assicure alcune prestazioni specialistiche in determinate regioni, specie nel Sud Italia, mentre in altre regioni fa semplicemente da valida alternativa ad un sistema pubblico che anche da solo può soddisfare la domanda di assistenza. Questo apre un’ulteriore spazio di differenziazione tra sistemi regionali, in quanto alcuni possono definirsi “aperti”, ovvero essi lasciano ampio spazio alla concorrenza tra strutture e alla libertà di scelta dell’utente, e altri sono meglio definibili come “programmati”, cioè che vedono predominante all’interno della predisposizione dell’offerta il ruolo esercitato unilateralmente dall’amministrazione titolare del servizio. Si sono così affermati sistemi regionali basati sulla programmazione delle prestazioni sanitarie, fondati sulla regolamentazione dell’accesso al mercato e sull’uso selettivo dell’accreditamento delle strutture erogatrici private (una fra tante l’Emilia Romagna), e dall’altro (l’esempio per eccellenza è la Lombardia) sistemi caratterizzati da una competizione piuttosto ampia, dove i soggetti accreditati coincidono con il numero reale degli erogatori attivi, con conseguente riduzione della funzione programmatoria dell’amministrazione. Se il modello programmatorio sembrerebbe consentire un più efficace controllo della spesa da un lato, va detto che dall’altro riduce la libertà di scelta dell’utente.

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Ulteriore differenza tra un Sistema Sanitario Regionale ed un altro può essere il ruolo delle AUSL (di committenza o di produzione diretta) e il rapporto tra esse e Regione, più o meno dirigentistico piuttosto che caratterizzato da maggiore autonomia. Nei modelli più vicini al D.Lgs. 299/99 l’AUSL detiene una funzione piuttosto residuale di commitenza all’esterno e mantiene al suo interno la gestione di gran parte dei servizi, come nel caso della Toscana in cui le AUSL esercitano una forte regolamentazione e svolgono contemporaneamente il ruolo di acquirente ed erogatore di prestazioni (per di più presso sedi pubbliche), ma ciò non avviene in alcune realtà, quali quella Ligure ed altre, dove le strutture di erogazione delle prestazioni specialistiche sono state scorporate dalle AUSL, per garantire ad esse unicamente un ruolo di “pagatore” con il vantaggio di un abbattimento delle liste d’attesa, ma lo svantaggio dei disavanzi economici.

Questi sono solo alcuni macroaspetti che costituiscono le differenze tra i vari Sistemi Sanitari Regionali, d’altro canto si pensi all’ulteriore spinta all’attribuzione di competenze in materia sanitaria alle Regioni che è andata di pari passi alla “devolution” discussa fino al 2006 e oltre, con notevoli dibattiti su quella che poteva essere una vera e propria rottura tra Servizi Sanitari regionali e Servizio Sanitario nazionale.

Tuttavia è opportuno mettere in luce anche quelli che sono gli elementi comuni a tutte le regioni, principalmente relativi alle politiche socio-assistenziali. Un andamento simile è rilevabile analizzando alcuni indicatori come:

 le forme organizzative del sistema sanitario regionale (il dimensionamento delle aziende e la loro distrettualizzazione, ma non il numero);

 il contributo dello stato nel finanziamento dei servizi;  la presenza di medici ospedalieri e del medico di base;

 lo sviluppo di attività (pubbliche o accreditate) di day hospital;  lo sviluppo di attività domiciliare di cura.

Interessante invece che l’attività extramoenia risulti un indicatore su cui le regioni presentano marcate differenze.

Possiamo quindi notare che nonostante indiscutibili differenze tra i modelli regionali riassumibili in maniera generica come appena visto, mettere a confronto i sistemi sanitari regionali produce analisi molto diverse a seconda degli elementi che vengono considerati. Per esempio, se si utilizzano come criterio di classificazione la struttura ospedaliera, per altro più consolidata e stabile nel tempo, unitamente alla dimensione ambulatoriale, che

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risulta più evolutiva, relativamente all’erogazione delle prestazioni, emerge un nuovo profilo per quanto riguarda la presenza di pubblico e privato nelle varie realtà regionali. La situazione rispecchia, probabilmente, la storia di sviluppo dei sistemi sanitari che hanno visto l’espansione delle attività ambulatoriali solo successivamente al consolidamento dei sistemi ospedalieri, in un contesto temporale meno ricco di risorse pubbliche e più aperto al contributo di soggetti privati. In particolare parliamo di:

 sistema misto caratterizzato dalla prevalenza del pubblico nelle attività ambulatoriali ed una maggior penetrazione del privato per quanto riguarda l’attività ospedaliera, come presente nelle regioni Piemonte, Trentino Alto Adige, Friuli Venezia Giulia, Emilia Romagna, Toscana;

 sistema misto con una presenza limitata del privato nella gestione ospedaliera ed una più mista per le attività ambulatoriali, come nelle regioni Veneto e Valle d’Aosta;

 sistema misto con una forte presenza del settore privato per quanto riguarda l’offerta ospedaliera ed una mista per quanto riguarda le attività ambulatoriali, che comprende le regioni Lazio, Abruzzo, Calabria.

La possibilità di fare classificazioni diverse dei sistemi regionali, così come è stato fatto anche per i sistemi sanitari nazionali, a seconda dei criteri analizzati, può costituire una base per successive analisi longitudinali che consentano di verificare se la crisi dei sistemi di welfare ed i processi di cambiamento, normativo e organizzativo attualmente in atto, produrranno ulteriori diversificazioni o se porteranno anche a far prevalere sul piano fattuale (se non su quello normativo) modelli differenti da quello rappresentato come SSN.

Un’ultima considerazione può essere fatta sullo sviluppo, in quasi tutte le regioni, di sistemi misti, cioè retti sia da meccanismi di amministrazione pubblica che privata (pur con intensità e diffusione diversi). Questa condizione testimonia come il cambiamento dei sistemi di welfare, che a partire dalla fine del secolo scorso si sono andati modificando accentuando la loro natura di sistemi misti in Italia ed anche negli altri Servizi sanitari, caratterizzi anche l’evoluzione dei sistemi sanitari regionali.

