• Non ci sono risultati.

L'analisi delle performance economiche finanziarie del settore idrico: esperienze a confronto

N/A
N/A
Protected

Academic year: 2021

Condividi "L'analisi delle performance economiche finanziarie del settore idrico: esperienze a confronto"

Copied!
226
0
0

Testo completo

(1)

UNIVERSITÀ DI PISA

DIPARTIMENTO DI ECONOMIA E MANAGEMENT

Corso di Laurea Magistrale

Strategia, Management e Controllo

TESI DI LAUREA

L’ANALISI DELLE PERFORMANCE

ECONOMICO-FINANZIARIE IN AZIENDE DEL SETTORE IDRICO:

ESPERIENZE A CONFRONTO

CANDIDATO

RELATORE

Giuseppe Maienza Prof.ssa Lucia Talarico

(2)
(3)

3

A tutti quelli che mi hanno

supportato e sopportato

(4)
(5)

5

INDICE

INTRODUZIONE………..……….9

CAPITOLO 1

– IL SERVIZIO PUBBLICO……….……15

1.1 Nozione e caratteristiche………...……15

1.2 Le due concezioni del servizio pubblico: l’approccio soggettivo e oggettivo…..15

1.3 I servizi pubblici nella dimensione comunitaria: Disciplina comunitaria e concorrenza……….17

1.4 Disciplina comunitaria e servizi pubblici………..18

1.5 La disciplina delle municipalizzazioni………..21

1.6 Le forme di gestione nella riforma del 1990……….…23

1.7 Le riforme del Testo Unico degli Enti Locali………....…27

1.8 La società “mista” e la società “in house”………...…..…30

1.9 La nuova disciplina del 2008. Principi fondanti della gestione………...…34

1.10 La disciplina del 2008 tra “mercato” e “in house”………..……41

1.11 Gli interventi legislativi del 2009………....…43

1.12 Il regime transitorio………...…46

CAPITOLO 2

– IL SERVIZIO IDRICO………...…49

2.1 L’ evoluzione normativa dei servizi idrici………...…..…49

2.2 La legge Galli……….…...…52

2.3 Il decreto legislativo 2 febbraio 2001: la qualità delle acque destinate al consumo umano………...….…61

2.4 Il decreto legislativo 3 aprile 2006:novità introdotte dal Codice dell’Ambiente..63

(6)

6

2.6 La riorganizzazione e affidamento del servizio idrico integrato………...…74

2.7 Il Gestore Unico e la determinazione della tariffa……….78

2.8 Dal Comitato per la vigilanza dei servizi idrici Co.N.Vi.R.I………...…....…….83

2.9 La gestione integrata dei servizi idrici: l’affidamento………...…86

2.10 I modelli di affidamento………..…91

2.11 Il percorso italiano per il ritorno alla gestione pubblica………..…99

2.12 Il referendum del 2011 e il quadro normativo post referendum………103

2.13 Dal post referendum ai nostri giorni………..113

CAPITOLO 3

– L’ANALISI DI BILANCIO DELLA ACQUE S.P.A E

DELLA ABBANOA S.P.A………...…127

3.1 Introduzione……….…127 3.2 ACQUE S.p.A………...…127 3.2.1 Il confronto temporale……….………..……132 3.2.2 L’andamento 2012……….………....…132 3.2.3 L’andamento 2013………....…143 3.2.4 L’andamento 2014……….………....…153

3.2.5 Analisi di bilancio per indici……….………163

3.2.6 Analisi di redditività……….……….……163 3.2.7 Analisi di solidità……….………..…165 3.2.8 Analisi diliquidità……….……….………167 3.3 Abbanoa S.p.A……….……169 3.3.1 Il confronto temporale……….………..174 3.3.2 L’andamento 2012……….………...….174

(7)

7

3.3.3 L’andamento 2013……….……….…...186

3.3.4 L’andamento 2014.……….…...…196

3.3.5 Analisi di bilancio per indici………….………209

3.3.6 Analisi di redditività……….……….……209 3.3.7 Analisi di solidità……….………….…….…211 3.3.8 Analisi di liquidità……….………213 CONCLUSIONI………...…217 BIBLIOGRAFIA…..………...221 SITOGRAFIA ……….…225 RIFERIMENTI NORMATIVI……….……….225

(8)
(9)

9

INTRODUZIONE

L’acqua rappresenta la sacralità della vita umana e nello stesso tempo la risorsa vitale cui è legata la sopravvivenza del pianeta e quindi dell’intera umanità; è una componente fondamentale dell’ecosistema terrestre, non solo perché ricopre la maggior parte della superficie, pur costituendo solo lo 0,1% del volume della Terra1, ma soprattutto perché è essenziale alla vita su di essa: senz’acqua il nostro pianeta sarebbe un’enorme massa rocciosa, senza alberi, animali, persone.

L’acqua2 è vita, il corpo umano ne è composto fino al 90%. La disponibilità di questa risorsa naturale ha condizionato, da sempre, le possibilità di sviluppo dell’umanità, e richiesto la creazione di complesse istituzioni sociali per disciplinarne l’uso3.

La superficie della Terra è coperta in gran parte di acqua: su 510 milioni di chilometri quadrati di superficie, ben 364, ovvero il 71% è coperto dall’acqua, per un volume di circa 1.400 milioni di chilometri cubi, e questa è costituita per il 97,3% da acqua salata. Essendo solo il 3% dell’acqua sulla Terra non salata, unicamente questa piccola quantità può essere utilizzata direttamente dall’uomo per dissetarsi, per l’igiene personale e per le attività industriali.

Il nostro Paese è uno dei più ricchi d’acqua nel mondo, infatti, può vantare una disponibilità teorica annua di acqua di 155 miliardi di metri cubi, pari a un volume pro capite di 2.700 metri cubi. In realtà, a causa della natura irregolare dei flussi e delle difficoltà nell’utilizzo, questa disponibilità scende a 110 miliardi di metri cubi4 se si tiene conto delle risorse potenzialmente utilizzabili, e fino a 42 miliardi di metri cubi considerando la rete di infrastrutture idriche esistente5. L’Italia occupa il primo posto nel pianeta per disponibilità di acqua a livello meteorico con una media di circa mille millilitri annui di precipitazioni. Il consumo pro capite di acqua nel nostro Paese è di

1

AAVV, Acqua e diritti: conoscere e condividere il bene comune più prezioso, Acquabenecomune, edizione 2009/2010

2

La struttura chimica di questa sostanza vitale è semplice: la molecola che la costituisce è formata solamente da due atomi di idrogeno e da uno di ossigeno; in natura essa si può trovare in tre diversi stati, liquido, solido e gassoso a seconda della temperatura a cui è sottoposta. Questa molecola della vita ha un ruolo di primo piano nei processi biologici. Infatti, la maggior parte delle reazioni chimiche del nostro organismo e degli altri esseri viventi avviene in fase acquosa, ovvero in presenza di acqua come solvente. Le prime forme di vita sulla Terra apparvero 3,5 milioni d’anni fa nelle acque oceaniche.

3

A. Massarutto, L’Acqua, Bologna, Il Mulino, 2008, pag 11.

4

2.000 metri cubi pro capite

5

AAVV, Acqua e diritti: conoscere e condividere il bene comune più prezioso, Acquabenecomune, edizione 2009/2010

(10)

10

980 metri cubi, tenendo conto dell’utilizzo complessivo di risorse diviso per la popolazione locale. La maggior parte dell’acqua prelevata è utilizzata in agricoltura. L’irrigazione costituisce da sola il 50% del totale degli usi dell’acqua6. Il nostro Paese, per quanto concerne l’uso industriale, possiede i peggiori indici di consumo di acqua per unità di prodotto della comunità7. Il nostro paese consuma il 50-60% di tutta l’acqua prelevata. Tutto ciò, si trova all’interno di un contesto assai dispersivo sotto il punto di vista della gestione. Sono 13.000 gli acquedotti, 7.000 gli enti gestori e 1.100 le municipalizzate, 330 delle quali liberalizzate, trasformate in S.p.A. e messe sul mercato azionario spesso in regime di libera concorrenza.

Sul piano dei consumi e della tutela delle risorse, pur essendo il sesto paese più industrializzato del mondo, il nostro paese resta a un livello basso di copertura territoriale dei servizi di fognatura e di depurazione, che servono rispettivamente solo il 52% e il 65% della popolazione. L’Italia si caratterizza ancora oggi come un paese a elevata mancanza d’infrastrutture idriche, mancanza di adeguamento di quelle esistenti, scarsa manutenzione ordinaria e straordinaria degli acquedotti, le cui perdite oscillano intorno al 40% per raggiungere in alcune regioni del sud quasi il 70%, in Puglia, contro medie di altri paesi del 17% e casi come la Svizzera che arriva al 9%8. Il 40% in media del volume d’acqua erogato è disperso9.

