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L’equilibrio ambientale precario di São Tomé: il complesso legame tra gli abitanti e la foresta

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Academic year: 2021

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Corso di Laurea magistrale

in Antropologia culturale, etnologia, etnolinguistica

Tesi di Laurea

L’equilibrio ambientale precario di São Tomé:

il complesso legame tra gli abitanti e la foresta

Relatore

Ch. Prof. Francesco Vallerani

Correlatrici

Prof.ssa Donatella Schmidt

Prof.ssa Valentina Bonifacio

Laureand

a

Veronica Mazzucco

Matricola 853706

Anno Accademico

2018 / 2019

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Indice

Introduzione 1 Cap. 1 – L’uomo e la natura 8 - 1.1 Cenni di storia ambientale 8 - 1.2 Sostenibilità ambientale 13 - 1.3 Idea di natura e cultura ambientale 17 Cap. 2 – La Repubblica Democratica di São Tomé e Príncipe 21 - 2.1 Il contesto geografico 22 - 2.1.1 Il clima 23 - 2.1.2 L’ecosistema terrestre 24 - 2.2 La scoperta e il primo approccio con il territorio 28 - 2.3 Il contesto storico 30 - 2.3.1 La prima colonizzazione: il ciclo della canna da zucchero 31 - 2.3.2 La seconda colonizzazione: il ciclo del caffè e il ciclo del cacao 32 - 2.3.3 Il periodo post-coloniale 38 Cap. 3 – La foresta di São Tomé 42 - 3.1 La biodiversità della foresta di São Tomé 42 - 3.2 Conservazione della biodiversità locale 44 - 3.2.1 Leggi forestali ed enti governativi 46 - 3.2.2 Conservazione in situ: il Parco Nazionale Obô 49 - 3.2.3 Conservazione ex situ: il giardino botanico di Bom Sucesso 52 - 3.2.4 Cooperazione internazionale e aiuto delle ONG 53 - 3.3 Uso della biodiversità forestale 55 - 3.3.1 Le principali risorse della foresta: il cibo e il legname 55 - 3.3.2 Medicina tradizionale e magia 58 - 3.3.3 Turismo 61

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Cap. 4 – La relazione tra i Santomensi e la foresta 64 - 4.1 I problemi sociali alla base dei disastri ambientali 67 - 4.2 La deforestazione 70 - 4.2.1 La deforestazione illegale 71 - 4.2.2 La deforestazione agricola 79 - 4.3 L’inquinamento da rifiuti 86 - 4.4 La caccia agli uccelli endemici 97 Cap. 5 – Educazione ambientale: una possibile soluzione 104 - 5.1 L’educazione ambientale a São Tomé 106 - 5.2 I bambini come protagonisti attivi del cambiamento 111 - 5.3 Príncipe: un esempio da seguire 115 - 5.4 Trovare un’alternativa 116 Conclusione 120 Interviste 125 - Prima intervista 125 - Seconda intervista 128 - Terza intervista 137 - Quarta intervista 148 - Quinta intervista 152 - Sesta intervista 156 - Settima intervista 161 - Ottava intervista 170 - Nona intervista 179 - Decima intervista 183 Ringraziamenti 186 Bibliografia 188 Sitografia 194

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«Non c’è distinzione tra il destino della terra e il destino delle persone. Quando uno viene sottoposto a violenza, l’altro ne soffre» Wendell Berry (Gavazzi G. e Castelli de Sannazzaro S., 2019: XI) «[...] a Terra é um livro onde ficam registradas todas as pegadas do homem» (De Sousa Campos F., 2011: 63)

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Introduzione

Questa ricerca è germogliata nel mio cuore molto prima che il suo divenire si costruisse nella mia mente. È possibile che i suoi semi siano stati piantati alla prima lezione di portoghese che ho seguito all’inizio del mio percorso di studi universitari, o forse prima ancora, quando, alle superiori, il mio professore di italiano mi parlò per la prima volta di antropologia. Che sia sbocciata nella mia testa prima l’amore per il portoghese oppure per l’antropologia non ha rilevanza, l’importante è che, ad un certo punto della mia vita, queste due discipline si siano incontrate ed unite lungo il cammino. Le sfaccettature della società e dell’animo umano mi hanno sempre incuriosito. Scoprire che esiste una materia che studia cosa spinge l’essere umano a comportarsi in un certo modo, a pensare e a vedere il mondo in modo diverso rispetto ad altri suoi simili, mi ha subito convinta ad intraprendere questo percorso magistrale. Essermi poi resa conto che si intrecciasse così bene con le geografie dei paesaggi e dei popoli, altra mia profonda passione, ha arricchito ed ampliato il mio desiderio di conoscenza.

Questo studio, antropologico e geografico allo stesso tempo, racchiude in sé molte delle tematiche che mi hanno sempre affascinata in questi anni di studi universitari. La lingua portoghese e le diverse sfumature della sua cultura colonizzatrice, i viaggi di esplorazione d’oltremare, l’esplorazione di nuove terre, il contatto con la natura, i problemi ambientali odierni e la percezione individuale o comunitaria che i locali hanno di essi, i modi diversi di stare al mondo sono alcuni esempi. Ho avuto modo di conoscere São Tomé e Príncipe al secondo anno di corso di laurea triennale, quando in classe analizzavamo le diverse culture nate dalla colonizzazione portoghese. Di questa società mi ha subito affascinato il fatto di essere il risultato di un’unione di diversi popoli. Diversi in quanto culturalmente provenienti da differenti civiltà e in quanto originariamente appartenenti a classi sociali ben distinte, soprattutto in epoca coloniale. In questa terra, inizialmente disabitata, si sono intrecciati i destini di portoghesi, angolani, mozambicani, capoverdiani, cristiani, ebrei, nobili, schiavi, lavoratori occasionali, esploratori, scienziati, turisti ed altri che con questa classificazione superficiale non hanno proprio niente a che fare.

Tuttavia, l’aspetto che più di tutti mi ha incoraggiata ad intraprendere questa ricerca è stato che questo luogo così ricco di biodiversità e di storia, seppur piccolo e

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giovane, culturalmente parlando, sia anche così poco conosciuto e studiato. Io stessa, prima di iniziare a studiare il portoghese, non ne avevo mai sentito parlare. Scrivendo questa tesi di laurea, pertanto, spero di aver fatto emergere, per quanto poco, alcuni dei caratteri peculiari della cultura santomense, evidenziando inoltre i principali problemi ambientali causati dalla pressione umana che affliggono queste isole e le possibili soluzioni a riguardo.

In particolare, ho deciso di delimitare il mio caso studio all’isola di São Tomé perché ritengo sia più urgente lavorare sulla sua situazione ambientale, piuttosto che su quella di Príncipe, la quale è più autonoma e propensa ad impegnarsi per mantenere un livello di sostenibilità ambientale duraturo. Infine, ho scelto di concentrare la mia attenzione sulla situazione forestale perché, durante il mio primo viaggio nell’isola, ho notato da subito che la popolazione vive in totale sinergia con la foresta, creando con essa un rapporto di interdipendenza, che è, a mio parere, l’elemento che più la contraddistingue dalle altre culture a lei simili.

La mia ricerca sul campo è iniziata nel dicembre 2018, quando ho deciso di trascorrere due settimane a São Tomé e Príncipe. Questo primo viaggio è stato organizzato principalmente per conoscere da vicino la cultura santomense e visitare le due isole nel loro complesso. Nonostante sia stato un breve soggiorno più prossimo all’esperienza turistica che al lavoro di ricerca, ha rappresentato per me anche un periodo di pre campo perché l’intenzione di fare la ricerca di tesi in quel luogo esisteva già. Questo mi ha aiutato a sfruttare fin da subito il mio sguardo antropologico e ad osservare il contesto in cui mi muovevo, redigendo scrupolosamente delle prime note di campo.

L’odore che ho sentito appena atterrata a São Tomé era sconosciuto al mio olfatto e, nonostante mi abbia accompagnata costantemente in questi ambienti, la mancanza di denominazione ed intuizione si è appagata solo verso la fine della mia permanenza. Non ha un nome preciso ed è difficilmente spiegabile a parole, ma è comunemente immaginabile come un odore acre e allo stesso tempo delicato di un particolare legno bruciato, quello per fare il carbone ad uso domestico. Mi rendo conto solo ora che è ancora più complesso ricordarselo, perché difficile da riprodurre in un contesto diverso da quello a cui appartiene. Nonostante ciò, è un sentore facilmente riconoscibile in quei luoghi e pian piano ci si fa l’abitudine. Anzi, la seconda volta che sono arrivata a São Tomé, è stato

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proprio quell’odore a darmi il benvenuto e ad avvolgermi facendomi sentire di nuovo il calore del focolare domestico anche a migliaia di chilometri da casa.