Come precedentemente visto, la ricerca di forme ibride, caratterizza anche i processi di governo dei sistemi sanitari regionali, infatti risulta coerente con la natura mista dei sistemi di offerta, pertanto si intrecciano logiche della programmazione pubblica

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(gatekeeping) e logiche di mercato (cost-sharing). Una interessante proposta di semplificazione del problema è proposta dai lavori di Reibling (2010). Questa prospettiva di analisi non consente di rappresentare la dinamicita di tali cambiamenti, né i processi concreti che si attivano nei sistemi locali, ma rappresenta comunque una prospettiva utile per osservare come il grado di gatekeeping per il Sistema sanitario italiano sia elevato a confronto con altri paesi europei, e per riclassificare le regioni italiane sulla base di tre tipologie di governance:

mix-ibrida: caratterizzata da un alto gatekeeping ed un alto grado di cost-sharing, come nella maggior parte delle regioni italiane;

mix a prevalenza gerarchica quando vi e un alto livello di gatekeeping e medio livello di cost-sharing (e il caso delle regioni Piemonte e Friuli Venezia Giulia);  governance pubblica, di tipo gerarchico, nei casi in cui vi e un elevato grado di

gatekeeping e basso livello di cost-sharing (regioni Valle d’Aosta, Trentino Alto Adige, Sicilia, Sardegna).

In sintesi, possiamo riflettere su numerosi elementi per tracciare una panoramica dei modelli sanitari regionali: il ruolo che assume la governance multilivello (visione d’insieme di tutti gli attori che a livelli diversi condividono e influenzano il processo di costruzione delle decisioni, comprensibile solo attraverso l’analisi di ogni livello istituzionale e delle interconnessioni tra essi), la partecipazione dei cittadini al sistema sanitario a livello locale, il reperimento e l’utilizzo di risorse, la stabilità politica (che condiziona la coerenza interna dei sistemi regionali), la crisi economico-finanziaria (che vincola l’azione Regionale, ne sono un esempio i “Piani di rientro” della Regione Puglia); i processi di costante riforma della normativa nazionale, che rendono più difficile l’applicazione dei provvedimenti regionali (come successo nel caso delle Società della Salute della Toscana, cancellate dalla legge nazionale) e molto altro ancora, ma al di là delle preoccupazioni classificatorie, emerge un sistema differenziato che evidenzia la compresenza di forme e di processi di regolazione non sempre coerenti e che richiedono un’attenta riflessione.

1.2.2 Servizio Sanitario Toscano

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che lavorano quotidianamente nei 40 ospedali della Toscana, nelle strutture e nei servizi sanitari del territorio.

Il sistema sanitario è disciplinato dalla legge regionale (L.R.) 24 febbraio 2005, n. 40 e successive modifiche e integrazioni, tra cui la L.R. 28 dicembre 2015, n.84 che sarà oggetto di approfondimento nei prossimi capitoli.

Secondo quanto visto finora possiamo dipingere un quadro del Servizio Sanitario Toscano come un sistema:

 stabile (in primis dal punto di vista politico), fortemente preposto a garantire il diritto alla salute dei cittadini;

 volto ad integrare sempre più la programmazione sociale e sanitaria attraverso la creazione di comunità e reti di servizi, la centralità della persona nel percorso di cura di cui è attore e la promozione dell’equità di accesso ai servizi;

 in cui sono molto diffuse le aggregazioni multiprofessionali (specie nel campo della sanità d’iniziativa, dove sul modello anglosassone del Chronic Care model si sono costituiti gruppi d’intervento volti ad individuare tra i propri assistiti quelli affetti da patologie croniche, reclutandoli per l’attuazione dei Percorsi Diagnostico Terapeutici Assistenziali specifici);

 prevalentemente pubblico, sia nel finanziamento che nell’offerta di prestazioni;  con una governance ibrida, caratterizzata sia da un alto gatekeeping che da un alto

grado di cost-sharing;

 che si inserisce nella cornice di un welfare strutturato con la presenza di alcuni segnali di orientamento verso il societario, l’offerta estesa di servizi tradizionali e l’orientamento verso la territorializzazione, inserito in una società discretamente coesa con rischi sociali relativamente bassi;

 che mira ad un processo di progressiva informatizzazione allo scopo di alleggerire la burocrazia del rapporto fra l’istituzione e il cittadino e il miglioramento della qualità dei servizi erogati insieme al contenimento dei costi;

 attento alla valutazione delle performance in termini di efficacia ed efficienza, grazie anche alla presenza sul territorio del Laboratorio Management e Sanità della Scuola Superiore Sant’Anna (MeS Lab);

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 che pone particolare enfasi anche all’aspetto amministrativo manageriale, oltre che clinico, tanto da aver costituito con il Piano integrato sociale regionale 2007- 2010 tre Enti di supporto Tecnico-amministrativo di Area Vasta (ESTAV), poi divenuto un unico Ente di supporto tecnico-amministrativo regionale (ESTAR), per un governo del sistema sovra o interaziendale, in cui le aziende coinvolte, non sono solo quelle sanitarie locali (AUSL) con le aziende ospedaliere appartenenti, ma anche le aziende ospedaliero-universitarie (AUO);

 piuttosto coerente con la normativa nazionale, sebbene ponga una criticità interna alla regolamentazione l’istituzione delle Società della salute, tese a rafforzare il ruolo locale delle organizzazioni e al superamento della frammentazione di competenze tra Enti Locali e Aziende sanitarie (per altro con il rischio di sortire l’effetto opposto per la mancanza di una piena diffusione e adozione su tutto il territorio regionale), ma la cui legittimità è messa in discussione in seguito ad un provvedimento nazionale che abolisce i “Consorzi pubblici di funzioni” che è la configurazione giuridica delle Societa della Salute (Legge Finanziaria 2009, in particolare: art. 2, comma 186, lettere a) ed e), della L. 191/09).

1.3 Professioni sanitarie: evoluzione normativa, formazione universitaria e acquisizione della responsabilità e dell’autonomia lavorativa

Alcune professioni sanitarie sono riconosciute da moltissimo tempo e regolamentate già nel Testo unico delle leggi sanitarie del 1934. Questo distingueva coloro che operavano nel campo della sanità in tre categorie: professioni sanitarie principali (medico chirurgo, veterinario, farmacista e, dal 1985 odontoiatra), professioni sanitarie ausiliarie (levatrice, assistente sanitaria visitatrice e infermiera diplomata), arti ausiliarie delle professioni sanitarie (odontotecnico, ottico, meccanico ortopedico ed ernista, tecnico sanitario di radiologia medica e infermiere abilitato o autorizzato) (Tab.1).

