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Dio è morto? Il fattore religioso nel diritto internazionale penale.

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Academic year: 2021

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INTRODUZIONE

Il fattore religioso si contraddistingue come fonte di ispirazione per i credenti, che di conseguenza conformano il proprio comportamento in virtù della fede a cui aderiscono .

Dal XVIII si diffonde in Europa l'Illuminismo, movimento culturale che ridimensiona ogni metodo di indagine precedente, “alla luce” della ragione.

In questo modo, la critica razionalista travolge tradizione e religione. Particolarmente quest'ultima, perché offrendo un'interpretazione pre-valentemente teistica delle relazioni umane e ricorrendo a dogmi e precetti indiscutibili, si colloca in una posizione di netto contrasto con gli ideali pragmatici degli Illuministi.

Essi, non nascondono l'obiettivo di sancire definitivamente:

«[...]la fine del tradizionalismo e della su-perstizione e inizio di un processo che por-ta gli uomini ad agire in modo sperimenpor-tale e pragmatico, razionale e basato su cono-scenze scientifiche, che possono esser sot-toposte a verifica e abbandonate non

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appe-na si rivelino iappe-nadeguate»1

.

In questo modo si consolida il processo di secolarizzazione, che con-duce alla progressiva perdita di rilevanza della religione nel tessuto politico e sociale.

Tra la fine del XIX e inizio del XX secolo tale tendenza viene esaspe-rato da autori come F. Nietzsche, che sostiene un nichilismo generaliz-zato, per il quale la religione debba esser necessariamente superata, fino ad affermarne la “morte”2

.

Il pensiero del filosofo si inserisce dunque in un contesto sociale, in cui la Secolarizzazione viene assunta come paradigma per la costitu-zione dell'ordinamento giuridico, di cui si individuano tracce tutt'og-gi3.

Tuttavia, dalla seconda metà del XX secolo, si assiste ad una parziale inversione di tendenza, cosiddetta “revanche de Dieu”, che conduce ad attribuire nuova importanza al fattore religioso nel tessuto connetti-vo sociale.

Le due Guerre mondiali, i flussi migratori e la sostanziale ricerca di valori etici di riferimento, implicano l'avvento di una nuova stagione, in cui la religione contribuisce in modo decisivo alla formazione delle identità dei popoli e quindi degli individui.

La religione oggi rappresenta uno snodo fondamentale con il quale gli ordinamenti nazionali si devono confrontare, soprattutto per i risvolti talvolta problematici che ne derivano.

Ancora più interessante risulta quindi la rilevazione della religione nell'ambito giuridico internazionale.

1 G. Pasquino, Secolarizzazione, in Dizionario di politica, (a cura di) N. Bobbio, N. Matteucci, Torino, UTET, 1976, cit. p. 904.

2 Cfr. F. Nietzsche, La gaia scienza, (a cura di) F. Desideri, Pordenone, Editori Riuniti, 1985, sezione 125, p. 154 ss.

3 Basti citare il caso dello Stato francese, che recentemente ha ribadito il divieto di esporre simboli religiosi nei luoghi pubblici. Cfr. G. Dalla Torre, Lezioni di

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Le relazioni tra stati si sviluppano sulla base di delicati equilibri politi-ci, che in larga parte sovrastano i singoli.

Essi tuttavia assumono sempre maggiore consapevolezza del loro ruo-lo, fino a reclamare attenzione per i valori spirituali, anche nel campo del diritto internazionale.

Per questa via, il fattore religioso rientra a far parte del diritto interna-zionale, anche se in forme ancora implicite e pertanto da indagare con particolare attenzione.

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CAPITOLO I:

RELIGIONE E DIRITTO INTERNAZIONALE PENALE

1.1 Comunità internazionale e diritto internazionale penale

Il tema scelto per questa tesi di laurea affronta questioni di ampia por-tata, che toccano aspetti apparentemente già risolti e che al contrario si presentano come questioni ancora aperte.

Come si vedrà più avanti, la stessa definizione di “diritto” e “religio-ne” si presenta con confini incerti e altrettanto avviene per altre defini-zioni concettuali, come quella di “comunità internazionale” o “diritto internazionale” o anche “diritto internazionale penale”, quest'ultima molto usata negli anni più recenti.

Un esame ancorché schematico di queste realtà concettuali mette in luce un intreccio di questioni filosofiche e teologiche, che in buona misura appaiono sullo sfondo come elementi che rivendicano la loro necessaria attenzione.

In questa sede non è possibile dedicar loro l'approfondimento che pure appare opportuno, tuttavia sembra necessario segnalare qualche ele-mento di valutazione, se non altro per illustrarne le problematicità. Ad esempio, la definizione concettuale di “comunità internazionale” -a prima vista autoevidente- è a sua volta controversa.

In termini storici c'è chi la identifica con la Res-publica christiana ( tra XI e XII d.C.)4

, governata da regole giuridiche uniformi basate sulle medesime convinzioni morali e religiose.

Altri risalgono al IX sec. d.C.5

, ossia alla coesistenza di tre imperi che sono quello franco–lombardo, quello bizantino e quello islamico, che nell'anno 811 d.C. si sono reciprocamente riconosciuti, fino al punto che il Califfo di Baghdad conferisce a Carlo Magno il titolo di protet-4 Cfr. C. Focarelli, Lezioni di storia del diritto internazionale, Perugia, Morlacchi

University Press, 2002.

5 Cfr. R. Ago, Il pluralismo della Comunità internazionale alle sue origini, in

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tore dei Luoghi Santi in Gerusalemme6

.

L' impostazione più diffusa è però quella che rinviene nella pace di Westphalia la nascita convenzionale della comunità internazionale7

. Tale evento pone fine ad un conflitto su vasta scala, risalente alla rifor-ma luterana del 1517, che ha incrinato definitivamente l'autorità dete-nuta durante il feudalesimo da due guide fondamentali: il papa e l'im-peratore.

Come si vede, tutte le tesi ricostruttive tengono conto dell'elemento re-ligioso e lo concepiscono in modo centrale.

La “comunità internazionale” è in certo modo dipendente da fattori re-ligiosamente qualificati.

La pace di Westphalia, suddivisa in due trattati, stipulati rispettiva-mente nella cattolica città di Münster e in quella protestante di Osna-brück, ammette esplicitamente l'indipendenza spirituale degli stati dal-la Chiesa romana.

Infatti, come sottolinea Schiller:

«trà protestanti e i cattolici fu ordinata

uguaglianza perfetta, conformandosi però alla forma del governo, alle costituzioni dell' impero, ed alla pace di Vestfalia. I ri-formati e i calvinisti furono pure ammessi nei trattati di pace. Tutte le altre religioni furono escluse dalla comune tolleranza: non potendo i principi dell' impero conce-dere il pubblico esercizio se non alle sopra sette cristiane»8

.

6 Cfr. S. Marchisio, Corso di diritto internazionale, Torino, Giappichelli, 2014, p. 11.

7 Cfr. A. Cassese, Diritto internazionale, (a cura di) P. Gaeta, Bologna, il Mulino, 2006, p. 29 ss.

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In definitiva, a seguito delle cosiddette “guerre di religione” si confi-gura il medesimo sostrato religioso e culturale cristiano, seppur non ri-conducibile all'unica corrente dottrinale cattolica.

Il Sacro Romano Impero, conosce a sua volta una frammentazione ter-ritoriale, contraddistinta dall'assunzione di diritti quasi sovrani dei suoi 335 membri indipendenti.

Crollato l' Impero e sfumate le pretese di natura temporale del papato, ogni stato della nascente comunità internazionale acquista il diritto di dichiarare guerra (jus ad bellum) contro uno justus hostis, rispettando i limiti imposti dal trattato di Münster9

.

Sotto questo profilo, il progressivo declino del feudalesimo e il paral-lelo esordio dello Stato moderno tra XV e XVII secolo, sviluppano tesi eurocentriche, che segnano le successive relazioni con gli “Stati” degli altri continenti.

L'esperienza coloniale10, ha portato ad un vero e proprio sterminio

del-le popolazioni indigene, così come testimoniato, tra gli altri, da Fra' Bartolomeo de Las Casas11

; ma anche il sistema delle capitolazioni12

, vigente in Cina o in India, costituisce una sostanziale ripetizione del modello eurocentrico che, nella sostanza, sviluppa una tendenza

all'af-no, UTET, 1867, cit. p. 370.

