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Ripopolare le Alpi. Modellazione GIS dell'Ultimo Massimo Glaciale locale dell'area atesina (ALGM) e frequentazione antropica tardoglaciale

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Academic year: 2021

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DIPARTIMENTO DI CIVILTA’ E FORME DEL SAPERE

Corso di Laurea Magistrale in Archeologia

TESI DI LAUREA

Ripopolare le Alpi. Modellazione GIS dell'Ultimo Massimo

Glaciale locale dell'area atesina (ALGM) e frequentazione antropica

tardoglaciale

I Relatore:

Prof. Carlo Baroni

II Relatore:

Prof.ssa Maria Letizia Gualandi

Correlatore: Candidato:

Dott. Diego Ercole Angelucci Carmen Cannizzaro

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1

INDICE

1: INTRODUZIONE ... 4

2: GEOMORFOLOGIA GLACIALE: L’AZIONE EROSIVA DEI GHIACCIAI ... 6

3: IL PLEISTOCENE SUPERIORE: CENNI ... 12

3.1 La glaciazione Würm e l’Ultimo Massimo Glaciale ... 21

3.2 Il glacialismo nelle Alpi italiane ... 25

3.3 La deglaciazione ... 33

3.4 Il Tardoglaciale ... 35

3.4.1 Il Dryas recente... 40

4: LA VALLE DELL’ADIGE E IL VERSANTE ORIENTALE DEL GARDA... 42

5: L’ANTROPIZZAZIONE DELLE ALPI MERIDIONALI DOPO L’ULTIMO MASSIMO GLACIALE ... 51

5.1 Siti principali: Riparo Dalmeri, Riparo Soman, Riparo Tagliente ... 56

5.1.1 Riparo Dalmeri ... 56

5.1.2 Riparo Soman ... 62

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2

5.2 Censimento dei siti nel Trentino-Alto Adige e nel versante orientale della Valle

del Garda ... 70

5.2.1 Laghetto della Regola ... 71

5.2.2 Terlago... 72

5.2.3 Riparo La Cogola ... 74

5.2.4 Palù Echen ... 78

5.2.5 Lagét (Altopiano di Predaia) ... 80

5.2.6 Arco ... 81 5.2.7 Riparo Cornafessa ... 84 5.2.8 Andalo ... 85 5.2.9 Malga Palù ... 85 5.2.10 Ripari Villabruna ... 86 5.2.11 Val Lastari ... 88

6: DISCUSSIONI: LA RELAZIONE TRA I LIMITI DELLA DEGLACIAZIONE E I SITI ARCHEOLOGICI ... 90

6.1 L’elaborazione grafica QGIS ... 90

6.2 Principali eventi vegetazionali nel versante meridionale delle Alpi durante il Tardoglaciale ... 94

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3

6.3 L’occupazione umana a seguito del ritiro glaciale ... 96

6.4 Modelli di moblità dei cacciatori-raccoglitori durante il Tardoglaciale ... 104

7: CONCLUSIONI ... 131

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4

1: INTRODUZIONE

La presente tesi di laurea ha lo scopo di analizzare, attraverso un’attenta revisione della letteratura scientifica recente, le relazioni tra le fasi di espansione e ritiro dei ghiacciai atesino e benacense a seguito dell’ultima glaciazione würmiana e le prime testimonianze dell’occupazione umana durante il Tardoglaciale nel territorio del Trentino e del Veneto occidentale. Si vuole, inoltre, prestare particolare attenzione ad alcuni aspetti relativi alle strategie di adattamento e di mobilità dei gruppi umani tardo-epigravettiani nel settore nord-orientale della penisola italiana.

La parte iniziale di questo lavoro offre un breve excursus sulla geomorfologia glaciale, in grado di fornire cenni nozionistici sull’azione erosiva dei ghiacciai e sulle modalità di deposizione delle vistose tracce moreniche creatosi a seguito del loro movimento; vengono poste, dunque, le basi per un’introduzione alla Geologia del Quaternario, con particolare riferimento all’ultima glaciazione. Viene prestata attenzione al paesaggio dell’Ultimo Massimo Glaciale nelle Alpi orientali italiane, ricostruito attraverso indagini, effettuate da diversi autori, sui depositi glaciali: la presentazione delle principali pubblicazioni scientifiche, dalla prima ricostruzione grafica dell’espansione dei ghiacciai durante la fase würmiana, pubblicata tra il 1901 ed il 1909 da Penk & Brückner, ai dati geomorfologici più recenti e alle datazioni al 14C, illustra, in linea generale, il quadro cronostratigrafico della

deglaciazione sul versante meridionale alpino. Si tenta, inoltre, di accennare alle problematiche ancora oggi attive riguardanti la suddivisione climatostratigrafica del Tardoglaciale, caratterizzato dalla transizione di condizioni pienamente glaciali a condizioni interglaciali in breve tempo (in termini geologici).