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16 Tabella 1. Principali riferimenti normativi riguardanti le professioni sanitarie mediche e comparate (tratta dal sito del Ministero della Salute)

Professione Principali riferimenti normativi

Farmacista D. Lgs. 08.08.1991, n. 258 (G.U. 16.08.1991, n. 191)

Medico chirurgo D. Lgs. 17.08.1999, n. 368 (G.U. 23.10.1999, n. 250, S.O.)

Odontoiatra L. 24.07.1985, n. 409 (G.U.13.08.195, n. 190, S.O.)

Veterinario L. 08.11.1984, n. 750 (G.U. 10.11.1984, n. 310)

Psicologo L. 18.02.1989, n. 56 (G.U. 24.02.1989, n.46)

Altri riferimenti normativi:  T.U. delle leggi sanitarie del 1934;

 D.M. 28.11.2000, Determinazione delle classi delle lauree universitarie specialistiche, pubblicato nella G. U. 23.01.2001 n.18, S.O.

 Direttiva comunitaria 2005/36 del 07.09.2005  D.L.vo 09.11.2007 n. 206

Progressivamente però, anche per la necessità di adeguarsi alle regole dell’Unione Europea, hanno acquisito una loro regolamentazione nuove categorie professionali definibili come paramediche. Con l’art. 6 del D.Lgs. 502/1992 si avvia il processo di “professionalizzazione” demandando al Ministro della sanità l’individuazione, attraverso specifici decreti, delle figure professionali da formare e la definizione dei relativi profili stabilendo che la loro formazione abilitante avvenga in sede universitaria, tramite corsi per l’espletamento dei quali regioni e università attivano appositi protocolli di intesa (in tal senso viene anche richiamato l’art.9 della L. 19 Novembre 1990, n. 341 in materia di riforma degli ordinamenti didattici universitari). Così dal 1994 in poi sono stati emessi Decreti Ministeriali (D.M.) definenti i profili professionali, le specifiche competenze di ciascuno di essi, le funzioni autonome e le responsabilità conseguenti (Tab.2).

Tabella 2. Principali riferimenti normativi riguardanti le professioni paramediche

Professione Riferimento normativo del profilo

PROFESSIONI SANITARIE INFERMIERISTICHE ED OSTETRICHE

Infermiere D.M. 14.09.1994, n. 739 (G.U. 09.01.1995, n. 6)

Direttive comunitarie 77/452/CEE e 77/453/CEE L. 18.12.1980, n. 905 (G.U. 31.12.1980, n. 356)

Ostetrica/o D.M. 14.09.1994, n. 740 (G.U. 09.01.1995, n. 6)

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L. 13.06.1985, n. 296 (G.U. 22.06.1985, n. 146)

Infermiere Pediatrico D.M. 17.01.1997, n. 70 (G.U. 27.03.1997, n. 72)

PROFESSIONI SANITARIE RIABILITATIVE

Podologo D.M. 14.09.1994, n. 666 (G.U. 03.12.1994, n. 283)

Fisioterapista D.M. 14.09.1994, n. 741 (G.U. 09.01.1995, n. 6)

Logopedista D.M. 14.09.1994, n. 742 (G.U. 09.01.1995, n. 6)

Ortottista – Assistente di Oftalmologia D.M. 14.09.1994, n. 743 (G.U. 09.01.1995, n. 6) Terapista della Neuro e Psicomotricità

dell'Età Evolutiva

D.M. 17.01.1997, n. 56 (G.U. 14.03.1997, n. 61)

Tecnico di Riabilitazione Psichiatrica D.M. 29.03.2001, n.182 (G.U. 19.05.2001, n.115)

Terapista Occupazionale D.M. 17.01.1997, n. 136 (G.U. 25.05.1997, n. 119)

Educatore Professionale D.M. 08.10.1998, n.520 (G.U. 28.04.1999, N. 98)

PROFESSIONI TECNICO SANITARIE (Area Tecnico-diagnostica)

Tecnico Audiometrista D.M. 14.09.1994, n. 667 (G.U. 03.12.1994, n. 283)

Tecnico Sanitario di Laboratorio Biomedico

D.M. 14.09.1994, n. 745 (G.U. 09.01.1995, n. 6)

Tecnico Sanitario di Radiologia Medica D.M. 14.09.1994, n. 746 (G.U. 09.01.1995, n. 6) Tecnico di Neurofisiopatologia D.M. 15.03.1995, n. 183 (G.U. 20.05.1995, n. 116)

PROFESSIONI TECNICO SANITARIE (Area Tecnico-assistenziale)

Tecnico Ortopedico D.M. 14.09.1994, n. 665 (G.U. 03.12.1994, n. 283)

Tecnico Audioprotesista D.M. 14.09.1994, n. 668 (G.U. 03.12.1994, n. 283)

Tecnico della Fisiopatologia

Cardiocircolatoria e Perfusione Cardiovascolare

D.M. 27.07.1998, n. 316 (G.U. 01.09.1998, n. 203)

Igienista Dentale D.M. 15.03.1999, n. 137 (G.U. 18.05.1999, n. 114)

Dietista D.M. 14.09.1994, n. 744 (G.U. 09.01.1995, n. 6)

PROFESSIONI TECNICHE DELLA PREVENZIONE Tecnico della Prevenzione nell'Ambiente

e nei Luoghi di Lavoro

D.M. 17.01.1997, n. 58 (G.U. 14.03.1997, n. 61)

Assistente Sanitario D.M. 17.01.1997, n. 69 (G.U. 27.03.1997, n. 72)

Altri riferimenti normativi:  D. Lgs. 02.05.1994, n. 319;  D. Lgs. 27.01.1992, n. 115;

 Art. 6, comma 3, D. Lgs 30.12.1992, n. 502 e successive modifiche ed integrazioni;  L. 10.08.2000, n. 251;

 L 26.02.1999, n. 42;  L. 08.01.2002, n.1;

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 D.M. 29.03.2001, Definizione delle figure professionali, ecc., pubblicato nella G. U. 23.05.2001, n. 118;  D.M. 02.04.2001 , Determinazione delle classi delle lauree specialistiche universitarie delle professioni

sanitarie, pubblicato sul S. O. n.136, G.U. 05.06.2001, n.128;  Direttive comunitarie 89/48 CEE, 92/51/CEE e 2001/19/CE

OPERATORE DI INTERESSE SANITARIO

Massofisioterapista Legge 403/71

Art.1 c.2 Legge 1 febbraio 2006 n. 43 ARTI AUSILIARIE DELLE PROFESSIONI SANITARIE

Massaggiatore capo bagnino stabilimenti idroterapici

R.D.31.05.1928, n. 1334, art. 1.