Possediamo un patrimonio acquifero enorme, con 17 miliardi di metri cubi resi disponibili da 1.128 unità glaciali, 40 corsi d’acqua principali e 27 lagune. Patrimonio che è amministrato attraverso una gestione frazionata fra molteplici istituzioni. L’acqua per uso umano è di competenza del Ministero del lavoro, della salute e delle politiche sociali; l’acqua per uso agricolo è gestita dai Consorzi di bonifica che fanno riferimento al Ministero dell’Agricoltura; le acque di superficie e i mari sono di competenza del Ministero dell’ambiente. Anche la gestione dei servizi idrici a livello comunale è stata

6

“Da solo, il sistema delle risaie delle tre Province di Novara, Vercelli e Pavia, assorbe oltre il 25‐30% del totale dei prelievi irrigui nazionali”. In A. Massarutto, L’Acqua, Bologna, Il Mulino, 2008, pag 18;

7

In Europa, con un metro cubo di acqua, si producono mediamente dei beni per un valore di € 96. In Italia invece si producono beni per soli € 41, in Germania per € 120, in Olanda per € 200. Questa situazione disastrosa non varia neanche per il settore agricolo.

8

http://www.ftsnet.it/documenti/602/ecosistema%20urbano%202009_legambiente.pdf, v. in

Legambiente, Ecosistema urbano 2007.

9

10.550 metri cubi al chilometro, corrispondente ad un valore medio di circa un terzo di litro al secondo per chilometro , le perdite più elevate, superiori al 50%, si riscontrano nelle reti di Abbruzzi, Campania, Puglia e Calabria.

(11)

11

caratterizzata da una grande frammentazione che non ne facilita la salvaguardia e una regolare distribuzione su tutto il territorio nazionale.

Il tema della gestione del servizio idrico nel nostro Paese è stato al centro di un’aspra querelle sin dall’inizio del secolo scorso, quando la legge n. 103/190310 “pose un freno alla tendenza in atto da parte dei Comuni italiani a concedere gli acquedotti, nonché l'esercizio dei relativi servizi a imprenditori privati”11 poiché le casse comunali non consentivano quegli ingenti investimenti che l’erogazione dei servizi pubblici richiedeva, soprattutto nei nascenti grandi centri urbani. Un tema delicato in un momento di caotica transizione da un modello di gestione all’altro12. La Corte costituzionale, chiamata a pronunciarsi in materia di gestione del servizio idrico ha affermato che la disciplina di applicazione in caso di vittoria dei sì ai due referendum ammessi13 sarebbe dovuta essere individuata nel diritto comunitario vigente. A seguito dell’esito referendario uno scenario plausibile è anche quello di un progressivo ritorno alla gestione diretta14 del servizio idrico, dal momento che la normativa consente agli enti locali di decidere se produrre in proprio i servizi pubblici essenziali, come l’acqua, o se ricorrere, viceversa, al mercato15. Lo Stato regolatore è chiamato a intervenire in

10

c.d. legge Montemartini.

11

M. A. Sandulli, Il servizio idrico integrato, in Federalismi.it n. 4/2011, tratto dall‘intervento al seminario “Affidamento e gestione dei servizi pubblici locali alla luce del regolamento attuativo”, Milano, 9 febbraio 2011

12

Di recente “dopo Parigi anche Berlino ha deciso di tornare ad una gestione interamente pubblica del

servizio idrico”, in S. Marotta, in Corriere del mezzogiorno, 28 febbraio 2011.

13

Sentt. n. 24 e 26 del 24 gennaio 2011, rispettivamente “modalità di affidamento e gestione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica" e ”Determinazione della tariffa del servizio idrico integrato in base all’adeguata remunerazione del capitale investito”.

14

Attraverso il modello dell’in house providing. In quest’ottica devono essere interpretate, ad esempio, le delibere del 23 settembre 2011 del Comune di Napoli che hanno trasformato l’ARIN S.p.A. in soggetto di diritto pubblico.

15

Il D.L. n. 138 del 13/08/2011, di adozione di ulteriori misure urgenti per far fronte alle conseguenze sui mercati finanziari del debito pubblico italiano, come modificato dalla legge di conversione n. 148 del 14 settembre 2011, all’art. 4 ha dettato disposizioni rubricate come “Adeguamento della disciplina dei servizi

pubblici locali al referendum popolare e alla normativa dell’unione europea”. Si tratta, in realtà, di

disposizioni che riproducono in gran parte quelle già contenute nella disciplina abrogata dal referendum. Pressoché identico ‐ e, anzi, ancora più dettagliato ‐ è l’obbligo fatto agli enti locali di verificare la realizzabilità della gestione concorrenziale dei servizi pubblici di rilevanza economica, evitando quindi l’attribuzione di diritti esclusivi. Simile è il regime conseguente alla valutazione circa la necessità di attribuire diritti esclusivi: la gestione del servizio deve essere affidata mediante gara, salvo gli affidamenti diretti alle società in house, ammessi solo se il valore economico del servizio è inferiore a 900mila euro annui, e gli affidamenti alle società miste il cui socio privato, scelto mediante gara diretta ad attestarne anche le capacità operative, detenga almeno il 40% del capitale sociale. L’art. 23‐bis, invero, consentiva gli affidamenti in house soltanto in presenza di situazioni eccezionali che non permettevano il ricorso alla concorrenza per il mercato, secondo una valutazione da sottoporre all’Autorità garante della concorrenza e del mercato, mentre l’art. 4 del d.l. n.138 ammette comunque in ogni caso gli affidamenti diretti a società in house quando siano pari o inferiori a 900mila euro annui. Si tratta, tuttavia, di una disciplina che, come quella contenuta nell’art. 23‐bis, si propone di marginalizzare l'in house providing, imponendo

(12)

12

maniera più stringente che nel recente passato dalla volontà popolare. L’affidamento della gestione del servizio idrico integrato è divenuto il nucleo problematico attorno al quale da almeno oltre due decenni si scontrano i sostenitori della liberalizzazione e coloro i quali, viceversa, invocano un ritorno interventista nel mercato per opera dei pubblici poteri. Il legislatore16 ha manifestato, progressivamente, un evidente favor verso il modello privato di gestione del servizio idrico; soltanto la società per azioni, al contrario dell’istituzione pubblica, sarebbe stata in grado di garantire un servizio di rilevanza economica qual è il servizio idrico. La liberalizzazione, secondo questa impostazione, razionalizzerebbe la gestione delle risorse che sembrano ridursi drasticamente anno dopo anno soprattutto a causa dell’inquinamento e degli altissimi livelli di consumo da parte dei paesi ricchi, evitando le consuete rovinose inefficienze della gestione pubblica. Quest’ultima è additata dalle maggiori corporation mondiali come fonte di ogni inefficienza, pertanto l’unica soluzione sarebbe di affidare la gestione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica tramite gara alle società per azioni17. La scelta dei modelli di gestione di questo servizio fondamentale, andata di pari passo con la disciplina dei servizi pubblici locali, e, dunque, progressivamente orientata alle sole forme societarie, ha fatto emergere interrogativi su vari altri aspetti: proprietà dell’acqua e delle infrastrutture, la scarsità crescente del bene, la sua tutela effettiva, l’aumento continuo delle tariffe, i mancati investimenti, garantire la possibilità di accesso alla risorsa ai meno abbienti e alle future generazioni. L’analisi della regolazione del servizio idrico integrato, pertanto, non può non prendere anche atto del sempre maggior reclamato, ma non ancora disciplinato e tantomeno costituzionalizzato “diritto” all’acqua; esso non sarebbe un “nuovo diritto in quanto emerso o non percepito come diritto fondamentale"18 fino a determinato momento storico, quello odierno. Parlare di gestione del servizio idrico significa, conseguentemente, affrontare anche la un tetto particolarmente esiguo agli affidamenti diretti in favore di società in house, senza peraltro una specifica ragione. Cfr. “In house providing: evoluzione dell’istituto nella recente normativa nazionale” in Corriere dei lavori pubblici, 9 novembre 2012, http://www.corrieredeilavoripubblici.it/index.

16

Dalla metà degli anni ’90 sino ai referendum del 12‐13 giugno 2011.