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La seconda parte di questo lavoro è rivolta al censimento dei siti archeologici, localizzati nel Trentino e nel Veneto occidentale, attraverso la presentazione dei dati che ci pervengono da passati e recenti studi multidisciplinari; vengono successivamente indagati aspetti fondamentali quali dati crono-stratigrafici e paleo-ambientali allo scopo di delineare una ricostruzione teorica del contesto ambientale creatosi a seguito della deglaciazione nell’area presa in esame.

La parte conclusiva analizza le strategie adattative e di mobilità adempite dai cacciatori-raccoglitori tardo-epigravettiani, con particolare riferimento alle differenti manifestazioni culturali, alla cronologia, al contesto paleo-ambientale e paleo-climatico.

La progettazione di una mappa attraverso l’ausilio del software QGIS permette, inoltre, di mostrare la posizione geografica dei siti archeologici, descritti in questa sede, e i limiti raggiunti dai ghiacciai durante l’ultima glaciazione würmiana nel Trentino Alto-Adige e nelle Prealpi Venete (con particolare riferimento ai ghiacciai benacense e atesino) e di evidenziarne i relativi dati cronologici.

Tenendo in considerazione quanto presentato in questa sede, si tenta, infine, di elaborare un modello di mobilità dei gruppi umani tardo-epigravettiani, insediatisi nel territorio preso in esame a seguito del ritiro glaciale: partendo da studi archeozoologici ed etnoantropologici e facendo particolare riferimento agli indicatori archeologici che documentano la presenza di spostamenti e/o contatti a lunga distanza, si vuole proporre delle alternative teoriche, integrative e non sostitutive, al modello, ad oggi ritenuto di riferimento, secondo il quale gruppi di individui effettuavano risalite stagionali e strettamente locali in alta quota esclusivamente per attività di caccia e di sussistenza. Queste osservazioni potrebbero, infatti, essere in grado di decifrare vari aspetti, ancora oggi emblematici, riguardanti la mobilità e le modalità insediative degli ultimi cacciatori-raccoglitori epigravettiani nell’Italia nord-orientale.

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2:

GEOMORFOLOGIA

GLACIALE:

L’AZIONE

EROSIVA DEI GHIACCIAI

Un ghiacciaio è una massa di ghiaccio generato dalla compattazione e dalla ricristallizzazione della neve (e non dal semplice raffreddamento dell’acqua); Per questo motivo un ghiaccio può essere definito un sistema idro-climatico. La condizione necessaria affinché si plasmi un ghiacciaio è che si conservi una parte della neve alla fine della stagione estiva. Questo processo, ripetuto di anno in anno, permette la formazione del nevato (densità tra 0,4 e 0,83) e, a causa della compressione delle bolle d’aria presenti fra i cristalli di neve e a ripetuti complessi fenomeni di disgelo e rigelo, si verifica la trasformazione della neve e la sua ricristallizzazione in ghiaccio compatto (densità tra 0,83 e 0,91) (Castiglioni G. B., 1979). Il ghiaccio è equiparabile ad una vera roccia metamorfica, costituita da cristalli interconnessi (roccia monominerale) poiché la neve fresca, che può essere considerata un sedimento, viene trasformata, attraverso fenomeni di compattazione, in roccia sedimentaria, a sua volta metamorfosata in ghiacciaio, a causa di processi quali pressione, flusso, ricristallizzazione (Smiraglia, 1992).

La formazione di un ghiaccio dipende, dunque, da fattori climatici, la morfologia, invece, è strettamente legata alla topografia, ovvero dal substrato roccioso in cui si inserisce (Castiglioni G. B., 1979).