Ottico R.D.31.05.1928, n. 1334, art. 12.

Odontotecnico R.D.31.05.1928, n. 1334, art. 11.

Puericultrice L. 19 luglio 1940, n. 1098

Altri riferimenti normativi:

 D.M 28.10.1992, pubblicato nella G.U. 11.11.1992, n. 266;  D.M 23.04.1992, pubblicato nella G.U. 18.06.1992, n. 142.

ALTRE FIGURE DI INTERESSE SANITARIO

Operatore socio-sanitario Acc. Stato – Regioni 22.02.2001 (G.U. 19.04.2001, n. 91)

Fonte: Ministero della salute ( http://www.salute.gov.it/portale/temi/p2_6.jsp?id=91&area=professioni-sanitarie&menu=vuoto aggiornato al 15/07/2013)

Con la L. 26 Febbraio 1999, n. 42 “Disposizioni in materia di professioni sanitarie” si elimina la suddivisione propria del Testo Unico delle leggi sanitarie del 1934, accomunando le professioni sanitarie principali ed ausiliarie nell’unica dizione “professioni sanitarie”, si abbandona quindi il ruolo ancillare di tali professioni per riconoscergli pari dignità, almeno formale, rispetto alle altre professioni della salute, si aboliscono inoltre i mansionari per le professioni per le quali erano prevesti, trasformando quello che era un atto regolamentare di carattere fortemente esecutivo, attributivo di specifici compiti e basato su una elencazione di attribuzioni ai quali l’esercizio professionale doveva attenersi e quindi limitarsi, ad un atto normativo, quale è il profilo professionale, di natura regolamentare che definisce il contenuto peculiare del tipo di prestazione, i titoli professionali richiesti e le specifiche abilitazioni stabilite dalla legge per l’esercizio della professione e che, concretamente, prevede un’ampia attribuzione di autonomia e responsabilità. la Professionalità si identifica quindi come

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l’insieme delle conoscenze, delle competenze e degli atteggiamenti del singolo operatore che lo rendono capace di agire con responsabilità e rispetto della persona che deve essere sempre mantenuta al centro dell’intervento di cura. Responsabilità significa da un lato essere chiamato a rispondere all’autorità per una condotta professionale inopportuna, se non addirittura dannosa, dall’altro impegnarsi a mantenere un comportamento congruo e corretto fondato su presupposti scientifici e valori etici, nonché su aspetti legali. Esistono comunque diversi tipi di responsabilità, in primo luogo è possibile distinguere tra quella civile e quella penale, quest’ultima implicante una sanzione personale, poi esiste una forma di responsabilità disciplinare, che riguarda il rapporto di lavoro tra dipendente e datore di lavoro.

L’individuazione dei profili professionali (22 in totale, di cui 8 appartenenti all’area della riabilitazione) si connette strettamente agli ordinamenti didattici universitari delle relative professioni, nonché agli specifici codici deontologici, anche nel rispetto delle attribuzioni delle altre professioni sanitarie. La legge del 1999 pone infatti anche dei limiti alle competenze dei professionisti sanitari e persino dei medici, aspetto, quest’ultimo, difficile da individuare per motivi storici, dato che nel nostro ordinamento vi era sempre stata un’equivalenza tra l’atto medico e l’atto sanitario. Questo implica anche che le professioni in questione esercitino con un’autonomia che prima non avevano, ma con una necessaria collaborazione con gli altri operatori. Si veda infatti come nella definizione dei profili del fisioterapista, del terapista della neuro e psicomotricità dell’età evolutiva, del logopedista, e non solo, si parla della possibilità di elaborare programmi di riabilitazione in equipe multidisciplinare. D’altronde se l’esponenziale sviluppo della medicina, i cui elevati e complessi livelli del sapere hanno costretto ad una ridistribuzione e ad una parcellizzazione delle conoscenze tra molteplici discipline, è necessario che tali professioni perseguano obiettivi comuni, anche a fronte di una prevalenza di malattie cronico-degenerative, sia in termini di diffusione che di gravità dei quadri clinici, che richiedono approcci unitari e globali di cura basati sull’utilizzo coordinato di risorse differenti. La pratica interprofessionale quindi si costruisce intorno a concetti di condivisione di valori, di presa di decisioni e di responsabilità. È un concetto che è stato analizzato anche dalla letteratura scientifica, la quale suggerisce che il lavoro basato sul team può massimizzare e rafforzare le competenze di ciascun professionista e migliorare l’efficienza dei processi assistenziali, quando il gruppo interprofessionale è in grado di

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ridurre la sovrapposizione di servizi e interventi, di applicare modelli di cura condivisi, di realizzare una maggiore continuità e un miglior coordinamento delle cure e di coinvolgere i paziente nel processo decisionale (World Health Organization, 2010). Di conseguenza se da un lato ogni professione diventa tale grazie all’acquisizione di uno specifico titolo universitario, dall’altro acquista sempre più importanza la formazione interprofessionale. Con tale specializzazione delle competenze che si integrano nelle equipe, le tradizionali gerarchie del sistema vengono a perdere rilievo e, pur se con una parziale perdita del potere tradizionalmente posseduto dal medico, emerge la consapevolezza che la professionalità è un attributo comune che può essere condiviso.

Coerentemente con l’innovazione posta dalla L.42/1999, la L. 10 Agosto 2000, n.251 “Disciplina delle professioni sanitarie infermieristiche, tecniche della riabilitazione, della prevenzione nonché della professione di ostetrica” e i successivi D.M. 29 Marzo 2001, n.118 e D.M. 2 Aprile 2001, n.128, individuano specificatamente le macroaree professionali interessate dal nuovo sistema di formazione, al fine di migliorare la qualità organizzativa e professionale del Servizio Sanitario Nazionale. In particolare, gli operatori delle professioni sanitarie dell’area della riabilitazione svolgono “attività dirette alla prevenzione, cura, riabilitazione e a procedure di valutazione funzionale” sulla base delle proprie competenze. Tale legge non solo identifica quattro classi di professionisti (Professioni sanitarie infermieristiche e professione sanitaria ostetrica, Professioni sanitarie riabilitative, Professioni tecnico-sanitarie, Professioni tecniche della prevenzione), ma prevede anche la nuova qualifica unica di dirigente del ruolo sanitario e la laurea specialistica (ora magistrale).

