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Capacità trans-differenziativa delle cellule staminali emopoietiche e potenziali applicazioni cliniche della terapia cellulare nei pazienti con danno renale

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Academic year: 2021

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DOTTORATO DI RICERCA IN SCIENZE NEFROLOGICHE XIX ciclo

SSD: MED 14

Coordinatore: Chiar.mo Prof. Sergio Stefoni

CAPACITA’ TRANS-DIFFERENZIATIVA DELLE

CELLULE STAMINALI EMOPOIETICHE E

POTENZIALI APPLICAZIONI CLINICHE DELLA

TERAPIA CELLULARE NEI PAZIENTI CON

DANNO RENALE

Tutor

:

Dottoranda:

Chiar.mo

Prof. Gaetano La Manna

Dr.ssa Francesca Bianchi

Università degli Studi di Bologna

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Introduzione

1.1

Patologie renali e terapia cellulare

Le malattie renali croniche e l’insufficienza renale terminale sono considerate tra le più importanti emergenze mediche del nuovo millennio. Esistono diverse malattie renali, alcune a carattere ereditario, altre si sviluppano con la vecchiaia. Di molte non si conoscono ancora le cause precise, ma è noto che lo stadio finale nella maggior parte dei casi è costituito dall'insufficienza renale cronica (IRC). L'IRC è lo stato patologico caratterizzato da una perdita permanente della funzione renale, che ha come conseguenza l’incapacità del rene ad espletare la funzione escretoria di cataboliti soprattutto azotati, a mantenere l’omeostasi idroelettrolitica e svolgere la sua attività endocrina. I pazienti affetti da insufficienza renale cronica sono in continuo aumento, perché i farmaci di cui si dispone consentono di rallentare il danno renale, ma non di ripristinare la funzionalità perduta.

In Italia, circa 41 mila persone sono in trattamento dialitico cronico, con gravi implicazioni per la qualità e l’aspettativa di vita dei pazienti e pesanti costi sociali, in particolare per le famiglie dei malati. Il trattamento dialitico è sicuramente un trattamento salvavita, ma sostituisce solo la funzione di filtrazione del rene, e non quella omeostatica, regolatoria, metabolica ed endocrina. Per coloro che comunque giungono alla dialisi, il trapianto è l’opzione terapeutica migliore per sostituire la funzione del rene. Tuttavia, i pazienti incontrano tre ostacoli principali: la scarsità di organi che li costringe a una lunga attesa, la necessità di assumere per tutta la vita farmaci immunosoppressivi che favoriscono le infezioni e l’insorgenza di tumori, la durata limitata del trapianto, che in media dopo 10 anni fallisce. L’incidenza di pazienti che ogni anno si sottopone a trattamento dialitico è attualmente di circa 160 su milione di abitanti, ed è considerata una delle più ingenti cause di spesa del Sistema Sanitario Nazionale.

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In questo contesto, è sempre maggiore l’interesse rivolto alla ricerca di approcci terapeutici alternativi, come la terapia cellulare. L’idea alla base della terapia cellulare consiste nel coadiuvare il processo fisiologico di riparo attraverso il trapianto di cellule esogene che siano strutturalmente e funzionalmente congruenti alla logica tissutale renale. La possibilità di disporre di cellule staminali in grado di rigenerare il danno renale rappresenterebbe una prospettiva molto importante per la prevenzione e la terapia di eventuali danni renali.

L’efficacia della terapia cellulare dipende dalla valutazione di alcuni aspetti, riguardanti soprattutto:

− il tipo di cellule (staminali o progenitori renali)

− l’identificazione della quantità appropriata di cellule atte alla rigenerazione da trapiantare

− il metodo di impianto nell’organismo (delivery)

− l’efficacia di cellule attivate “ex-vivo” sulla ricostituzione tissutale.

1.2

Le cellule staminali

Per staminale si intende una cellula indifferenziata, capace di proliferare per tempi indefiniti, clonogenica, con capacità di “self-renewing”, cioè in grado di generare copie identiche a se stessa per lunghi periodi (anche per l’intera vita di un organismo), attraverso divisioni mitotiche, ma in grado anche di differenziare in diversi organi e tessuti e dotata di plasticità funzionale, cioè della capacità di seguire i diversi destini a seguito dei differenti stimoli esterni.

Tradizionalmente il concetto di staminalità è stato da sempre associato all’embrione, che per definizione è formato da cellule ancora indifferenziate, destinate a proliferare enormemente e a generare una molteplicità di tipi cellulari distinti. L’embrione è una struttura del tutto particolare, in quanto formato da un numero esiguo di cellule, che però hanno in sé un vastissimo potenziale di differenziamento, essendo in grado di generare un intero organismo, composto da

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più di 200 tipi cellulari. In base a questa proprietà le cellule staminali embrionali vengono definite totipotenti. In realtà, già nelle prime fasi del suo sviluppo, l’embrione è una struttura tutt’altro che omogenea: infatti, già pochi giorni dopo la fecondazione si riconoscono chiaramente tre foglietti (definiti rispettivamente ectoderma, mesoderma ed endoderma), che rappresentano un primo epifenomeno

del differenziamento cellulare che caratterizzerà le fasi successive

dell’embriogenesi (Fig. 1.1).

Fig. 1.1: Schematizzazione dell’embrione ad alcuni giorni dalla fecondazione in cui si

possono osservare i tre foglietti embrionali.

In pratica, da ciascuno dei tre foglietti potrà originare un numero ampio ma limitato di tipi cellulari differenti: ad esempio una cellula che si localizza a livello dell’ectoderma potrà generare una progenie di cellule epiteliali, neurali o pigmentate, ma non sarà mai in grado di dare origine a cellule del sangue o del muscolo, che invece sono di derivazione mesodermica (Fig. 1.2). Questo concetto, viene definito generalmente “lineage restriction”.

Ectoderma Endoderma Mesoderma Ectoderma Endoderma Mesoderma

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Fig. 1.2: Differenziamento dei tessuti umani. La figura rappresenta schematicamente il processo di embriogenesi, per il quale già nelle prime fasi dello sviluppo embrionale sono riconoscibili tre foglietti (definiti rispettivamente ectoderma, mesoderma ed

endoderma), dai quali origineranno tutte le cellule che fisiologicamente compongono un organismo adulto. Al contrario, la segregazione delle cellule germinali nella maggior parte dei mammiferi avviene in una struttura adiacente, ma non appartenente ad alcuno dei tre foglietti.

In realtà, oggi questa visione della staminalità limitata alle cellule embrionali appare alquanto restrittiva, in quanto alcune popolazioni staminali si mantengono nei tessuti adulti diventando una riserva di precursori cellulari (Young et al. 2004) coinvolti probabilmente nei processi di mantenimento e riparazione tissutale che intervengono dopo traumi, lesioni o nell’invecchiamento (Pittenger et al. 1999), e che pertanto vengono chiamate cellule staminali dell’adulto.

Le cellule staminali adulte, sono parte di popolazioni cellulari tessuto-specifico di organismi adulti e quindi già commissionate per il differenziamento.

Le cellule staminali vengono classificate in base alla loro capacità differenziativa. Le cellule staminali pluripotenti hanno la capacità di differenziare nei tre strati germinali che costituiscono un organismo: mesoderma

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(muscolo, ossa, ecc.), ectoderma (neuroni, pelle, ecc.) ed endoderma (epatociti, cellule β pancreatiche,ecc.); le cellule staminali multipotenti possono invece differenziare solo nei tipi cellulari di uno specifico foglietto germinale o tessuto.

Tutte le cellule staminali, come già accennato, devono in ogni caso soddisfare almeno tre criteri fondamentali:

- Capacità di auto-rinnovamento, con una divisione cellulare di tipo simmetrico

o asimmetrico attraverso cui la popolazione staminale viene mantenuta; una divisione simmetrica implica che entrambe le cellule figlie mantengono le caratteristiche di staminalità; nella divisione asimmetrica solo una delle cellule figlie si conserva come cellula staminale mentre l’altra prosegue nel processo di differenziamento.

- Una singola cellula può dar luogo ad una differenziamento multi-lineage; l’abilità a differenziare in diversi lineage non deve essere quindi dovuta alla presenza di una popolazione cellulare mista costituita da elementi con potenziali di differenziamento diversi.

- Capacità di ricostituzione funzionale in vivo di un dato tessuto.

1.2.1 Le cellule staminali adulte

Le cellule staminali adulte hanno delle capacità di auto-rinnovamento e un potenziale di differenziamento molto più ristretti rispetto alle cellule staminali embrionali, e sebbene differenziano in molteplici lineage non sono cellule pluripotenti (Ulloa-Montoya et al. 2005).