La nascita, la sopravvivenza e il ritiro di un ghiacciaio derivano dal bilancio di massa (massa di acqua immobilizzata in forma solida nel ghiacciaio), che consiste nel rapporto tra le entrate (accumulo di neve) e le uscite (ablazione) nel corso di un anno idrologico (un arco di tempo compreso tra ottobre e settembre). Se, per un certo numero di anni, dunque, la quota di accumulo (generalmente posta verso monte) è stata superiore a quella di ablazione (verso il basso), il ghiacciaio si espande verso valle, ampliando la zona di ablazione e smaltendo

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l’eccesso di alimentazione; viceversa, se l’accumulo è stato inferiore all’ablazione, esso si contrae, riducendo l’area di ablazione e l’entità della fusione. Il bilancio annuale è ottenuto dalla differenza fra accumulo e ablazione, che potrà essere positivo, negativo o in equilibrio (quando la sua massa resta costante nell’arco di tempo considerato)1 (Smiraglia, 1992).

Come conseguenza del bilancio di massa, il volume e le dimensioni possono cambiare, avviando un processo di variazioni di spessore ed avanzamenti del ghiacciaio o retrocessioni della fronte (Panizza, 2005).

Figura 2.1: Trasporto glaciale (Thompson & Turk, 2007: 332)

1 Il movimento del ghiacciaio compensa la prevalenza di guadagni nella zona di alimentazione e la prevalenza

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La velocità di movimento, a seconda della topografia del luogo, dipende: - dalla componente della forza di gravità;

- dalla spinta di un altro ghiacciaio che, da luoghi più elevati, si muove verso valle;

- dalla sezione del ghiacciaio trasversalmente alla corrente (a parità di flusso, la velocità è maggiore nel punto in cui la sezione è minore);

Attriti sul fondo roccioso o interni, causano una opposizione al movimento dei ghiacciai (Castiglioni G. B., 1979).

A causa del movimento, i ghiacciai esercitano un’azione erosiva (esarazione) del substrato roccioso sottostante, trasportando i detriti rocciosi assemblati nel percorso o caduti sulla superficie del ghiacciaio; la capacità erosiva dei ghiacciai viene influenzata dalle condizioni termiche. L’esarazione si sviluppa per messo di due processi, l’abrasione (processo attraverso il quale il substrato roccioso viene intaccato, levigato e frammentato ad opera dei detriti trasportati alla base del ghiacciaio) e l’escavazione ( sradicamento o plucking) (meccanismi attraverso i quali si verifica lo sradicamento e l’asportazione di blocchi di roccia da parte del ghiacciaio ed alla loro inclusione entro lo stesso); l’aumento di velocità del ghiacciaio e l’aumento del suo spessore accentuano, generalmente, l’entità dell’esarazione (Smiraglia, 1992).

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Tra le forme di erosione glaciale, le rocce montonate e le strie e/o scalanature costituiscono le principali, seguite dalle forme vallive che comprendono circhi glaciali, valli con sezione trasversale ad U, gradini delle valli glaciali, e fiordi:

- le rocce montonate sono forme collinari costituite da dossi rocciosi, levigati e striati dall’azione del ghiaccio e allungati nella direzione di movimento del ghiacciaio;

- le strie e le scalanature costituiscono le evidenze più comuni dell’azione di abrasione glaciale e sono prodotti dallo sfregamento del ghiaccio e dai detriti incorporati dallo stesso a contatto con la roccia sottostante2;

- i circhi glaciali sono depressioni scavate nei fianchi montuosi, sotto le dorsali, costituite da pareti molto ripide o verticali. La testata di molte valli alpine, modellate dai ghiacciai, si presenta come una conca semicircolare, detta circo di valle;

- le valli glaciali sono le forme più spettacolari dell’erosione glaciale, scolpite dai ghiacciai che discesero dalle porzioni più elevate delle catene montuose. Le valli ad U sono anche dette docce glaciali o trugoli e vengono prodotti a seguito di un rimodellamento, per erosione sui fianchi e sul fondo, di solchi vallivi preesistenti;

2 Si ritiene che la quantità di detrito che si muove incorporato nel ghiaccio a contatto con la roccia sia

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- i gradini si distinguono in gradini di sbocco di valli laterali in valli maggiori e gradini di confluenza lungo la valle principale, in corrispondenza all’incontro della valle laterale;

- i fiordi sono insenature che occupano valli glaciali; si trovano in regioni costiere montagnose che subiscono o hanno subito grande sviluppo dei ghiacciai (Castiglioni G. B., 1979).