A tal proposito è importante riflettere su come la sanità si sia evoluta da una logica meramente clinica ad una economica ed organizzativa e su come le pratiche assistenziali abbiano progressivamente allargato la loro visione verso realtà internazionali e sul bisogno di calarsi nell’evidenza scientifica. Se la ricerca e la formazione continua sono state integrate piuttosto di buon grado nella pratica dei professionisti della salute, non sempre si può dire la stessa cose riguardo alla logica manageriale, eppure molti operatori svolgono direttamente un gran numero di attività prettamente manageriali: elaborano progetti, creano linee guida e protocolli, svolgono il monitoraggio e la valutazione, preparano la modulistica e organizzano la formazione (Tousijn, 2011). Va da sé che le attività manageriali non sono necessariamente in contrasto con il lavoro professionale,

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ma anzi, dati i cambiamenti intervenuti nella società, sono sempre maggiori le funzioni organizzative che richiedono un coinvolgimento diretto dei professionisti, pertanto non solo ha poco senso la distinzione netta tra manager (econimisti, ingegneri gestionali e quant’altro) e professionisti della salute, ma è anche necessario trovare uno spazio adeguato a tale mentalità nei processi di formazione del professionista sanitario. Ecco quindi che risulta giustificata la creazione di una laurea magistrale delle professioni sanitarie.

Chiaramente hanno dovuto adeguarsi alla normativa anche i regolamenti concorsuali e i Contratti Collettivi Nazionali di Lavoro, nei quali è contenuta la classificazione professionale in categorie (nella quale le professioni che abbiamo preso in esame sono configurate come Categoria D “Collaboratore professionale sanitario” e Categoria D – Liv. DS “Collaboratore professionale esperto” per designare il dirigente e il coordinatore). È seguita poi la legge 1 Febbraio 2006, n.43 “Disciplina delle professioni sanitarie infermieristiche, tecniche, della riabilitazione, della prevenzione nonché della professione ostetrica e delega al Governo l’istituzione dei relativi Ordini professionali”, cheprevede gli ordini e gli albi per tutte le professioni sanitarie, disciplina la procedura partecipata fra Stato e Regioni per l’integrazione di professioni sanitarie già riconosciute e/o l’istituzione di nuove professioni, istituisce la funzione di coordinamento. Già in occasione della L. 42/1999 si era pensato di introdurre norme sull’istituzione di nuovi albi professionali dei relativi Ordini, ma già allora l’Antitrust (Autorità Garante della concorrenza e del mercato) aveva espresso parere sfavorevole precisando che “la costituzione di Albi ed Ordini professionali dovrebbe rivestire carattere del tutto eccezionale, ed essere limitata alle ipotesi in cui si possa ragionevolmente ritenere che, in assenza di un intervento regolamentativo, si verificherebbe una significativa perdita di benessere per i consumatori […]. Per quanto concerne le professioni oggetto del disegno di legge va osservato che attualmente esse posso essere svolte solo in seguito allo svolgimento di un preciso percorso formativo professionale, ovvero con il conseguimento di specifici diplomi universitari e, quindi, sono già oggetto di una regolamentazione sufficientemente idonea a garantire che le prestazioni vengano rese da soggetti qualificati ed in possesso di requisiti ritenuti necessari. Pertanto, l’introduzione di ulteriori vincoli regolamentativi potrebbe tradursi in una limitazione della concorrenza tra professionisti, senza tuttavia apportare benefici aggiuntivi a chi domanda i servizi” (parere n.43 del 29

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Ottobre 1998). Quando la legge 43/2006 è stata approvata, allo scopo di assicurare una maggiore qualificazione delle professioni sanitarie non mediche, sostenendo anche il diritto alla salute per i cittadini, si è posto rimedio ad un vuoto normativo che non consentiva più all’ordinamento vigente di procedere, solo attraverso decreti regolamentari, alla fissazione di profili professionali e formativi. L’art. 3 della legge istituisce gli Ordini e gli Albi delle professioni sanitarie “al fine di perseguire il percorso di riforma delle professioni sanitarie iniziato fin dal 1992 ed al fine di adeguare il livello culturale e professionale degli esercenti le professioni sanitarie a quello garantito negli altri stati membri dell’Unione Europea”. L’art. 4 conferisce una delega al Governo, da esercitare entro 24 mesi, al fine di trasformare i Collegi esistenti in Ordini professionali e istituirne di nuovi per le professioni prive, prevede che sia istituito almeno un Ordine per ogni area di suddivisione delle professioni sanitarie, con la possibilità però di costituirne uno singolo laddove la professione d’interesse racchiuda almeno 20000 iscritti. Collegi e Ordini esercitano la stessa attività nei confronti degli iscritti, con la differenza che le professioni per le quali è indispensabile la laurea sono organizzate in Ordini, i quali sono enti di diritto pubblico. L’Ordine della categoria professionale di riferimento ha il compito di verificare la qualità e la correttezza delle prestazioni professionali, chi è iscritto è tenuto all’osserva di norme interne di comportamento, che possono trovare espletamento in un codice deontologico, e sono pertanto sottoposti a controllo dell’ordine stesso. All’Ordine spetta anche la cura della formazione e dell’aggiornamento professionale. Sia Ordini che Collegi hanno il compito della tenuta degli Albi Professionali, cioè dei registri nei quali vengono annotati i dati relativi a tutti quei soggetti abilitati a svolgere una professione. Generalmente, per legge, l’iscrizione ad un Albo prevede il superamento di un esame, che per alcune categorie è adirittura gestito direttamente dallo Stato. Si consideri comunque che per alcune professioni è inesistente perfino il Collegio.

Se la delega fosse stata rispettata si sarebbero avute sei federazioni di Ordini: quella degli infermieri (già esistente), quella delle ostetriche (anch’essa già presente), quella dei tecnici sanitari di radiologia medica, ma la vera svolta sarebbe stata l’istuzione della Federazione degli Ordini delle Professioni sanitarie della riabilitazione, dei tecnici della prevenzione e delle professioni dell’area tecnico-diagnostica-assistenziale. Gli Albi sarebbero stati uno per ciascuna professione designata dal legislatore ed in base al numero degli iscritti gli Ordini avrebbero potuto avere un’articolazione provinciale,