Recenti osservazioni indicano che cellule staminali adulte possono differenziare anche in fenotipi diversi dal proprio “lineage” cellulare; questo fenomeno detto di “plasticità” cellulare è stato osservato per diverse popolazioni cellulari staminali (Alhadlaq et al., 2004).

La maggior parte degli approcci sperimentali, fino ad oggi, ha sfruttato le cellule staminali del midollo osseo (Jiang et al., 2002), principalmente per due ragioni: da un lato il trapianto di midollo è ormai una pratica clinica routinaria, dall’altro è ormai assodata la presenza di elementi staminali nel tessuto

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midollare, in cui coesistono popolazioni staminali adulte differenti. A livello anatomico il midollo osseo è formato dal parenchima nobile, dove si trovano le cellule staminali emopoietiche (HSC) responsabili dell’emopoiesi, e da una regione stromale in cui sono presenti cellule staminali mesenchimali (MSC).

Le HSC sono cellule staminali adulte pluripotenti capaci di dare origine a tutti gli elementi linfoidi e mieloidi circolanti nel sangue periferico. Nel midollo osseo sono le più numerose, rappresentano lo 0,1% della staminalità totale e possono essere riscontrate anche nel sangue periferico dove costituiscono lo 0,01% delle cellule mononucleate circolanti. Sono cellule ben caratterizzate e separabili in distinte subpopolazioni sia per la diversa espressione di marker di membrana che per la diversa capacità di “self-renewal”. Le HSC del midollo osseo sono caratterizzate dai marker Lin-/low, c-Kit+, Sca-1+; in particolare la frazione CD34+ è altamente presente nelle HSC umane.

1.3

Le cellule staminali mesenchimali umane (hMSC)

Nel midollo osseo adulto, oltre alle cellule staminali emopoietiche, è presente a livello stromale un’altra popolazione staminale i cui elementi cellulari sono chiamati cellule staminali mesenchimali (MSC) e possono costituire dallo 0,001% allo 0,01% delle cellule nucleate del midollo osseo. Le cellule staminali mesenchimali sono in uno stato di quiescenza e non sono ancora noti i meccanismi che portano ad una loro attivazione in vivo; in vitro, in assenza di fattori di induzione, non mostrano differenziamento spontaneo o fenomeni di iperproliferazione e nelle popolazioni a confluenza si osserva inibizione da contatto tra le cellule con la formazione di un monostrato cellulare (Young et al.2004). Alcune molecole in grado di regolare la proliferazione di queste cellule come, ad esempio, il fattore Wnt-inibitor dickkopf-1, (Gregory et al. 2003) sono state identificate recentemente.

Questa tipologia cellulare ha dimostrato di possedere un’alta stabilità genica, la capacità di migliorare il processo rigenerativo di molti tessuti e una grande capacità differenziativa in vivo e in vitro.

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Queste cellule hanno mostrato di avere la capacità di rigenerare non solo tessuti di origine mesenchimale, come la cartilagine dei dischi intervertebrali, cardiomiociti, osso e cartilagine articolare, ma anche di differenziare in cellule derivate da altri foglietti embrionali, inclusi i neuroni, l’epitelio della pelle, polmoni, fegato, intestino, rene e milza (Baksh et al., 2004; Krause et al., 2001; Ventura at al., 2006).

Data la loro elevata potenzialità differenziativa e proliferativi, le cellule staminali mesenchimali rappresentano un importante strumento della terapia cellulare e un interessante obbiettivo della medicina rigenerativa; nell’ambito della terapia cellulare sull’uomo le cellule staminali mesenchimali hanno dimostrato nella pratica clinica o in avanzati trial clinici, il loro importante ruolo coadiuvante nel supporto dei trapianti di midollo osseo, nel trattamento dell’osteogenesi imperfetta e in numerosi altri casi in cui non erano disponibili altre alternative terapeutiche (Frassoni et al. 2002).

Date le importanti questioni etiche, oltre ai limiti scientifici riguardo all’uso di cellule staminali embrionali, l’entusiasmo scientifico riferito alle cellule staminali mesenchimali è giustificato dalle loro interessanti caratteristiche che le rendono particolarmente stimolanti nell’ideazione di applicazioni ad ampio raggio in diversi settori clinici. In particolare le cellule staminali mesenchimali richiedono l’uso di tecniche di isolamento semplici e sono caratterizzate da un alto potenziale di espansione in vitro, da stabilità genica, dalla loro compatibilità con quelli che sono i principi della ingegneria tissutale e dalla capacità di potenziare i meccanismi di riparazione in molti tessuti vitali (Gronthos et al. 2003).

1.3.1 Caratterizzazione delle cellule staminali mesenchimali

Sebbene siano stati molti gli sforzi per caratterizzare i marker di superficie delle cellule mesenchimali, ad oggi non è conosciuto un marker specifico in grado di individuare una popolazione cellulare mesenchimale omogenea in modo univoco; sono comunque noti profili fenotipici che identificano delle proteine di

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superficie importanti per caratterizzare le popolazioni cellulari isolate e utili per lo studio delle interazioni cellula-cellula e cellula-ambiente; alcuni importanti marker di superficie delle popolazioni cellulari mesenchimali sono il CD10, CD29, CD44, CD90, CD106, CD124 e molte altre proteine di superficie note, che, sebbene costituiscano un profilo di superficie estensivo, rappresentano comunque un quadro incompleto. Le cellule staminali mesenchimali devono comunque presentare un profilo fenotipico negativo per i marker del lineage ematopoietico come CD14, CD34 e CD45 e per marker delle cellule staminali embrionali come la fosfatasi alcalina o gli antigeni embrionali stadio-specifico (SSEA-1-2-3-4).

Recentemente è stata isolata una sottopopolazione di cellule stromali midollari selezionata con un anticorpo per un marker di superficie non ancora caratterizzato denominato STRO-1; le cellule così isolate dal midollo osseo dimostrano di avere numerosi attributi tipici delle cellule staminali mesenchimali (Gronthos et al. 2003).

Oltre che per l’espressione superficiale di particolari antigeni, le cellule mesenchimali vengono saggiate anche per le loro capacità differenziative in molteplici fenotipi; piccole differenze nei marker di superficie non sono infatti sufficienti per distinguere eventuali sottopopolazioni di cellule staminali e per questo la comparazione funzionale rappresenta il miglior approccio. Mediante induzione con promotori lineage-specifici si ottengono differenziamenti in senso adipogenico, condrogenico e osteogenico (Muraglia et al., 2000); la natura di queste popolazioni può essere identificata con test per l’attività enzimatica lineage-specifica, con RT-PCR, amplificando trascritti la cui espressione è lineage-specifica, o mediante criteri cito-morfologici; l’omogeneità delle popolazioni differenziate è verificata escludendo la presenza di lineage multipli, e accertando l’assenza di fenomeni apoptotici o necrotici associati ai processi di differenziamento (Pittenger et al. 2004).

Test citogenetici condotti su popolazioni di cellule mesenchimali di midollo osseo hanno dimostrato assenza di anomalie cromosomiche e persistenza

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dell’attività telomerasica anche in piastre cellulari dopo un numero elevato di passaggi.

La Telomerasi è una ribonucleoproteina che replica la porzione telomerica dei cromosomi durante la fase S della mitosi e la sua attività è rilevata in cellule germinali umane, in cellule tumorali e in linee cellulari embrionali dove è responsabile della capacità illimitata di auto-rinnovamento di questi tipi cellulari (Wright et al. 1996), al contrario delle cellule somatiche che presentano limitate capacità di auto-rinnovamento che sembrerebbero dovute soprattutto alla breve emivita che le telomerasi hanno in queste cellule. Dato dunque che la capacità di

auto-rinnovamento indefinito (self-renew) è una delle caratteristiche

fondamentali delle cellule staminali l’attività telomerasica costituisce uno dei marker utili per la loro identificazione (Meeker et al. 1997).

Sebbene le MSC derivate da midollo osseo siano quelle più utilizzate nella pratica clinica, la loro presenza nel midollo osseo adulto è relativamente bassa e, così come la loro capacità differenziativa, diminuisce con l’età del paziente da cui vengono prelevate (D’Ippolito et al., 1999). L’isolamento di cellule mesenchimali dallo stroma midollare implica inoltre ulteriori difficoltà nella pratica clinica, poiché si avvale di un prelievo del midollo osseo mediante tecniche chirurgiche invasive e traumatiche per il paziente, ed e più facile l’insorgenza di infezioni in sede midollare (Rao et al., 2001). Queste problematiche hanno portato alla ricerca di fonti alternative di cellule mesenchimali che siano compatibili ai principi della terapia cellulare e all’applicabilità in campo clinico.