Il primo contatto con questa terra è stato destabilizzante. Arrivare col buio in un luogo così diverso da casa propria indebolisce la propria percezione del reale. In particolare, il viaggio in macchina dall’aeroporto all’alloggio è stato molto lungo e ricco di riflessioni. Abbiamo perlopiù costeggiato un oceano piatto e tenebroso ed una vegetazione rigogliosa in ogni dove, ma anch’essa troppo fosca e minacciosa per i miei occhi stanchi ed ancora offuscati dagli occhiali culturali. Gran parte della strada asfaltata era in rovina. Oltre alle numerose buche sul terreno, alcune delle quali allagate e fangose dove gli animali si fermavano ad abbeverarsi o a lavarsi, c’erano diversi ostacoli naturali, caduti accidentalmente e non rimossi, da schivare. Per fare un solo esempio, in un punto adiacente all’oceano, un albero di grandi dimensioni era caduto bloccando il passaggio in ogni direzione. Invece di rimuoverlo, ne hanno tagliato la parte centrale, in modo tale da far passare in mezzo una vettura alla volta. Molti animali, soprattutto cani, maiali, capre e galline, attraversavano tranquillamente la carreggiata non curanti del rischio che correvano a farlo vicino alle macchine di passaggio. Il conducente, abituato, accelerava per farli spostare più velocemente. In alcuni tratti si ergevano delle case di legno tremolanti, costruite su corte palafitte ai margini delle strade, prive di vitalità e di anime umane. I fari dell’auto abbagliavano le persone ancora vaganti nell’oscurità delle vie sprovviste di lampioni o di elettricità permanente. Alcuni seduti sui muretti nel bordo strada e altri in sella alle loro moto spente in un punto di ritrovo cittadino se ne stavano lì a parlare e a guardare le macchine passare. Si conoscono quasi tutti in questa piccola isola e si salutano con cenni della mano o con un colpo di clacson. Altre persone sbucavano all’improvviso dalla foresta con in mano dei frutti che sbucciavano sul momento, anche bambini piccoli non accompagnati.

Nonostante ciò, la prima impressione superficiale e frettolosa che ho avuto dell’isola non è stata di paura. Un presentimento dentro di me mi suggeriva di non essere intimorita da questi luoghi e da queste persone, ma anzi affascinata dal loro stile di vita così peculiare. La mattina dopo, infatti, è stata una rivelazione. Al risveglio del sole, sono rimasta abbagliata dal fascino di quei paesaggi. La vegetazione non era più temibile, era ricca di colori e di biodiversità; l’oceano così cristallino ed interminabile da infondere calma e benessere interiore. I villaggi, seppur poveri, erano pieni proprio di quella vita di

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cui ritenevo che ne fossero privi. E le persone, che bello scoprire l’animo puro dei Santomensi, un popolo così cordiale e gentile con ogni individuo, sempre pronti a regalare un sorriso e una mano di aiuto a chiunque.

La mia seconda permanenza è durata tutto il mese di novembre 2019. Ho alloggiato quasi tutto il tempo a casa di Brice e Simi nella comunità di Monte Café, nel centro dell’isola, e gli ultimi giorni mi sono spostata nella capitale. Situata nel distretto di Mé Zóchi e fondata nel 1858, Monte Café è una delle più grandi ed antiche comunità

roceiras1 del Paese ed uno dei più ampi nuclei cittadini dell’isola. Ancora oggi, gli abitanti coltivano caffè nelle piantagioni. Proprio la gentilezza è stata lo sfondo di questo mio secondo viaggio. Senza questa disponibilità costante da parte di tutti i locali non sarei riuscita a completare questa ricerca.

In particolare, già nel 2018, ho avuto la fortuna di conoscere Tiziano, colui che poi è diventato il mio principale contatto nel secondo viaggio e mi ha fatto conoscere la maggior parte delle persone con cui ho parlato della mia ricerca. Tiziano è un italiano naturalizzato santomense. È arrivato a São Tomé e Príncipe negli anni ’90 per partecipare a delle attività di volontariato e si è innamorato di questo luogo. Dopo qualche anno, ha deciso di trasferirsi qui definitivamente con la moglie, con la quale ora gestisce un’agenzia turistica e il resort ecoturistico Mucumbli, vicino Neves. Collabora anche con Alisei Ong e altre organizzazioni locali ed internazionali. A quest’ultimo proposito, è stato lui che mi ha presentato alcuni ricercatori di Alisei Ong. Anche Ruggero è un italiano naturalizzato santomense. In Italia, è stato professore all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano e, nel 1986, ha fondato l’Ong Alisei Onlus, di cui è presidente e responsabile dei progetti a São Tomé e Príncipe. Più precisamente, è arrivato a São Tomé negli anni ’80 e si è stanziato definitivamente recentemente. Giovanna, anche lei italiana, vive a São Tomé e collabora con Alisei Ong. In particolare, al momento si occupa del progetto Fluta Non che ha lo scopo di lavorare prodotti alimentari forestali al fine di evitare gli sprechi e di sensibilizzare la popolazione in merito. Vasco è un biologo portoghese, che collabora nei progetti di ricerca

1 Deriva dal termine roça, che letteralmente può designare una fattoria, una comunità contadina o la

campagna in generale. A São Tomé rappresenta più peculiarmente il gruppo che viveva all’interno di un determinato sistema sociale di epoca coloniale chiamato roça, le cui caratteristiche verranno approfondite più avanti.

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e conservazione dei buzios d’Obô, delle tartarughe e degli squali nelle isole di São Tomé e Príncipe. Infine, Danilson è un giovane principense che si occupa dei progetti in corso nella sua isola. Al momento si sta occupando del progetto Terra Prometida. Di tutti questi progetti se ne riparlerà più avanti.

Tiziano mi ha aiutato anche a trovare l’alloggio presso la casa di Brice e Simi a Monte Café. Brice è molto gentile e simpatico, è sempre stato molto disponibile ad aiutarmi con la ricerca e a farmi vedere le meraviglie del posto in cui abita. È una guida turistica autorizzata e fa parte dell’Associação Monte Pico di Monte Café. È una persona molto attenta e rispettosa dell’ambiente in cui vive, insegnamento che trasmette ogni giorno ai suoi figli, sensibilizzando anche i più piccoli a comportarsi nel modo giusto con le altre persone e con la natura. Simi è una donna gentile, dall’aspetto curato e semplice; è energica e allegra, ma allo stesso tempo timida e riservata. Durante l’intervista, si vedeva che si vergognava un po’ delle risposte che dava e quindi non parlava molto. Spesso lasciava che la sua risata rispondesse per lei. Stefane è il figlio maggiore di Simi e Brice e ha 17 anni. È un ragazzo all’apparenza timido e riservato come la madre, ma non ha paura di raccontare la sua vita ad un estraneo. Ciò che mi ha raccontato è stato molto utile perché ho avuto modo di analizzare anche il punto di vista di un giovane.

Infine, ho conosciuto altre due guide turistiche molto informate riguardo ai problemi dell’isola. Anastácio vive da sempre a São Tomé ed è una guida turistica autorizzata: accompagna i turisti a fare escursioni nella foresta e nelle roças dell’isola. È visibilmente innamorato del suo Paese; ne parla sempre positivamente e con parole d’orgoglio, trasmettendo questa bellezza anche agli occhi dei turisti. L’ho conosciuto nel 2018 a Mucumbli e mi ha accompagnato più volte durante le escursioni. Quando l’ho rivisto, un anno dopo, mi è sembrato sempre lo stesso: una persona seria e formale, molto professionale sia nei gesti sia nelle parole. Hamilton è un ragazzo di 23 anni di Monte Café. È anche lui una guida turistica ma non autorizzata. È stato da subito molto gentile con me; è un ragazzo divertente e autoironico. Abbiamo parlato molto, sia di cose serie, sia dei diversi usi e costumi dei nostri connazionali. L’ho rivisto una seconda volta al giardino botanico di Bom Successo: stava aiutando a ripulire una zona adiacente per poterlo allargare. Mi ha detto che quando non lavora si dà da fare per aiutare dove necessario.

Purtroppo, o per fortuna, come ho già sottolineato, São Tomé e Príncipe non è un luogo molto conosciuto, pertanto si trovano pochi libri e notizie in internet a riguardo.