9 Il trattato vieta il ricorso immediato all'uso della forza, preferendo in via prelimi-nare una composizione amichevole o quantomeno giurisdizionale della contro-versia. Viene previsto ai sensi dell'articolo 124 un periodo di tre anni, durante i quali i contendenti devono impegnarsi per raggiungere una soluzione. Solo in caso di esito negativo delle trattative, gli altri stati contraenti hanno l'obbligo di sostenere militarmente l'offeso. Al contrario, non devono in alcun modo favorire l'offensore, non potendo neppure permettergli il transito o la sosta sul proprio ter-ritorio.

10 Sistema per il quale le terre oggetto di esplorazione sono considerate nullius. In questo modo, lo stato che occupa di fatto il territorio con animus possidendi, ne acquista la sovranità. Cfr. A. Cassese, Diritto internazionale, (a cura di) P. Gaeta, Bologna, il Mulino, 2006, p. 34.

11 Cfr. M. Mahn-Lot, Bartolomeo de Las Casas e i diritti degli indiani, Milano, Jaca Book, 1998.

12 Impianto di tutele volto alla regolamentazione delle condizioni di residenza degli europei in territorio straniero. Cfr. A. Cassese, Diritto internazionale, (a cura di) P. Gaeta, Bologna, il Mulino, 2006, p. 33.

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fermazione della superiorità della coscienza civile e religiosa europea. In tali termini si può parlare di una “comunità internazionale” che si sovrappone a soggetti concepiti ad un livello inferiore, e pertanto as-sorbiti e in un certo senso annullati in un sistema eurocentrico e cri-stiano-centrico.

Un evidente esempio di questa tendenza si vede nelle garanzie conces-se ai cittadini residenti in territorio straniero, relativamente alla libertà di culto cristiano e di commercio, e al “privilegio del foro”, consisten-te nella soggezione alla sola giurisdizione dei propri consoli.

Stando così le cose, i Paesi non europei si trovano in un contesto estra-neo, che non permette loro di partecipare in modo rilevante all'elabo-razione delle prime riflessioni circa le relazioni tra gli stati.

Contributi rilevanti a questo tema nel corso del XVI secolo provengo-no da F. De Vitoria13 e F. Suàrez14, esponenti della Scuola Tomista di

Salamanca15.

I due campioni del pensiero cattolico intrecciano morale, religione e diritto e così fa anche Ugo Grozio.

Nel De iure belli ac pacis libri tres (1625), il giurista olandese muove dalla natura sociale dell'uomo, che per convivere con gli altri, si orga-nizza in comunità regolate dal diritto naturale -governato dalla retta ragione-, e dal diritto volontario, il cosiddetto stare pactis.

Questo diritto volontario, su base consensuale, ricomprende sia lo ius

civile, che lo ius gentium, riguardante i rapporti intercorrenti tra gli stati–nazione.

Anche qui, come si vede, il centro è costituito dalla vincolatività etica, prima ancora che giuridica, della clausola stare pactis.

In qualche modo, il diritto si fonda su elementi etico-religiosi che lo

13 v. L. Milazzo, La teoria dei diritti di Francisco de Vitoria, Pisa, ETS Libri, 2012. 14 v. C. Faraco, Obbligo politico e libertà nel pensiero di Francisco Suàrez, Milano,

Franco Angeli, 2013.

15 Salamanca nel XVI secolo diventa il “massimo centro teologico della cristianità”. B. Mondin, Storia della Teologia vol.3, Bologna, ESD, 1996, cit. p. 266.

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conformano.

Grazie all'apporto dell'inglese R. Zouche16

, lo ius gentium di Grozio si tramuta nell'espressione jus inter gentes, a sua volta pregno di morale cristiana, diverso dal diritto penale interno, rivolto esclusivamente agli individui.

Queste due “dimensioni” del diritto, per quanto differenti, sono acco-munate dall'esser espressione dell'esercizio della sovranità dello stato– nazione, che governa i sudditi esercitando un potere sovrano che pro-viene da Dio.

Il cosiddetto droit des gens discende da un riconoscimento dello stato come superiorem non recognoscens, che quindi può decidere senza in-terferenze altrui nella gestione dei propri affari interni, poiché par in

parem non habet jurisdictionem.

Risvolto esattamente speculare a livello interno risulta la qualificazio-ne della legge come suprema, perché imposta sulla volontà dei singoli. Tale legittimazione volontaristica del diritto trova riferimento inizial-mente nella persona del monarca, solo nel XVIII secolo il baricentro si sposta sui cittadini.

Questo formidabile mutamento di prospettiva è dovuto principalmente all'opera di J. J. Rousseau, che imputa la volontà generale a tutti i cit-tadini e contenutisticamente la qualifica come tendente al bene del corpo collettivo, poiché si persegue il comune interesse17

.

In altri termini, lex est quod populus jubet e da ciò si deduce una so-stanziale identità tra legalità e legittimità, dato che il legislatore, rite-nuto incorruttibile, non fa altro che esprimere la volontà generale, di per sé “buona e giusta”.

In questo contesto il diritto delle nazioni diventa diritto

internaziona-16 Giurista inglese, considerato tra i fondatori del diritto internazionale, che conia la locuzione “jus inter gentes” nell'opera intitolata Iuris et iudicii fecialis sive iuris

inter gentes et questionum de eodem explicatio (1650). 17 J. J. Rousseau , Il contratto sociale, Torino, Einaudi, 1966.

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le18

, fondato in questa fase su eurocentrismo, ideologia cristiana e vi-sione liberistica.

Nascono anche alcune istituzioni per promuoverne lo sviluppo, come ad esempio l'Institut de droit international, fondati sul positivismo

giu-ridico, inteso come limite all'influenza religiosa.

Questo orientamento auspica una separazione tra diritto e giustizia: tra gli esponenti più influenti si ricorda Hegel, il quale ponendo lo Stato al di fuori e al di sopra del diritto, non ammette un “diritto internaziona-le” cui lo Stato sia subordinato.

Nella prima metà del XX secolo, a poca distanza l'una dall'altra, si sus-seguono le due guerre mondiali, che conducono ad una più attenta ri-flessione circa il sistema adottato fino ad allora, risultato nei fatti inef-ficace.

Se, da un lato, l' Europa cede il primato sulla scena internazionale, dal-l'altro lato si constata che lo stato–nazione, dotato di sovranità presso-ché illimitata, non assicura affatto la giustizia delle decisioni che ne di-scendono.

In virtù di tali motivazioni, si appongono dei limiti provenienti dalla ragione, sia per quanto attiene la dimensione interna, che internaziona-le degli stati.

Sotto il primo profilo, si enucleano principi ai quali il legislatore me-desimo deve conformarsi, alla luce delle garanzie riconosciute all'indi-viduo19

.

Da un punto di vista internazionalistico, gli stati realizzano una svolta all'insegna della cooperazione, volta alla tutela di valori che si sanci-scono come universali (libertà, dignità, uguaglianza...), la cui

trasgres-18 Cfr. J. Bentham, Introduzione ai principi della morale e della legislazione, Tori-no, UTET, 1998.

19 Riferimento al principio di legalità costituzionale così come enunciato, in pro-spettiva storica, da L. Ferrajoli, Lo stato di diritto fra passato e futuro, in Lo

Sta-to di diritSta-to. SSta-toria, teoria, critica, (a cura di) P. Costa e D. Zolo, 2° ed., Milano, Feltrinelli, 2003, p.p. 349-386.

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sione implica un' ingerenza nella sfera dello stato che ne è l'artefice. In questo senso, si è fatta strada una nuova tendenza volta a rendere il diritto internazionale coercibile e persino fonte di sanzioni di carattere penale verso gli Stati inadempienti.

Originariamente non vi era alcun dubbio nel ritenere infrangibile l'esclusività del dogma sulla responsabilità internazionale in capo agli Stati, soltanto nel XX Secolo, a seguito delle atrocità commesse durante i due conflitti mondiali e parallelamente a processi di tipizzazione convenzionale del diritto bellico, si comincia a riconoscere una responsabilità di diritto penale internazionale in capo agli individui.

Tale evoluzione muove quindi da un tradizionale immobilismo cementatosi attorno alla figura e al potere supremo degli Stati Sovrani

superiorem non recognoscens, coordinandolo con la responsabilità individuale.

In tale contesto se si fossero lasciati margini al riconoscimento di una, seppur blanda, responsabilità individuale, si sarebbe minata alla radice la sovranità assoluta e quasi “sacra” delle entità statali, che tutto interesse avevano a mantenere il loro primato.