Dopo il ritiro dei ghiacciai pleistocenici, estese superfici levigate e striate sono state esposte ai fianchi delle vallate; oltre a rimodellare il paesaggio per effetto dell’erosione, i ghiacciai svolgono un ruolo attivo anche nella costruzione di nuove forme caratteristiche, le morene. Si definiscono morene forme del rilievo costituite dall’azione di deposizione dei ghiacciai e da materiale trasportato a valle e deposto nelle aree di accumulo. Sono costituite da elementi vari per granulometria e, una volta deposte, possono classificarsi secondo diversi criteri, quali i caratteri dei materiali, la forma e la genesi (Smiraglia, 1992).

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La morena di fondo è costituita dai detriti trasportati sul fondo del ghiaccio (si trova alla base del ghiacciaio) e non è caratterizzata da una forma precisa. Si può distinguere una parte inferiore, più ricca di matrice siltoso-argillosa, costituita da ciottoli generalmente disposti secondo un’orientazione preferenziale e derivante dalla morena subglaciale (la “morena di fondo” in senso stretto); e una parte superiore derivante dalle morene di superficie e dalla morena interna (o morena di ablazione) ed è caratterizzata da una disposizione dei ciottoli che risulta essere più caotica (Castiglioni G. B., 1979).

La morena laterale (Fig. 2.2) si configura sui bordi della lingua glaciale ed è alimentata dallo scivolamento di materiali finiti lungo il fianco convesso della colata glaciale; è necessario che il ghiaccio sia in una fase di rigonfiamento affinché i detriti possano cadere lungo i suoi margini. La morena mediana è costituita da creste che percorrono la superficie dei ghiacciai, in particolar modo quelli composti dalla confluenza di più colate. La morena frontale può essere originata a seguito di processi quali lo scivolamento di detriti sopraglaciali lungo il pendio della fronte, le colate di materiali imbevuti di acqua di fusione, l’emersione e il deposito di materiali endoglaciali trasportati lungo piani di taglio, la fusione di placche di ghiaccio morto ricoperto da detrito (Smiraglia, 1992).

Gli argini morenici, denominati anche cordoni o valli morenici, si dispongono lungo il margine glaciale e non sono necessariamente prive di interruzioni. Generalmente, un argine morenico si forma in seguito ad una lunga sosta del ghiacciaio in una determinata posizione o sopraggiunto nella stessa dopo una fase di avanzamento e successivo ritiro. Un complesso di argini morenici con disposizione a semicerchio o a ferro di cavallo danno origine agli anfiteatri morenici, sviluppatosi a seguito del ritiro dei ghiacciai avvenuto per mezzo di ripetute azioni di ritiri veloci e di fasi stazionarie (Castiglioni G. B., 1979).

Le morene presenti al limite delle Prealpi, in prossimità dei maggiori laghi, documentano le ripetute fasi di espansioni e ritiro dei ghiacciai durante i periodi glaciali del Pleistocene; la

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mutazione del paesaggio ha esercitato, una volta liberato dal ghiaccio, un forte ruolo di attrazione sulle comunità dei cacciatori-raccoglitori del Paleolitico recente e del Mesolitico, che hanno seguito il graduale mutare dell’ambiente (Broglio A. , 1982)

3: IL PLEISTOCENE SUPERIORE: CENNI

Nel 1995 il XIV Congress of the International Quaternary Association (INQUA), ha avviato un progetto di ricerca per riuscire ad ottenere un set di dati sulla cronologia e sulle glaciazioni del Quaternario (Allen, et al., 2008). L’ultima pubblicazione relativa alle ricerche è stata pubblicata a seguito del congresso tenutosi a Dublino nel gennaio 2019: nella scala dei tempi geologici, il Quaternario è l’ultimo periodo dell’era Cenozoica e si suddivide nelle epoche Pleistocene e Olocene. Le glaciazioni pleistoceniche costituiscono dunque la più recente delle ere glaciali. Il Pleistocene si suddivide in inferiore, medio e superiore: l’inizio dell’inferiore è generalmente posto a 2.58 milioni di anni; il limite con il Pleistocene medio risale a 0,78 milioni di anni, in corrispondenza dell’inversione di polarità Brunhes-Matuyama; quello con il Pleistocene superiore cade a 120 migliaia di anni in relazione al passaggio fra lo stadio isotopico 6 e lo stadio isotopico 5. L’inizio dell’Olocene viene convenzionalmente fissato a 11.700 anni cal BP (Cohen & Gibbard, 2019).