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Anche nell’isola, è faticoso trovare informazioni scritte. Qui, infatti, non esistono librerie. I pochi libri di storia locale si possono trovare nella biblioteca nazionale o in qualche museo. Grazie a Ruggero ho visitato un piccolo mercatino temporaneo del libro, dove ho trovato diversi testi di cultura locale. Fortunatamente ho conosciuto persone che mi hanno sempre aiutato e fornito molte informazioni utili al mio studio.

In questa tesi analizzerò la relazione che gli abitanti dell’isola di São Tomé hanno con l’ambiente forestale che li circonda, considerato come una delle aree più ricche di biodiversità al mondo e dimora di molte specie endemiche a rischio di estinzione. A partire dalla scoperta e dall’esplorazione di questo arcipelago africano da parte dei coloni portoghesi, l’uso delle risorse naturali si è sviluppato pari passo con la storia dell’occupazione dell’isola. Il rapporto tra i Santomensi e la foresta si è, dunque, evoluto negli anni, influenzato, sia negativamente sia positivamente, dalla colonizzazione, dalla successiva lotta per l’indipendenza e dall’attuale sfida della globalizzazione. Questa relazione ha, inoltre, portato all’impoverimento dell’ecosistema terrestre causato dalla diretta azione dell’uomo sul paesaggio, sfruttato senza un iniziale controllo e senza tenere conto della capacità rigenerativa dell’ambiente. La deforestazione illegale, i cambiamenti d’uso del suolo, l’inquinamento dato dai rifiuti, l’espansione delle comunità e dei centri urbani sono solo alcuni esempi della pressione umana su questa piccola isola. Per raggiungere la sostenibilità ambientale, oggi São Tomé deve far fronte a diverse sfide, prima fra tutte la sensibilizzazione dei cittadini sulle pratiche di educazione ambientale e di conservazione forestale, per renderli maggiormente partecipi, responsabili ed informati.

Nel primo capitolo, riassumerò a grandi linee i principali eventi della storia umana che hanno contribuito a modificare irreversibilmente il paesaggio a livello mondiale e introdurrò alcuni elementi chiave per comprendere il tipo di rapporto che l’uomo ha con la natura, utili alla lettura dei brani successivi. Nel secondo capitolo, descriverò la geografia fisica dell’isola di São Tomé e ripercorrerò brevemente la sua storia, rimarcando i mutamenti ambientali provocati dall’uomo e dalle diverse coltivazioni di piantagione. Nel terzo capitolo, tratterò il tema della biodiversità e della conservazione degli ecosistemi locali e, nel quarto capitolo, analizzerò nei dettagli la relazione che i Santomensi hanno con la foresta, descrivendo i principali danni ambientali

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che le causano, come la deforestazione illegale ed agricola, l’inquinamento da rifiuti e la caccia agli uccelli endemici. Infine, nell’ultimo capitolo, esporrò la mia opinione riguardo all’educazione ambientale come possibile soluzione a lungo termine per risolvere questi problemi.

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Cap. 1 L’uomo e la natura

Prima di affrontare e sviluppare il mio progetto di ricerca dedicato all’ analisi delle relazioni socio-culturali ed economiche che la popolazione dell’isola di São Tomé ha con la foresta locale, è utile soffermarsi sul contesto ambientale globale. In questo capitolo verranno, infatti, accennati alcuni momenti storici ed argomenti psico-antropologici per comprendere meglio lo sfondo di questa ricerca. In particolare, metterò in evidenza alcuni aspetti di base a cui si connettono i recenti caratteri evolutivi della storia ambientale, allo scopo di trarne delle informazioni utili alla comprensione dello studio del complesso rapporto tra l’uomo e la natura. 1.1 Cenni di storia ambientale Al giorno d’oggi, l’intero sistema pianeta sta affrontando diverse crisi ecologiche, quali i cambiamenti climatici, la drammatica riduzione della biosfera e il deterioramento delle risorse naturali, tutti problemi causati dai numerosi impatti delle azioni dell’uomo lungo il corso della storia. Questo periodo storico, in cui l’ambiente è fortemente condizionato dall’agire umano, è chiamato Antropocene2. Il momento preciso in cui è iniziata questa era non è molto chiaro. Molti sostengono che sia cominciata con l’affermarsi dell’agricoltura, altri con i viaggi europei di esplorazione oppure con la Rivoluzione industriale, o ancora nel Novecento con l’inizio dell’era atomica (Mancuso S., 2018: 112). Le piante hanno colonizzato le terre emerse del nostro mondo molto prima degli uomini e la loro esistenza si è rivelata, da sempre, una risorsa fondamentale, soprattutto dal punto di vista culturale, economico e sociale. Storicamente parlando, le prime forme di vita vegetale sulla Terra risalgono a circa 400 milioni di anni fa contro i 300 mila anni

2 Dal greco anthropos, che significa uomo, questo termine è stato coniato negli anni ’80 dal biologo

statunitense Eugene F. Stroermer (1934–2012) e successivamente divulgato dal chimico olandese Paul Crutzen (1933–), premio Nobel per la chimica. A riguardo segnalo la mostra Anthropocene, esposta alla Fondazione MAST di Bologna (https://anthropocene.mast.org) e il relativo documentario del 2018

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della presenza umana. O per meglio dire, è stata proprio la loro diffusione a favorire l’evoluzione degli animali e a consentire la nascita dell’uomo.

«Le piante, infatti, hanno colonizzato la terra emersa utilizzando e rimuovendo parte del biossido di carbonio (CO2) dall’atmosfera e hanno liberato ossigeno (O2). Inoltre, la presenza di estese coperture vegetali ha favorito la piovosità portando il clima a un andamento delle temperature e a una composizione dell’aria adatti alla presenza dell’uomo» (Gavazzi G. e Castelli de Sannazzaro S., 2019: 1). Nonostante siano state proprio le piante a permettere lo sviluppo della vita umana sulla Terra, successivamente, spesso, l’uomo si è servito di loro senza riguardo. La storia è, infatti, costellata di trasformazioni ambientali globali, la maggior parte delle quali di tipo artificiale. Il comportamento dell’uomo può avere un impatto diretto se i suoi gesti causano immediatamente dei danni territoriali, come per esempio la deforestazione o l’inquinamento dei mari, oppure indiretto se influenza degli eventi che pian piano provocheranno delle conseguenze disastrose all’ambiente, come alcune decisioni politiche o economiche di sviluppo internazionale. L’eccessiva pressione che l’uomo ha esercitato sulle risorse naturali e sugli ecosistemi mondiali, tramite attività quali l’agricoltura, l’industria, l’urbanizzazione e il progresso tecnologico, ha danneggiato seriamente l’equilibrio e la sostenibilità della Terra.

L’agricoltura, in particolar modo, per prima ha rivoluzionato il panorama paesaggistico, prima europeo e progressivamente globale, disboscando intere aree forestali, impoverendone ed erodendone lentamente il suolo, per favorire la coltivazione di alimenti e l’urbanizzazione. La nascita dell’agricoltura provocò, infatti, un profondo mutamento nell’organizzazione sociale delle comunità umane di nomadi cacciatori-raccoglitori, incoraggiando la costruzione di civiltà sedentarie per le quali fu necessario modificare drasticamente il paesaggio. Da questo passaggio esistenziale, inoltre, derivarono altre circostanze che condizionarono la relazione tra l’uomo e l’ambiente, come la crescita demografica, l’espansione economica, lo sviluppo industriale e quello tecnologico, che favorirono ulteriormente la vita in città, indebolendo il contatto con la natura.

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«[…] le pratiche agricole sono state strettamente collegate al degrado del suolo. I disboscamenti realizzati per far posto alle colture rimuovono il manto vegetativo per un intero anno, lasciando ogni volta il terreno spoglio esposto per mesi agli agenti atmosferici e determinando ritmi di erosione assai più rapidi dell’erosione meteorologica» (Mosley S., 2013: 93).

I suoli sono molto diversi tra loro, pertanto non tutti sono geneticamente disposti ad ospitare delle colture agricole. Utilizzando il terreno in modo errato senza analizzarne la composizione in precedenza, si rischia di danneggiarlo ed anche di uccidere la sua biodiversità sotterranea. Situazioni simili sono avvenute durante la colonizzazione europea d’oltremare. I primi coloni, infatti, credevano di poter usare gli stessi metodi di coltivazione europei anche in queste zone, con caratteristiche fisiche completamente diverse. Spesso, ne consegue un abbandono delle terre perché non più fertili come in precedenza, quindi, uno spreco di suolo originariamente ricco di vegetazione reso ormai arido a causa dell’arroganza umana. Questo anche perché, davanti a paesaggi così ricchi di biodiversità e risorse naturali, i coloni ritenevano che fossero illimitati ed utilizzabili intercambiabilmente, dunque, sfruttabili in abbondanza. Per questi motivi, oltre che per la schiavitù e i massacri, «[…] negli ultimi cinquecento anni l’agricoltura di piantagione è stata «il più grave fattore di sfruttamento e trasformazione sia dei sistemi sociali sia di quelli ecologici» (Mosley S., 2013: 98).