L'opinione prevalente era quella di ritenere unicamente gli Stati soggetti destinatari dei precetti emananti dal diritto internazionale e, conseguentemente, in caso di loro violazione, unici responsabili. Con una tale prospettiva si precludeva quindi in toto una qualsivoglia rilevanza della singola persona fisica in ambito sovranazionale, proprio sulla base di una regolamentazione ricondotta a giurisdizioni differenti, facendo quindi rientrare il diritto penale nell'esclusiva

potestas statuale.

I massacri della Seconda guerra mondiale hanno tuttavia imposto una “revisione” di tale precedente assetto che, seppur secolare e cristallizzato, presentava embrionalmente gli stessi presupposti per

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una evoluzione.

La concezione classica sin ora tracciata infatti riteneva gli individui o i gruppi di individui, non soggetti, ma oggetti della normazione internazionale e cioè, ultimi destinatari degli obblighi e delle responsabilità statali.

In tale cornice, la persona si ritaglia il proprio spazio in qualità di centro di interessi, degno di riconoscimento e protezione da parte degli Stati.

Il percorso volto al riconoscimento di una responsabilità individuale accanto a quella degli Stati segna un passaggio decisivo.

Con il riconoscimento di tale principio negli Statuti istitutivi del Tribunale di Norimberga20 (art. 6) e del Tribunale di Tokyo21 (art.5) si

decreta definitivamente e positivamente, il superamento del dogma statalista, del tutto incapace a perseguire efficacemente crimini quali quelli commessi durante il conflitto.

Ulteriore cementazione del riconoscimento della responsabilità personale è da rintracciarsi negli Statuti delle Corti Penali Speciali per la Ex Jugoslavia22

(art. 7) e per il Rwanda23

(art. 6). Definitiva consacrazione di tale principio si raggiunge con lo Statuto della Corte Penale Internazionale24

del 1998 (entrato in vigore nel 2002) di cui l'art. 25, rubricato appunto “Responsabilità Penale Individuale”, traccia i contorni.

Il principio di responsabilità individuale viene così delineato sulla falsa traccia di una responsabilità penale di diritto interno, assicurandone l'operatività.

Lo Statuto di Roma però va oltre, sancendo anche l'irrilevanza di parti-colari qualifiche ufficiali, rivestite dal soggetto al momento della

com-20 International Military Tribunal (IMT).

21 International Military Tribunal for the Far East (IMTFE). 22 Risoluzione del Consiglio di Sicurezza 827 del 1993. 23 Risoluzione del Consiglio di Sicurezza 955 del 1995 24 International Criminal Court (ICC).

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missione dei crimini (art.27).

Da qui scaturisce la convergenza tra diritto penale e diritto internazio-nale, rappresentato dal diritto penale internazionale.

Questo settore riunisce in sé « tutti quegli ambiti del diritto penale che presentano collegamenti con ordinamenti diversi da quello nazionale»25

.

Inoltre, accanto a questa, si sviluppa un' ulteriore branca, denominata

diritto internazionale penale26

, riguardante crimini talmente sconvol-genti, che sono considerati « i più gravi crimini che concernono la co-munità internazionale come tale»27

.

Uno sviluppo teso ad un maggior favor rei è rintracciabile nello Statu-to della Corte penale internazionale28, laddove la sua giurisdizione

vie-ne definita come permavie-nente, ordinaria ed ex ante facto.

In virtù di quanto osservato è possibile desumere che la comunità in-ternazionale, ad oggi, assume una vocazione universale, ergendosi a paladino di valori universalmente condivisi.

Per far ciò, soprattutto a seguito del processo di decolonizzazione du-rante gli anni Sessanta, si è aperta fino ad includere progressivamente una pluralità di civiltà e culture differenti.

25 G. Werle, Diritto dei crimini internazionali, (a cura di) A. di Martino, Monaco, Bononia University Press, 2009, cit. p. 54.

26 Per approfondimenti v. A. Cassese, Lineamenti di diritto internazionale penale.

vol 1. Diritto sostanziale, (a cura di) S. Cannata, Bologna, il Mulino, 2005. 27 Cfr. commi 4 e 9 del preambolo e l'articolo 5 dello Statuto ICC.

28 Testo approvato a Roma il 17 luglio 1998, che disciplina in 128 articoli l' istitu-zione ed il funzionamento dell' International Criminal Court ( ICC).

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1.2 I crimini internazionali

Il diritto internazionale penale ha la funzione di proteggere la comuni-tà internazionale, intesa nella sua accezione di “sociecomuni-tà” di stati retta dal diritto internazionale, dalla violazione di principi e valori su cui esso si basa.

Per individuare i valori da proteggere si considerano fonti principali di riferimento le norme incluse nei trattati internazionali e le risoluzioni vincolanti del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.

Fonti sussidiarie sono invece il diritto consuetudinario, i principi gene-rali di diritto internazionale penale e quelli di diritto penale comuni a tutti i Paesi29

.

I crimini internazionali maggiormente rilevanti sono accorpati in tre macro – categorie, crimini di guerra, crimini contro l' umanità e

geno-cidio.

I crimini di guerra rappresentano la categoria più risalente nel tempo tra quelle citate.

Tale affermazione muove dalla constatazione che fino al ventesimo se-colo la guerra sia sempre stata recepita come strumento legittimo dello Stato, affinché perseguisse i propri obiettivi.

Con l'insorgere dello stato di guerra, si ottiene come naturale conse-guenza la legittimazione eccezionale dell'uso della violenza, non per-messa in tempo di pace.

Fin dall'antichità vige quindi la preoccupazione di imporre limiti da ri-spettare durante la conduzione dei conflitti, per evitare gli abusi. Storicamente, le prime regole rilevanti a tal proposito sono state quelle provenienti dalla tradizione epico–religiosa.

A titolo esemplificativo e a sostegno di quanto riportato, si possono ri-cordare i divieti riportati nell'Odissea, come quelli di profanare templi 29 Cfr. A. Cassese, Diritto internazionale, (a cura di) P. Gaeta, Bologna, il Mulino,

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e sacerdoti, oppure usare frecce avvelenate, pena la collera degli dei30

L'Odissea, che ovviamente non è una fonte giuridica vincolante, rap-presenta il contesto culturale e storico in cui si inseriva e raprap-presenta perciò quel che significativamente veniva avvertito come doveroso. Sempre muovendoci tra fonti extra giuridiche, ma connotate da una loro intrinseca rilevanza, nell'Antico Testamento si vieta l' assedio del-le città senza prima offrire al nemico la possibilità di arrendersi.

Ai prigionieri di guerra si deve restituire la libertà alla fine del conflit-to e ad ogni modo non si possono uccidere donne e bambini31

.

Queste prerogative non sono rintracciabili solo in ambienti di cultura classica o cristiana, basti ricordare gli ordini del Califfo Abu Bakr, pri-mo successore di Maometto, che nel VII sec. d. C. imponeva di rispar-miare in guerra anche gli anziani.

Più precisamente, le istruzioni a lui riconducibili durante la prima spe-dizione siriana sarebbero:

«Stop, O people, that I may give you ten ru-les to keep by hearth! Do not commit trea-chery, nor depart from the right path. You must not mutilate, neither kill a child or aged man or woman. Do not destroy a pal-m-tree, nor burn it with fire and do not cut any fruitful tree. You must not slay any of

30 Omero, L' Odissea, (traduzione di) G. Aurelio Privitera, Milano, Mondadori, 1981, cit. Libro I, versi 260 – 264: «Andò anche lì Odisseo con la nave veloce / in cerca di veleno omicida per averne / da ungere le frecce di bronzo: ma quello non glielo / diede perché temeva gli Dei che vivono eterni».

31 Deuteronomio, versione di M. Laconi, Milano, Edizioni San Paolo, cit. 20: «10.Quando ti avvicinerai a una città per attaccarla, le proporrai la pace. 11.Se accetta la pace e ti aprirà le porte, allora tutto il popolo che vi si trova lavorerà per te e ti servirà. 12.Se invece non accetta la pace con te e ti farà guerra, la strin-gerai d' assedio, 13.e il Signore tuo Dio la metterà nelle tue mani. Passerai tutti i maschi a fil di spada, 14.mentre le donne, i bambini, il bestiame e quanto ci sarà nella città, tutte le sue spoglie, lo catturerai. Mangerai delle spoglie dei tuoi ne-mici che il Signore tuo Dio ti avrà concesso. 15.Così farai a tutte le città molto lontane da te, quelle che non sono tra le città di queste nazioni.»

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the flock or the herds or the camels, save for your subsistence. You are likely to pass by people who have devoted their lives to monastic services; leave them to that to which they have devoted their lives. You are likely, likewise, to find people who will pre-sent to you meals of many kinds. You may eat; but do not forget to mention the name of Allah»32

.