Cellule staminali adulte sono state isolate da altri tessuti oltre al midollo osseo, incluso l’osso trabecolare, il tessuto adiposo, il muscolo scheletrico, i polmoni, la polpa dentaria, le cellule perivascolari del cordone ombelicale derivate dalla gelatina di Wharton e le cellule di membrane fetali di placenta a termine (Korbling et al., 2003, Alviano et al., 2007). Recentemente sono state identificate cellule staminali adulte anche a livello renale (Bussolati et al., 2005)

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1.3.2 Le cellule mesenchimali degli annessi embrionali

Il sangue del cordone ombelicale pur essendo considerata un’importante fonte di cellule staminali presenta una bassa percentuale di elementi cellulari mesenchimali spesso non rilevabile, e ciò rende tale fonte meno interessante per uno sviluppo in senso clinico (Mareschi et al. 2001).

La Gelatina di Wharton è un tessuto connettivale, presente nel cordone ombelicale umano, costituito da cellule stromali di tipo miofibroblastoide, fibre di collagene e proteoglicani; recenti studi hanno dimostrato la presenza in questo tessuto di cellule con una notevole attività proliferativa che possono essere isolate facilmente, espanse e mantenute in vitro; queste cellule possono essere indotte a differenziare, mediante specifici induttori (fattore di crescita dei fibroblasti, dimetilsolfossido, ecc.) in senso neurogenico, dimostrandosi dunque una potenziale risorsa di cellule staminali multipotenti facilmente ottenibili senza implicazioni etiche e utili per applicazioni terapeutiche e biotecnologiche (Mitchell et al. 2003).

Recenti studi hanno dimostrato che anche il fluido amniotico (prelevato tra il secondo e terzo trimestre) è una ricca fonte di cellule mesenchimali. Gli elementi cellulari presenti nel fluido amniotico costituiscono una popolazione piuttosto eterogenea di origine fetale; i potenziali siti che forniscono tali cellule sono l’epidermide, l’epitelio e la mucosa digestiva, il tratto urinario e respiratorio e le strutture membranose fetali (Golden 1983). L’origine delle cellule mesenchimali nel fluido amniotico non è ancora stata identificata ma è oggi oggetto di studio il ruolo delle membrane fetali placentari nella costituzione di tale popolazione staminale (Bailo et al. 2004).

1.3.3 Le cellule mesenchimali della membrana fetale

La placenta umana è un organo costituito sia da una porzione di origine materna che da una porzione di origine fetale: l’amnios e il corion sono tessuti di origine fetale mentre le differenti regioni della decidua sono di origine materna.

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La membrana amniocorionica delimita la sacca che avvolge il feto; in tale struttura l’amnios, lo strato più interno del sacco amniotico, è costituito da un singolo strato di cellule epiteliali che rivestono internamente un basamento membranoso e un sottostante strato di cellule stromali (Hoyes et al,. 1970) (Fig. 1.3).

Fig.1.3: Immagine di placenta in cui è possibile osservare le rispettive posizioni di

corion e amnios.

Il corion è costituito da un mesoderma corionico e dallo strato trofoblastico ricco di cellule citotrofoblastiche che formano i villi del corion frondoso. Embriologicamente l’amnios deriva dall’epiblasto della massa cellulare interna mentre il corion origina dal tessuto extra-embrionale (Moore et al. 1998).

Recenti studi hanno dimostrato che cellule ottenute dal fluido amniotico mostrano un fenotipo mesenchimale-staminale simile a quello delle cellule derivate dal midollo osseo (Anker et al. 2004); la caratterizzazione fenotipica e funzionale delle cellule di origine amniocorionica ancora oggi non è completa e

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non sono ancora stati prodotti degli studi sistematici sulle cellule corioniche, che permettano di stabilire le caratteristiche di progenitori cellulari o di marker di differenziamento. Al contrario, sono stati recentemente effettuati degli studi sulle cellule stromali amniotiche che ne hanno dimostrato le caratteristiche mesenchimali (Alviano et al., 2007).

Alcuni importanti dati riguardanti queste popolazioni cellulari sono comunque noti, come ad esempio la bassa espressione di MHC I e la mancanza di espressione di MHC II (Kubo et al. 2001); la bassa immunogenicità di queste cellule è stata dimostrata da applicazioni cliniche con l’uso di cellule dell’epitelio amniotico come medicazione biologica per il trattamento del danno distruttivo corneale e congiuntivale (Solomon et al. 2003). Grazie a queste interessanti caratteristiche le cellule della membrane fetale possono offrire ampie possibilità nel campo della terapia cellulare e della medicina rigenerativa; recentemente è stata mostrata l’abilità di tali cellule mesenchimali derivanti da membrana fetale, in particolar modo da epitelio amniotico, nell’esprimere marker neurogenici, epatici e pancreatici, dimostrando quindi, ancora una volta, la presenza di progenitori multipotenti indifferenziati e il loro possibile utilizzo clinico (Wei et al. 2003).

1.3.4 Le MSC allogeniche e il sistema immunitario

La capacità di generare una risposta immunitaria è una caratteristica fondamentale da indagare se si stanno studiando cellule che dovranno essere trapiantate in un organismo con finalità di ricostruzione tissutale dopo un danno renale, o come terapia coadiuvante al trapianto d’organo, dove sono presenti tessuti di origine allogenica.

La terapia cellulare di derivazione autologa è una risorsa molto importante ma necessita di una biopsia del paziente e di un’espansione in coltura delle cellule prelevate, che poi devono essere opportunamente selezionate e controllate prima di essere trasferite. E’ quindi una procedura costosa e non si ha la sicurezza che il numero di cellule prodotte dal soggetto al momento del bisogno sia sufficiente.

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Un approccio alternativo è il trapianto di cellule allogeniche, e proprio per questo motivo è importante indagare se le hMSC possano indurre una risposta immunitaria o meno.

Le cellule mesenchimali possiedono numerose molecole di superficie che potrebbero interagire con le cellule T del sistema immunitario, come MHC I, Thy-1 (CD90), VCAM (CD106, vascular cell adhesion molecole), ICAM-1 (intracellular cell adhesion molecole), ALCAM (CD166, activated leukocyte cell adhesion molecole), e integrine α3, α5, α6, β1, β3, β4. L’interferone-γ induce nelle hMSC di origine fetale un aumento dell’espressione di MHC II, normalmente espresso a livelli non apprezzabili, ma non di molecole co-stimolatorie come CD80 e CD86, comunque mai espresse dalle hMSC (Gotherstrom et al. 2004). La presenza di MHC I previene la reazione delle cellule NK mentre l’assenza di MHC II e di molecole costimolatorie impediscono una reazione delle cellule T o comunque predispongono ad un risultato di anergia: le MSC hanno quindi caratteristiche ipoimmunogeniche.

Per Zhang et al. (2004) le MSC interferiscono con la maturazione delle cellule dendritiche (DC), le cellule presentanti l’antigene (APC) con ruolo chiave nelle reazioni “self-non self” sia a livello centrale che periferico. In esperimenti di co-coltura le MSC determinano nelle DC una forte regolazione negativa dell’espressione di molecole importanti per il loro sviluppo come CD1a, CD40, CD80, CD86 e HLA-DR; le MSC sono inoltre in grado di interagire direttamente con le cellule T responsabili di alloreattività. Secondo diversi studi (McIntosh et Bartholomew 2000, Tse et al. 2003) le MSC coltivate con cellule T non ne causano la proliferazione e ridurrebbero addirittura la risposta di quest’ultime ad altre cellule o ad attivatori non specifici come la fitoemoagglutinina. La mancanza di risposta non è dovuta ad apoptosi o ad altri meccanismi deteriorativi dato che la competenza delle cellule T è efficientemente ripristinata in seguito alla rimozione delle hMSC in co-coltura (Pendelton et al. 2003). Si è cercato quindi di capire quali citochine fossero prodotte dalle MSC e nonostante la caratterizzazione sia ancora in corso e sia subordinata alle condizioni di isolamento e di coltura, tuttavia si ha evidenza della produzione del fattore di

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crescita epatocitario (HGF), IL-10 e TGFβ (Ryan J et alt. 2005) che contribuiscono a creare un ambiente immunosoppressivo. Oltre alla secrezione di fattori solubili, le MSC esprimono sotto stimolazione di INFγ l’enzima Indolamina 2-3 diossigenasi (IDO) che catabolizza il triptofano presente nell’ambiente, impedendo la proliferazione delle cellule T (Meisel et al. 2004) attraverso la diminuzione della concentrazione dell’aminoacido nell’ambiente (tryptophan desert). Il meccanismo è simile a quello dell’induzione di tolleranza nell’interfaccia materno fetale per permettere l’impianto dell’ovulo fecondato.