Questa espansione geografica è, inoltre, riconosciuta come la più grande riorganizzazione dell’ecologia del pianeta, denominata da Alfred Crosby3 the Columbian

exchange. Le importazioni e le esportazioni di merci tra il Nuovo Mondo, l’Eurasia e

l’Africa servivano, infatti, per commercializzare in tutto il mondo prodotti alimentari di diverse civiltà, per espandere le colture europee in altre terre più vaste e produttive e far prosperare in luoghi più caldi piantagioni di specie lucrative (canna da zucchero, tè, caffè, cacao, cotone e gomma). Ad esempio, in America, i coloni «[…] piantarono grano, orzo, riso e altre colture alimentari per loro consuete e insediarono grandi mandrie di animali domestici europei, come bovini, pecore, capre e cavalli» (Mosley S., 2013: 14) ed

3 Alfred Crosby (1931–2018) fu professore di storia, geografia e studi americani all’Università del Texas, di

Harvard e di Helsinki. Ha coniato il termine Columbian exchange che definisce nel suo libro The Columbian

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esportarono alimenti ed animali precedentemente sconosciuti, come l’avocado, il cacao, il mais, la patata, il porcellino d’India e il tacchino. L’importazione delle specie europee in nuovi spazi territoriali causò, inoltre, una “guerra biologica” senza precedenti che, in molti casi, rimpiazzò la flora e la fauna locali e semplificò gli ecosistemi nativi (ibid.). Tuttavia, questo scambio non si limitò solo alle colture alimentari, agli animali e alle piante ornamentali, ma causò anche un’espansione incontrollata di malattie. La scoperta dell’America, infatti, sprigionò da quelle terre la sifilide che si diffuse in tutto il resto del mondo e, al contrario, introdusse l’influenza, la peste bubbonica, la varicella, il colera, la malaria, il morbillo, la parotite endemica, la scarlattina, il vaiolo e la febbre gialla (Mosley S., 2013: 136).

Con la colonizzazione europea, si è amplificato anche il raggio di diffusione del Cristianesimo, che ha contribuito anch’esso a modificare la percezione della natura da parte dell’uomo. I principi cristiani, infatti, si basavano sulla dominazione umana dell’ambiente, la cui propagazione riplasmò le menti degli schiavi africani e degli indigeni americani, che, in molti casi, precedentemente avevano degli ideali più rispettosi nei confronti della natura. Tuttavia, per quanto anche altre religioni, come quelle cinesi ed indiane, avessero dei valori più attenti e riguardosi verso gli ecosistemi, la depredazione delle risorse naturali per scopi economici e sociali era comune a molte culture.

Nonostante ciò, fu la Rivoluzione industriale a rompere l’equilibrio ambientale mondiale e ad ampliare ancora di più il divario tra l’uomo e la natura. L’ascesa dell’industria provocò un esodo rurale verso le capitali e verso le nuove città emergenti per cercare lavoro in fabbrica e per usufruire del progresso tecnologico. Generò una progressiva richiesta di materie prime naturali, quali i combustibili fossili, che sta risucchiando tutt’ora le risorse territoriali non rinnovabili del pianeta. Inoltre, produsse un crescente sovraffollamento di rifiuti solidi che non venivano smaltiti a dovere, anzi spesso venivano gettati in mare oppure sotterrati. Questa Rivoluzione, sebbene fondamentale per il progresso umano che oggi conosciamo, provocò drastici problemi ambientali, in particolare l’inquinamento dell’aria a causa dei fumi industriali e domestici, che portò anche alla formazione delle piogge acide, e l’avvelenamento dell’acqua a seguito dello smaltimento scorretto dei rifiuti e dell’inefficienza dei sistemi fognari delle città. Ciò aggravando anche le condizioni di vita delle persone, che contrassero diverse malattie

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originate dalla presenza dei liquami lungo le strade, che, soprattutto d’estate, fermentavano con il calore del sole. Il 6 agosto 1945 il mondo entrò nell’era atomica, o era nucleare, a seguito dello sgancio della bomba atomica sulla città giapponese di Hiroshima. Oltre alle prime vittime, molti morirono dopo mesi a causa delle radiazioni e delle bruciature riportate, o più tardi per le conseguenze a lungo termine della bomba, come cancro e malformazioni varie, che sono state poi trasmesse alle generazioni successive. Anche la vegetazione venne completamente spazzata via dall’esplosione. Gli unici alberi sopravvissuti di Hiroshima sono gli Hibakujumoku4, che si sono salvati nonostante la vicinanza al luogo dello sgancio: un albero della canfora (Cinnamomum camphora), un agrifoglio di Kurogane (Ilex

rotunda), una peonia (Paeonia suffruticosa), «un ginkgo (Ginkgo biloba), un pino nero giapponese (Pinus thunbergii) e un muku (Aphananthe aspera)», questi ultimi «tre alberi molto comuni in qualunque giardino classico giapponese. Il ginkgo era vistosamente piegato in direzione del centro città, il pino nero aveva una considerevole cicatrice sul fusto, ma tutto sommato stavano benissimo» (Mancuso S., 2018: 28). Il più vicino all’epicentro, a soli 370 metri, è un salice piangente (Salix babilonica) che è rinato dalle radici che sono rimaste incolumi sottoterra.

Ogni guerra lascia dietro di sé un disastro dal punto di vista delle vite umane, ma anche ecologico. Nonostante ciò, gli esperimenti nucleari continuarono, aumentando il rischio di una possibile distruzione del pianeta, non solo a causa dell’esplosione, ma proprio perché lo sgancio provocherebbe prolungati problemi alle persone e all’ambiente, come l’arrivo di ripetute “piogge mortali”5. Vennero, inoltre, sviluppate nuove armi letali, come la bomba all’idrogeno e il defoliante Agent Orange usato in Indocina. I mezzi inquinanti moderni si possono diffondere molto facilmente nell’acqua e nell’aria, ma diversamente da quanto si conosceva in passato, al giorno d’oggi è chiaro a tutti che un impatto ambientale locale non è mai limitato a quel luogo, ma ha ripercussioni su tutto il pianeta e su tutti gli esseri viventi. «Questi fenomeni globali costituiscono in effetti processi fisico-biologici che coinvolgono l’intera biosfera, ma nascono da ciò che avviene,

4 Dal giapponese hibaku, che significa bombardato, e jumoku, albero.

5 Concetto utilizzato da Albert Einstein (1879–1955) nel Manifesto Russell-Einstein del 1955 contro l’utilizzo

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e soprattutto da ciò che umanamente si fa, a livello locale, ossia nei singoli luoghi di vita e di attività umana quotidiana» (Bonnes M. et al., 2006: 13). È necessario, infatti, comprendere che le proprie azioni, seppur piccole ed insignificanti, possono generare delle conseguenze molto più grandi che si protraggono nel tempo e nello spazio.

«Interpretare un disastro come fenomeno sociale, e connetterlo al concetto di vulnerabilità, ha il pregio di togliere all’evento scatenante i connotati della fatalità ineluttabile. […] i disastri (soprattutto quelli di tipo tecnologico) non sono eventi repentini e imprevedibili dovuti esclusivamente a imperfezioni tecniche, bizzarrie climatiche della natura, casualità o tragici errori umani; ma sono processi complessi che si attivano gradualmente durante un lungo periodo di incubazione e che alla fine precipitano dando luogo a una situazione catastrofica. Questi processi hanno delle precondizioni, sono determinati da errori sistemici (cioè diffusi e delocalizzati lungo le componenti di una data struttura sociale), che spesso provocano errori di singoli individui» (Ligi G., 2009: 18-19). Solitamente, i disastri naturali sono i contraccolpi dei comportamenti dell’uomo nei confronti dell’ambiente che, dopo un relativo periodo di gestazione, scatenano il loro impatto calamitoso sull’ecosistema mondiale. Al giorno d’oggi, infatti, molti dei problemi che la Terra sta affrontando sono riconducibili alle decisioni che i nostri antenati hanno preso in passato per ottenere dei benefici a breve termine. Tuttavia, trasformando l’ecologia del pianeta senza pensare alle generazioni future, hanno provocato notevoli difficoltà ai posteri, che ora, per sopravvivere e garantire nuova vita a questo mondo, devono inevitabilmente vincere questa battaglia ereditata dal passato.