La questione delle glaciazioni fu esaminata inizialmente da Agassiz nel suo studio intitolato “Etuders sur les Glaciers”, pubblicato nel 1840; successivamente Penk e Brückner, con la pubblicazione in tre volumi di “Die Alpen in Eiszeitalter” (1901-1908), elaborarono la teoria secondo la quale una grande calotta glaciale avrebbe ricoperto a più riprese le Alpi (Smiraglia, 1992). Essi riconobbero quattro sistemi terrazzi-morene lungo il margine alpino bavarese; lo schema proposto li attribuì a quattro distinte glaciazioni che presero il nome da

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corsi d’acqua del pedemonte bavarese, affluenti del Danubio: Würm, Riss, Mindel e Günz, intervallati da periodi interglaciali: Riss-Würm, Mindel-Riss e Günz-Mindel (Cremaschi, 2004). A seguito di questa importante scoperta, diversi autori iniziarono a utilizzare determinati criteri per distinguere le età relative dei depositi, come l’analisi dell’alterazione dei ciottoli correlata allo sviluppo di suoli3, le altitudini relative4 e la morfologia dei depositi5

(Smiraglia, 1992).

Le variazioni climatiche che si verificarono nel corso del Pleistocene superiore (comprendente dunque la parte finale del Paleolitico medio, durante la quale si svilupparono l’Interglaciale Riss-Würm e le parti iniziale e intermedia della Glaciazione Würm, e dell’intero Paleolitico superiore) provocarono significative modificazioni della vegetazione e della fauna, influendo sensibilmente anche sulle attività antropiche praticate dall’Homo sapiens, giunto dall’Africa 100.000 anni B.P. in Asia e 40.000 anni B.P. in Europa (Gualdi, 2016).

Diverse teorie hanno tentato di dare una spiegazione scientifica all’origine delle Glaciazioni: per diversi anni, la teoria ritenuta maggiormente idonea per spiegarne le motivazioni è stata “la teoria astronomica delle glaciazioni” (o “teoria di Milankovich-Croll”). Secondo questa teoria, la causa delle epoche glaciali sarebbe da far risalire alle variazioni di precessione (la direzione verso la quale punta l’asse terrestre), obliquità (misurata dall’angolo che l’asse di rotazione fa con la verticale al piano dell’orbita) ed eccentricità dell’orbita terrestre (lo scostamento dell’orbita da un cerchio perfetto) che influenzano in maniera significativa

3 La pedogenesi avviene soprattutto durante i periodi interglaciali. Depositi più recenti saranno dunque meno

alterati e pedogenizzati (Smiraglia, 1992).

4 Nelle aree situate in prossimità di montagne, depositi posti a quote più elevate sono sempre i più antichi;

viceversa, depositi situati a basse quote sono i più recenti (Smiraglia, 1992).

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l’ammontare e la distribuzione della radiazione solare che giunge sulla superficie terrestre (Fig.3.1) (Marra, et al., 2001).

La precessione degli equinozi, dovuta alla forma non propriamente sferica della stessa Terra e alle forze gravitazionali esercitate su di essa dal Sole e dalla Luna, si completa ogni 25.800 anni (Gualdi, 2016): l’asse subisce una leggera precessione e descrive un cerchio rispetto alla posizione fissa delle stelle sulla volta celeste (Marra, et al., 2001). L’obliquità, dunque l’inclinazione dell’asse terrestre rispetto alla perpendicolare al piano dell’eclittica (all’attualità di 23° e 27’) è in fase decrescente (varia ciclicamente nel tempo fra circa 22° e 50’ e circa 24° e 50’ e viceversa, ogni 41.000 anni)6. L’ultimo parametro relativo

all’eccentricità dell’orbita terrestre (attualmente 0,0167), è anch’esso in fase decrescente; lo stesso varia ciclicamente nel tempo fra quasi 0 e circa 0,50 e viceversa, ogni 100.000 anni, assumendo i più alti valori quando è massima la differenza fra le distanze maggiori e minori della Terra dal Sole. Tuttavia, le variazioni climatiche in questione discendono anche da ulteriori fattori quali le macchie solari, fattori geologici correlati ad eruzioni vulcaniche, spostamenti naturali di grandi masse di acqua negli oceani e di aria nell’atmosfera, alterazioni nell’albedo, ovvero il rapporto fra le quantità di radiazione solare incidente e quelle di radiazione diffusa (Gualdi, 2016).