L’ipotesi è quindi che le MSC agiscano come modulatori della risposta immune attraverso molteplici meccanismi (Fig. 1.4): ipoimmunogenicità, azione diretta cellula-cellula o tramite la produzione di fattori solubili; per esempio all’interno del midollo potrebbero avere un ruolo nel preservare la popolazione di linfociti immaturi finché a livello periferico non ne sia richiesta la proliferazione.

Le caratteristiche tollerogeniche delle hMSC permettono di sviluppare il loro utilizzo in medicina rigenerativa anche in senso allogenico, diminuendo così sensibilmente anche la mortalità associata all’incompatibilità del complesso maggiore di istocompatibilità (HLA), che si fronteggia in clinica con l’uso di farmaci immunosoppressivi che hanno una relativa efficacia ed elevata tossicità. Buoni risultati in questo senso sono stati ottenuti da recenti studi in cui sono state trapiantate allo-MSC per indurre tolleranza ad altri tessuti trapiantati; ad esempio Bartholomew et al. (2001) hanno infuso MSC allogeniche per favorire l’attecchimento di un trapianto di pelle in un modello di babbuino.

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Fig 1.4: MSC e meccanismi di azione tollerogenica

Lo status immunologico delle cellule mesenchimali presenta dunque importanti vantaggi che vengono confermati anche in un ambito xenogenico; anche in questo caso studi condotti su modelli murini hanno confermato che l’impianto di cellule mesenchimali xenogeniche non è associato ad un’attivazione o un rigetto del sistema immunitario (Saito et al. 2002).

Le proprietà tollerogeniche delle cellule mesenchimali rendono quindi queste cellule strumenti d’elezione in terapia cellulare e compatibili con efficienti protocolli terapeutici in medicina rigenerativa d’urgenza; inoltre potrebbero essere addirittura utilizzate per il trattamento del rigetto in seguito a trapianto d’organo o in malattie autoimmuni.

1.4

Cellule staminali mesenchimali e rene

Data la considerevole morbidità dei trattamenti dialitici a lungo termine e l’aumento del numero di pazienti in lista d’attesa per il trapianto di rene, è chiaramente evidente la necessità di nuove terapie per la cura, o se non altro il miglioramento, delle patologie renali.

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Nei pazienti con insufficienza renale cronica la malattia porta nella maggior parte dei casi ad una perdita cellulare, accumulo di proteine della matrice extracellulare e sviluppo di fibrosi interstiziale.

Molti studi si sono focalizzati sugli eventi cellulari e molecolari che portano allo sviluppo della fibrosi interstiziale, ma poco è noto riguardo ai meccanismi che promuovono il riparo cellulare e il rinnovamento tissutale.

Numerosi studi evidenziano la capacità delle cellule staminali mesenchimali derivate da midollo osseo di rimpiazzare cellule renali adulte specializzate in modelli animali o nell’uomo (Ricardo et al., 2005; Yokoo et al., 2005). Tali studi hanno previsto l’analisi di individui con reni e midollo geneticamente differenti, permettendo in questo modo di verificare la presenza delle cellule di midollo a livello renale.

Nel caso dell’uomo, gli studi si sono basati sulla ricerca del cromosoma Y in pazienti maschi che avevano ricevuto un rene da donatrici femmine. Sono state rilevate cellule di midollo positive al cromosoma Y nei tubuli renali e nei glomeruli; queste cellule si mostravano positive a markers epiteliali, dimostrando un loro differenziamento verso un fenotipo tubulare.

Questi risultati clinici sono supportati anche da una serie di studi su animali. Nello studio di Poulsom et al., si dimostra la presenza di circa l’8% delle cellule tubulari epiteliali contenenti il cromosoma Y in reni di topi femmina, che avevano ricevuto un trapianto di midollo dopo irradiazione.

In altri modelli sperimentali, è stato riportato il transdifferenziamento delle cellule di midollo in cellule epiteliali del tubulo prossimale, in cellule mesangiali, endoteliali e interstiziali. Lange et al, hanno valutato l’effetto terapeutico di cellule staminali mesenchimali di midollo in un modello di insufficienza renale acuta (ARF) provocata da ischemia/riperfusione indotta nel ratto. In questo studio sono state utilizzate cellule marcate con ferro-destrano, la cui localizzazione è stata rilevata mediante studi di risonanza magnetica. Le cellule hanno dimostrato di localizzarsi a livello renale, soprattutto nei glomeruli, e di migliorare la funzionalità renale. Questi effetti si manifestano già dopo 2 o 3 giorni dall’induzione dell’ARF; questo porta ad ipotizzare che il

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transdifferenzamento delle cellule staminali in cellule renali, un processo che richiede più di tre giorni, non sia il meccanismo renoprotettivo primario. La somministrazione delle cellule mesenchimali in ratti con ARF è associata ad un recupero più rapido della funzione renale, probabilmente dovuto agli effetti paracrini delle cellule stesse.

La medicina rigenerativa renale si basa sullo sviluppo di nuove terapie basate su cellule staminali che possono offrire una valida alternativa per il recupero o il mantenimento della funzionalità renale. La progressione del danno renale può portare non solo ad una perdita cellulare, ma anche ad alterati meccanismi di riparo.

Sulla base dei risultati ottenuti in fase sperimentale riguardo alla capacità delle cellule staminali derivate da midollo osseo di riparare, almeno in parte, il rene danneggiato, diventa una valida prospettiva futura quella di utilizzare queste cellule per trapianti in pazienti con danno renale. In quest’ottica è molto importante identificare i fattori che controllano il differenziamento, l’homing e l’integrazione delle cellule nel tessuto renale. A tale scopo si stanno ricercando varie fonti di cellule staminali mesenchimali, alternative al midollo osseo, sulla base anche delle capacità immunomodulatorie delle cellule stesse.

1.5

Marker di nefrogenesi

Il rene permanente (metanefro) origina da reciproche interazioni tra due tessuti, il dotto ureterico e il mesenchima metanefrico. Ciascuno di questi tessuti deriva inizialmente dal mesoderma intermedio. Dopo invasione da parte del dotto ureterico, le cellule del mesenchima sono indotte a differenziare in specifiche tipologie renali. Il dogma centrale dello sviluppo renale suggerisce che il dotto ureterico formi l’uretere e il sistema dei dotti collettori del rene maturo, mentre il mesenchima metanefrico dia origine alle restanti porzioni del nefrone, dalla capsula di Bowmann al tubulo distale (Cullen et al., 2005).

Il mesenchima menatefrico non indotto è composto da cellule mesenchimali, che hanno dimostrato di essere l’unica popolazione, a livello embrionale, che può

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essere indotta a generare nefrogenesi. Infatti evidenze sperimentali mostrano che le cellule del mesenchima metanefrico hanno la capacità di differenziare non solo in tutte le regioni epiteliali del nefrone, ma anche di essere incorporate nell’epitelio del dotto collettore derivato dal dotto ureterico (Bates et al., 2000).

Studi di microarray hanno permesso di identificare un set di geni che sono up-regolati nel mesenchima metanefrico non indotto rispetto al mesoderma intermedio, la cui espressione persiste durante lo sviluppo embrionale ma si riduce o viene ristretta ad alcune zone. Questi geni marker includono Ewsh, 14-3-3 θ, Scd2, RAR-α, CD24 e Cadherin-11. I marker intracellulari possono essere utili strumenti di identificazione di cellule staminali indotte verso un differenziamento renale, mentre i marker di superficie possono essere sfruttati per una eventuale identificazione, ad esempio tramite tecniche citofluorimetriche, di progenitori renali (Challen et al., 2004).

CD24 e Cadherin-11 sono altamente espresse nel mesenchima metanefrico, ma la loro espressione cala durante lo sviluppo. CD24 è presente in tutte le strutture epiteliali, mentre Cadherin-11 è espressa dalle cellule mesenchimali dell’interstizio renale, ma non in quelle epiteliali. CD24 potrebbe quindi identificare progenitori renali destinati a differenziare in segmenti epiteliali del nefrone, mentre Cadherin-11 quelli destinati a formare l’interstizio renale primario. Esistono alcune evidenze indirette che suggeriscono che queste molecole possano marcare una popolazione di progenitori renali. CD24 è fortemente espresso nei tumori di Wilms e in carcinomi renali, così come Cadherin-11. L’espressione di questi due marker nelle cellule tumorali può indicare che ci sia una reversione ad uno stato più primitivo o embrionale, una condizione analoga a quella delle cellule del mesenchima metanefrico non indotto.