Altro esempio orientale è dato dal poema epico indiano Mahabharata. Datato tra il 200 a.C e il 200 d.C, le tutele in ambito bellico vengono qui estese nei confronti dei malati, sia fisici che mentali33.

Significativo in questo frangente risulta il caso di Peter von Hagenba-ch, comandante del Duca di Borgogna “il Temerario”, che nel 1474 viene processato e condannato a morte.

La questione desta interesse sotto un duplice profilo, poiché da un lato il processo si tenne davanti ad un Tribunale istituito ad hoc dalla coali-zione alleata vincitrice, guidata dall'Arciduca d' Austria.

D' altro canto, l'accusa sosteneva la commissione di crimini, contrari alle “ leggi di Dio e degli uomini”34

.

Quindi anche durante la seconda metà del quindicesimo secolo si con-tinuano ad osservare le prescrizioni imposte tradizionalmente, che ad-dirittura possono portare all'incriminazione del soggetto che le com-pie.

A seguito della guerra dei trent' anni, la situazione muta, perché

l'av-32 Tabari, Tarikh, I, 1850, in M. Khadduri, The Islamic Law of Nations. Shaybani' s

Siyar, Baltimora, Johns Hopkins University Press, 2001, p. 102.

33 Cfr. L.C. Green, The Contemporary Law of Armed Conflict, 2°ed., Manchester, Manchester University Press, 2000, p. 21.

34 Cfr. E. Greppi, I crimini dell'individuo nel diritto internazionale, Torino, UTET, 2012, p.p. 3-5.

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vento dello stato nazionale ha proiettato la guerra come fenomeno uni-camente interstatale.

Se protagonisti del conflitto sono gli stati, allora ne discende che gli individui solo per caso sono nemici, poiché difensori della patria, in veste di soldati35

.

Perciò, coloro che non partecipano attivamente al conflitto, devono es-sere risparmiati, a prescindere dalle classiche tutele consuetudinarie. Questo rappresenta il punto di svolta, che conduce nel corso del XIX secolo alla redazione di codici militari nazionali, tra i quali il più cele-bre è sicuramente il cosiddetto Lieber Code (1863).

Il manuale, che l' esercito americano adotta come vincolante durante la guerra civile (1861 – 1865), indica non solo come trattare i prigionieri di guerra, ma vieta espressamente di colpire come obiettivi gli ospeda-li e i beni culturaospeda-li.

Anche sul piano internazionale si evidenzia una tensione volta alla co-dificazione del diritto bellico, che culmina nel corpus di norme sostan-ziali denominato “diritto dell' Aia” e “diritto di Ginevra”.

Riportando la distinzione tradizionale, il diritto dell' Aia, ossia i Rego-lamenti del 1899 e del 1907, si occupa della disciplina dei metodi am-messi durante le operazioni militari.

Il diritto di Ginevra, che invece si compone delle quattro Convenzioni del 1949 e dei due Protocolli aggiuntivi del 1977, tutela gli individui che non partecipano alle ostilità.

Integrandosi a vicenda, ad oggi tale distinzione non risulta più così netta ed anzi le tutele si arricchiscono di nuove previsioni, grazie al contributo fornito dalle numerose convenzioni adottate dopo la secon-da guerra mondiale.

Tra queste rileva la Convention for the Protection of Cultural Property

in the Event of an Armed Conflict (1954), che tra i beni culturali

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tetti cita anche quelli di interesse religioso36

.

La disciplina sopra illustrata getta le fondamenta dell'odierno diritto

internazionale umanitario, branca del diritto internazionale che si oc-cupa della disciplina delle condotte durante le ostilità.

Alla luce del percorso intrapreso, i crimini di guerra possono esser perciò definiti come grave violazione del diritto internazionale umani-tario, da cui deriva una responsabilità penale del trasgressore.

Considerato in quest'ottica, il diritto internazionale penale si prefigge come obiettivo non solo la prevenzione, ma anche la punizione delle infrazioni al diritto internazionale umanitario.

I crimini contro l'umanità sono stati qualificati giuridicamente solo di recente.

Ciò tuttavia non equivale ad una scarsa sensibilità o ad una mancanza d' interesse per l' argomento.

Semplicemente, fino al XX secolo la comunità internazionale non ha raggiunto un grado di maturità tale da consentirne una definizione esauriente.

Non a caso, un' autorevole dottrina37

ritiene opportuno mutuare molti concetti propri dei crimini contro l' umanità dal diritto internazionale dei diritti umani, una branca del diritto concepita per offrire tutela pri-maria della comunità internazionale all'essere umano in quanto tale. Sotto questo profilo, punto di convergenza tra crimini contro l'umanità e il diritto internazionale dei diritti umani è rappresentato dalla dignità umana, a sua volta affermata come principio fondamentale all'interno del Preambolo della Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo (1948)38

, e di conseguenza assunto come cardine di un impianto

assi-36 V. art. 1 della Convention for the Protection of Cultural Property in the Event of

an Armed Conflict

37 Cfr. A. Cassese, Lineamenti di diritto internazionale penale. vol.1.Diritto

sostan-ziale, (a cura di) S. Cannata, Bologna, il Mulino, 2005, p. 80.

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milabile ad una religione laica39

, fondata su alti principi come

egua-glianza e fratellanza (art. 1)40

Si tratta di ovvi riferimenti ad un' etica che, a partire dal secondo do-poguerra, promuove le relazioni internazionali come reazione alle sof-ferenze patite dall'umanità intera.

Come si vede, ancora una volta appare evidente un parallelismo coi valori religiosi universalmente riconosciuti come tali.

Non solo in area cristiana, ma anche in Estremo Oriente dove Confu-cio41

inaugurò durante il VI sec. a. C. una nuova dottrina42

imperniata sulla riaffermazione di valori (lealtà, onore, rispetto...) di cui era porta-trice la famiglia regnante Zhou43

.

Tra gli insegnamenti etici che si riconducono al maestro cinese vi è il

ren, assimilabile alla massima per cui « Quel che non voglio che gli al-tri facciano a me, io non voglio farlo agli alal-tri »44.

Non sfugge a proposito l'esatta corrispondenza in chiave positiva che si rinviene nel Vangelo secondo Matteo (7,12) che recita « Quanto dun-que desiderate che gli uomini vi facciano, fatelo anche voi ad essi.

dicembre 1948 recita: «Whereas recognition of the inherent dignity and of the

equal and inalienable rights of all members of the human family is the founda-tion of freedom, justice and peace in the world».

39 S. Prisco, Le radici religiose dei diritti umani e i problemi attuali, in Stato,

Chie-se e pluralismo confessionale, Rivista telematica (www.statoechiese.it), gennaio 2011, cit. p. 10.

40 Il testo recita: «All human beings are born free and equal in dignity and rights.

They are endowed with reason and conscience and should act towards one ano-ther in a spirit of broano-therhood».

41 Nome reso in latino di Kong fu zi, ossia Maestro Kong (551-479 a. C).

42 Non vi è uniformità di pensiero nel ritenere il confucianesimo alla stregua di una religione. Tuttavia nel presente elaborato si sceglie di considerarlo tale, affinché si travalichi la concezione prettamente occidentale, fondata su criteri propri della tradizione giudaico-cristiana. Infatti, come affermò lo storico Sima Qian, « […] Kongzi, in vesti di cotone, passate dieci e più generazioni è ancora onorato dagli studiosi. Dall'imperatore ai re ai vassalli, in Cina chi studia le sei arti si inchina al Maestro. Possiamo chiamarlo il Santo». Cit. Confucio, I Dialoghi. Introduzione,

traduzione e note, di E. Masi, Milano, Opportunity Books, 1996, p. 22.

43 Cfr. J.H. Berthrong, E.N. Berthrong, Confucianesimo. Una introduzione, (trad. di) M. Ghilardi, Roma, Fazi editore, 2004, p. 5.

44 Confucio, I Dialoghi. Introduzione, traduzione e note, di E. Masi, Milano, Op-portunity Books, 1996, cit. p. 39.

(19)

Questa è infatti la legge e i profeti»45

.

Da quanto finora esposto è possibile dedurre che anche tradizioni reli-giose apparentemente lontane, così come le dichiarazioni in tema di diritti umani, possiedono punti in comune.

Difatti, queste esperienze sorgono in contesti contraddistinti da un' evidente instabilità, che sia essa morale, politica o spirituale.

Allo stesso tempo, esse intendono offrire strumenti per ripristinare l'or-dine sulla base di un denominatore comune che è la compassione46

. Tale concetto appare un punto di svolta, poiché la propensione a con-dividere uno stesso sentimento permette di ottenere una migliore com-prensione reciproca, anche in situazioni conflittuali, da cui emergono profili di uguaglianza tra le persone, dal momento che tutte possiedono pari dignità, partecipando così ad una vocazione universale.