6 Nelle fasi in cui quei valori sono crescenti, si verificano alle alte latitudini incrementi della radiazione solare

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Figura 3.1: Eccentricità dell’orbita terrestre, obliquità e variazioni di precessione secondo la teoria di Milankovitch (da NASA).

Un documento pubblicato dalla NASA testimonia il momento in cui il National Research Council della US National Academy of Sciences ha abbracciato il modello del ciclo di Milankovitch: per circa 50 anni, infatti, la teoria di Milankovitch fu ampiamente ignorata; solo nel 1976, uno studio di J.D Hays, John Imbrie, and N.J. Shackleton intitolato "Variations in the Earth's Orbit: Pacemaker of the Ice Ages” e pubblicato sulla rivista Science, esaminò i nuclei di sedimenti di acque profonde comprovando che la teoria di Milankovitch corrispondeva di fatto a periodi di cambiamenti climatici e che le principali variazioni climatiche erano strettamente associate ai cambiamenti di eccentricità, obliquità e precessione dell'orbita terrestre (Graham, 2000).

I cicli glaciali del tardo Quaternario avevano una durata variabile tra 80.000 e 120.000 anni di durata, con un intervallo medio di ricorrenza di circa 100.000 anni (Denton, et al., 2010). Nonostante ciò, anche se il sostegno alla teoria di Milankovitch rimane forte, alcuni ricercatori hanno recentemente individuato discrepanze nei cicli delineati nella stessa,

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pubblicando studi scientifici che potrebbero in futuro permettere di elaborare una teoria alternativa in grado di dare una spiegazione esaustiva sulle origini delle variazioni climatiche (Puetz, et al., 2016).

Ai fini dell’analisi del paleoclima è importante individuare dei dati proxy in grado di far risalire, appunto, alle variazioni climatiche del passato.

“Un dato proxy (dall’inglese: per approssimazione) è una misura di una proprietà chimica, fisica o biologica che è legata a un parametro climatico da una funzione di trasferimento, che permette di risalire dal dato proxy a una misura quantitativa o semi-quantitativa di quel parametro” (Frisia, 2005), dato che, per questo motivo, necessita di una calibrazione, in correlazione ad analisi radiometriche e biostratigrafiche.

Gli studiosi del clima del passato, dunque, utilizzano il termine proxy per indicare le caratteristiche fisico-chimiche del campione di roccia, proveniente dalle carote estratte dai fondali oceanici, in grado di testimoniare quali fossero le condizioni al momento della formazione o la provenienza dei materiali depositati in quel punto; fattori che permettono l’individuazione delle condizioni climatiche del momento (temperatura, precipitazioni, correnti aeree e marine). I metodi di datazione assoluta hanno successivamente permesso di mettere in relazione i dati proxy con le evidenze stratigrafiche, facilitando la costruzione globale del clima del passato. Un ulteriore proxy capace di offrire informazioni fondamentali per l’indagine dell’assetto climatico ed ecologico del passato, a livello regionale, è rappresentato dal polline. Questo (difficilmente degradabile e facilmente distinguibile sulla base della forma), attraverso l’azione dei venti, viene trasportato e successivamente depositato sulla superficie terrestre e nei fondali lacustri e oceanici. La palinologia è in grado di indagare questi aspetti che permettono una ricostruzione delle successioni vegetazionali nelle varie parti del pianeta, mettendole in relazione con le variazioni climatiche ottenute con gli altri proxy (Chellazzi, 2013).

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Le carote di sedimento, estratte da fondale oceanico a partire dagli anni’50, contribuirono all’indagine climatostratigrafica del Quaternario: lo studio paleoecologico dei Foraminiferi7

delle successioni stratigrafiche nelle carote attestava, infatti, l’alternarsi di associazioni a Foraminiferi caldi ed a foraminiferi freddi, in corrispondenza con i periodi interglaciali e glaciali. La composizione isotopica dei gusci rifletteva quella dell’acqua marina che evidenziava un arricchimento dell’isotopo leggero 16O nelle fasi calde, e dell’isotopo più

pesante 18O in quelle fredde (Cremaschi, 2004).