Per quanto riguarda gli altri geni si è evidenziato che 14-3-3 θ e Scd2 sono ampiamente espressi nei segmenti epiteliali, RAR-α è espresso nell’interstizio renale, mentre Ewsh in quelle cellule che stanno subendo una trasformazione mesenchimo-epiteliale intorno alla punta del dotto ureterico.

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Bisogna comunque tenere presente che l’espressione delle singole molecole non è ristretta al mesenchima metanefrico non indotto, per cui per identificare una popolazione di progenitori renali è necessario ricercare una combinazione di tutti questi marker.

1.5.1 Le proteine 14-3-3 (YWHAQ)

Le modifiche post-translazionali delle proteine sono essenziali per la loro regolazione, localizzazione e funzione. Uno dei più comuni tipi di modificazioni post-translazionali è la fosforilazione a livello di serina o treonina (Benzinger et al., 2005). La fosforilazione può influenzare una proteina influenzando il suo folding, la sua stabilità, le interazioni e le attività (Fig. 1.5). Un meccanismo comune per ottenere questi cambiamenti è l’interazione proteina-proteina (Coblitz et al., 2006).

Le proteine 14-3-3 appartengono ad una famiglia altamente conservata, in grado di legarsi ad una ampia varietà di proteine, circa 300, coinvolte in differenti vie di segnale, come chinasi, fosfatasi e recettori transmembrana. Questo fa sì che le proteine 14-3-3 giochino un ruolo importante in un vasto range di processi regolatori, così come segnali di trasduzione, segnali mitogeni, apoptosi, regolazione del ciclo cellulare e proliferazione cellulare interagendo con Raf, BAD, proteina chinasi C (PKC) e fosfatidil-inositolo 3-chinasi (PI3K). (Malaspina et al, 2000).

Nell’uomo sono note 7 isoforme delle proteine 14-3-3, che formano dimeri che si legano ad altre proteine, in seguito alla loro fosforilazione a livello di residui di serina o treonina. L’associazione con YWHAQ regola la funzione dei ligandi attraverso il sequestro inter- o intra-compartimentale, l’attivazione o l’inattivazione dell’attività enzimatica e la promozione o inibizione delle interazioni con le proteine (Mackintosh 2004; Hermeking, 2004).

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Fig.1.5: 14-3-3 può legare proteine che contengono uno o due siti target. (A) Il legame a

proteine con un sito target può mascherare la proteina da altre interazioni (in alto) Più proteine con un singolo sito target possono essere co-localizzate dal legame con lo stesso dimero 14-3-3 (in basso). (B) Una proteina con due siti target può avere un legame cooperativo con 14-3-3. In questo caso le conseguenze funzionali possono includere un cambiamento conformazionale (attivazione o inattivazione) o mascherare altre interazioni.

Queste proteine risultano implicate anche nel mantenimento della funzionalità dei podociti renali.

Il glomerulo renale è il sito di un ampio numero di disordini che portano a proteinuria e a disfunzione renale cronica. Recenti studi sulla sindrome nefrosica ereditaria, caratterizzata da massiccia proteinuria e disfunzione renale cronica, hanno evidenziato il ruolo dei podociti glomerulari nel generare una barriera di filtrazione selettiva. Mutazioni nei geni che codificano per nefrina, podocina e proteina CD-2 associata, portano ad una severa sindrome nefrosica, suggerendo che queste proteine sono indispensabili per generare un filtro glomerulare intatto. Lipidi fosforilati, come PIP2 e PIP3, sono mediatori chiave in varie vie di segnale intracellulari che controllano la crescita, la migrazione cellulare, l’endocitosi e la sopravvivenza cellulare. La conversione di PIP2 a PIP3 a livello

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della superficie interna della membrana plasmatica, è catalizzata dalla fosfo-inositide 3-OH chinasi (PI3K). Le PI3K di classe I sono eterodimeri con una subunità catalitica ed una regolatoria. Uno dei maggiori mediatori dell’attività della PI3K è la serina-treonina chinasi AKT (Huber et al., 2003). Il legame dei fosfolipidi, generati dalla PI3K, alla AKT, porta alla traslocazione della AKT stessa alla superficie interna della membrana plasmatica e induce cambiamenti conformazionali che sono richiesti per la corretta fosforilazione ed attivazione di AKT. La rilocalizzazione della AKT a livello della membrana cellulare, infatti, porta a stretto contatto l’AKT con le chinasi regolatorie che la fosforilano, attivandola. Tra i numerosi effetti ad essa correlati, AKT è richiesta per la sopravvivenza cellulare dipendente dai fattori di crescita e blocca l’apoptosi indotta da stimoli tossici. L’attivazione della canonica cascata delle chinasi, come quella di PI3K/AKT, rappresenta un componente essenziale per mantenere l’integrità funzionale dei podociti in vivo.

Dopo fosforilazione, numerosi target della AKT si legano a proteine della famiglia 14-3-3, portando ad una loro ridistribuzione cellulare o inattivazione. La regolazione delle 14-3-3 è mediata da interazioni proteina-proteina fosforilazione dipendenti, quindi il legame fosforilazione dipendente delle 14-3-3 alle proteine target è un evento critico nei programmi cellulari mediati da AKT. La fosforilazione AKT dipendente regola anche la proteina Bad, una proteina proapoptotica, determinandone l’associazione con 14-3-3. Tale legame promuove la sopravvivenza cellulare (Huber et al., 2003).

Il gene che codifica per le proteine 14-3-3 è fortemente espresso nel mesenchima ai primi stadi di sviluppo, ma il livelllo di espressione decresce durante il suo differenziamento. Questo cambiamento è particolarmente evidente nelle condensazioni mesenchimali che diventeranno cartilagine, osso, muscolo e rene. In quest’ultimo caso il gene è fortemente espresso nelle cellule staminali renali e nel mesenchima, ma decresce nei primi stadi di formazione dei condensati nefrogenici epitelizzati. Questo indica un ruolo della famiglia 14-3-3 nei primi stadi dello sviluppo del mesenchima, ma durante il differenziamento tissutale la sua funzione viene persa o rimpiazzata da altre proteine. In particolare

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l’isoforma ε è espressa durante lo sviluppo renale di topo, e la sua espressione rimane elevata nel mesenchima indifferenziato, giocando quindi un ruolo dello sviluppo mesenchimale. I membri della famiglia 14-3-3 hanno mostrato di essere coinvolti in un ampio range di funzioni, che includono anche la regolazione della PKC, la formazione di parte di un complesso di legame al DNA e il legame alle proteine Raf, indicando un loro importante ruolo nella trasduzione del segnale. Si suppone che la loro azione a livello della modulazione del differenziamento mesenchimale sia dovuta alla loro capacità di indurre cambiamenti conformazionali nelle proteine a valle della cascata del segnale. E’ quindi possibile che le proteine 14-3-3, e in particolare l’isoforma ε, si leghino a proteine in uno stato fosforilato e lo stato conformazionale così indotto mantenga attiva o inibita una particolare via di traduzione (McConnell et al, 1995).

1.5.1.2 Regolazione del signaling intracellulare da parte di 14-3-3 1.5.1.2.1 Trasduzione del segnale mediato da Raf-1

Raf-1 è una serina/treonina chinasi che gioca un ruolo chiave nella trasduzione del segnale indotto da fattori di crescita attivando geni che codificano per fattori di trascrizione coinvolti nella divisione cellulare.

14-3-3 mantiene Raf-1 in uno stato inattivo in assenza di segnali di attivazione e stabilizza la sua conformazione nel momento in cui riceve tali segnali (Fig. 1.6). La differente attività sarebbe dovuta al fatto che 14-3-3 lega diversi domini di Raf nelle cellule quiescenti e in quelle che hanno subito uno stimolo mitogeno (Fu et al., 2000).

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Fig. 1.6: Nelle cellule quiescienti 14-3-3 può mantenere Raf-1 in uno stato inattivo

legandosi ad uno specifico dominio della proteina. In seguito ad uno stimolo mitogeno GTP-Ras si lega ad un differente motivo di Raf determinando la sua traslocazione alla membrana e la sua conseguente attivazione.

1.5.1.2.2 Bad e vie di apoptosi

14-3-3 risulta coinvolto anche nell’apoptosi tramite l’interazione con Bad, un membro propaoptotico della famiglia di Bcl-2, con cui si lega in maniera fosfoserina-dipendente. Il legame di 14-3-3 antagonizza l’attività propapoptotica di Bad, in quanto il complesso che si forma dall’interazione di queste due proteine a livello citosolico, lo rende inattivo (Fig. 1.7).