Quanto affermato vale tanto in ambito religioso quanto giuridico, con-siderato che i diritti umani si fondano sulle medesime premesse47.

La conferma proviene dai primi documenti moderni, che sono la Di-chiarazione dei Diritti della Virginia (1776), riproposta in larga parte nella dichiarazione d' indipendenza degli Stati Uniti d' America48

, e la Dichiarazione dei Diritti dell'Uomo e del Cittadino (1789), sancita a seguito della Rivoluzione francese49

.

La locuzione crimini contro l'umanità viene a sua volta proposta fre-quentemente nel linguaggio politico:basti ricordare l'accusa mossa da

45 Cfr. P.F. Fumagalli, Appunti di cultura cinese, Milano, EDUCatt, 2013, p. 14. 46 Termine da intendersi nel suo significato etimologico. Dal latino cŏmpati “patire

insieme con”, ossia partecipare alle sofferenze altrui. Cfr. N. Zingarelli, Il nuovo

Zingarelli. Vocabolario della lingua italiana, 11° ed., Bologna, Zanichelli, 1984, p. 410.

47 Cfr. B. de Gaay Fortman, M. Salih, Religione e diritti umani: storia e teoria, in

Daimon. Annuario di diritto comparato delle religioni.7/2007, Bologna, il Muli-no, 2008, p.p. 21-48.

48 Il riferimento occorre laddove si afferma: «We hold these Truths to be self-evi-dent, that all Men are created equal, that they are endowed by their Creator with certain unalienable Rights, that among these are Life, Liberty, and the pursuit of Happiness».

49 Per un excursus storico più approfondito v. G. Giliberti, Introduzione storica ai

(20)

M. de Robespierre (1758-1794) al re Luigi XVI davanti alla Conven-zione Nazionale nel 1792, oppure il caso di G.W. Williams che, resosi conto delle atrocità avvenute in Congo, indica re Leopoldo II del Bel-gio come autore di crimini contro l'umanità (1890)50

.

Nel diritto internazionale questa espressione si riscontra per la prima volta in relazione allo sterminio della minoranza armena non musul-mana nell'Impero ottomano.

La comunità internazionale reagì a questo episodio con la Joint

Decla-ration of France, Great Britain and Russia (1915), che indicava come personalmente responsabili per il massacro i membri del governo turco coinvolti.

Particolarmente significativa appare la formulazione originaria del do-cumento, che si riferisce a crimini contro la cristianità.

Per ovvie ragioni di opportunità politica, inerenti le colonie detenute da Francia e Regno Unito con popolazioni di fede non cristiana51, si è

poi preferito mutare il termine in umanità.

La portata innovativa di questo documento viene sottovalutata, poiché la comunità internazionale negli anni successivi ha omesso i necessari riferimenti per una tutela adeguata contro simili massacri.

L'assenza all'epoca di un corpus giuridico di leggi o principi impediva di determinare nello specifico cosa si intendesse per crimini contro l'u-manità.

La specificazione di questi aspetti avviene solo successivamente, attra-verso l'apporto fornito dalla giurisprudenza delle Corti penali interna-zionali, che ne individua tratti peculiari sufficientemente chiari, che conducono finalmente ad una definizione.

Oggi crimini contro l' umanità avvengono laddove si realizzino gravi

50 Cfr. W. A. Schabas, Genocide in International Law: The Crimes of Crimes, Cam-bridge, Cambridge University Press, 2003, p. 17.

51 Cfr. A. Beylerian, Les Grandes Puissances, l'Empire Ottomane et les Arméniens

dans les archives françaises (1914-1918). Recueil de documents, Parigi, Cedex, 1983, p. 26 (doc. n. 34).

(21)

lesioni della dignità umana, perpetrate nell'ambito di una prassi estesa o sistematica e quindi condannate a prescindere che si verifichino in tempo di pace o di guerra52

.

Il crimine di genocidio si manifesta a sua volta in modo evidente e in-delebile nel corso del XX secolo.

I livelli di depravazione a cui giunge il genere umano compiendo tali misfatti sono percepibili già nelle nuove modalità di conduzione del conflitto occorse nella Prima guerra mondiale.

Diversamente dal passato, l'obiettivo che gli stati contrapposti si pre-figgono è l'egemonia totale pressoché illimitata.

Per tale ragione, né si raggiungono compromessi per la tregua, né si ri-sparmiano risorse da impiegare, determinandosi in questo modo la ro-vina sia per vincitori che per i vinti.

A ciò si aggiunga che la democratizzazione della guerra, ossia la tra-sformazione dei conflitti generali in “guerre di popolo”, conduce ad un mutamento di prospettiva.

A parere del noto storico E.J. Hobsbawm questo avviene:

«[...] sia perché i civili e la vita civile

di-venta[ro]no obiettivi diretti e talvolta prin-cipali della strategia militare, sia perché nelle guerre democratiche, così come nella politica democratica, gli avversari sono na-turalmente demonizzati allo scopo di ren-derli odiosi o almeno disprezzabili.[...] Al-tra ragione [fu] la nuova conduzione im-personale della guerra, in base alla quale uccidere e ferire diventa[va]no conseguen-ze remote del premere un pulsante o del

52 Cfr. A. Cassese, Lineamenti di diritto internazionale penale. vol.1.Diritto

(22)

muovere una leva»53

.

Queste considerazioni spingono verso la costituzione di organi inter-nazionali in grado di assicurare alla giustizia i colpevoli e offrire tutela specifica alle minoranze.

Così, a conclusione della Grande Guerra, la comunità internazionale adotta provvedimenti con l'intento di soddisfare le necessità emerse. La Conferenza di Parigi (1919-1920) definisce le condizioni di pace tra gli stati vincitori, ossia Stati Uniti, Francia, Inghilterra e Italia. Al suo interno, viene espressa la volontà di perseguire personalmente gli autori delle violations of the laws and customs of war and of the

laws of humanity, tanto che viene disposta un' apposita commissione54,

a cui tuttavia non segue un' attività giurisdizionale concreta.

Il Trattato di Versailles (1919) stabilisce i rapporti con la Germania e in questo contesto gli stati vincitori affermano ciò che è destinato a se-gnare in modo epocale il diritto internazionale.

L'articolo 227 predispone l'istituzione di un tribunale speciale per giu-dicare il Kaiser Guglielmo II (1859-1941), accusato della violazione della “morale internazionale” e della “sacrosanta autorità dei trattati”. Sebbene il processo non venga celebrato, il caso rappresenta un impor-tante precedente per la futura istituzione di un tribunale internazionale per crimini commessi da individui, oltre ad evidenziare ancora una volta il legame etico che fonda il diritto internazionale, rappresentato anche dal vocabolario fortemente influenzato da sfumature religiose (“morale”, “sacrosanta autorità”).

Il Trattato di Sèvres (1920) si occupa della vicenda turca e sancisce il definitivo smembramento dell' Impero Ottomano, in questa occasione, gli Alleati tentano invano di sottoporre ad una corte internazionale gli 53 E.J. Hobsbawm, Il secolo breve. 1914/1991, (trad. di) B. Lotti, Milano, RCS

Li-bri, 1997, cit. p. 66.

54 Si tratta della Commission on Responsibility of Authors of the War and on

(23)

autori del cd. primo genocidio moderno55

di cui è vittima la minoranza armena.

La responsabilità della tragedia è da attribuire prevalentemente al mo-vimento dei Giovani Turchi, che nel 1908 giunse al potere col partito denominato “Comitato Unione e Progresso”.

L'ideologia politica sottesa mira ad unificare culturalmente e politica-mente tutti i popoli turchi, ungheresi e mongoli (panturanesimo) e per raggiungere tale risultato vengono strumentalizzate motivazioni etero-genee.

A tal proposito si insiste sia sulla teoria prettamente occidentale del darwinismo sociale56

, che avvalla argomentazioni razziste, sia su ra-gioni prettamente religiose, pur essendo il partito essenzialmente ateo o comunque agnostico57.

La religione islamica, che si manifesta comunque in ambito pubblico e sociale, viene così assunta come propria caratteristica nazionale, in contrapposizione a quella delle altre popolazioni.

Con tali moventi, tra il 1915 e il 1916 si susseguono arresti, confische di beni e deportazioni degli armeni, costretti in aggiunta a conversioni forzate.

In reazione a quanto accaduto, il Trattato di Sèvres riconosce diritti e tutele alle diverse minoranze presenti sul territorio.