Un importante riscontro si ebbe con l’ideazione della Serie di Emiliani avuta origine dal rapporto degli isotopi stabili dell’Ossigeno presenti sugli stessi gusci di Foraminiferi, composti da carbonato di calcio, rinvenuti su depositi del Mare dei Caraibi e risalenti a ca. 190.000 anni BP (Gualdi, 2016). Emiliani, sfruttando il peso dell’atomo di ossigeno presente all’interno delle molecole di carbonato di calcio, riuscì ad individuarne gli isotopi8 stabili

dell’ossigeno: 16O, 17O e 18O. Più precisamente, egli intuì che quando i Foraminiferi

sviluppano il loro guscio calcareo, il rapporto quantitativo degli isotopi che vi entrano risulta diverso rispetto a quello presente nell’acqua e varia, in questo caso, in funzione alla temperatura (freddo = maggiore concentrazione di 18O rispetto all’ambiente) (Chellazzi, 2013).

Questa importante scoperta permise di riconoscere che la diversa composizione isotopica non era da attribuire alla temperatura dell’acqua, quanto alla consistenza di masse di ghiaccio presenti sui poli e sui continenti: essendo più leggero, l’16O, evapora più facilmente rispetto

all’18O, e ritorna in mare attraverso le precipitazioni; in condizioni glaciali, invece, il vapore

7 I Foraminiferi sono organismi marini unicellulari protetti da un guscio calcareo (Chellazzi, 2013).

8 Gli isotopi sono atomi con ugual numero di protoni e di elettroni (aventi lo stesso comportamento chimico)

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acqueo arricchito di ossigeno leggero precipita sottoforma di neve e ghiaccio (forma solida) e vi resta bloccato senza riuscire a ritornare nel mare, le cui acque si arricchiscono di 18O (Cremaschi, 2004).

Nella serie di Emiliani i MIS (stadio isotopico marino)9 dispari corrispondono a periodi di clima relativamente caldo, quelli pari a fasi relativamente fredde (Chellazzi, 2013); All’interno di un singolo periodo glaciale o interglaciale, gli stadi (glaciali o interglaciali) indicano, dunque, oscillazioni dei ghiacciai e del clima d’ordine minore, sia per durata che per intensità (Castiglioni G. B., 1979).

Le curve isotopiche dell’ossigeno indicano, pertanto, le variazioni di volume delle masse glaciali, dunque le glaciazioni (Cremaschi, 2004).

È già stato dimostrato che queste variazioni climatiche avvennero in tempi rapidi, nell’ordine di decine di anni, nei quali gli Oceani ebbero la capacità di passare rapidamente da stadi glaciali a interglaciali (Kennet, 2002).

Il Pleistocene superiore si compone, dunque, di MIS, dal 5 al 2: lo stadio Isotopico 5 è suddiviso in cinque sottostadi, il primo dei quali è conosciuto come Interglaciale Eemiano (Stadio Isotopico 5e) ed ha avuto inizio attorno a 130.000 anni BP; con l’instaurarsi dello Stadio Isotopico 5d si registra un rapido evento freddo, nonché un abbassamento del livello del mare ed un aumento dei ghiacci che

iniziarono ad occupare la Scandinavia. In linea generale, le sequenze paleoclimatiche indicano per questo periodo la

9 “Fu coniato il termine MIS con una numerazione che va da uno a un numero che è tanto più grande quanto

più si approfondiscono le trivellazioni” (Chellazzi, 2013)

Figura 3.2: Cronologia isotopica del Pleistocene Superiore (Berto, 2010/2012:3)

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successione di due fasi fredde, alternate da due fasi di miglioramento climatico con vegetazione forestale, mentre gli stadi isotopici 5a-4 delineano una transizione, da una fase interglaciale temperata a condizioni fredde e secche di tipo glaciale. Con lo Stadio Isotopico 4 ebbe inizio un periodo di rapido e massiccio accrescimento del ghiaccio nell’emisfero boreale. A ca. 71.000 BP, infatti, la maggior parte della penisola scandinava era ricoperta da ghiacci (ma una significativa espansione dei ghiacciai si evidenzia anche sulle Alpi) (Berto, 2010/2012). Tra la fine del MIS 4 e specialmente nel MIS 3 si verificarono repentine variazioni climatiche: recenti studi sui cambiamenti del livello del mare durante la fase finale del Quaternario evidenziano, al termine del MIS4 e nel MIS 3, un importante crollo di blocchi di ghiaccio nell’emisfero settentrionale che causò un massivo rilascio di acqua fredda nel Nord Atlantico, inducendo un forte calo nella temperatura superficiale del mare (Benjamin, et al., 2017). Lo Stadio Isotopico 2 (27.000-11.700 anni BP) è evidenziato in tutte le fonti geologiche come la più intensa fase glaciale (Berto, 2010/2012).