17

Il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale in tale ottica hanno posto la privatizzazione come condizione per poter ottenere finanziamenti relativi a diversi progetti idrici. Questa visione finalizzata alla gestione privata si basa su tre principi: l’acqua è un bene economico, pertanto può essere commercializzata. l’accesso all’acqua è un bisogno vitale, non un diritto umano e conseguentemente i cittadini sono dei consumatori/clienti di un servizio; l’acqua deve essere trattata come una risorsa preziosa, oro blu strategicamente importante.

18

S. Staiano, Note sul diritto fondamentale all’acqua. Proprietà del bene, gestione del servizio, ideologia

della privatizzazione, in Federalismi.it. Rivista di diritto pubblico italiano, comunitario e comparato, n.

(13)

13

posizione di chi vede il pericolo di un diniego dell’accesso all’acqua da parte dell’azienda privata per chi non può permettersi di pagare la tariffa. Secondo il Movimento per l’Acqua Pubblica19 l’accesso a questa risorsa irrinunciabile dovrebbe essere garantita a tutti gli abitanti del pianeta e dovrebbe rappresentare un “diritto umano fondamentale”. I sostenitori dell’acqua quale “bene comune” affermano che l’equa distribuzione di questa risorsa vitale non può essere affidata soltanto a logiche di mercato; pertanto sono state proposte soluzioni normative finalizzate a riconsegnare ai pubblici poteri la gestione diretta del servizio, reintroducendo la possibilità di ricorrere all’in house providing e la definizione di servizio idrico come servizio privo di rilevanza economica negli statuti comunali. Questo lavoro si propone di andare oltre le posizioni ideologiche sia dei fautori della liberalizzazione sia dei sostenitori della gestione pubblica. “Prima di diventare un bene comune, l’acqua deve diventare buon senso comune”, rendere il più oggettivo possibile gli argomenti di discussione sulla regolazione del servizio idrico italiano20, cercando di non cadere nelle contrapposte e aprioristiche posizioni di parte, attraverso un comune filo conduttore: l’analisi del sistema di regolazione e delle sue oscillazioni nel corso di oltre un secolo. L’evoluzione storica della disciplina del servizio pubblico costituisce l’oggetto di studio della prima parte del lavoro. Il capitolo successivo è dedicato al Servizio Idrico Integrato e alla sua evoluzione normativa. Costituiscono oggetto di analisi della terza parte il processo di analisi di bilancio di due società che si occupano della gestione del servizio idrico integrato: la ACQUE S.p.A. e l’ABBANOA S.p.A. Dopo avere dato notizie sulle società e le attività svolte dalle singole aziende, saranno analizzato ciò che è avvenuto negli ultimi 3 anni, rispettivamente nel 2012, 2013 e 2014 e verrà proposto un commento sugli indicatori calcolati, sulla base delle riclassificazioni fatte tramite i bilanci pubblicati nei siti delle società. Infine si procederà con un confronto spaziale degli andamenti e degli indici più significativi che sono stati riscontrati nell’analisi delle performance economiche-finanziarie delle tre società.

19

http://www.acquabenecomune.org/raccoltafirme/index.php?option=com_content&view=article&id=656 &It mid=113.

20

18 Sulla proprietà dell’acqua, sul diritto di accesso al servizio, sulla gestione pubblica/privata/mista del

(14)
(15)

15

CAPITOLO 1 – IL SERVIZIO PUBBLICO

1.1 Nozione e caratteristiche

La nostra legislazione non contiene un'esatta definizione di “servizio pubblico”, sulla base della quale operare un giudizio comparatistico al fine di far rientrare una data attività in tale categoria21.

Il legislatore, infatti, si è limitato alla disciplina della materia, senza mai fornire una definizione certa sia di servizio pubblico in generale, sia della species servizio pubblico locale. Spetta dunque all'interprete il compito di formulare una possibile nozione, sulla base della legislazione vigente, individuando nelle varie leggi i tratti caratteristici di tale tipologia di servizio22.

La nozione di servizio pubblico, infatti, “è tra quelle più tormentate”23 Dell’intero panorama del diritto amministrativo; se da un lato non è chiara la linea di demarcazione che consente di affermare quali attività possano o debbano rientravi e quali invece partecipino ad altri ambiti della funzione pubblica, dall’altro rimane irrisolto il dibattito sull’individuazione del criterio più valido in base al quale ricostruire gli elementi strutturali della nozione in parola, considerando la complessità e la diversificazione della natura dei bisogni che la Pubblica Amministrazione è chiamata a soddisfare.

1.2 Le due concezioni del servizio pubblico: l’approccio soggettivo e oggettivo

Secondo la concezione “soggettiva”, il servizio deve essere considerato pubblico quando è imputabile a un soggetto avente natura pubblica. Secondo questa dottrina è importante evidenziare se la prestazione costituente il servizio sia attuato da un soggetto pubblico piuttosto che privato. In questo caso l'attività sarebbe da considerarsi pubblica proprio perché derivante da tale soggetto.

21

Si vedano: F. BENVENUTI, Appunti di diritto amministrativo, I, Padova, 1959, IV ed., p. 202, il quale afferma che la nozione di servizio pubblico rappresenta “una espressione priva di valore giuridico esatto

e che è mutuata dalla scienza economica”. Inoltre, lo stesso M.S. GIANNINI, Profili giuridici della municipalizzazione con particolare riguardo alle aziende, cit., p. 614, sottolineava la difficoltà di

individuare una nozione di servizio pubblico condivisa, considerato che “il «pubblico servizio» forma

oggetto di studio in tre distinte discipline: l’economia, la scienza dell’organizzazione, la scienza del diritto. In ciascuna di queste discipline si dà peraltro del pubblico servizio un concetto che solo in parte coincide con quello dell’altra disciplina”; difficoltà ulteriormente aggravata dal fatto che oggi tra

economia, scienza del diritto e scienza dell’organizzazione sussistono scarse interazioni.

22

G. Caia, Assunzione e gestione dei servizi pubblici locali di carattere industriale e commerciale: profili generali, in Reg. gov. loc., 1992, p. 12 e ss..

23

(16)

16

In seguito, questa ricostruzione è stata messa in discussione in considerazione del fatto che in alcuni casi attività che oggettivamente dovevano ritenersi di interesse pubblico erano invece attuate da privati cittadini; veniva così messa in crisi la visione esclusivamente soggettiva del servizio pubblico.

Per giustificare l'esistenza di tali specie di servizi si distinse tra servizi pubblici propri, rappresentati da tutte quelle attività di pubblico interesse promananti da soggetti pubblici, e servizi pubblici impropri, posti in essere da soggetti privati. Tale distinzione portò gradualmente all'abbandono della concezione soggettiva, con conseguente apertura ad una connotazione in termini oggettivi del servizio.

La concezione “oggettiva” prescindeva dal soggetto al quale la prestazione era imputabile ed attribuiva rilievo ad un aspetto diverso. Il servizio doveva essere ritenuto “pubblico” qualora avesse come connotazione fondamentale l'essere rivolto all'interesse della collettività. Non assumeva rilievo la derivazione della prestazione, ma si distingueva nettamente tra attività e soggetto che la poneva in essere, così che un pubblico servizio potesse essere ritenuto tale sia se imputabile ad un soggetto pubblico che privato. In questo modo si postulava una sorta di indipendenza della prestazione dal soggetto al quale la stessa era imputabile.

Per qualificare un servizio come pubblico bisognava avere riguardo per la prestazione e per i destinatari della stessa: l'attività costituiva servizio pubblico se era diretta a soddisfare bisogni pubblici e se era destinata a membri della collettività. La dottrina tradizionale restava così divisa tra due posizioni contrapposte, esaltando l'una l'aspetto soggettivo, l'altra quello oggettivo. La distinzione appariva netta e le due antitetiche ricostruzioni risultavano limitate nell'analisi. La concezione oggettiva portava al risultato della inclusione nella categoria dei servizi pubblici di prestazioni tra loro molto diverse.

L'abbandono della concezione soggettiva sulla base della constatazione dell'esercizio da parte di privati di tali attività non distingueva in maniera corretta tra la gestione del servizio e la sua titolarità. Se si guarda in modo particolare alla legislazione più recente, si può osservare come la gestione sia sempre più spesso distinta dalla titolarità del servizio; mentre, infatti, quest'ultima deve rimanere necessariamente pubblica in quanto compito pubblico, la gestione può tranquillamente essere affidata a soggetti non pubblici. La separazione tra titolarità e gestione consente, pertanto, un recupero della concezione soggettiva e giustifica le ipotesi nelle quali non vi è corrispondenza tra soggetto pubblico e soggetto gestore.