Gli articoli 142 e 144 sanciscono -il primo- l' inefficacia delle conver-sioni non libere , mentre il secondo promuove l'adozione di strumenti per garantire la vita economica, sociale, culturale e religiosa delle mi-noranze58

.

Queste iniziative seppur apprezzabili rimangono però sulla carta, poi-55 E.J. Hobsbawm, Il secolo breve. 1914/1991, ( trad. di) B. Lotti, Milano, RCS

Li-bri, 1997, cit. p. 67.

56 Cfr. B. Bruneteau, Il secolo dei genocidi, Bologna, il Mulino, 2006, p.p. 80-81. 57 V.N. Dadrian, Storia del genocidio armeno. Conflitti nazionali dai Balcani al

Caucaso, Milano, Guerini e Associati, 2003, cit. p.p. 39-40.

58 Cfr. C.D. Leotta, Il genocidio nel diritto penale internazionale. Dagli scritti di

(24)

ché il Trattato non viene ratificato, ma anzi sostituito dal Trattato di Losanna (1923), che sostanzialmente vanifica ogni progresso svolto, dal momento che mediante un' amnistia generale rinuncia a perseguire i crimini commessi dal 1 agosto 1914 al 20 novembre 192259

.

L'esame fin qui svolto mostra una discrasia tra quanto enunciato nei trattati e la prassi effettiva60

.

Questo aspetto contribuisce al ripresentarsi delle stesse problematiche negli anni successivi.

Il pensiero corre alla politica nazionalsocialista tedesca che, sotto la guida di A. Hitler (1889-1945), tra il 1933 e il 1945 realizza un piano sistematico di persecuzione e sterminio di determinate fasce di popola-zione.

In particolare, con l'avvento della seconda Guerra mondiale sono col-pite in modo massiccio tre categorie di soggetti: gli ebrei, gli zingari e i portatori di handicap, considerate minacce all'integrità razziale tede-sca.

Si inaugura così un vero e proprio processo di purificazione e preser-vazione dell'etnia ariana, con lo scopo di instaurare una società biolo-gicamente perfetta.

Secondo questa visione, non solo sussisterebbero razze geneticamente inferiori, ma addirittura all'interno dello stesso gruppo dominante, si dovrebbero emarginare i soggetti nocivi o non perfetti61

.

Tra gli strumenti discriminatori impiegati inizialmente si ricordano la legge per la protezione del sangue e dell'onore dei tedeschi, che vieta le relazioni tra ariani e non62

, sia la legge per la prevenzione di proge-59 Cfr. W.A. Schabas, Genocide in International Law: The Crimes of Crimes,

Cam-bridge, Cambridge University Press, 2003, p. 22.

60 Oltre ai documenti sopra indicati, si ricomprende anche la Convenzione per la creazione di una corte penale internazionale, stipulata nel 1937. Il progetto non si conclude con l'istituzione della Corte per la mancanza di ratifiche necessarie da parte degli Stati.

61 Basti ricordare gli agghiaccianti esperimenti eugenetici condotti, tra gli altri dal dottor Brandt (1904-1948).

(25)

nie affetta da malattie ereditarie63

.

Tali misure sfociano infine in uno sterminio tanto vasto quanto attenta-mente pianificato, che gli intellettuali dell'epoca non sono potuti rima-nere indifferenti.

Nello specifico, la sensibilità dimostrata dall'avvocato polacco R. Le-mkin64

(1900-1959) rappresenta un passaggio fondamentale per il di-ritto internazionale penale odierno.

All'autore viene attribuita la paternità del termine genocidio, col quale egli indica la distruzione di una nazione o di un gruppo etnico.

Più in particolare, Lemkin dichiara:

«This new word, coined by the author to

denote an old practice in its modern deve-lopment, is made from the ancient Greek word genos (race, tribe) and the Latin cide (killing), thus corresponding in its for-mation to such words as tyrannicide, homo-cide, infanticide[...]. Generally speaking, genocide does not necessarily mean the im-mediate destruction of a nation, except when accomplished by mass killings of all members of a nation. It is intended rather to signify a coordinated plan of different actions aiming at the destruction of essen-tial foundations of the life of national groups, with the aim of annihilating the

di tipo penale. Cfr R. Hilberg, La distruzione degli ebrei in Europa, Torino, Ei-naudi, 1999, p.165.

63 Si introduce in questo modo la pratica della sterilizzazione forzata.

64 V. Axis Rule in Occupied Europe: Laws of Occupation, Analysis of Government,

Proposals for Redress, Washington, Carnegie Endocument for International Pea-ce, 1944.

(26)

groups themselves. The objectives of such a plan would be disintegration of the politi-cal and social institutions, of culture, lan-guage, national feelings, religion, and the economic existence of national groups, and the destruction of the personal security, li-berty, health, dignity, and eventhe lives of the individuals belonging to such groups. Genocide is directed against the national group as an entity, and the actions involved are directed against individuals, not in their individual capacity, but as members of the national group»65

.

A ciò si aggiunga che, secondo il giurista, l'attacco fisico ad un gruppo comporta inevitabilmente un pregiudizio per la sua identità culturale. Per tale ragione, si rende doveroso configurare un genocidio culturale laddove si realizzi anche quello di tipo fisico, poiché le diversità rap-presentano una ricchezza per l'intero genere umano.

L'autore giunge a tali conclusioni alla luce delle vicende storiche a cui ha personalmente assistito e osservando l'analiticità dei piani tedeschi per l'egemonia della propria razza.

Lemkin riesce così ad individuare diverse tecniche di genocidio adot-tate nei paesi occupati a seconda che il gruppo destinatario sia più o meno “germanizzabile”66

.

La tecnica politica mira a favorire istituzioni locali nazionalsocialiste , mentre quella sociale tende ad eliminare le autori-tà, anche religiose, per impedire l'insorgere di movimenti di opposizio-65 Ivi cit. p. 79.

66 Mentre gli ebrei sono considerati del tutto incompatibili, i norvegesi , ad esem-pio, si ritengono più affini per legami di sangue. Così questi ultimi vengono sot-toposti a misure meno drastiche.

(27)

ne.

Le tecniche economiche e fisiche invece intendono pregiudicare la vita materiale dei membri del gruppo, privandoli dei necessari mezzi di sopravvivenza67

.

La tecnica biologica è volta al condizionamento della composizione della popolazione, inducendo i gruppi-vittima a non procreare (steri-lizzazione forzata) e gli ariani ad incrementare le nascite, con appositi sussidi.

Le cultural techniques vengono impiegate nell'ambito formativo, di-sincentivando l'insegnamento delle materie umanistiche a favore di quelle tecniche.

Ciò denota il timore che il regime sviluppa verso la formazione di co-scienze critiche e libere dall'ideologia, tanto che si limitano pure gli in-segnamenti confessionali, mediante le religious techniques.

Queste, assieme alle tecniche morali, indeboliscono il senso etico del gruppo per cui i membri del gruppo non possiedono più il discerni-mento necessario per poter reagire.

Tutte queste osservazioni costituiscono terreno fertile per la formazio-ne della fattispecie in seno alla comunità internazionale, che troverà applicazione concreta con la giurisprudenza dei tribunali penali inter-nazionali.

(28)

1.3 Tribunali penali internazionali

Il XX sec. porta una svolta fondamentale per il diritto internazionale penale.

Il manifestarsi di eventi di eccezionale rilevanza, rappresentati dai due conflitti mondiali, induce a profonde riflessioni e critiche circa il modo di configurare sia le relazioni tra gli Stati, sia i crimini internazionali anche e soprattutto riguardo il trattamento degli autori di tali atrocità. A tal proposito, la comunità internazionale intraprende un duplice per-corso, al fine di scongiurare ulteriori nefandezze.

In primis, gli stati esternano la volontà di adunarsi in un'organizzazio-ne internazionale con l'obiettivo di manteun'organizzazio-nere la pace.

Questo intento viene manifestato per la prima volta nel messaggio pro-nunciato l' 8 gennaio 1918 dal presidente americano W. Wilson (1856-1924), rivolto al Congresso degli Stati Uniti, circa il nuovo ordine mondiale seguente la Prima guerra mondiale.

Il programma di pace, suddiviso nei celebri 14 punti, propone dappri-ma il rispetto della nazionalità e dell'autodeterminazione dei popoli, per stabilire il nuovo assetto della geografia politica degli stati68

. Infine, il 14° punto conclude:

«A general association of nations must be

formed under specific covenants for the purpose of affording mutual guarantees of political independence and territorial inte-grity to great and small states alike»69

.