1.2 Sostenibilità ambientale

I primi viaggi di esplorazione dell’universo hanno suggerito all’uomo le scarse possibilità di trovare altri pianeti adatti alla vita umana e l’hanno costretto a guardare in faccia la realtà, ovvero che per ora non esiste un altro posto dove vivere oltre alla Terra. Ciò ha fatto nascere in lui la consapevolezza di quanto questo spazio terrestre sia limitato e danneggiato e lo ha portato a riplasmare la sua coscienza in modo più ambientalista. L’introduzione delle questioni ambientali nella politica internazionale ha, infatti, messo in moto i leader mondiali e le masse di cittadini alla ricerca di nuovi modelli di sviluppo

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ecosostenibili che soddisfino le attuali esigenze di risorse naturali, senza intaccare le riserve necessarie alla sopravvivenza delle generazioni future. Tali progetti di sviluppo per funzionare devono basarsi sulla preservazione della sostenibilità nei sistemi comunitari primari, ovvero quelli economico, sociale e ambientale, ma anche quelli secondari a livello urbano, agricolo e turistico sono ugualmente fondamentali da modificare. A questo proposito, la Conferenza delle Nazioni Unite su Ambiente e Sviluppo di Rio de Janeiro del 1992 ha formalizzato i principali obiettivi di questa cooperazione internazionale a favore dello sviluppo ecosostenibile. Il principio 7, infatti, proclama che:

«Gli Stati coopereranno in uno spirito di partnership globale per conservare, tutelare e ripristinare la salute e l’integrità dell’ecosistema terrestre. In considerazione delle differenze contributo al degrado ambientale globale, gli Stati hanno responsabilità comuni ma differenziate. I Paesi sviluppati riconoscono la propria responsabilità nel perseguimento internazionale dello sviluppo sostenibile date le pressioni che le loro società esercitano sull’ambiente globale e le tecnologie e risorse finanziarie di cui dispongono» (Bonnes M. et al., 2006: 21). Nonostante ciò, le politiche internazionali odierne e gli stili di vita della maggior parte della popolazione mondiale non risultano ancora del tutto compatibili al modello di cooperazione ecosostenibile che serve all’ambiente per ristabilizzarsi. La biodiversità dei tropici, in particolare, sta attualmente vivendo una vera e propria crisi, poiché seriamente minacciata sia dalla pressione umana, sia dalla mancanza di studi e finanziamenti per la sua conservazione. Gli incendi dell’ultimo anno sono un esempio di quanto la Terra sta perdendo in quanto a biodiversità. Nel 2019, l’Amazzonia ha visto bruciare 12 milioni di ettari della sua foresta. «Secondo il portale Conservation International, dal primo gennaio 2019 al 15 novembre, in Amazzonia sono stati ben 233.473 gli incendi registrati (dato in continuo aggiornamento sul sito conservation.org)» (WWF, 2019). Questi incendi si verificano spesso a partire dal mese di luglio, quando gli agricoltori bruciano la vegetazione cresciuta nei campi da coltivare. Il fuoco è solitamente usato come strumento principale per bonificare le foreste tropicali, tuttavia, durante la stagione secca, questi incendi agricoli possono diventare incontrollabili, devastando grandi aree boschive. Inoltre, l’80% della deforestazione incendiaria della foresta amazzonica brasiliana è illegale: nel 2019, a causa di questi comportamenti illegali, sono bruciati più di 9700 km2

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di terra (ibid.). Se la deforestazione della foresta continuerà con questi ritmi, l’Amazzonia scomparirà entro il 2050 e ciò causerà un collasso ad effetto domino dell’intero sistema ecologico mondiale. Altri incendi artificiali si sono verificati, durante l’anno, in Bolivia, in Indonesia e nel Bacino del Congo. Nel mese di agosto 2019, la Bolivia è stata colpita da due settimane di gravi incendi che hanno devastato 5,3 milioni di ettari di area forestale, uccidendo più di 2 milioni di animali selvatici (ibid.). In Indonesia, nel corso del 2019, sono bruciati più di 328 mila ettari di territorio, che hanno aumentato notevolmente le emissioni di anidride carbonica nell’atmosfera e peggiorato la qualità dell’aria, colpendo anche le zone adiacenti quali la Malesia, la Tailandia e le Filippine (ibid.). Il Bacino del Congo, infine, rappresenta la seconda area forestale più grande del mondo (3,3 milioni di km2) e, nel 2019, è stato colpito da incendi che hanno devastato 27 mila ettari di terra (ibid.). Gli incendi che hanno spogliato l’Australia, invece, sono di tipo naturale, causati soprattutto dalla siccità e dall’aumento delle temperature, dovuti al cambiamento climatico globale. Hanno ucciso, direttamente o indirettamente, quasi 1,25 miliardi di animali, tra cui molti koala già in via d’estinzione, e bruciato circa 12 milioni di ettari di territorio australiano.6

Le risorse naturali mondiali non possono più essere sfruttate senza controllo ed unidirezionalmente perché esse sono limitate e potrebbero terminare da un giorno all’altro. Cosa che sta già succedendo, aggravandosi ogni anno che passa, poiché la quantità di risorse ambientali che l’umanità può utilizzare annualmente, senza che queste si consumino troppo velocemente, si esaurisce sempre prima. Nel 2019, l’Earth Overshoot

Day7 è stato il 29 luglio, ovvero le risorse si sono consumate 1,75 volte più rapidamente rispetto a ciò che dovrebbe normalmente essere e due mesi prima rispetto a vent’anni fa.8 Riuscire a ritardare questa data di solo 5 giorni all’anno consentirebbe alla Terra di riequilibrarsi entro il 2050.

6 https://www.wwf.org.au/get-involved/bushfire-emergency#gs.vzs56n

7 Questa è la data in cui la richiesta di materie prime che la popolazione mondiale dovrebbe utilizzare

annualmente supera la quantità di risorse che la Terra può rigenerare nello stesso anno. https://www.overshootday.org/about-earth-overshoot-day/

8

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Figura 1.1: Earth Overshoot Day durante gli anni. Immagine presa dalla pagina web

https://www.overshootday.org/newsroom/press-release-july-2019-italian/.

L’umanità deve, pertanto, sforzarsi a comportarsi in modo più ecosostenibile, riciclando meglio che può le risorse naturali, garantendo il loro ritorno all’ambiente originario. Per fare ciò è possibile anche prendere esempio dalla natura stessa e dal ciclo vitale delle piante.

«La pianta fissa la CO2 presente nell’aria mediante l’attività fotosintetica che trasforma le radiazioni solari in energia biochimica. Con questa attività svolta durante il giorno, produce glucosio, che serve in parte come mattone per la formazione di molecole più complesse e in parte come combustibile per i processi metabolici di crescita. Contemporaneamente, attraverso le radici e spesso in simbiosi con altri microrganismi e altre forme viventi, assume gli elementi minerali e l’acqua presenti nel suolo. Con la caduta delle foglie restituisce materiale organico al terreno, che a sua volta costituisce un substrato utile per alimentare la micropopolazione presente nel suolo, che disgregando tessuti e organi vegetali rompe i legami tra le molecole. In questo modo viene favorito il rilascio di elementi nutritivi nel terreno. Inoltre, con gli essudati radicali e la presenza delle radici, si mantiene la vita e la struttura del suolo» (Gavazzi G. e Castelli de Sannazzaro S., 2019: 26). Questa è una semplice lezione di ciò che rappresenta un corretto riciclo sostenibile e rinnovabile di materie prime, grazie ad un’efficiente cooperazione tra gli organismi e gli elementi implicati nel processo. Per favorire questo rendimento anche a livello umano, è

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necessario porre per prima l’industria di fronte all’intera responsabilità del prodotto che produce, dalla sua nascita al suo smaltimento, tenendo conto degli impatti ambientali che potrebbe causare. «Per una sostenibilità di lungo periodo le città devono funzionare con un «metabolismo circolare», in cui i rifiuti vengono riutilizzati, piuttosto che con l’attuale «metabolismo lineare»» (Mosley S., 2010: 174). È necessario, pertanto, promuovere un’economia circolare9, in cui il sistema economico si rigenera da solo, assicurando un’ecosostenibilità duratura e riducendo al minimo gli sprechi.

Tuttavia, così come all’interno del mondo vegetale, anche nelle società umane è essenziale considerare la differenziazione dei popoli e delle singole culture e della loro relazione con la natura. È, quindi, importante studiare diversi modelli di sviluppo sostenibili da adattare alle esigenze e alle pratiche culturali di ciascuna civiltà umana, senza ritenerle tutte ugualmente capaci di comportarsi in un certo modo e di essere educate secondo gli stessi principi.