(17)

17

Con il passare del tempo ci si rese conto dei limiti di entrambe le concezioni. La concezione soggettiva non giustificava l'imputazione della prestazione ad un soggetto privato, mentre la concezione oggettiva determinava una eccessiva estensione della qualità a servizi tra loro disomogenei.

Tenuto conto dei limiti di entrambe le concezioni e della loro non esaustività, la dottrina più moderna, per dare una definizione in termini generali di servizio pubblico, considera rilevanti sia l’elemento soggettivo che quello oggettivo e ritiene necessaria la compresenza di tali elementi i quali si pongono l'uno quale completamento dell'altro.

In definitiva, il servizio pubblico è una “Relazione che si instaura fra soggetto pubblico ed utenti, avente ad oggetto le prestazioni di cui il primo – predefinendone i caratteri attraverso la individuazione del programma di servizio - garantisce, direttamente o indirettamente, l’erogazione al fine di soddisfare in modo continuativo i bisogni della comunità di riferimento” (E. Casetta).

1.3 I servizi pubblici nella dimensione comunitaria: Disciplina comunitaria e concorrenza

L’ordinamento comunitario, com’è noto, trova i suoi presupposti politici e giuridici nell’intento di creare una comunità economica degli Stati membri orientata alle leggi del mercato e assume dunque la necessità che in ogni ambito di mercato comunitario vengano individuati principi e regole atti a promuovere e a tutelare la concorrenza perfetta, e ad eliminare ogni ostacolo all’apertura dei mercati, alla libera competizione e alla parità tra operatori.

Tra le attività soggette al diritto comunitario rientrano tutte quelle astrattamente suscettibili di essere erogate secondo criteri economici, comprese le attività tradizionalmente gestite in regime di riserva, in virtù della loro stretta connessione con finalità pubblicistiche come i servizi pubblici24. Nel prendere in considerazione i servizi pubblici, il diritto comunitario impone di indagare la natura delle attività prestate e di individuare le attività suscettibili di essere erogate in regime di libera iniziativa economica, promuovendone la concorrenzialità.

24

Cfr. Libro verde della Commissione sullo sviluppo del mercato comune dei servizi e delle apparecchiature di comunicazione del 30 giugno 1987, COM(87) 290, in cui si indicava nei monopoli nazionali uno dei principali ostacoli alla formazione di un libero mercato concorrenziale dei servizi telefonici; nonché le Direttive 88/301/CEE del 16/05/88 d 90/388/CEE del 28/06/90 relative alla concorrenza nei mercati terminali di telecomunicazioni e nei servizi di telecomunicazioni.

(18)

18

È necessario valutare la scelta del regime giuridico di un’attività di servizio posta in essere con la finalità specifica di assolvere ad interessi generali, indagandone innanzitutto la natura economica e poi la misura entro cui le dinamiche del libero mercato consentano di soddisfare efficacemente i bisogni essenziali della collettività. Infatti, l’obiettivo generale che la Comunità impone agli ordinamenti nazionali è di ripristinare o introdurre, dove possibile, condizioni concorrenziali, cercando di rimuovere eventuali limiti all’accesso agli operatori, situazioni discriminatorie, asimmetrie informative o condotte opportunistiche che possano influenzare negativamente i rapporti negoziali e condurre, di riflesso, a rischi di fallimento del mercato.

La presenza della Pubblica Amministrazione, in tale quadro, non è da escludersi in radice, ma da riconsiderarsi sulla base del principio di sussidiarietà, che richiede una rivalutazione in termini di necessarietà e di intensità dell’intervento pubblico.

1.4 Disciplina comunitaria e servizi pubblici

L’intervento della Comunità europea ha coinvolto anche attività tradizionalmente svolte in regime di riserva e monopolio legale da parte delle Pubbliche Amministrazioni, per ragioni essenzialmente legate all’interesse pubblico ad esse sotteso, ritenendole suscettibili di maggiori aperture alla concorrenza.

Sul piano definitorio, la categoria del “servizio pubblico” è nota all’ordinamento comunitario, che tuttavia ha trovato difficoltà a renderla propria a causa del diverso retaggio storico che ne ha caratterizzato i connotati in ciascuno Stato membro25.

25

La Commissione Europea, nel Libro Verde sui Servizi di Interesse Generale al punto 19 specifica che:”Le espressioni “servizio di interesse generale” e “servizio di interesse economico generale” non devono essere confuse con il termine “servizio pubblico”. Quest’ultimo ha contorni meno netti: può avere significati diversi, ingenerando quindi confusione. In alcuni casi, si riferisce al fatto che un servizio è offerto alla collettività, in altri che ad un servizio è stato attribuito un ruolo specifico nell’interesse pubblico e in altri ancora si riferisce alla proprietà o allo status dell’ente che presta il servizio. Pertanto, questo termine non è utilizzato nel Libro verde.” Sotto il profilo della natura degli interessi rilevanti ai fini della qualificazione della fattispecie in esame, la Corte di Giustizia della Comunità Europea ha già da tempo precisato che le espressioni “interesse generale” e “interesse pubblico” hanno sostanzialmente lo stesso significato. Sul punto si veda CGCE, 1 Ottobre 1998, causa C-38/97, motivo 41, ma altresì F. Lambiase, Tutela dell’interesse generale e universalità del servizio in Europa, in I quaderni del GRIF, 2005, p. 11; L. R. Perfetti, Contributo ad una teoria dei servizi pubblici, cit., p. 322; E. Scotti, Il pubblico servizio. Tra tradizione nazionale e prospettive europee, cit.; A. Police, Spigolature sulla nozione di “servizio pubblico locale”, cit., p. 87; F. Giglioni, Osservazioni sull’evoluzione di “servizio pubblico”, in Foro Amm. 1998, 7-8, pp. 2265 ss.; R. Garofoli, I servizi pubblici, in F. Caringella, G. De Marzo, F. Della Valle, R. Garofoli, La nuova giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, Milano, 2000, p. 66.

(19)

19

Nel ricercare un punto di equilibrio tra concorrenza e interesse pubblico26 e nell’individuare principi a carattere generale applicabili in tutti gli Stati membri ad ogni livello di governo27, la Comunità europea ha pertanto preferito utilizzare nuove categorie, come quella di “servizio di interesse economico generale”.

In tale categoria, cristallizzata nell’art. 86 del Trattato istitutivo della Comunità europea, al Titolo VI, Capo I, relativo alle regole di concorrenza, rientrano tutti quei servizi “forniti dietro retribuzione, che assolvono a missioni di interesse generale e sono quindi assoggettati dagli Stati membri a specifici obblighi di servizio pubblico”28. Come tali vengono assunte quelle attività di impresa consistenti nella prestazione di servizi29, di cui è garantita la fruizione a prezzi accessibili e secondo criteri e standard funzionali a soddisfare interessi generali. Il primo elemento differenziale della categoria dei servizi di interesse generale risulta pertanto essere il criterio dell’“economicità”. La giurisprudenza comunitaria ha assunto come riferimento il fatto che il servizio fosse offerto sul mercato dietro retribuzione o comunque dietro un corrispettivo idoneo a coprire i costi sostenuti ed a remunerare il capitale investito30. La dinamicità del carattere economico di un servizio di interesse generale dipende infatti da molteplici variabili, di tipo tecnologico, politico, sociale o economico, che in relazione al contesto spazio-temporale preso a riferimento

26

Comunicazione della Commissione, 11 settembre 1996, COM(96) 443. ma altresì Libro Verde della Commissione Ce sui Servizi di Interesse Generale del 21 Maggio 2003, § 1.1, punto 16. Ma si veda altresì la Relazione del Consiglio di Laeken del 17 ottobre 2001. Per la consacrazione dei servizi di interesse generale a livello di normazione primaria, si ricorda che il Trattato di Lisbona del 13 dicembre 07 ha in allegato uno specifico protocollo avente oggetto i servizi di interesse generale.

27

Con riferimento al fatto che mentre sul piano nazionale l’impulso della Comunità Europea ha sortito l’effetto di avviare processi di cambiamento che appaiono ormai irreversibili, nei servizi locali “rimangono fortemente radicati i tradizionali modelli di intervento pubblico” si veda G. Napolitano, Regole e mercato dei servizi pubblici, cit., p. 77. La Comunità europea ha comunque dimostrato un rinnovato interesse affinché i principi posti a tutela della concorrenza e del libero mercato raggiungano anche i livelli di governo territoriali e locali nel siglare, col Trattato di Lisbona, l’aggiunta dell’art. 3-bis al Trattato istitutivo della Comunità europea, che afferma il rispetto della Comunità per tutte le forme di identità, comprese quelle locali e regionali.