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regionale o statale. Era un provvedimento molto atteso dai numerosi professionisti sanitari, tuttavia l’opposizione dell’Antitrust, che adduceva il vincolo delle norme comunitarie in materia ha fatto sì che si prorogasse il termine per la delega per poi arrivare alla scadenza di quest’ultimo. Per alcuni (Barbieri, 2006) la trasformazione dei Collegi in Ordini avrebbe messo fine ad una distinzione antica e ormai ingiustificata ed avrebbe contribuito a dare coerenza al sistema delle professioni della salute, pari dignità professionale e a garantire la competenza e l’impegno deontologico dei professionisti. La creazione degli ordini sarebbe stata un’occasione per chiarire ulteriormente i campi d’azioni di ogni professione, considerato il fatto che, nonostante sia opportuno talvolta possedere competenze comuni, può essere d’intralcio nelle sviluppo di capacità specifiche, nonché fonte di confusione per l’utente, trovarsi di fronte a figure professionali diverse che agiscono senza distinzione negli stessi ambiti d’intervento, si pensi ad esempio al fatto che l’infermiere può esercitare in ambito pediatrico, sebbene esista una formazione specifica per divenire infermiere pediatrico, figura che per contro può esercitare esclusivamente in tale fascia d’età, oppure alla frequente sovrapposizione di compiti tra fisioterapista e terapista occupazionale e tra questi e terapista della neuro e psicomotricità dell’età evolutiva nell’ambito dei disturbi neurologici del bambino, o ancora alla non chiara distinzione, persino nella dicitura dei relativi riferimenti normativi, tra Tecnico della riabilitazione psichiatrica ed Educatore professionale. Una riorganizzazione avrebbe potuto consentire un maggior riconoscimento di quelle competenze che concorrono ad assicurare il diritto alla salute dei cittadini.

La mancanza dell’istituzione di albi e Ordini per l’area della riabilitazione in Italia fa delle Federazioni e delle Associazioni Professionali private l’istituzione di massima appartenenza alla categoria professionale e le conferisce una rappresentatività istituzionale sancita anche da Decreto Ministeriale. Esse hanno in primo luogo un ruolo determinante nello sviluppo della cultura scientifica della riabilitazione, insieme alle Società Scientifiche, in considerazione della diversità sia delle rispettive mission sia del loro livello di rappresentatività. Le Associazioni si trovano quindi a coprire, almeno parzialmente, le funzioni dell’Ordine o del Collegio mancante, tra cui ad esempio quella di vigilante della formazione continua del professionista che vi appartiene, tuttavia l’iscrizione alle Associazioni professionali non è obbligatoria, pertanto rimane da chiarire come tali aspetti, che pure costituiscono anche la leva dell’autonomia e responsabilità

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professionale (formazione, codice deontologico e via dicendo), debbano essere garantiti per le professioni che non possiedono Collegi né Ordini.

La discussione a riguardo si è recentemente riaperta poiché dopo due anni di discussione in Commissione Igiene e Sanità del Senato, il 26 aprile 2016, è stato licenziato il Disegno di legge 1324 presentato dal ministro Lorenzin: “Delega al Governo in materia di sperimentazione clinica dei medicinali, nonché disposizioni per l'aggiornamento dei livelli essenziali di assistenza, per il riordino delle professioni sanitarie e per la dirigenza sanitaria del Ministero della salute”. L’iter legislativo prevede ulteriori passaggi parlamentari, pertanto non conosciamo ancora l’esito di tale legge. Il testo varato dalla commissione contiene gli indirizzi per una rivisitazione della disciplina ordinistica delle professioni sanitarie, che riguarda anche le professioni della riabilitazione. In particolare, il riordino della disciplina degli Ordini delle professioni sanitarie è definito nell’articolo 3, dove si prevede l'istituzione dei seguenti ordini professionali, che non costituiscono nuovi enti pubblici ma trasformano semplicemente i collegi e le federazioni esistenti (comma 9):

 delle professioni infermieristiche;  delle ostetriche e degli ostetrici;

 dei tecnici sanitari di radiologia medica e delle professioni sanitarie tecniche, della riabilitazione e della prevenzione.

Inoltre il comma 13 dell’articolo 3 prevede che il Ministro della salute istituisca con decreto “gli albi per le professioni sanitarie tecniche, della riabilitazione e della prevenzione, ai quali possono iscriversi i laureati abilitati all'esercizio di tali professioni, nonché i possessori di titoli equipollenti o equivalenti alla laurea abilitante, ai sensi dell'articolo 4 della legge 26 febbraio 1999, n. 42.

Si prende altresì atto che nel medesimo decreto sono presenti anche articoli miranti alla costituzione di nuove professioni sanitarie (per altro in contraddizione con le disposizioni previste dalla L. 43/2006), quali l'osteopata ed il chiropratico come professioni sanitarie al pari del fisioterapista, dell'infermiere, del medico. Questa proposta è stata sgradita per molti professionisti sanitari tanto che è stata diffusa una petizione per chiedere ai Senatori di bocciare gli articoli 4 e 12 del Disegno di Legge (DdL) "Lorenzin" Atto del Senato 1324, che mirano ad istituire nuove professioni sanitarie derogando al parere

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tecnico-scientifico previsto dalla Legge. Questo apre un ulteriore aspetto riguardante le professioni sanitarie che è quello dei confini delle competenze e delle incongruenze legislative.

Nel nostro Paese l’assunzione del titolo è giuridicamente definita dato che la formazione può avvenire solo in sede universitaria; di contro alcune incertezze che il legislatore ancora stenta a sanare, lasciano spazi aperti che facilmente vengono riempiti da occupazioni la cui formazione lascia molti dubbi riguardo all’adeguatezza rispetto al fabbisogno richiesto. Eppure nelle categorie riconosciute non rientrano operatori che esercitano terapie non convenzionali come i chiropratici, ma continuano ad essere presenti ottici, puericultrici, massofisioterapisti e odontotecnici, che pure non sono propriamente definibili come professioni sanitarie. Inoltre l’art.5 della L. 43/2006 prevede l’individuazione di nuove figure sanitarie da collocare nelle quattro macroaree professionali individuate dall’art. 1, mediante accordi in sede di Conferenza Stato-Regioni, pur sempre nel rispetto dei principi di fondo stabiliti dalla legge (l’individuazione di profili professionali ed ordinamenti didattici è riservata allo Stato), evitando una parcellizzazione delle professioni ed il loro affastellamento con figure già esistenti. Dunque l’indignazione dei professionisti sanitari è probabilmente più dovuta ad un timore di perdere parte dell’autonomia acquisita più che ad una difesa della coerenza legislativa e del rispetto dei requisiti formativi (che peraltro sarebbe probabilmente maggiore con l’approvazione di tale DdL) e questa paura ha una legittimazione nel fatto che, come accennavamo in precedenza in merito alle sovrapposizioni tra figure professionali, l’interpretazione delle norme è cangiante, esse sono delle guide, delle indicazioni sugli spazi di azione, ma necessitano di declinazione organizzativa, attraverso degli strumenti (ad esempio procedure, istruzioni di lavoro, protocolli). Non è un caso che le principali norme di riferimento che tracciano i confini di competenza e il campo di azione delle professioni sanitarie siano denominate profili, ovvero “linea di contorno”, come tali si ha bisogno di declinarle, interpretarle. Questo è da un lato un grosso vantaggio, perché le rende flessibili, adattabili e moderne nel senso che non seguono la logica del mansionario e del compito, ma quella della competenza andando anche con più facilità incontro all’ottica di lavoro interdisciplinare; dall’altro può essere un limite, in quanto l’indicazione è vaga e poco contestualizzata. La genericità di tali punti di riferimento può far sorgere alcune perplessità nell’espletamento concreto di specifiche prestazioni e rende i confini