1.3 Idea di natura e cultura ambientale

Fin dalla nascita, l’essere umano crea involontariamente uno stretto legame con la natura che lo circonda, erigendo da subito le basi di una forma di interdipendenza. I territori che vede e che vive in prima persona accompagneranno sempre i suoi ricordi e i suoi dispositivi sensoriali e l’attaccamento ad un luogo10 lo aiuterà a plasmare la sua propria identità personale, evocando significati emozionali individuali ed altri sociali, condivisi con più persone. Il paesaggio, infatti, non è solamente una fotografia di componenti visibili, anzi è una complessa struttura dinamica di relazioni sociali ed attività umane costruite ed evolute nel corso della storia, arricchita dai valori e dai significati che 9 Per approfondimenti: https://www.economiacircolare.com. Bompan E. e Brambilla I. N., Che cos’è l’economia circolare, Edizioni Ambiente, Milano, 2016. McDonough W. e Braungart M., Dalla culla alla culla. Come conciliare tutela dell’ambiente, equità sociale e sviluppo, Blu Edizioni, Torino, 2003.

10 Per approfondire l’argomento: Gallino T.G., Luoghi d’attaccamento, Raffaello Cortina Editore, Milano,

2007. Baroni M. R., Psicologia ambientale, Il Mulino, Bologna, 2008.

Costa M., Psicologia ambientale e architettonica. Come l’ambiente e l’architettura influenzano la mente e il

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gli sono stati attribuiti dalle persone che lo hanno visitato. È questo insieme di elementi che crea nell’uomo la percezione di quel luogo, diversa in base alle realtà culturali di appartenenza. La storia dell’ambiente, disciplina nata nel secolo scorso, analizza proprio questa relazione tra l’uomo e la natura e il ruolo che ciascuno di questi ha nella vita dell’altro. Questo studio si basa sul modello di ricerca a quattro livelli proposto da Donald Worster11 e riassunto da Stephen Mosley nel suo libro Storia globale dell’ambiente12 (2013: 9): 1) lo studio delle dinamiche degli ecosistemi naturali nel tempo; 2) l’esame delle connessioni tra l’ambiente, la tecnologia e l’ambito socio-economico; 3) l’indagine delle politiche e della pianificazione ambientali; 4) l’analisi del mutamento dei valori culturali e delle credenze relativi alla natura

Condizioni che sollecitano lo studioso ad affrontare la tematica basandosi su diverse angolazioni e punti di vista di analisi, che rendono la ricerca interdisciplinare ed olistica.

Relativo alla relazione tra l’uomo e l’ambiente è anche il Nuovo Paradigma Ecologico (NEP – New Environmental Paradigm)13 di Riley E. Dunlap14, che riassume l’inevitabile bisogno che l’uomo ha della natura, nonostante sia esso un essere completamente autonomo nel suo agire e pensare, diversamente dalle altre specie. Questa visione presuppone l’esistenza di una relazione uomo-natura armoniosa e paritaria, fondata su principi etici di collaborazione tra i due elementi, e contrasta nettamente con il precedente Paradigma Sociale Dominante (DSP – Dominant Social Paradigm) che prevede la dominazione dell’ambiente da parte dell’uomo, in quanto il primo è nemico del secondo. Per calcolare l’intensità del rapporto che il singolo individuo ha con l’ambiente 11 Donald Worster (1941 –) è uno dei fondatori della storia ambientale, ha insegnato presso l’Università del Massachusetts, del Kansas, delle Hawaii e di Yale ed è presidente dell'American Society for Environmental History e membro dell'American Academy of Arts and Sciences. 12 Mosley S., Storia globale dell’ambiente, Il Mulino, Bologna, 2013.

13 Dunlap R. E. e Van Liere K. D., “The New Environmental Paradigm", in The Journal of Environmental

Education, 9, Routledge, pp. 10-19, 1978.

14 Riley E. Dunlap è un sociologo americano e, insieme a William R. Catton Jr. (1926–2015), è il padre

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è stata creata la scala NEP, composta da elementi quali «[…] il genere, il luogo di residenza, l’appartenenza etnica, l’età, il livello di istruzione, il livello di reddito e l’orientamento politico» (Bonnes M. et al., 2006: 51), che determinano, inoltre, il livello di positività degli atteggiamenti assunti dalla persona quando si relaziona con la natura.

Quest’ultimo punto è legato anche al grado di sapere che si ha a proposito delle questioni ecologiche. Ciò di cui una persona è a conoscenza influenza, infatti, le sue decisioni e i suoi comportamenti. La conoscenza dichiarativa si riferisce al solo riconoscere come funzionano i sistemi ambientali, come sapere che lo smog inquina l’aria; la conoscenza procedurale, invece, rende coscienti delle attività che possono risolvere o ridurre alcuni impatti ambientali, come l’utilizzo di mezzi di trasporto pubblico per limitare l’inquinamento; la conoscenza sull’efficacia valuta le conseguenze di diversi atteggiamenti e favorisce il migliore di questi, per esempio scegliere di utilizzare una bici, piuttosto dei mezzi pubblici, perché non inquina affatto; infine, la conoscenza sociale si basa sulle scelte che si dovrebbero fare per essere eticamente accettati nella società o per rispettare i propri principi morali (Bonnes M. et al., 2006: 55). Ne consegue che un’efficace campagna di educazione ambientale dei cittadini dovrebbe, non solo spiegare loro quali sono i problemi ambientali di quel determinato territorio o del mondo, ma anche fornire le giuste competenze per permettere loro di comportarsi in modo ecosostenibile per aiutare a salvaguardare la natura e a mantenere un benessere generale, sociale ed ambientale, del pianeta. Queste attitudini sono, inoltre, determinate anche dalle variabili culturali che influenzano molto le scelte del singolo individuo, che cerca spesso di rispettare i principi etici della società in cui vive per non ritrovarsi emarginato dal gruppo.

«[…] le persone tendono a comportarsi in accordo con i propri valori e con le norme morali e/o seguendo quelle che ritengono essere le regole sociali del contesto in cui si trovano (norme ingiuntive). Tuttavia è possibile che, in certe situazioni, gli individui agiscano più semplicemente in maniera simile a quanto vedono fare dalle altre persone che si trovano nello stesso contesto/luogo (norme descrittive), anche se in quest’ultimo caso è probabile che, cambiando contesto/luogo, le persone tornino ad agire in accordo con le proprie norme morali o con le norme ingiuntive di cui sono a conoscenza» (Bonnes M. et al., 2006: 76).

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La responsabilità personale, infine, gioca un importante ruolo in queste situazioni e, spesso, se diversa da quella comunitaria, viene prediletta come scelta di comportamento individuale. Ma, affinché il cittadino possa avere la facoltà di decidere quale tra queste due opzioni di condotta preferire, è necessario che egli sia a conoscenza delle alternative alla norma morale proposta dalla società di cui fa parte. Gli atteggiamenti pro-ambientali individuali sembrano, spesso, più forti rispetto a quelli suggeriti dalla comunità. Inoltre, se una persona si sente colpevole singolarmente di non aver fatto abbastanza o di non aver prestato attenzione alle sue azioni verso l’ambiente, sarà più propensa ad attivarsi personalmente per risolvere questa situazione. In caso contrario, invece, se il comportamento scorretto è stato quello proposto a livello comunitario, allora sarà solo la società la responsabile perché ha consigliato male il cittadino. Il senso di appartenenza e di attaccamento sentimentale ad un determinato luogo aiuta le persone a combattere in prima linea per il suo benestare e ad assumersi una maggiore responsabilità personale per la sua difesa.

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Cap. 2 La Repubblica Democratica di São Tomé e Príncipe

La Repubblica Democratica di São Tomé e Príncipe nasce il 12 Luglio del 1975, quando ottiene l’indipendenza dal Portogallo. São Tomé ne è la capitale dal 1852, nonché da sempre la città più popolosa. Secondo i dati della Banca Mondiale15, nel 2018 la popolazione aveva superato i 211 000 abitanti totali, con un tasso di crescita di 1,9%. Nell’isola di São Tomé vive circa il 97% della popolazione totale con una densità superiore ai 200 abitanti per km2, distribuiti in modo eterogeneo lungo la costa settentrionale, orientale e meridionale e nella zona centrale dell’isola. La lingua più diffusa è il portoghese, nonostante esistano diverse varianti dialettali; la religione più praticata è quella cristiana. «Nesse solo nasceram os antepassados filhos de gentes provenientes de diversas paragens, com diversos fins e transportados em condições humanas mais díspares, como os rios transportam detritos diversos para o mar que se misturam com a água à medida que o tempo passa. Aqui houve o encontro, fusão e coexistência de gentes» (Costa Alegre F., 2008: 57).