28

Comunicazione della Commissione, 11 settembre 1996, COM(96) 443. L’attività di interpretazione della Commissione europea e della Corte di giustizia, ha riguardato i servizi economici d’interesse generale, nel tentativo di bilanciare l’applicazione delle disposizioni sulla concorrenza (Trattato Ce, art. 86) con l’esigenza di riservare adeguati spazi all’intervento pubblico al fine di promuovere “la coesione sociale e territoriale delle comunità locali” (Trattato Ce, art. 16). Commissione Europea, I servizi d’interesse generale in Europa, COM (2000) 580 definitivo, p. 40.

29

Nella definizione comunitaria di “servizi” viene in primo luogo in rilevo il combinato disposto dagli artt. 49 e 50 del Trattato Ce che, nell’abolire le restrizioni alla libera circolazione dei servizi, ne adotta una definizione estensiva ricomprendendo nella nozione di “servizi” ogni attività che consista in un

facere retribuito, ivi comprese attività quali i servizi pubblici.

30

CGCE, 17 febbraio 1993, C-159/91 e C-160/91; CGCE 19 gennaio 1994, C-364/92; CGCE 16 novembre 1999, C-244/95; CGCE 12 settembre 2000, C-180/98 e C-184/98. Sul punto si veda inoltre D. Sorace, Servizi pubblici e servizi (economici) di pubblica utilità, cit., p. 392.

(20)

20

possono far sì da attribuire natura economica ad attività che tradizionalmente non sono tali.

A far data dalla seconda metà degli anni ’90 l’orientamento liberista è stato rivisto alla luce di una rinnovata visione del mercato unico comunitario come luogo di coesione economica e sociale e della politica comunitaria come motore di aggregazione territoriale di valori comuni e diritti inviolabili31.

Il primo riconoscimento positivo di tale nuova visione è contenuto nel Trattato di Amsterdam del 1997, che ha introdotto l’art. 16 del Trattato istitutivo della Comunità europea32. Tale disposizione affida alla Comunità Europea ed agli Stati Membri il compito di fissare e di garantire l’applicazione di principi e condizioni relative al funzionamento dei servizi, affinché siano finalisticamente preordinati a consentire lo svolgimento dei compiti ad essi imputabili, sottolineandone l’importanza nell’ambito dei valori comuni dell’Unione33.

Il servizio di interesse economico generale si configura dunque come una species del più ampio genus dei “servizi di interesse generale”34, che la Comunità considera “elemento chiave del modello europeo di società”35.

La valutazione dell’interesse generale resta dunque una scelta essenzialmente politica, sindacabile solo attraverso un controllo informato a criteri di

31

Invero, i primi segni di cambiamento possono già intravedersi nel Trattato di Maastricht del 1992, in cui per la prima volta si parla di cittadinanza europea, di coesione economica e sociale, di riduzione del divario tra i livelli di sviluppo delle varie regioni d’Europa (artt. 2, 17 e 158) e nella giurisprudenza della CGCE, 19 maggio 1993, C-320/91. In giurisprudenza, si veda altresì CGCE, 27 aprile 1994, C-393/92.

32

Introdotto dal Trattato di Amsterdam del 1997 e replicato testualmente dall’art. III-122 del Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa del 2004.

33

La norma in realtà non è stata accolta pacificamente in dottrina, oscillandosi tra chi ne ha assunto una portata di mera norma di principio e chi invece ne ha desunto una nuova connotazione preferenziale dell’ordinamento europeo per i profili sociali di un’attività, rispetto al suo risvolto economico-commerciale. Cfr. E. Scotti, Il pubblico servizio. Tra tradizione nazionale e prospettive europee, cit., pp. 150 – 151; A. Pericu, Servizi pubblici locali e diritto comunitario, in Analisi economica e metodo giuridico. I servizi pubblici locali (a cura di L. R. Perfetti e P. Polidori), cit., pp. 96 ss. Ma si vedano altresì D. Sorace, Servizi pubblici e servizi (economici) di pubblica utilità, in Diritto pubblico, 1999, p. 372 ss.; B. Sordi, Servizi pubblici e concorrenza: su alcune fibrillazioni tra diritto comunitario e tradizione continentale, in Quaderni fiorentini, 2002, p. 577 s.; per una sintesi, M. Capantini, I servizi pubblici tra ordinamento nazionale, comunitario ed internazionale: evoluzione e prospettive, in Il diritto amministrativo dei servizi pubblici tra ordinamento nazionale e ordinamento comunitario, a cura di A. Massera, Pisa, 2004, p. 24 ss. Da ultimo il Trattato di Lisbona del 2007, nel modificare l’art. 16, ha precisato che il richiamo ai principi e alle condizioni che gli interventi normativi della Comunità e degli Stati membri devono assicurare è riferibile a condizioni di efficienza del mercato.

34

Cfr. Libro Verde della Commissione Ce sui Servizi di Interesse Generale del 21 Maggio 2003, § 1.1, punto 16. Ma si veda altresì la Relazione del Consiglio di Laeken del 17 ottobre 2001. Per la consacrazione dei servizi di interesse generale a livello di normazione primaria, si ricorda che il Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007 ha in allegato uno specifico protocollo avente oggetto i servizi di interesse generale.

35

(21)

21

ragionevolezza, circa la compatibilità dell’intervento pubblico nell’ambito di attività considerato36.

1.5 La disciplina delle municipalizzazioni

Dal dibattito dottrinale emerge come la definizione di servizio pubblico sia “fra quelle dai confini più incerti e fluidi dell’intero diritto pubblico”. Tale indeterminatezza è una costante della nostra legislazione, a partire dalla legge che per la prima volta ha posto una disciplina generale della materia, vale a dire la Legge n. 103 del 29/3/1903, disciplinante il fenomeno delle “municipalizzazioni”. Tale legge, presentata dal Ministro dell’Interno Giovanni Giolitti, nasceva in un clima di impegno da parte del legislatore nei riguardi dei bisogni essenziali dei cittadini; bisogni mutati e cresciuti a seguito della intensificazione dell’urbanizzazione. Le città divenivano sempre più popolose ed a tale fenomeno corrispondeva una crescente richiesta di servizi, anche diversi rispetto al passato, da parte della collettività. L’intervento legislativo mirava ad attribuire agli enti locali la capacità di gestire direttamente alcune attività di interesse pubblico, senza ricorre all’imprenditoria privata, modalità di affidamento che aumentava notevolmente i costi per l’amministrazione. Inoltre, le rinnovate esigenze richiedevano un intervento diretto dell’ente nella gestione dei servizi. La gestione diretta consentiva la produzione di profitti, a vantaggio dell’intera collettività. La legge n. 103 era articolata in cinque capi e poneva una disciplina delle aziende municipalizzate, prevedendo un’elencazione non tassativa dei servizi che potevano essere gestiti. Le aziende rappresentavano dei soggetti distinti dall’ente, anche se la gestione veniva

36

Cfr. F. Giglioni, Le garanzie degli utenti, cit., secondo cui “Sul punto la giurisprudenza della Corte di Giustizia ha chiarito che l'intervento pubblico teso a sottrarre alle dinamiche concorrenziali l'intera gestione di una certa attività economica che soddisfi bisogni della collettività è legittimo solo se e nella misura in cui rappresenti una scelta indispensabile al fine di assicurare l'adempimento della missione di interesse generale. L'intervento pubblico in economia dunque, anche attraverso l'imposizione di monopoli, deve avvenire “nel rispetto dei principi di proporzionalità e ragionevolezza (...). È legittimo quindi riconoscere un diritto esclusivo o speciale sulla base delle diseconomie prodotte dalla missione di interesse generale, tuttavia non è legittimo estenderlo oltre la stessa capacità dell'operatore in monopolio di soddisfare adeguatamente tutta la domanda esistente sul mercato”. Il sindacato sulla ragionevolezza della scelta dei legislatori nazionali è evidentemente rimesso alla Corte di Giustizia Europea, la quale, come autorevolmente segnalato dalla dottrina, ha di recente mostrato di aver cambiato il suo orientamento in materia: oggi la predisposizione di monopoli non è più ritenuta aprioristicamente come una decisione legittima, con l'eventualità di sancire in seguito l'abuso di posizione dominante dell'impresa monopolista, bensì è la scelta legislativa in sé che viene sottoposta alla valutazione giurisdizionale in ordine alla sua ragionevolezza rispetto alla necessità di perseguire la missione di interesse generale”. Fondamentale in materia è la c.d. sentenza Corbeau, CGCE, 19 maggio 1993, C-320. Tra le altre, CGCE, 23 aprile 1991, C-41,; CGCE 11 dicembre 1997, C-55. Sul punto, altresì, G. Rossi, Diritto amministrativo, Vol. II, Milano, 2005, 57 ss.