68 W. Wilson ancora gli ideali di democrazia e libertà al rispetto di esperienze cultu-rali uniche, appartenenti a ciascun popolo del mondo. Per ulteriori approfondi-menti sull'ideologia alla base dell'azione politica del presidente americano v. E. Capozzi, Occidente e orizzonte democratico: Woodrrow Wilson dall'ideologia

al-l'azione politica, in Alle origini del moderno Occidente tra XIX e XX secolo, (a cura di) F. Cammarano, Soveria Mannelli, Rubettino, 2003, p.p. 19-35.

69 President Woodrow Wilson' s Fourteen Points, in The Avalon Project. Documents

in Law, History and Diplomacy, Lillian Goldman Law Library, Yale Law School, http://avalon.law.yale.edu/20th_century/wilson14.asp.

(29)

Sostanzialmente si stimola la formazione di un'istituzione aperta alla partecipazione di tutti gli stati, nella quale essi assumono egual rilievo. Accogliendo tali istanze, alla fine della Grande Guerra viene istituita col Trattato di Versailles (1919) la Società delle Nazioni, che rappre-senta

«[...]la prima organizzazione internaziona-le a vocazione universainternaziona-le, cui gli Stati membri attribui[rono] competenze generali (ossia, promuovere la cooperazione inter-nazionale, la pace e la sicurezza attraverso il disarmo, la soluzione pacifica delle con-troversie, la tutela della sovranità ed indi-pendenza dei membri e le sanzioni: v. artt. 8 e 10-11 del Patto della SdN )»70

.

A causa delle sue debolezze intrinseche, quali la necessaria unanimità per adottare le decisioni, la sola limitazione dell'uso della forza71

e la mancanza di sostegno politico da parte di stati fondamentali sullo scacchiere internazionale72

, la Società delle Nazioni si rivela un falli-mento.

Ne risulta prova evidente l'incapacità dimostrata nella gestione della crisi internazionale, che degenera poi nella Seconda guerra mondiale, alla fine della quale la Società delle Nazioni viene ufficialmente ab-bandonata.

70 A. Cassese, Diritto internazionale, (a cura di) P. Gaeta, Bologna, il Mulino, 2006, cit. p. 145.

71 Il Patto della Società delle Nazioni impone soltanto l'osservanza di un periodo di tempo dalla durata di tre mesi (cd. cooling off), decorso il quale gli stati possono legittimamente muovere guerra.

72 Nonostante il prezioso contributo fornito, gli Stati Uniti non hanno mai parteci-pato alla nuova organizzazione. Inoltre, nel 1933 Germania e Giappone escono dalla Società delle Nazioni, mentre nel 1939 l' Unione Sovietica ne viene espulsa.

(30)

Non per questo gli stati rinunciano al perseguimento della pace e della sicurezza internazionale, che anzi vengono fissati come obiettivi di una nuova organizzazione, quella delle Nazioni Unite73

(ONU), prose-cuzione ideale della previgente Società delle Nazioni.

L' ONU si distingue per l'affermazione di un principio innovativo con-tenuto nell'art. 2, paragrafo 4 Carta NU, in cui viene sancito il divieto assoluto di minaccia o uso della forza.

Infatti, nel caso in cui si accerti una minaccia alla pace, la sua viola-zione o un atto di aggressione74

, il Consiglio di Sicurezza75

ai sensi dell'art. 39 Carta NU può adottare raccomandazioni o misure ex artt. 41 e 42 Carta NU.

L' articolo 41 Carta NU predispone misure di carattere sanzionatorio, quindi non implicanti l'uso della forza, che non mirano a punire, bensì a far desistere dal comportamento offensivo lo stato coinvolto.

Affinché si ottenga tale risultato, si necessita della cooperazione degli stati membri della comunità internazionale, ai quali possono esser di-rette sia semplici raccomandazioni non vincolanti, che vere e propri decisioni per loro obbligatorie.

73 La Carta delle Nazioni Unite viene elaborata durante la Conferenza di S. Franci-sco, a cui partecipano50 stati tra aprile e giugno 1945.

74 Si tratta di situazioni in cui si avverte un crescendo di gravità, poiché la minaccia alla pace spesso conduce ad una violazione della pace, che può manifestarsi me-diante atti di aggressione. La minaccia alla pace consiste generalmente in un comportamento statale suscettibile di creare un conflitto armato internazionale, in quanto violazione dell' art. 2, par. 4 Carta NU. A questa previsione si aggiungono altri casi in cui non necessariamente viene impiegata la violenza bellica, ad esem-pio massiccio afflusso di rifugiati, proliferazione di armi di distruzione di massa, atti di terrorismo e violazioni su vasta scala dei diritti umani. Gli atti di

aggres-sione sono una tipologia di violazione della pace, che secondo la risoluzione del-l'Assemblea Generale 3314/'74 possono manifestarsi con bombardamenti, bloc-chi navali, eccetera, non costituendo questo un elenco tassativo. Nella prassi è raro che il Consiglio di Sicurezza specifichi quale categoria si si accertata, rife-rendosi più in generale al capitolo VII.

75 Organo dell'ONU a composizione ristretta, formato da 15 stati membri, di cui 5 permanenti (ossia S. Uniti, Gran Bretagna, Francia, Cina, Russia) e 10 non, eletti ogni due anni dall'Assemblea Generale a maggioranza qualificata. Il Consiglio di Sicurezza gode di ampia discrezionalità nel valutare le situazioni ex art. 39 Carta NU, ma l'esercizio dei propri poteri viene subordinato all'accordo proveniente dai membri permanenti, dotati di diritto di veto.

(31)

Gli strumenti di cui si può avvalere il Consiglio di Sicurezza non sono tassativamente predisposti nella lettera della norma, che indicativa-mente suggerisce «complete or partial interruption of economic

rela-tions and of rail, sea, air, postal, telegraphic, radio, and other means of communication, and the severance of diplomatic relations »76

. L'articolo 42 Carta NU è dedicato alle misure implicanti l'uso della forza, laddove gli strumenti ex art. 41 Carta NU risultino inadeguati. Il Consiglio di Sicurezza dovrebbe così occuparsi della gestione cen-tralizzata della forza, mediante la procedura disposta dall'art. 43 Carta NU, che dispone la costituzione di un esercito, nella realtà mai forma-tosi.

Stando così le cose, il meccanismo derivante dal combinato disposto degli artt. 42 e 43 Carta NU non è mai stato attivato, tuttavia si sono sviluppati metodi alternativi, rappresentati dalle operazioni di peace-keeping77 e dalle deleghe del Consiglio di Sicurezza rivolte agli stati78.

In secondo luogo, si abbandona l'atteggiamento consuetudinario, tipi-camente ottocentesco, per cui la fine delle ostilità implica l'impunità per gli eventuali autori di crimini, in quanto destinatari di un'amnistia generale implicita79

.

Si sviluppa invece il principio opposto, con cui si intendono perseguire personalmente tutti coloro che si rendono colpevoli di gravi crimini. In virtù di tali orientamenti, le condotte recanti un grave ed evidente

76 Art. 41 Carta NU.

77 Si tratta di missioni non previste dalla Carta NU, perché sviluppatesi nella prassi. Le operazioni di peace-keeping sono gestite dal Segretario Generale delle NU e accanto ad esse si ricordano anche le operazioni di peace-enforcement e le opera-zioni di peace-building.

78 Tali deleghe rappresentano una deroga al capitolo VII della Carta NU, poiché esso prevede l'accentramento dell'uso della forza nelle mani del Consiglio di Si-curezza. Quest'ultimo, quando si trova davanti ad una crisi di ampia portata, che non ha la capacità di gestire, può autorizzare gli stati singolarmente o alcuni di essi uniti in coalizione (“coalitions of the willings”), ad usare legittimamente la forza. Gli stati delegati sono tenuti quindi ad inviare rapporti, sui quali il Consi-glio di Sicurezza esplica la propria funzione di vigilanza.

79 Cfr. R. Socini, voce Crimini e criminali di guerra, in Novissimo Digesto Italiano, (a cura di) A. Azara e E. Eula, vol. V, 3° ed., Torino, UTET, 1957, p.p. 5-9.

(32)

disvalore vengono progressivamente messe a fuoco, non potendo pre-scindere dall'esperienza appena trascorsa.

Nella prospettiva che si è tentato di offrire si inseriscono i primi espe-rimenti, diretti all'istituzione di un tribunale penale internazionale, che accerti le responsabilità di singoli individui.