Almeno 4 chinasi sono in grado di forsforilare Bad in vitro, tra cui Proteina chinasi A (PKA), Akt/protein kinase B, PKC, e Raf-1. L’attivazione di AKT porta alla fosforilazione di Bad, all’associazione di quest’ultima con 14-3-3 e quindi all’inibizione della sua attività proapoptotica.

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Fig. 1.7: (a) 14-3-3 sequestra Bad dal complesso mitocondriale Bcl-XL/Bcl-2. Nello

stato basale Bad lega Bcl-XL/Bcl-2, favorendo l’apoptosi. In seguito a stimoli di sopravvivenza vengono attivate chinasi come AKT che fosforilano Bad. In questa forma Bad si lega a 14-3-3 e diventa inattivo. (b) Durante l’interfase o in seguito a danno del DNA Cdc25 viene fosforilata e si lega a 14-3-3 che la mantiene nel citosol.

Ma Bad non è l’unica molecola antiapoptotica con cui interagisce 14-3-3, per cui si suppone che questa proteina agisca come un fattore generale di sopravvivenza attraverso la sua capacità inibitoria dell’apoptosi (Fu et al., 2000).

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1.5.1.2.3 Cdc25 e controllo del ciclo cellulare

14-3-3 risulta coinvolta anche nella regolazione del ciclo cellulare, attraverso la sua interazione con Cdc25. Quest’ultimo è il maggior regolatore del ciclo cellulare, defosforilando e quindi attivando la proteina chinasi Cdc2, e determinando l’ingresso della cellula in mitosi.

L’inibizione della defosforilazione di Cdc2 è fondamentale per bloccare la mitosi in risposta a danneggiamento del DNA. La fosforilazione di Cdc25 porta alla sua associazione con 14-3-3, per cui questa proteina potrebbe essere richiesta per mantenere Cdc25 in uno stato inattivo.

L’azione di Cdc25 richiede il suo ingresso nel nucleo, per cui è possibile che il legame a 14-3-3 regoli il trasporto citoplasma-nucleo, bloccando il complesso a livello citoplasmatico. 14-3-3 interagisce anche con altre proteine coinvolte nella regolazione del ciclo cellulare, suggerendo che questa proteina sia coinvolta anche in questo meccanismo (Fu et al, 2000).

1.5.2 Cadherin-11

La morfogenesi tissutale nell’embrione implica riarrangiamenti dinamici cellulari, in cui gioca un importante ruolo regolatore l’adesione cellulare mediata da caderine. Queste proteine sono molecole di adesione calcio-dipendenti e si suppone che siano responsabili dell’indirizzamento di cellule tessuto-specifiche nei vari organi (Kii et al., 2004). Sono stati identificati 9 differenti sottotipi di caderine, che comprendono la caderina-11, N, P, E-/L-CAM, R, B e 7. L’interazione tra le caderine è primariamente omotipica, cioè cellule che presentano lo stesso tipo di caderina aderiscono l’una all’altra (Goomer et al., 1998).

Il livello di espressione delle caderine influenza la forza di adesione, e il tipo di caderina espresso determina la specificità delle interazioni cellulari e le proprietà delle interazioni.

Per quanto riguarda la regolazione di queste proteine sono stati proposti vari meccanismi:

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(a) Durante alcuni processi morfogenetici, ad esempio, la forza dell’adesione cellulare viene rapidamente modulata in risposta a fattori di crescita o ad altri segnali senza concomitanti cambiamenti nella presenza di complessi di adesione, o di giunzioni cellulari (Fig. 1.8a).

a) b)

c)

Fig. 1.8: Tipi di adesione mediate dalle caderine: a) Regolazione rapida delle molecole

di adesione di superficie; b) Formazione delle giunzioni aderenti associate a maggiori cambiamenti nello stato della cellula, come transizioni epiteliali-mesenchimali; c) Controllo della biogenesi o turn-over delle giunzioni cellulari.

(b) D’altro canto, sembrano avvenire importanti cambiamenti

nell’assemblaggio o disassemblaggio delle giunzioni aderenti, di solito in associazione con grossi cambiamenti nello stato cellulare o nel differenziamento, come le transizioni epitelio-mesenchimali o mesenchima-epiteliali (Gumbiner, 2000). (Fig. 1.8b)

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(c) Il normale assemblaggio e disassemblaggio delle giunzioni formate da caderine in cellule in stato stazionario, e quindi la loro formazione a partire da elementi neo-formati, sembra essere sotto un controllo regolatorio (Fig. 1.8c).

1.5.2.1 Meccanismi di regolazione delle caderine

Le caderine formano forti complessi con le catenine, che si ritiene le mettano in contatto con l’actina del citoscheletro. Cambiamenti nella composizione del complesso caderina-catenina, la fosforilazione dei suoi componenti e alterazioni nell’interazione del complesso con l’actina del citoscheletro possono giocare un ruolo importante nell’adesione.

Cambiamenti nella composizione del complesso, come ad esempio aumentati livelli di beta catenina, promuovono la formazione del complesso a livello della membrana plasmatica ed aumentano l’adesione mediata da caderina in alcune linee cellulari.

La fosforilazione della tirosina del complesso caderina-catenina porta all’inibizione dell’adesione caderina-mediata. La regolazione dell’adesione viene mediata anche da proteine che si legano al complesso a livello intracitoplasmatico, come le piccole GTPasi, che possono portare all’inibizione o alla formazione di una maggior quantità di complesso a seconda della tipologia di proteina coinvolta. Il loro ruolo nella regolazione dell’adesione caderina-mediata non è ancora completamente chiaro, ma si pensa che abbiano un ruolo nell’assemblaggio e disassemblaggio delle giunzioni aderenti.

1.5.2.2 Caderine e rene

Lo sviluppo dell’epitelio renale a partire dal mesenchima metanefrico richiede interazioni induttive, proliferazione cellulare e rimodellamento tissutale. L’epitelio renale deriva per la maggior parte dal mesenchima metanefrico, un gruppo di cellule morfologicamente distinte dalle circostanti, posizionate all’estremità posteriore del mesoderma intermedio. Dopo induzione da parte del dotto ureterico, le cellule mesenchimali metanerfiche si aggregano e si polarizzano a formare una vescicola epiteliale primitiva, proliferante, che genererà l’epitelio tubulare glomerulare, prossimale e tubulare distale.

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Lo sviluppo del nefrone a partire dalle due tipologie cellulari primarie, l’epitelio del dotto ureterico e il mesenchima metanefrico, richiede una conversione fenotipica delle cellule mesenchimali verso un fenotipo epiteliale e una complessa serie di eventi morfogenetici che modellano l’epitelio lungo l’asse prossimale-distale.

Le attività del rene richiedono una struttura tridimensionale del nefrone, che è strettamente collegata alla sua funzione. Durante lo sviluppo questa architettura viene ottenuta non soltanto grazie all’azione di una serie di fattori di trascrizione, ma anche di proteine strutturali, che mediano, almeno in parte, la migrazione cellulare, l’adesione e la specificità della polarizzazione. Tra queste molecole, un ruolo importante è svolto dalle caderine, che risultano implicate nello sviluppo e nella migrazione cellulare. Il pattern di espressione delle molecole di adesione può influenzare lo sviluppo dell’epitelio renale in regioni morfologicamente e funzionalmente distinte, nel momento in cui il mesenchima si aggrega, forma la vescicola renale, e durante l’embriogenesi.

La caderina 11 è espressa nelle cellule mesenchimali dell’embrione, ma non nelle strutture epiteliali, anche se derivate da cellule mesenchimali che precedentemente esprimevano la proteina. L’espressione della caderina 11, che risulta molto alta nel mesenchima in via di sviluppo, infatti diminuisce quando le cellule cominciano a polarizzarsi e a formare l’epitelio indifferenziato della vescicola renale. Ciò nonostante, durante la risposta precoce all’induzione, la caderina 11 può essere ancora funzionalmente attiva, forse grazie all’attivazione controllata di altri fattori che interagiscono con il dominio intracellulare, come la famiglia delle catenine, fornendo così una rapida risposta ai segnali induttivi. (Cho EA et al, 1998).

Le cellule del mesenchima metanefrico non indotto possono essere morfologicamente distinte da quelle circostanti poiché sono più strettamente associate. Non è ancora stato stabilito se questo sia dovuto agli alti livelli della caderina 11.