(22)

22

affidata ad una commissione amministrativa presieduta da un direttore, restando la competenza del Consiglio comunale sull’assunzione diretta del servizio e sul regolamento speciale dell’azienda. I bilanci delle aziende municipalizzate venivano approvati dalla commissione amministrativa, tenuti a disposizione degli elettori, deliberati dal Consiglio comunale ed approvati, infine, dalla Giunta provinciale amministrativa. Si prevedeva, già all’epoca, la possibilità che più Comuni si organizzassero in consorzi per la gestione comune di alcuni servizi pubblici che meglio potevano essere gestiti in collaborazione tra più enti nel territorio.

In tale legge, pur non essendovi un’espressa definizione di Servizio pubblico, vi era all’art. 1 un’elencazione di 19 servizi non omogenei:

• costruzione di acquedotti e fontane e distribuzione di acqua potabile; • impianto ed esercizio dell’illuminazione pubblica e privata;

• costruzione di fognature ed utilizzazione delle materie fertilizzanti; • costruzione ed esercizio di tramvie a trazione animale o meccanica; • costruzione ed esercizio di reti telefoniche nel territorio comunale; • impianto ed esercizio di farmacie;

• nettezza pubblica e sgombro di immondizie dalle case;

• trasporti funebri, anche con diritto di privativa, eccettuati i trasporti dei soci di congregazione, confraternite ed altre associazioni costituite a tal fine e riconosciute come enti morali;

• costruzione ed esercizio di molini e di forni normali;

• costruzione ed esercizio di stabilimenti per la macellazione, anche con diritto di privativa;

• costruzione ed esercizio di mercati pubblici, anche con diritto di privativa: • costruzione ed esercizio di bagni e lavatoi pubblici;

• fabbrica e vendita del ghiaccio;

• costruzione ed esercizio di asili notturni;

• impianto ed esercizio di omnibus, automobili e di ogni altro simile mezzo, diretto a provvedere alle pubbliche comunicazioni;

(23)

23

• produzione e distribuzione di forza motrice idraulica ed elettrica e costruzione degli impianti relativi;

• pubbliche affissioni, anche con diritto di privativa, eccettuandone sempre i manifesti elettorali e gli atti della pubblica autorità;

• essiccatoi di granturco e relativi depositi;

• stabilimento e relativa vendita di semenzai e vivai di viti ed altre piante arboree e fruttifere.

Gli enti locali potevano gestire direttamente le attività specificamente elencate, ma anche attività diverse non rientranti nel suddetto elenco.

L’elencazione era da ritenersi, secondo dottrina e giurisprudenza, solo esemplificativa e non vincolante. La legge 103 si fondava su un concetto economico del servizio, nel senso di attività tese a soddisfare bisogni necessari della collettività. La connotazione economica data ai servizi per un verso e la disomogeneità dell’elenco portato dall’art. 1, rendevano difficile una ricostruzione in termini giuridici della definizione di servizio pubblico locale.

1.6 Le forme di gestione nella riforma del 1990

Negli ultimi anni la regolamentazione dei servizi pubblici locali ha subito delle continue modifiche; in numerose occasioni il legislatore ha dovuto procedere all'adeguamento della disciplina generale e di settore alle prescrizioni provenienti dall'Unione Europea.

La Legge 142 del 1990 introduceva nell'ordinamento principi di tendenza assolutamente innovativi. La nozione stessa di servizio pubblico veniva riconsiderata ed estesa rispetto al R.D. n. 2578 del 15 Ottobre 1925. Tale normativa esprimeva un concetto giuridico di servizio pubblico procedendo ad una esemplificazione delle attività, creando un sistema chiuso per oggetti definiti anche se non tassativo, limitato alle attività funzionali al soddisfacimento di interessi economici37. Se in tal modo si affermava la logica della settorializzazione, con le nuove norme della legge 142, si dava luogo ad un’organizzazione “aperta”, cioè non fondata più sull'individuazione delle attività esercitabili, ma si creavano categorie che rappresentavano insieme interessi economici e sociali. L’ambito dei servizi, in questo

37

Cfr. E. M. Marenghi, L'autonomia locale tra decentramento e federalismo, Salerno, 2002, p. 229; Rolla, Manuale di diritto degli enti locali, Rimini, 1991, p. 146.

(24)

24

modo veniva esteso alle attività economiche e a quelle rivolte a perseguire interessi sociali. Inoltre, i servizi venivano collegati al “risultato” dello “sviluppo sociale” oltre che economico delle comunità locali.

I modelli utilizzabili ai sensi dell'art. 22 erano la gestione in economia, la concessione a terzi, l’istituzione, l'azienda speciale e la società di capitali a prevalente partecipazione pubblica (successivamente venne abolito l'obbligo della partecipazione maggioritaria pubblica).38

La gestione in economia e la concessione a terzi non determinavano la creazione di strutture organizzative proprie, mentre l'istituzione, l'azienda speciale e la società per azioni, comportavano la nascita di veri e propri modelli organizzativi. La scelta delle forme di gestione operata nel 1990 andava nella direzione dell'utilizzazione di modelli aziendalistici improntati al raggiungimento di risultati ottimali in relazione al rapporto tra costi e benefici. Il modello della società per azioni, che rappresenta la massima espressione di questa tendenza, diventa per la prima volta forma tipica di gestione dei servizi pubblici locali.

Nel 1990 la società per azioni viene introdotta nel sistema delle forme di gestione dei servizi pubblici locali, allo scopo di utilizzare una forma organizzativa di diritto comune, normalmente ordinata all'efficienza nella gestione.

La riforma della legge 142 del 1990 si inserisce in un periodo nel quale si esalta il principio dell'efficienza e l'amministrazione è orientata verso un processo di “aziendalizzazione”. Nello stesso periodo, la legge antitrust introduce nel nostro ordinamento il principio della tutela della concorrenza. Inoltre, con la Legge 241 del 1990 il fattore “tempo” diventa principio dell'azione amministrativa. Da quel periodo, dal rinnovato quadro di principi che presiedono l'opera dell'amministrazione, nasce un processo graduale di arretramento dello Stato dall'intervento diretto nell'economia.

Nella legge 142 è stata inoltre riproposta la concessione a terzi: 39i beneficiari della concessione dovevano essere “terzi”, cioè estranei all'amministrazione; pertanto, ne rimanevano escluse sia le aziende speciali sia le società miste pubblico-privato. Le ragioni per le quali l'amministrazione si avvaleva di tale strumento erano di carattere tecnico ed economico, ma anche sociale. Nella concessione a terzi è il privato ad

38

Cfr. F. Liguori, I servizi pubblici locali, Torino, 2007; in particolare p. 18 e ss..

39

In particolare, era in precedenza disciplinata dall'art. 26 del Testo Unico n. 2578 del 1925 e dagli artt. 265-267 del Regio Decreto n. 1175 del 1931.

(25)

25

operare ed è l'amministrazione pubblica a conseguire i risultati, attraverso un tipico effetto sostitutivo nell'esercizio di attività pubbliche40.

Con la Legge n. 142 del 1990 all'azienda speciale venne riconosciuta la personalità giuridica41. Tale riconoscimento indicava la volontà di separare l'organismo di gestione dall'amministrazione pubblica titolare del servizio. A differenza delle istituzioni, l'azienda speciale poteva contare sull'autonomia imprenditoriale e non solo gestionale, oltre al fatto che era dotata di autonomia statutaria. In particolare, l'art. 23, comma 1, riconosceva la personalità giuridica delle aziende speciali. Il riconoscimento della personalità giuridica, l'autonomia patrimoniale, finanziaria, statutaria ed imprenditoriale, la legittimazione processuale diretta, senza un preventivo atto autorizzatorio da parte dell'ente locale, ne consentivano l'affrancazione dall'amministrazione di riferimento. L'attribuzione di tale autonomia alle aziende nasceva dalla consapevolezza del fallimento della gestione attraverso organi strumentali dell'ente locale. Inoltre, l'autonomia patrimoniale venne creata per separare nettamente dal punto di vista finanziario ente locale ed azienda di gestione. L'azienda poteva contare su di una propria organizzazione interna composta da un consiglio di amministrazione, un presidente, un direttore e da un collegio di revisori (oppure altro organo di revisione contabile e finanziaria previsto nello statuto). La costituzione avveniva con deliberazione del consiglio comunale o provinciale i quali approvavano, altresì, lo statuto dell'azienda. Nello statuto trovavano disciplina i rapporti tra azienda ed ente, da una parte, e tra azienda ed utenti, dall'altra. Nello statuto veniva definito il servizio pubblico da erogare, le forme e le modalità della gestione, la disciplina degli organi e del controllo sulla gestione, nonché le condizioni per l'accesso degli utenti agli atti dell'azienda.