In quanto società creola, nata dall’amalgamarsi di diversi gruppi etnici, «[...] actualmente considera-se existirem grupos sociais com caracterı́sticas particulares, entre os quais se destacam, em São Tomé, os Angolares, os Forros ou Mestiços, os Tongas e os Cabo-verdianos e, no Prı́ncipe, os Moncós» (Rocha Brito e al., 2019: 79).

Gli Angolares sono una popolazione di pescatori che abita la costa sud-est dell’isola di São Tomé, nel distretto di Caué, e la zona nord-est, nel distretto di Lembá. È un gruppo socioculturale distinto dal resto della popolazione santomense e possiede una propria lingua, la n’gola. La storia che racconta l’origine degli Angolares di São Tomé non è ancora certa e ne esistono tre versioni differenti. Secondo la prima, gli Angolares erano degli schiavi sopravvissuti al naufragio della loro nave negriera, nel XVI secolo. Arrivati e

15 Le informazioni di questo paragrafo sono state ricavate dal sito della Banca Mondiale.

https://databank.worldbank.org/views/reports/reportwidget.aspx?Report_Name=CountryProfile&Id=b4 50fd57&tbar=y&dd=y&inf=n&zm=n&country=STP.

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stanziatisi nell’isola, fondarono la città di São João dos Angolares. La seconda sostiene che questa popolazione sia autoctona dell’isola, già presente all’arrivo dei primi portoghesi. Infine, la terza, di cui parlerò più nello specifico più avanti, essendo la più condivisa tra gli storici, afferma che questi Angolares siano degli schiavi scappati dalle piantagioni coloniali nel XVI secolo.

I Forros, o meticci, sono i discendenti delle coppie miste di schiavi e coloni. Il nome deriva dall’ottenimento della Carta Foral, documento che li rende persone libere. I Tongas, invece, sono i discendenti degli schiavi angolani, mozambicani e capoverdiani, i quali venivano chiamati con questo nome dispregiativo nell’epoca coloniale. A volte venivano chiamati così anche i discendenti di altri stranieri europei non portoghesi. Infine, Moncós o Monkós, dall’inglese monkey, è il nome dei Minu Iés, abitanti di Príncipe che hanno preso il nome dal primo popolo di mozambicani portato nell’isola per popolarla. 2.1 Il contesto geografico São Tomé e Príncipe è uno Stato-arcipelago situato nel Golfo della Guinea, a circa 380 km dalla costa occidentale del continente africano. L’arcipelago è formato da due principali isole, São Tomé di 859 km² e Príncipe di 142 km², e da diversi isolotti, uno dei quali, l’Ilheu das Rolas, è situato proprio sulla linea dell’equatore. L’arcipelago originariamente comprendeva anche le isole di Annobón e Fernão Pó (attuale Bioko), ora sotto il governo della Guinea Equatoriale. Le isole di São Tomé e Príncipe sono nate sulla linea vulcanica chiamata Camerun Line, che si estende nel continente fino all’altopiano del Camerun e al Lago Ciad. Poiché generate da attività vulcaniche di 30 milioni di anni fa per Príncipe e di 15 milioni di anni fa per São Tomé (Carvalho M., 2009: 11), sono sempre state isolate dal continente e perciò disabitate. Questa caratteristica vulcanica determina anche l'esistenza di vari rilievi, come per esempio il vulcano a scudo chiamato Pico São Tomé con un’altitudine di 2024 metri, e un gran numero di crateri vulcanici inattivi, il più famoso dei quali è Lagoa Amélia sull'isola di São Tomé.

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2.1.1 Il clima

Trovandosi vicino alla linea dell'equatore, São Tomé ha un clima intertropicale solitamente caldo e umido, le cui condizioni climatiche sono ideali per lo sviluppo degli esseri viventi. Durante l’anno, la stagione delle piogge e quella secca si alternano dando vita a quattro periodi climatici: - una stagione secca, chiamata gravanite, tra dicembre e marzo; - una stagione delle piogge tra marzo e giugno; - un’altra stagione secca, chiamata gravana, tra giugno e settembre; - un’altra stagione delle piogge tra settembre e dicembre. Tuttavia, il territorio può essere diviso a sua volta in tre zone climatiche con stagioni e temperature diverse. Nel nord e nel nordest dell'isola, la stagione secca ha una durata di 4-5 mesi. Durante la stagione delle piogge non piove mai tutti i giorni: in un anno piove meno di 1 m d’acqua. La temperatura media è di 25 °C. Nelle regioni meridionali e sud-occidentali, le piogge sono abbondanti. Questa peculiarità rende impossibile l’esistenza di una stagione secca. Man mano che l’altitudine aumenta, le temperature scendono fino ad arrivare sotto i 10 °C, mentre le precipitazioni rimangono intermedie. L'umidità è sempre superiore all'80% e raggiunge il 100% solo nei punti più alti, dove la formazione della nebbia porta a ulteriori piogge di condensa.

La peculiarità locale dei microclimi è riscontrabile anche in uno stesso luogo durante una singola giornata. Durante la mia ricerca sul campo ho notato che, solitamente, a Monte Café ci si sveglia con un sole molto caldo ed intenso, poi la mattinata si ingrigisce e può continuare rischiarendosi o annuvolandosi ancora di più. Qui piove un po’ quasi ogni giorno da settembre a giugno. La pioggia scende molto decisa, a volte accompagnata da venti forti e da nebbia fitta. In questi momenti le temperature si abbassano rapidamente. Quando c’è il sole, invece, la temperatura diventa afosa, raramente ci sono delle brezze rinfrescanti.

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Figure 2.1, 2.2 e 2.3: vista dal terrazzo della casa di Monte Café. Di fronte c’è un grande giardino con molti alberi e tre case in legno e pietra, in lontananza si intravedono la capitale e l’oceano. Le foto sono state scattate tutte il 4 novembre 2019, rispettivamente alle ore 09:06, 15:03 e 16:46: il paesaggio cambia completamente a distanza di poche ore. 2.1.2 L’ecosistema terrestre Nell’isola di São Tomé possiamo identificare diversi ecosistemi, influenzati dalle condizioni fisiche e dalla posizione geografica dell'isola, i quali si possono racchiudere in quattro macro-categorie: ecosistema delle acque interne, marino, agrario e forestale. Per restare in linea con la tematica della tesi e non divagare, mi concentrerò sull’ecosistema forestale, prevalentemente rappresentato da aree boschive con habitat diversi a seconda dell'altitudine, dell'intensità delle precipitazioni, dell'insolazione, del rilievo e della struttura della foresta.

Le prime e più complete ricerche sull’ecosistema terrestre forestale di São Tomé e Príncipe furono condotte tra il 1932 e il 1933 dal ricercatore Arthur W. Exell16 e

pubblicate nel 194417. Secondo i suoi studi, escludendo alcune paludi di mangrovie e dune di sabbia al largo della costa, la vegetazione originale di São Tomé consisteva in foreste pluviali che coprivano tutta l'isola dalla costa fino alla cima del Pico. Attualmente, circa il 30% dell'isola è coperto da foreste primarie, il 30% da foreste secondarie, il 30% da piantagioni d’ombra e solo il 10% da aree non boschive (De Lima R. F., 2012a: 457). Al momento, è possibile suddividere l’area boschiva di São Tomé in queste zone con condizioni fisiche diverse: 16 Arthur W. Exell (1901–1993) è stato un importante botanico inglese, conosciuto per lo studio dell’Africa tropicale e subtropicale. La sua ricerca in Africa iniziò proprio a São Tomé e Príncipe. 17 Exell A. W., Catalogue of the Vascular Plants of S. Tome (with Principe and Annobon), Printed by order of the Trustees of the British Museum, London, 1944.