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1.5.3 EWSH

Il gene EWSH (o EWS) è stato per la prima volta identificato nel Sarcoma di Ewing, in cui è presente in una forma fusa con il fattore di trascrizione Fli-1 (Kim et al., 1999). La sua funzione nelle normali funzioni cellulari e il meccanismo per cui le proteine di fusione portano alla formazione di tumori non è ancora completamente nota, ma la sua espressione risulta aumentata nel mesenchima metanefrico non indotto (Challen et al., 2004).

La proteina EWSH possiede un dominio di attivazione trascrizionale, una regione omologa ad una subunità della RNA polimerasi II e un motivo di riconoscimento dell’RNA presente in numerose proteine leganti l’RNA o il DNA a singolo filamento. Possiede inoltre un dominio IQ che viene fosforilato dalla proteina chinasi C (PKC) ed interagisce con la calmodulina (CaM). Tale dominio agisce come dominio regolatorio nelle proteine coinvolte nel legame alla CaM e nella fosforilazione da parte della PKC. La fosforilazione di EWS da parte della PKC ne inibisce il legame con l’RNA, e viceversa il legame con l’RNA ne impedisce la fosforilazione da parte della PKC (Fig 1.9).

Fig. 1.9: Organizzazione schematica della struttura della proteina EWS.

Sulla base delle sue caratteristiche strutturali, si suppone che EWSH partecipi alla trascrizione dell’RNA e alla sintesi dell’mRNA. Inoltre è stata evidenziata la

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sua interazione con il fattore di trascrizione basale TFIID, con alcune subunità della RNA polimerasi II e con alcuni fattori di splicing. Questo porta ad ipotizzare che EWS agisca come molecola adattatrice di legame tra la trascrizione genica e il processamento dell’mRNA, interagendo con L’RNA polimerasi II e i fattori di splicing (Araya et al., 2002).

Nello stesso studio risulta anche un’interazione di EWSH con il co-attivatore trascrizionale CBP e l’RNA Polimerasi II ipofosforilata. CBP potenzia l’attività di numerose proteine leganti il DNA che agiscono come attivatori trascrizionali, inclusi recettori nucleari e attivatori segnale-dipendenti, attraverso la sua attività di istone acetil-transferasi e il reclutamento del complesso di trascrizione basale dipendente dall’RNA polimerasi II o altri cofattori, ai promotori di geni target. Di conseguenza queste interazioni suggeriscono il potenziale coinvolgimento del gene EWSH nell’attivazione della trascrizione genica. Tuttavia il fatto che EWSH non abbia un sito di riconoscimento del DNA o attività di legame a promotori di geni specifici porta a supporre che EWSH possa agire come co-attivatore di fattori di trascrizione leganti il DNA, CBP dipendenti.

EWSH risulta espresso in grasso, rene, cuore e cervello, per cui si suppone che sia coinvolto in vari eventi biologici interagendo con altri recettori nucleari o fattori di trascrizione CBP dipendenti.

1.5.4 RAR

I retinoidi, metaboliti biologicamente attivi della vitamina A, svolgono un ruolo molto importante nella nefrogenesi, così come i loro recettori (Mendelsohn et al., 1999). Carenza di questa vitamina provoca severe malformazioni renali, come l’ipoplasia renale, o nei casi più gravi l’agenesi renale, in cui manca il dotto ureterico (Liebler et al., 2004). Anche in vitro i retinoidi hanno dimostrato di modulare la morfogenesi renale, infatti studi su reni di ratto in coltura hanno dimostrato l’abilità di queste molecole di stimolare la gemmazione del dotto ureterico e la formazione dei nefroni, e di determinare un aumento

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nell’espressione di c-ret, un recettore tirosino-chinasico richiesto per la crescita e la gemmazione del dotto ureterico.

All’interno delle cellule sono presenti proteine in grado di legare i retinoidi (CRABP) e di determinarne il destino direzionandoli verso le rispettive vie metaboliche. Il segnale viene trasdotto da fattori di trascrizione appartenenti alle famiglie del recettore dell’acido retinoico (RAR) e del recettore retinoide X (RXR). Gli eterodomeri RAR/RXR possono agire direttamente legandosi ad elementi enhancer localizzati nella regione regolatoria dei geni responsivi ai retinoidi, attivandone la trascrizione, o indirettamente modulando altri fattori di trascrizione (Fig. 1.10).

Fig 1.10: Gli omodimeri RXR/RXR o gli eterodimeri RAR/RXR si legano

rispettivamente agli elementi enhancer RARE e RXRE attivando diverse vie metaboliche.

Questi recettori svolgono un ruolo fondamentale durante lo sviluppo renale, infatti reni di topi mutanti RARαβ2-, in cui mancano RARα1, RARα2 e RARβ2, sono piccoli alla nascita e contengono un numero ridotto di nefroni e di gemmazioni del dotto ureterico. In più i mutanti mancano della zona nefrogenica, la regione corticale esterna dove vengono aggiunti continuamente nuovi nefroni durante la prima settimana di vita.

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In reni embrionali sani, RARα e RARβ2 sono coespressi nelle cellule stromali, ma non in altre tipologie di cellule renali, suggerendo che questa tipologia cellulare medi le funzioni dipendenti da retinoidi durante lo sviluppo renale. Nei mutanti RARαβ2- a stadi embrionali precoci il differenziamento e la morfologia dei nefroni appare normale, ma la crescita e la gemmazione del dotto ureterico risulta alterata. Allo stesso tempo si osserva una down-regolazione dell’espressione di c-ret, che potrebbe essere la causa delle malformazioni. La somministrazione di retinoidi evita questo processo mantenendo normali i livelli di c-ret e suggerisce che i segnali indotti dai retinoidi siano normalmente richiesti per mantenere la sua espressione. La produzione di molecole importanti per il mantenimento dell’espressione di c-ret da parte delle cellule stromali può agire direttamente sul dotto ureterico, oppure sul mesenchima metanefrico che a sua volta agisce sul dotto ureterico, regolando l’espressione di c-ret. I retinoidi risultano quindi mediatori di vie di segnale delle cellule stromali richieste nello sviluppo renale (Mendhelson et al., 1999).

Negli embrioni RARαβ2- lo stroma corticale situato alla periferia del rene embrionale, è caratterizzato da una perdita della popolazione stromale normalmente intercalata tra i nefroni, in più, come già detto, si ha un calo dell’espressione di c-ret. Questo porta a dedurre che sia necessaria un’azione combinata di RARα e RARβ2 per indurre il mesenchima stromale a produrre i segnali che regolano l’espressione di ret nell’epitelio del dotto ureterico. I retinoidi, ed in particolare l’acido retinoico, inducono l’espressione di ret nell’estremità del dotto ureterico vicina allo stroma corticale, ma non ectopicamente nel tronco del dotto ureterico, suggerendo che l’espressione di ret sia controllata da segnali retinoidi-dipendenti prodotti dallo stroma corticale, piuttosto che da un’azione diretta dell’acido retinoico stesso.

Il modello standard di sviluppo renale implica reciproche interazioni tra l’epitelio del dotto ureterico e il mesenchima metanefrico. Recenti studi suggeriscono la presenza di un secondo loop reciproco che controlla la morfogenesi della gemmazione ureterica e il patterning stromale mediato dall’acido retinoico e da ret (Fig. 1.11). In questo modello l’acido retinoico

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induce l’espressione di un segnale (gene X) secreto dalle cellule stromali, che induce l’espressione di ret nel dotto ureterico (Fig. 1.11, riquadro di sinistra).

Fig. 1.11: L’acido retinoico e ret controllano un nuovo reciproco loop tra il

mesenchima stromale e l’epitelio del dotto ureterico (immagine di sinistra). Il segnale indotto dall’acido retinoico induce l’espressione di un gene X, il cui prodotto è secreto dalle cellule stromali e agisce sulle cellule dell’epitelio del dotto ureterico inducendo l’espressione di ret (freccia gialla). Nella reciproca direzione, il segnale di Ret è richiesto per generare segnali secreti dal dotto ureterico importanti per patterning il mesenchima stromale, il differenziamento dei nefroni e la gemmazione del dotto ureterico (frecce grigie). Nel modello alternativo mostrato a destra, il mesenchima metanefrico funziona da intermediario. Il signaling dell’acido retinoico induce il gene X nelle cellule stromali; questo agisce prima sulle cellule del mesenchima metanefrico, e poi quest’ultimo genera segnali che inducono ret nelle cellule del dotto ureterico (freccia gialla).