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di competenza suscettibili ad allargarsi così come a restringersi sulla base anche di mere e talvolta ingiustificate abitudini consolidatesi nelle singole realtà operative. Inoltre, l’individuazione di ulteriori figure professionali può comportare il rischio di innescare situazioni precarie, in cui in assenza di una precisa identificazione dei compiti, delle funzioni, delle attività e delle responsabilità dei diversi operatori si rischia una deprecabile lacuna assistenziale o una inadeguata utilizzazione di risorse umane, peraltro spesso numericamente carenti.

In conclusione, le professioni sanitarie hanno certamente subito nel tempo un’evoluzione favorevole, tuttavia rimangono meccanismi irrisolti e controversi che ne limitano l’ulteriore sviluppo.

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CAPITOLO 2

Cambiamenti epidemiologici e aspetti economici

2.1 Invecchiamento della popolazione e miglioramento dei processi assistenziali

Se la morte viene rimandate a soglie più lontane, la nascita accorcia i tempi e si trasforma nel modo di essere, mentre la vita è soggetta a manipolazioni, trasformazioni e adattamenti sempre più sfidanti e le acquisizioni tecnico-scentifiche incalzano velocemente, i servizi sanitari devono necessariamente cambiare per farvi fronte. Siamo di fronte ad una transizione senza precedenti da un mondo caratterizzato da malattie trasmissibili a uno caratterizzato da malattie croniche e disabilità, che hanno implicazioni per il benessere delle persone in tutto il mondo. Eppure, i sistemi e le economie di salute non sembrano ancora preparati per questo passaggio. Per decenni i sistemi sanitari si sono basati sulla logica del salvare delle vite, quindi sono stati centrati essenzialmente sulle malattie acute, è necessario adesso passare dall’idea di guarire all’idea di curare, cioè entrare nella mentalità di un processo durevole. Talvolta si nota una vera e propria asimmetria tra le risposte del sistema sanitario e le crescenti esigenze della popolazione, nonché la presenza di diseguaglianze di accesso alle cure (Atun et al. 2013; Atun 2014). Per calcolare il peso complessivo che ogni malattia ha sulla vita delle persone si utilizzano svariate misure tra cui gli anni vissuti con disabilità (Years lived with disability YLDs) calcolati moltiplicando la prevalenza di una malattia per la perdita a breve o a lungo termine di salute associati a quella disabilità (il peso della disabilità). Quando gli YLD sono aggiunti al numero di anni di vita persi per una certa malattia o disturbo, l'onere della disabilità associata ad una malattia o disturbo può essere riportato in unità chiamata disability-adjusted life year (DALY) (Vos et al., 2012).

A livello globale, tra il 1990 e il 2013, gli YLD sono aumentati del 42,3%, da 537,6 milioni a 764,8 milioni, in relazione sia all’invecchiamento che alla crescita della popolazione. I calcoli non sono semplici a causa di dati sparsi ed eterogenei e di differenze nelle definizioni, nei saggi, negli strumenti e basi di campionamento utilizzati dai vari studi. Emerge comunque come la mortalità stia diminuendo più velocemente di quanto non faccia la prevalenza delle malattie in risposta ai trattamenti e più velocemente della disabilità.

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Alcune patologie hanno perso importanza come causa di YLD, mentre altre ne hanno acquistata.

Le malattie infettive hanno perso il loro peso e le uniche malattie trasmissibili tra le prime 25 principali cause di YLD sono quelle diarroiche (comunque al 25° posto nel 2013 contro il 15° nel 1990). Tuttavia, ci sono state eccezioni per quanto riguarda le febbri tropicali che sono aumentate.

Le persone vivono più a lungo, ma con più malattie e con una maggiore disabilità. Dal 1990 al 2013 l’indice YLD per persona è aumentato in 139 su 188 paesi presi in considerazione dagli studi del Global Burden of Disease, trainato principalmente da un aumento delle sindromi dolorose e di patologie muscolo-scheletriche (mal di schiena, dolore al collo, emicrania e altri), psichiatriche (depressione maggiore, disturbi d'ansia, schizofrenia), uso di sostanze, patologie neurologiche, disturbi respiratori cronici e diabete. Anche se le differenze nella distribuzione dei disturbi per regione e paese erano notevoli (per esempio le malattie infettive prevalgono come causa di YLD solo nei paesi in via di sviluppo) è possibile affermare che la depressione maggiore contribuisce in modo sostanziale ad innalzare la misura di YLD sia nei paesi in via di sviluppo e che in quelli sviluppati.

È aumentato il numero di persone con multimorbilità e sequele di patologie in correlazione con la longevità della vita. Nel 2013, solo il 4,3% della popolazione globale non ha avuto esiti onerosi di malattie o sequele di lesioni, mentre il 55,5% della popolazione di età compresa tra 80 anni o più ha avuto dieci o più sequele. Nei paesi sviluppati il 31,7% degli adulti di età compresa tra 20-64 anni lamentava fino a cinque o più sequele, 37,9% nei paesi in via di sviluppo al di fuori dell'Africa sub-sahariana e 61,6% nell’Africa sub-sahariana. Le sequele acute sono per di più malattie infettive e lesioni a breve termine, con oltre 2 miliardi di casi di infezioni delle vie respiratorie superiori ed episodi di malattie diarroiche nel 2013, con l’eccezione del dolore ai denti a causa di carie permanenti con un’incidenza di più di 200 milioni di casi nel 2013. Al contrario, le sequele croniche sono in gran parte attribuibili alle malattie non trasmissibili, con stime di prevalenza della carie permanenti asintomatica e della cefalea di tipo tensivo di 2,4 miliardi e 1,6 miliardi rispettivamente (Global Burden of Disease Study 2013 Collaborators, 2015).