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- Floresta de Baixa Altitude (Foresta di Bassa Altitudine) – tra il livello del mare e gli 800 m di altitudine. Quest’area era originariamente equivalente alla grande foresta equatoriale del continente africano, ora mutata a causa dell'azione dell'uomo che ha deforestato la zona per la coltivazione e l'insediamento della popolazione. Attualmente, si trova solo a sud e sud-ovest dell'isola ed è caratterizzata da terreni molto poveri;

- Floresta de Montanha (Foresta di Montagna) – tra gli 800 e i 1400 m. Qui, le precipitazioni sono comuni e abbondanti, inoltre la nebbia e la copertura nuvolosa costanti riducono di molto il livello di luce. L'elevata umidità favorisce lo sviluppo di epifite, liane e felci che ricoprono il tronco dei grandi alberi, che possono raggiungere i 40 m ed essere molto folti;

- Floresta de Bruma o de Altitude (Foresta di Nebbia o di Altitudine) – sopra i 1400 fino a 2024 m. Questa regione è caratterizzata da umidità permanente e temperature basse. Nelle aree più alte gli alberi sono più piccoli e la copertura è meno fitta. Ci sono alberi endemici tipici, epifite, molte felci, orchidee, muschi e licheni. L’habitat di questa foresta risulta ancora immutato dall’azione umana, a causa della difficoltà di accesso e della pendenza dei rilievi;

- Floresta Seca (Foresta Secca). Si trova nelle zone secche di confine nell’area di Guadalupe, zona settentrionale dell’isola, con precipitazioni comprese tra 1.000 e 1.500 mm all'anno; - Mangal (Mangrovia). Questo ambiente è caratteristico delle zone di transizione tra la terra e il mare: si incontra alla foce di alcuni fiumi o in lagune con acque poco profonde. Qui, vivono ostriche, granchi di mangrovie e cucumbas, pesci-anfibi che possono respirare dentro e fuori dall'acqua.

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Figure 2.4, 2.5 e 2.6: mangrovie del Rio Malanza, nella zona sud dell’isola, vicino a Porto Alegre.

Poiché questi habitat hanno subito importanti cambiamenti dovuti all’operato dell’uomo, nella foresta di bassa altitudine sono nati altri ecosistemi forestali:

- Floresta de Sombra (Foresta d’Ombra). Occupa più del 30% dell’area terrestre dell’isola e il suo nome fa riferimento alla struttura naturale che veniva “costruita” in passato per ombreggiare le piantagioni di cacao e caffè, composta da grandi alberi locali ed altri importati appositamente per questo scopo. Questo tipo di ecosistema consente di rendere redditizia la terra, ma anche di mantenere in vita gli alberi grandi; Figure 2.7 e 2.8: piantagioni di caffè, rispettivamente di Monte Café e Nova Moca. In primo piano si vedono le piante di caffè e sullo sfondo i grandi alberi d’ombra. - Floresta Secundária (Foresta Secondaria) o Capoeira. La composizione è la stessa della foresta d’ombra, ma questa nasce dalla rigenerazione naturale delle aree abbandonate delle piantagioni. Oggi costituisce il 30% dell'area forestale del paese ed è caratterizzata principalmente da specie esotiche importate, ora naturalizzate e in rapida crescita;

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Figura 2.9 e 2.10: foresta secondaria adiacente al Parco Obô, rispettivamente vicino al Giardino Botanico di Bom Sucesso, al centro dell’isola, e vicino alla Roça Santa Josefina al sud dell’isola. Nella seconda foto, si può notare come la vegetazione è cresciuta sopra le antiche strade di epoca coloniale. - Savana. Questa regione è situata nella parte settentrionale dell'isola ed è nata sia a causa delle scarse precipitazioni nella zona sia dalla devastazione della vegetazione autoctona, per favorire lo sviluppo delle piantagioni di canna da zucchero, che ha portato all’impoverimento dei suoli; Figura 2.11, 2.12 e 2.13: paesaggi della savana della costa settentrionale, scattati vicino praia Tamarindos, a Guadalupe. - Agro-ecosistemi. Questi habitat corrispondono alle aree di agricoltura intensiva, in particolare per la produzione di ortaggi e mais o altri beni di consumo e di sussistenza per la popolazione. Figura 2.14, 2.15 e 2.16: campi agricoli di coltivazioni miste. La prima è stata scattata vicino al Giardino Botanico di Bom Successo, le altre due nelle piantagioni di Monte Café.

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2.2 La scoperta e il primo approccio con il territorio Non esiste certezza assoluta sulle date in cui vennero scoperte le isole di São Tomé e di Príncipe. «Pouco se sabe quanto à data do descobrimento da ilha de São Tomé: hesita-se no ano, no dia e nos nomes dos seus descobridores» (De Sousa Campos, 2011, p. 38). L’ipotesi più condivisa è che furono scoperte da João de Santarém e da Pêro o Pedro de Escobar, il 21 dicembre 1471 São Tomé e il 17 gennaio 1472 Príncipe, e che i nomi vennero attribuiti in base ai santi festeggiati in quei giorni: San Tommaso e Sant’Antonio18.

L’arcipelago divenne geograficamente importante solo dopo la costruzione del forte di São Jorge da Mina (Ghana) nel 1482 e l'arrivo dei portoghesi in Congo l'anno successivo. La colonia divenne da subito uno dei principali porti marittimi di passaggio per l'Asia19, nonché un deposito di generi alimentari e punto di supporto per il forte di São Jorge da Mina, che al tempo era un mercato di schiavi d'importazione. Proprio nel 1483, i primi coloni portoghesi arrivarono nell’isola, precisamente nell’insenatura di Ana Ambó, ora Anambo, nella zona nord-ovest dell'isola. Il primo tentativo di insediamento si deve a João de Paiva, al quale venne concessa in donazione parte di São Tomé con lo scopo di popolarla. Tuttavia, la vera e propria colonizzazione di São Tomé ha inizio a partire dal 1493, quando venne fondato il primo villaggio nel nord-est dell’isola, nella baia di Ana Chaves. Insieme ai primi coloni portoghesi arrivarono anche alcuni volontari e degli ebrei, perlopiù bambini accompagnati dalle madri per evitare la separazione, fuggiti dalla Spagna. 18 Santo Antão è il nome originario di Príncipe, poi modificato da D. João II (1455-1495) per omaggiare il figlio, il Principe Afonso di Portogallo (1475-1491). Attualmente, Santo António è il nome dell’unica vera e propria città dell’isola. 19 Durante gli anni ’80 del XV secolo, i portoghesi iniziarono ad esplorare l’area meridionale dell’Oceano Atlantico in cerca di una rotta per l’India. La posizione strategica di São Tomé divenne fondamentale per il passaggio delle navi dirette al Capo di Buona Speranza per la circumnavigazione del continente africano.

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«A ilha era um inferno, completamente deserta e para onde também foram levados escravos e criminosos. Quando essas crianças inocentes chegaram à selva de São Tomé, o que seria

os seus túmulos, elas foram levadas à costa e deixadas ali sem compaixão. Quase todas foram engolidas pelos grandes lagartos da ilha e os que ficaram, pois escaparam aos répteis, morreram de fome e abandono» (Costa Alegre, 2018: 287).

L’adattamento al nuovo habitat fu inizialmente difficile a causa della mancanza di piante e di animali domestici per l'alimentazione. Vi furono, infatti, diversi episodi di carestia fino al 1499, quando degli alimenti esterni furono importati dal continente africano, dall'America e dall'Europa.

«Com a chegada dos primeiros povoadores, nova fauna e nova flora foram desde logo introduzidas nas ilhas, como as plantas mediterrânicas, da Àsia e do Brasil porque [...] “as características ecológicas da ilha, a sua posição geográfica, isolada e simultaneamente próxima do litoral africano, vão permitir transformá-la desde logo em centro de introdução e de experimentação de plantas importadas”» (De Sousa Campos, 2011: 50). I primi schiavi africani introdotti nella colonia arrivarono dai regni del Benin nel delta del Niger, dal Congo e dal Manicongo o dalla Guinea, i quali vennero battezzati e rinominati con nomi cristiani per farli integrare meglio alla cultura portoghese. Venivano scelti soprattutto schiavi già sposati, poiché garantivano la nascita di discendenti come futura manodopera. Nell’isola vivevano anche alcuni africani liberi che fungevano da intermediari nella tratta degli schiavi e altri in transito, salvati nel continente e in attesa della riesportazione, nonché commercianti francesi, castellani e genovesi; elemento che permette di comprendere la solida tolleranza etnica della società costruitasi nell’isola.

L'insediamento di Príncipe, invece, iniziò poco dopo il 1500, anno in cui l’isola fu concessa ad António Carneiro (1500–1545), nobile portoghese e signore di Vimioso (Portogallo), i cui eredi ne mantennero il possesso fino al 1753 quando l’isola ritornò sotto il dominio della Corona portoghese. Nello stesso anno la città di Santo António, a Príncipe, divenne la capitale dell'arcipelago, poiché la piccola isola era considerata meno malsana e più favorevole al commercio di schiavi nella regione.

L'esperienza coloniale dell’arcipelago di São Tomé e Príncipe fu nettamente diversa da quella dei paesi del continente africano, in quanto l’area era sempre stata

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