Nel dotto ureterico la funzione di Ret è richiesta per la morfogenesi della gemmazione e per generare segnali che controllano il pattern delle cellule stromali. Visto che precedenti studi indicavano che in ratti RARαβ2- il differenziamento dei nefroni era normale, è possibile che l’acido retinoico controlli l’espressione di Ret nel dotto ureterico tramite una via di segnale del mesenchima metanefrico sconosciuta (Fig. 1.11 riquadro di destra) (Batourina et al., 2001).

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1.5.5 CD24

CD24 è una proteina altamente glicosilata, che è legata alla membrana plasmatica attraverso un’ancora di glicosil-fosfatidil-inositolo (GPI). E’ espressa da vari tipi di cellule ematopoietiche ed epiteliali. Il grado di glicosilazione è variabile e dipende dalla tipologia cellulare. Nelle cellule B è espressa durante lo sviluppo, ma viene persa allo stadio di plasmacellule. Nell’epitelio umano mammario è specifico per le cellule epiteliali mammarie luminali, dove è espressa sulla membrana apicale plasmatica. La sua funzione non è ancora ben caratterizzata nell’uomo, ma primi studi evidenziano che sia una molecola co-stimolatoria per le cellule T CD4+ e che svolga un ruolo nello sviluppo linfocitario e nell’apoptosi delle cellule B essendo implicata nella trasduzione del segnale: nel topo il cross-linking di CD24 può portare ad apoptosi, ma anche aumentare i livelli intracellulari di calcio nei linfociti B maturi. Il solo ligando noto per CD24 è la P-selectina.

Nell’embrione in via di sviluppo, l’ibridizzazione in situ mostra che il trascritto di CD24 si trova nell’ectoderma primitivo, nel mesoderma e nell’endoderma.

Questa proteina è stata riscontrata nel cervello in via di sviluppo, ma anche nell’epitelio di altri tessuti non neuronali come in quello della mucosa intestinale, nasale, nell’epitelio duttale della ghiandola salivare, in quello bronchiale e tubulare renale. E’ stata dimostrata la sua presenza nelle cellule epiteliali del rene fetale, in particolare a livello glomerulare e tubulare, ma la sua espressione cala gradualmente con la maturazione del nefrone (Platt JL et al., 1983). Nello sviluppo dei denti, dove è necessaria una interazione mesenchimale-epiteliale perché si formi un corretto epitelio, l’mRNA di CD24 è specificamente indotto nelle cellule mesenchimali differenzianti in odontoblasti nella papilla dentaria, suggerendo un ruolo pilota di CD24 nel differenziamento cellulare in vivo.

Viene considerato un marker di staminalità, usato per la ricerca di cellule staminali a livello renale (Taguchi et al., 1998). E’stato dimostrato infatti che un subset di cellule parietali epiteliali CD24+ CD133+, prelevate dalla capsula di

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Bowman, mostrano un potenziale di autorinnovamento ed un’alta efficienza di clonazione. Le stesse cellule, iniettate in topi SCID in cui era stato indotto un danno renale acuto, determinano una rigenerazione delle strutture tubulari di differenti porzioni del nefrone, migliorando significativamente la funzionalità renale (Sagrinati et al., 2006).

1.5.6 Stearoyl-CoA Desaturase (SCD)

La Stearoyl-CoA Desaturase (SCD) è una proteina integrale di membrana del reticolo endoplasmatico che catalizza uno step nella biosintesi degli acidi grassi monoinsaturi a partire dagli acidi grassi saturi. Il bilancio tra i due influisce sulle proprietà fisiche delle membrane. La regolazione degli acidi grassi insaturi è importante perché giocano un ruolo nell’attività cellulare, nel metabolismo e negli eventi che controllano la trascrizione genica, nel differenziamento e nella crescita cellulare. La reazione catalizzata dalla SCD è di tipo ossidativo e avviene in presenza di NADPH-Citocromo b5 reduttasi e citocromo b5. La sua funzione è quella di trasformare il palmitoil- e lo stearoyl-CoA in palmit e oleoyl-CoA. L’acido palmitoleico e oleico sono i maggiori costituenti dei fosfolipidi di membrana. La percentuale tra acido stearico e oleico è uno dei fattori maggiormente influenzanti la fluidità di membrana; alterazioni di questa percentuale portano a malattie come diabete, cancro, obesità, ipertensione e a disturbi neurologici, vascolari e cardiaci (Ntambi et al., 1995).

Questo enzima aumenta drammaticamente nel differenziamento adipocitario. L’aggiunta di acido retinoico in vitro, in concomitanza con agenti differenzianti, inibisce il differenziamento adipocitario e reprime la trascrizione del gene per SCD.

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1.6

Vasculogenesi

1.6.1 Vasculogenesi e angiogenesi

Nell’uomo e negli organismi superiori il sistema circolatorio e linfatico vengono originati tramite due distinti processi: la vasculogenesi, cioè la formazione ex-novo di un vaso, e l’angiogenesi, cioè la formazione di un nuovo vaso a partire dalla biforcazione di un capillare preesistente.

La vasculogenesi avviene durante i primi stadi di sviluppo embrionale: attraverso vari passaggi, cellule del mesoderma splancnico embrionale differenziano in cellule endoteliali che formano, di pari passo con gli organi che si stanno sviluppando, delle piccole reti capillari primitive; in seguito, il processo angiogenetico rimodella e completa questi abbozzi di tubuli primitivi e si forma in questo modo la vascolatura completa (Gilbert S.F., 2000, cap.15). Nell’organismo completamente formato l’angiogenesi è l’unico processo che può supplire a necessità riparative del sistema cardiocircolatorio, come per esempio la ricapillarizzazione del tessuto endometriale durante il ciclo mestruale nella donna.

I due processi sono regolati dal fine bilanciamento di fattori stimolatori e inibitori; eventuali alterazioni di questo equilibrio nell’embrione possono comprometterne lo sviluppo e la nascita. Nell’adulto lo squilibrio del meccanismo di angiogenesi è la porta d’accesso delle metastasi a tutto l’organismo.

Per quanto riguarda la terapia cellulare in pazienti con danni al tessuto renale, è importante non solo tentare di riparare il tessuto danneggiato con cellule compatibili all’integrazione nel rene danneggiato, ma anche quello endoteliale, in modo da garantire fattori nutrienti, ossigeno, rimozione dei metaboliti di scarto e prevenire così danni da stress ischemico. In questo contesto entrano in gioco la vasculogenesi e l’angiogenesi. E’ probabile infatti che proprio la capacità di potenziamento del processo neo-angiogenetico delle hMSC giochi un ruolo

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importante nell’effetto terapeutico che le cellule impiantate mostrano avere sull’uomo (Kinnaird et al. 2004)

1.6.2 Vascular endothelial growth factor (VEGF)

Il VEGF è uno dei fattori più importanti tra quelli che regolano la formazione dei vasi nell’embrione e l’omeostasi degli stessi nell’adulto; infatti interagisce con cellule emopoietiche, endoteliali e con i loro precursori. (Cèbe-Suarez S. et al., 2006).

Con il termine VEGF si intende una famiglia di fattori di crescita composta da omodimeri di glicoproteine collegate da un ponte disolfuro. Nei mammiferi sono state identificate cinque forme: VEGF-A,-B,-C,-D e PlGF. Ognuna di queste forme è soggetta a splicing alternativo e può dar luogo a isoforme con proprietà di segnalazione differente. Nei mammiferi VEGF-A, -B e PlGF sono importanti per la formazione di vasi sanguigni, mentre VEGF-C e –D per la formazione di vasi linfatici.

VEGF è espresso in risposta ad ipossia ed a fattori di crescita e differenziativi da parte di molti tipi cellulari, in particolar modo da cellule emopoietiche, stromali ed endoteliali. Il più studiato e il più importante per quel che riguarda lo sviluppo vascolare è il VEGF-A; studi condotti su topi knockout per questo gene hanno messo in evidenza che gli animali non sopravvivono a causa di problemi nella formazione dei vasi sanguigni (Carmeliet P. et al., 1996). Agisce anche come agente vasculogenetico, determinando il differenziamento di cellule staminali mesenchimali umane in cellule con caratteristiche fenotipiche e funzionali paragonabili a quelle endoteliali (Oswald et al., 2004).

Il VEGF-A, oltre a indurre la proliferazione dell’endotelio, svolge altre funzioni importanti: promuove la migrazione cellulare, inibisce l’apoptosi e induce la permeabilizzazione dei vasi. Essendo implicato in diversi processi la sua produzione è indotta mediante risposta a molteplici stimoli: fattori di crescita, citochine, gonadotropine, ossido nitrico, ipossia, ipoglicemia e mutazioni oncogeniche.

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