Prima della riforma del 1990, le aziende municipalizzate non potevano esercitare attività extraterritoriali, in quanto la natura di organo dell'ente comportava la soggezione agli stessi limiti territoriali di azione dell'ente. La giurisprudenza si mostrava contraria, mentre la dottrina immediatamente successiva alla riforma, era divisa tra sostenitori dell'assoluta impossibilità di esercitare attività extra moenia per l'azienda speciale e coloro che, invece, in nome del riconoscimento della natura

40

In questi termini, E. M. Marenghi, L'autonomia locale tra decentramento e federalismo, Salerno, 2002, p. 247 e ss.

41

Cfr. G. Caia, Le aziende speciali: carattere imprenditoriale e novità legislative, in I servizi pubblici

locali. Evoluzioni e prospettive, a cura di G. Caia, Rimini, 1995, p. 53 e ss; G. Carpani, Le aziende degli enti locali. Vigilanza e controlli, Milano, 1992; C. Tessarolo, La disciplina delle aziende speciali. Roma,

(26)

26

imprenditoriale e di una possibile disparità di trattamento tra imprese pubbliche e private, ritenevano che l'attività potesse sconfinare i limiti territoriali dell'ente locale. Con la Legge n. 127 del 15 Maggio 1997, si attribuì la facoltà agli enti locali di trasformare le aziende speciali in società per azioni. Tale legge tendeva ad una “privatizzazione sostanziale” e non solo formale del settore. Secondo il combinato disposto dei commi 51, 54 e 55 dell'art. 17 della legge, infatti, l'ente locale, avvenuta la trasformazione, poteva detenere la totalità delle azioni della società per azioni, solo per un periodo non superiore a due anni, decorso il quale la sua partecipazione doveva ridursi mediante cessione a privati di una parte delle azioni della società (originando in tal modo una società a partecipazione mista), od anche la totalità del capitale con conseguente uscita dell'ente dalla società. L'art. 17, commi 51 e 52, richiedeva, inoltre, espressamente che la delibera tenesse conto degli adempimenti previsti dalla normativa vigente sulla costituzione delle società. La delibera consiliare, pertanto, doveva necessariamente contenere, per la sua validità, le indicazioni prescritte dal codice civile sul contenuto vincolato dell'atto costitutivo. Si riteneva inoltre possibile, in alternativa alla totale trasformazione dell'azienda in società per azioni, la scissione parziale in favore di una società per azioni di nuova costituzione. Anche in tal caso, la relativa decisione era assunta con delibera consiliare, la quale oltre a contenere le indicazioni prescritte dalle norme sulla costituzione della nuova società, doveva rispettare le disposizioni del codice civile in tema di scissione di società e gli adempimenti successivi.

La legge n. 142 del 1990 introduceva, infine, nel sistema il modello gestionale della società di capitali42. Il pubblico, in questo caso, coglie dal mondo del privato un modello organizzativo proprio delle imprese lucrative e disciplinato all'interno del codice civile. La legge prevedeva la scelta tra il tipo della società per azioni e quello della società a responsabilità limitata. Non era previsto l'altro tipo di società di

42

In ordine alla società di capitali mista pubblico- privato si vedano: AA. VV.., La S.p.a. per la gestione

dei servizi pubblici locali, Rimini, 1996; G. Alpa- M. C. Capponi, S.p.a. a prevalente capitale pubblico locale e gestione dei servizi pubblici (art. 22, comma 3, lett. 3, l. 142/90), in Reg. gov .loc., 1992, p. 173 e

ss; V. Buonocore, Autonomia degli enti locali e autonomia privata: il caso delle società di capitali a

partecipazione comunale, in Giur. Comm., 1994, I, p. 5 e ss.; G. F. Campobasso, La costituzione delle società miste per i servizi locali, in Le società miste per i servizi locali, Atti del convegno di Messina,

22-23 Novembre 1996, Milano, 1999, p. 73 e ss.; F. Cavazzuti, Forme societarie, intervento pubblico locale

e “privatizzazione” dei servizi: prime considerazioni sulla nuova disciplina delle autonomie locali, in Giur. Ital., 1991, IV, p. 248 e ss.; G. De Minico, La società a prevalente partecipazione pubblica locale secondo l’art. 22 lett. e) l. 8 giugno 1990, n. 142, in Foro amm., 1994, p. 1666 e ss.; F. Luciani, La gestione dei servizi pubblici locali mediante società per azioni, in Dir. Amm., 1995, p. 275; M.

Mazzarelli, Società miste per i servizi pubblici, in Gior. Dir. Amm., 1995, p. 180 e ss; G. Romagnoli,

(27)

27

capitali costituito dalla società in accomandita per azioni, poco utilizzato, in realtà, anche dai privati.

Con la disciplina delle società miste, introdotta dalla legge di riforma del 1990, il legislatore ha inteso iniziare un percorso di privatizzazione. Inizialmente, come visto, si adottò una soluzione di compromesso, restando la maggioranza in mano pubblica. Il limite del capitale pubblico prevalente, inoltre, costituiva per i privati un disincentivo ad investire in attività il cui controllo restava in mano pubblica, in considerazione della storica incapacità dimostrata dalle amministrazioni pubbliche di ottenere risultati economici vantaggiosi43.

Eliminato il vincolo della partecipazione pubblica maggioritaria, restava il problema di garantire il controllo da parte dell'ente locale sulla gestione del servizio. L'art. 5, comma 1, del D.P.R. n. 533 del 1996, specificò che i rapporti tra socio pubblico e privato erano regolati da convenzioni con le quali si garantiva la verifica da parte dell'ente del perseguimento dell'interesse pubblico. La norma non chiariva la portata di tali poteri riconosciuti all'ente locale, ma si preoccupava di assicurare, a prescindere dalla partecipazione al capitale, il controllo da parte dell'ente pubblico. Con la Legge n. 498 del 1992 si stabilì, invece, che, per le società a partecipazione pubblica minoritaria, la scelta del socio privato dovesse avvenire mediante procedure ad evidenza pubblica. Gli interventi legislativi successivi confermarono l'obbligo della procedura ad evidenza pubblica (art. 4 della L. n. 95 del 1995, D.P.R. n. 533 del 1996).

1.7 Le riforme del Testo Unico degli Enti Locali

La disciplina contenuta nell'art. 22 della Legge n. 142 del 1990 è poi confluita nel Testo Unico delle Leggi sull'Ordinamento degli Enti Locali (D. Lgs. n. 267 del 18 Agosto 2000)44. Nel 2001 la disciplina venne modificata dall'art. 35 della Legge 23 Dicembre 2001 n. 448, con il quale furono introdotte novità rilevanti.

Innanzitutto, all'originario art. 113 del Testo Unico se ne aggiunse un altro, il 113-bis, che disciplina i servizi non aventi rilevanza industriale; abbandonato il criterio dell’imprenditorialità, si distingueva tra servizi di rilievo industriale e privi di rilievo

43

Cfr. E. M. Marenghi, L'autonomia locale tra decentramento e federalismo, Salerno, 2002, p. 253.

44

Per un'analisi dell'evoluzione della disciplina: C. Orrei, Modelli di gestione dei servizi pubblici locali tra regole di mercato e affidamenti in house, Università di Salerno, Sezione di Diritto Pubblico, Quaderni, n. 11, 2007.

(28)

28

industriale45. Le novità di maggiore rilievo furono l'introduzione del principio della tutela della concorrenza e la separazione tra proprietà, gestione ed erogazione del servizio pubblico.

La disciplina contenuta nell'art. 113 del Testo Unico venne ancora modificata dall'art. 14 del D.L. n. 269/2003 (convertito in L. 24/11/2003 n. 326), dall'art. 4, comma 234, della L. 24/12/2003 n. 350 (Legge finanziaria per il 2004) e dall'art. 15 della L. 15 Dicembre 2004 n. 308. I servizi erano inizialmente divisi a seconda del carattere imprenditoriale, come previsto nella Legge n. 142 del 1990.