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implicazioni per i sistemi sanitari perché portano a una maggiore domanda e possono quindi far impennare la spesa.

In tutto il mondo, dal 1990 al 2013, la speranza di vita alla nascita è aumentata di 6,2 anni, da 65,3 a 71,5 anni, l’aspettativa di vita in salute alla nascita è aumentata di 5,4 anni, da 56,9 anni a 62,3 anni e l’indice DALY totale è sceso del 3,6%.

Complessivamente i tassi di DALY sono rimasti pressoché costanti e si può affermare che per quelli legati a molte patologie trasmissibili, ma non solo, si registra un calo tra il 1990 e il 2013.

Fino al 2013, le cinque principali cause di DALY erano cardiopatia ischemica, infezioni delle vie respiratorie inferiori, malattie cerebrovascolari, sindromi dolorose della parte bassa della schiena e del collo e le lesioni da incidenti stradali. Lo status socio-demografico spiega più del 50% della varianza tra i paesi e nel tempo per quanto riguarda diarrea, infezioni respiratorie e altre malattie infettive, disturbi materni, disturbi neonatali, carenze nutrizionali, altre malattie trasmissibili materne, neonatali e nutrizionali, disordini muscolo-scheletrici e altre malattie non trasmissibili; tuttavia spiega meno del 10% della varianza per le malattie cardiovascolari, le malattie respiratorie croniche, la cirrosi, il diabete, le malattie urogenitali, del sangue ed endocrine, le lesioni involontarie e quelle da autolesionismo o da violenza interpersonale. Come prevedibile, all'aumento dello status socio-demografico è associato un risvolto più o meno pesante in termini di vita della popolazione, cioè quelli che altrove si calcolano come anni di vita persi a causa di una morte prematura divengono anni di vita vissuti con disabilità. Nella maggior parte delle stime paese-specifiche, l'aumento della speranza di vita è maggiore dell’aspettativa di vita in salute.

A fronte di una salute globale che sta migliorando, la crescita della popolazione e l'invecchiamento hanno fatto salire la probabilità di vivere parte dei propri anni affetti da una disabilità, mostrando che il progresso nella salute non significa consumare meno risorse sanitarie e che l’aumento dello status socio-demografico muta l’epidemiologia per quanto concerne il peso delle malattie sulla qualità della vita (sebbene il peso della malattia possa differire molto anche in modo non associato con lo status socio-demografico). Le valutazioni paese-specifhe servono moltissimo per dirigere le decisioni di politica sanitaria. (Global Burden Disease GBD 2013 DALYs and HALE Collaborators, 2015).

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La complessa relazione tra aumento della longevità e qualità della sopravvivenza ha dato luogo a diverse ipotesi interpretative, sulle quali ci si continua a confrontare. Da una parte, si ritiene che i progressi ottenuti siano solo apparenti e che l’allungamento della vita porterebbe solo a un aumento del numero di anni trascorsi in cattive condizioni di salute (espansione della morbosità). Sul fronte opposto, invece, si sostiene che al progressivo aumento dell’aspettativa di vita, che determina il concentrarsi delle morti nell’età estrema (compressione della mortalità), sia associata una riduzione dell’incidenza delle malattie più gravi e invalidanti (compressione della morbosità) o, almeno, un loro rallentamento verso le fasi più gravi, con conseguente aumento anche degli anni vissuti in buona salute (Ministero del lavoro, della salute e delle politiche sociali, 2009).

Anche in Italia dall’inizio del Novecento a oggi notevoli progressi sono stati compiuti nel miglioramento dello stato di salute e le conseguenze più indicative sono certamente la riduzione dei livelli di mortalità e il progressivo aumento della speranza di vita (Ministero della Salute, 2014) (figura 1).

Direttamente collegati ai mutamenti epidemiologici sono anche il progresso scientifico e l’innovazione tecnologica in campo sanitario. Infatti da una lato questi strumenti hanno la possibilità di accrescere il benessere della popolazione, ma per contro contribuiscono al fenomeno per cui quella che prima poteva essere una morte prematura adesso si trasforma in una sopravvivenza gravata da una sequela di malattia più o meno importante. Inoltre sono questi, fattori non dipendenti nel loro sviluppo, se non in minima parte, dalle specificità di un singolo Paese, in quanto derivanti da investimenti complessi, ma la cui accessibilità e la rapidità con cui vengono aquisiti sono condizionati dalle risorse disponibili di ogni Paese. Di conseguenza, un sistema sanitario pubblico basato sul principio di equità trova nel vincolo di risorse una delle sfide più complesse. Se il tasso di crescita dell’innovazione supera di gran lunga il tasso di crescita dell’economia reale le risorse disponibili per acquisire il frutto di tale innovazione mancano. Per di più la disponibilità sul mercato di nuovi dispositivi medici e forme di tecnologie all’avanguardia possono creare un nuovo bisogno percepito da parte dell’utenza, che si somma ad una sempre più ampia disponibilità di informazioni, di qualità variabile, a cui il paziente ha accesso, e che ne modifica il grado di consapevolezza rispetto ai propri bisogni e alle alternative esistenti a disposizione. Prima della diffusione di internet e in presenza di un grado medio di istruzione meno elevato di oggi, i bisogni dei pazienti erano tradotti in

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domanda di servizi solo nella misura in cui un attore meglio informato, l’operatore sanitario, ne rilevava l’esistenza e l’associava ad un servizio. Tuttavia se i pazienti conoscono maggiormente l’offerta aumenta anche la domanda di servizi sanitari richiesti (Centro di Ricerche sulla Gestione dell’Assistenza dell’Università Bocconi CERGAS, 2013).

Figura 1. Piramidi delle età della popolazione residente in Italia - Anni 1926, 1952, 1966, 1976, 1992 e 2016 (valori percentuali)

Fonte: Istat, Rapporto annuale 2016

Invecchiamento della popolazione, cambiamento epidemiologico, innovazione tecnologica e maggiori aspettative dei cittadini sono tutti fattori concatenati il cui effetto complessivo pone una pressione verso l’aumento dei servizi e della loro qualità. Al contrario il rallentamento dell’economia generale impone un restringimento delle risorse complessivamente destinate all’assistenza sanitaria minacciando la sostenibilità del SSN o

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