Ai fini dell'indagine svolta in questa sede, risultano particolarmente si-gnificative le esperienze maturate con l'istituzione dei Tribunali di No-rimberga, Tokyo, ex Jugoslavia, Ruanda, fino a giungere alla Corte Pe-nale InternazioPe-nale.

L' Accordo di Londra è il documento stipulato l' 8 agosto 1945 con cui gli Alleati, ossia Stati uniti, Inghilterra, Francia e Russia, esprimono la volontà di istituire un processo internazionale contro i principali crimi-nali dell'Asse Europeo80.

Risulta quindi evidente fin dal principio che sottoposti a giudizio sa-ranno solo coloro che hanno perso la guerra81

, in virtù della resa incon-dizionata e dell'occupazione territoriale subite82

.

Chi invece la guerra l'ha vinta, non solo si occupa di formulare le ac-cuse, ma costituisce anche l'organo giudicante83

, competente ad accer-80 Si tratta di una soluzione non unanimemente condivisa, poiché la G. Bretagna, ad esempio, favorisce anzi un' esecuzione sommaria, in modo da evitare l'ulteriore diffusione della propaganda nazista. Al contrario, il presidente americano Truman ritiene necessario un equo processo, per ragioni di opportunità politica e civiltà giuridica. Cfr. S. Zappalà, La giustizia penale internazionale, Bologna, il Mulino, 2005, p.p. 49-50.

81 A tal proposito si parla di giustizia dei vincitori. Infatti l'incriminazione riguarda esclusivamente gli sconfitti e non gli Alleati, autori anch'essi di gravi episodi. Tra questi, basti il riferimento alle bombe atomiche sganciate sulle città giapponesi di Hiroshima e Nagasaki, durante l'agosto del 1945. Per una trattazione più analitica del''argomento, cfr. D. Zolo, La giustizia dei vincitori. Da Norimberga a

Bagh-dad, Bari, Laterza, 2012.

82 Cfr. M. Balboni, Da Norimberga alla Corte penale internazionale, in Crimini

in-ternazionali tra diritto e giustizia. Dai Tribunali Inin-ternazionali alle Commissioni Verità e Riconciliazione, (a cura di) G. Illuminati, L. Stortoni, M. Virgilio, Tori-no, Giappichelli, 2000, p. 5.

83 Le mozioni che nel corso del processo sostengono la violazione del principio di neutralità del giudice, vengono rigettate dal collegio giudicante, poiché esso

(33)

ritie-tare la sussistenza di crimini, che potrebbero non esser tali al momento della loro commissione84

.

Gli aspetti appena evidenziati, rivelano le debolezze intrinseche del-l'impianto creato col Patto di Londra, che purtuttavia non riescono ad eclissarne i meriti.

Infatti è mediante il Processo di Norimberga che si afferma il principio di responsabilità penale individuale per crimini internazionali, cristal-lizzandosi così per la prima volta l'essenza del diritto internazionale penale.

Precisando che la locuzione “Processo di Norimberga” rappresenta un fenomeno complesso, costituito da una pluralità di processi instaurati alla luce del patto di Londra, si scorge una suddivisione tra “processo principale” e “processi minori” di Norimberga.

Il processo principale (1945-1946) viene celebrato davanti ad un orga-no giurisdizionale internazionale, International Military Tribunal (IMT), instaurato con lo Statuto riportato a seguito dell' Accordo tra gli Alleati.

L' IMT è quindi formato da giudici rappresentanti tutte le parti firma-tarie85

, che si occupano di processare i major war criminals, individua-ne tali argomentazioni in contrasto con l'art. 3 della Carta di Londra: « Neither

the Tribunal, its members nor their alternates can be challenged by the prosecu-tion, or by the Defendants or their Counsel. Each Signatory may replace its members of the Tribunal or his alternate for reasons of health or for other good reasons, except that no replacement may take place during a Trial, other than by an alternate». Cfr. S. Mancini, Il principio di irretroattività. Aspetti sostanziali e

giurisdizionali, in Diritto penale internazionale, vol. 2. Studi, (a cura di) E. Mez-zetti, 2° ed., Torino, Giappichelli, 2010, p. 40.

84 Si tratterebbe di incriminazioni ex post facto, in violazione della massima nullum

crimen sine lege. Alle critiche sollevate durante il processo, il tribunale oppone la considerazione per cui il principio di irretroattività altro non sarebbe che un prin-cipio generale di giustizia. In quanto tale, non solo non sarebbe vincolante, ma l'irretroattività dovrebbe cedere il passo ad laddove generasse ingiustizia. Da ciò trae fondamento la cosiddetta “Formula Radbruch”, della quale si si può ottenere una cognizione più approfondita nella monografia di G. Vassalli, Formula di

Radbruch e diritto penale. Note sulla punizione dei “delitti di Stato” nella Ger-mania postnazista e nella GerGer-mania postcomunista, Milano, Giuffrè, 2001. 85 Il collegio giudicante è composto dal britannico G. Lawrence (1880-1971), lo

statunitense F. Biddle (1886-1968), il francese H. Donnedieu de Vabres (1880-1952) e il sovietico I. Nikicenko (1895-(1880-1952)

(34)

ti in 2486

gerarchi nazisti.

La sentenza a cui si giunge nell'ottobre del 1946 conclude il processo principale, dichiarando 3 assoluzioni, 7 condanne a pena detentiva e 12 condanne a morte per impiccagione87

.

I capi d'imputazione vengono formulati sulla base dell'art. 6, che inau-gura quella parte dello Statuto attinente la determinazione di giurisdi-zione, competenza e principi fondamentali del tribunale.

La lettera della norma recita:

«The Tribunal established by the Agree-ment referred to m Article 1 hereof for the trial and punishment of the major war cri-minals of the European Axis countries shall have the power to try and punish persons who, acting in the interests of the European Axis countries, whether as individuals or as members of organizations, committed any of the following crimes».

Da ciò si deduce che possono essere incriminati personalmente anche coloro che ricoprono alte cariche pubbliche, poiché la relativa immu-nità non può esser valutata come esimente di fronte alle atrocità com-86 Gli imputati sono: Martin Bormann (1900-1945), Karl Dönitz (1891-1980), Hans Frank (1900-1946), Wilhelm Frick (1877-1946), Hans Fritzsche (1900-1953), Funk Walter (1890-1960), Hermann Göring (1893-1946), Rudolf Heß (1894-1987), Alfred Jodl (1890-1946), Ernst Kaltenbrunner (1903-1946), Keitel Wi-lhelm (1882-1946), Gustav Krupp von Bohlen und Halbach (1870-1950), Robert Ley (1890-1945), Konstantin von Neurath (1873-1956), Franz von Papen (1879-1969), Erich Raeder (1876-1960), Joachim von Ribbentrop (1893-1946), Alfred Rosenberg (1893-1946), Fritz Sauckel (1894-1946), Hjalmar Schacht (1877-1970), Baldur von Schirach (1907-1981), Arthur Seyß-Inquart (1892-1946), Al-bert Speer (1905-1981), Julius Streicher (1885-1946).

87 Per il testo delle sentenze v. Judgement: Sentences, in The Avalon Project.

Docu-ments in Law, History and Diplomacy, Lillian Goldman Law Library, Yale Law School, http://avalon.law.yale.edu/imt/judsent.asp.

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piute.

In aggiunta, l'art. 8 St. IMT esclude espressamente che gli imputati possano invocare come scriminante il cosiddetto Führerprinzip, ossia l'esecuzione di ordini provenienti da un superiore gerarchico88

.

Dalla combinazione di questi due presupposti si ottiene l'imputabilità dei gerarchi nazisti per crimini contro la pace, crimini contro la guerra e crimini contro l'umanità, così come proposti nell' art. 6:

The following acts, or any of them, are

cri-mes coming within the jurisdiction of the Tribunal for which there shall be individual responsibility:

(a)Crimes against peace: namely, planning, preparation, initiation or waging of a war of aggression, or a war in violation of international treaties, agreements or assurances, or participation in a common plan or conspiracy for the accomplishment of any of the foregoing; (b)War crimes: namely, violations of the laws or customs of war. Such violations shall include, but not be limited to, murder, ill-treatment or deportation to slave labor or for any other purpose of civilian population of or in occupied territory, murder or ill-treatment of prisoners of war or persons on the seas, killing of hostages, plunder of public or private property, wanton destruction of cities, towns or villages, or devastation not justified by military necessity;

(c)Crimes against humanity: namely, murder, extermination, enslavement, deportation, and other inhumane acts committed against any civilian population, before or during the war; or persecutions

88 Cfr. S. Zappalà, La giustizia penale internazionale, Bologna, il Mulino, 2005, p. 52.

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