Il criterio distintivo tra i servizi di natura imprenditoriale e quelli privi di tale natura venne sostituito, con l'art. 35 della Legge 23 Dicembre 2001 n. 448, dal criterio fondato sul carattere industriale. Col termine “industriale” ci si voleva riferire a quei servizi capaci di produrre un certo reddito, in contrapposizione all'altra categoria, riferibile ai servizi sociali, i quali non determinavano la produzione di utili. Il legislatore distingueva i servizi in due categorie generali a seconda dell'idoneità della gestione dell'attività relativa di produrre reddito e, dunque, un risultato economico per il gestore. Il criterio della “industrialità” venne abbandonato e si ritornò al precedente criterio distintivo fondato sulla “economicità”.

Le modifiche apportate dall'art. 35 riguardarono vari aspetti delle forme di gestione; in particolare, si introdusse il principio della separazione tra proprietà delle reti, gestione ed erogazione del servizio. In un primo momento, la proprietà delle reti doveva restare o direttamente agli enti locali, oppure a società a capitale maggioritario degli enti locali. Il prescritto obbligo del capitale maggioritario non garantiva però un controllo efficace da parte dell'ente locale e, pertanto, successivamente, si sostituì con l'obbligo del totale capitale pubblico. L'affidamento del servizio poteva vedere la partecipazione di soggetti estranei all'amministrazione, ma la proprietà delle reti, degli impianti e delle altre dotazioni doveva restare necessariamente in mano pubblica. Oggetto di affidamento a terzi era la gestione dell'attività, non la titolarità di beni pubblici, i quali dovevano restare in proprietà dell'ente locale. Piuttosto che un limite verso altri enti pubblici (diversi dall'ente locale di riferimento), la norma poneva solo un limite nei confronti dei soggetti privati, i quali, sia in sede di costituzione che di successivo trasferimento, a pena di nullità della sottoscrizione, non potevano detenere azioni della società.

45

Cfr. W. Giulietti, Servizi a rilevanza economica e servizi privi di rilevanza economica, in I servizi pubblici locali, a cura di S. Mangiameli, Torino, p. 83 e ss.

(29)

29

Con le successive modifiche intervenute nel 2003, si individuavano tre distinte modalità di affidamento, le quali garantivano la concorrenza tra le imprese private che intendevano partecipare all'attività di gestione ed erogazione dei pubblici servizi. Innanzitutto, si prevedeva l'affidamento in favore di società di capitali, mediante procedure selettive ad evidenza pubblica. In tale modalità, si individua la più rilevante forma di “privatizzazione sostanziale” dei servizi. Si garantiva ad un tempo, il totale affidamento in favore dei privati e, dunque, l'apertura al mercato, e la tutela della concorrenza tra le imprese private, in quanto la scelta dell'affidatario avveniva con procedure ad evidenza pubblica. Ma questa modalità non era l'unica possibile. Una privatizzazione sostanziale avrebbe richiesto l'unicità della forma di affidamento completo ai privati. Invece, a tale modalità se ne affiancavano altre due, costituite dalla società mista e dalla cosiddetta società in house. Era possibile l'affidamento direttamente in favore di società miste con capitale in parte di soggetti privati ed in parte pubblici, a condizione che la parte privata del capitale fosse stata attribuita mediante procedure ad evidenza pubblica, che avessero dato garanzia del rispetto delle norme interne e comunitarie in materia di concorrenza, secondo le linee di indirizzo emanate dalle autorità competenti attraverso provvedimenti o circolari specifiche. La garanzia della concorrenza tra le imprese private era riferita alla scelta del socio della società mista pubblico-privato. La terza forma di gestione era costituita dal cosiddetto affidamento in house. Locuzione inglese che indica perfettamente il concetto di gestione interna. Ed infatti, pur avendo una società di capitali costituita nelle forme civilistiche, distinta dall'apparato dell'amministrazione, nella sostanza il legame particolarmente intenso che doveva unire società ed ente escludeva che potesse trattarsi di gestione indiretta. Il suddetto legame veniva stabilito da tre condizioni essenziali per procedere all'affidamento diretto. In primo luogo, emergeva una condizione collegata alla proprietà della società. La totalità del capitale sociale doveva essere posseduta da soggetti aventi natura pubblica. Una partecipazione anche minima di soggetti di natura privata, in ipotesi anche l'uno per cento, avrebbe impedito il ricorrere del presupposto legale. La società in house è, pertanto, una società a capitale necessariamente pubblico. Il secondo presupposto era collegato alla capacità dell'ente locale di influenzare e controllare la gestione della società. Era riferito al potere in concreto esercitato dal soggetto pubblico sulla società. L'ultimo requisito richiedeva che la società realizzasse la parte più importante della propria attività con gli enti pubblici titolari.

(30)

30

Attraverso la modalità di gestione della società mista, la scelta del socio privato avveniva mediante procedure ad evidenza pubblica, cui seguiva il diretto affidamento del servizio. Avvenuta la scelta e costituita la società, la gestione era affidata in via diretta. Si riteneva sufficiente, per tutelare la parità tra le imprese private che intendevano partecipare alla gestione, procedere a gara solo per la scelta del socio privato e non per l'effettivo affidamento del servizio. Si attribuiva rilievo maggiore all'interesse del soggetto pubblico il quale aveva proceduto alla costituzione della società ed alla scelta del socio privato, sostenendo i costi relativi.

L'art. 35 della L. 448/2001 ha posto fine al sistema di affidamento diretto da parte dell'ente locale. Si sostituì, inoltre, il termine “affidamento” con quello di “conferimento”. Tale sostituzione è stata indice di una nuova tendenza che vedeva affievolito il regime di riserva in favore degli enti locali della materia dei servizi pubblici. Non si trattò di una vera e propria liberalizzazione, ma di un parziale abbandono della concezione secondo la quale la materia dei servizi pubblici fosse di esclusiva titolarità dell'ente locale, cui spetta il diritto di scegliere la migliore forma di gestione; titolarità da cui discende il diritto di “affidare”. Il “conferimento” avviene, invece, in favore di imprese private attraverso un sistema concorrenziale per il mercato. La tutela della concorrenza ed il mercato assumono, quindi, un ruolo centrale nell'organizzazione dei servizi pubblici.

1.8 La società “mista” e la società “in house”

L'organismo societario di diritto comune, adattato alla presenza nell'azionariato di un socio pubblico, viveva una forte contraddizione. Da un lato, la presenza nel capitale dell'ente locale avrebbe dovuto giustificare, secondo l'impianto normativo originario, l'esclusione dell'applicazione della procedura ad evidenza pubblica. Dall'altro lato, l'ente societario misto, nato su questi presupposti, si è visto sottrarre il beneficio dell'affidamento diretto, che ne aveva determinato la notevole utilizzazione.

La nuova disciplina determinò, quindi, l'abbandono nella pratica di tale modalità di gestione. Le nuove norme furono emanate in adempimento degli obblighi derivanti dall'Unione Europea, conseguenti all'affermazione della terzietà della società rispetto all'ente locale.

Occorre domandarsi se lo schema della società mista configurasse un soggetto realmente distinto e “terzo” rispetto all'ente pubblico. L'attenzione deve essere rivolta al rapporto intercorrente tra soggetto pubblico e società per verificare se vi fosse la

Riferimenti

Documenti correlati

[r]

The sonodynamic effect on PC-3 cell growth was evaluated 24 and 48 h after US exposure of the prostatic cancer cells pre-incubated for 6 h with Chlor-Lipo or Chlor-SLN and 24 h

A phase II study evaluated lenalidomide plus prednisone as consolidation therapy followed by lenalidomide alone as maintenance therapy, after PAD induction and

• In queste regioni appare evidente la correlazione inversa tra investimenti e spesa in servizi per la qualità della vita e in servizi culturali e per il tempo libero, perché questi

102, hanno delineato una nozione unitaria di contabilità pubblica incentrata sul “sistema di principi e di norme che regolano l’attività finanziaria e patrimoniale

10 (“Misure per accelerare la realizzazione degli del Dott. Roberto Camporesi - Dottore Commercialista, Revisore legale, Esperto in società a partecipazione pubblica.. e l’avvio

Enrico Giovannini | Ministro delle Infrastrutture e della Mobilità sostenibili. Filippo Brandolini | Vice

In tale contesto sono definiti e costruiti specifici indicatori di performance attraverso l’effettuazione di un’analisi del rapporto locale tra l’utenza e il servizio di