Ai fini della ricerca verranno di seguito proposte le dinamiche sviluppatesi durante l’ultima glaciazione, prestando particolare attenzione al Tardoglaciale.

Figura 3.3: Cronologia degli Stadi Isotopici 3 e 2 (Berto, 2010/2012:6)

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Figura 3.4: Cronostratigrafia globale dagli ultimi 2.7 milioni di anni (Cohen & Gibbard, 2011, da Subcommission on Quaternary Stratigraphy, s.d.).

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3.1 La glaciazione Würm e l’Ultimo Massimo Glaciale

Nel quadro climatostratigrafico, l’ultima glaciazione del Quaternario viene denominata Würm in riferimento all’ambito alpino; vengono, infatti, utilizzate menzioni differenti in base alla posizione geografica: Wisconsin per l’America settentrionale, Weichselian per l’Europa settentrionale e foce del fiume Reno, Valsai per la Russia europea e Devensian per le Isole Britanniche (Fig.6).

Il Pleistocene superiore ha avuto origine ca. 130.000 anni BP (in correlazione con lo stadio isotopico 5). Gli stadi 4 e 2 presentano chiari caratteri glaciali, mentre gli stadi 3 e 1 (che giunge fino al presente) sono testimoni di fasi interglaciali. I principali picchi di accumulo del ghiaccio si verificarono ca. tra 110.000 e 105.000, tra 80.000 e 60.000 e tra 30.000 e 20.000 (Cremaschi & Chiesa, 1992). Alla seconda fase pleniglaciale würmiana corrisponde lo stage isopotico 2, evidenziato nelle fonti geologiche come la più intensa fase glaciale. Dal punto di vista climatostratigrafico, l’ultimo periodo glaciale, si presenta come un periodo poco omogeneo; si riconoscono, infatti, numerosi episodi di clima non glaciale durante le fasi più antiche (Cremaschi, 2004). Tuttavia, durante questo intervallo di tempo il clima ha mantenuto condizioni di relativa stabilità, ovvero non si sono registrate ampie variazioni su scala millenaria quali quelle che hanno caratterizzato, invece, lo stadio 3. La risoluzione n. 6 della Subcommission European Quaternary Stratigraphy (SEQS) attribuisce al Würm il significato di piano cronostratigrafico di valore regionale e stabilisce un’area tipo (la regione di Isar-Loisach in Baviera), indicando una suddivisione in tre sottopiani (Inferiore, Medio, Superiore) in alcune sezioni scelte. L’inizio dell’ultima glaciazione viene fatta risalire a 105.000 anni BP; il Würm Superiore (e l’equivalente geocronologico “Würm Recente”) inizia intorno a 25.000 14C BP (circa 29.000 cal BP) e termina con l’inizio dell’Olocene, con

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La fase corrispondente alla massima espansione dei ghiacciai, nei quali gli stessi ricoprivano all’incirca il 12% della superficie terrestre è denominata LGM (Last Glacial Maximum o Ultimo Massimo Glaciale) ed è indicata, nel quadro climatostratigrafico europeo come Secondo Pleniglaciale würmiano.

Il termine ‘Ultimo Massimo Glaciale’ compare per la prima volta nel titolo della pubblicazione conclusiva: CLIMAP Project Members (1981) – Seasonal reconstruction of the earth’s surface during the last glacial maximum, in riferimento alla situazione venutasi a creare ca. 18 ka 14C BP, e mettendolo in relazione all’ultima fase di massimo volume globale dei ghiacci sui continenti e di minimo livello del mare (e non all’intervallo più recente nei quali i ghiacciai raggiunsero la loro massima espansione all’interno dell’ultima glaciazione). Lo LGM rappresenta, in realtà, l’intervallo più recente nel quale i ghiacciai continentali raggiunsero il loro massimo volume integrato (Orombelli, et al., 2005) ed è definito come momento di massima regressione marina (Clark, et al., 2009). Esso corrisponde all’ultimo momento freddo relativo allo Stadio Isotopico 2 (Berto, 2010/2012) e si conclude con l’inizio della prima parte del Tardoglaciale (Ravazzi, 2007).

Le condizioni climatiche sono direttamente connesse alla posizione dei fronti polari oceanici e atmosferici del Nord Atlantico, a loro volta influenzati dalle fluttuazioni della copertura del ghiaccio marino; queste circostanze presuppongono che i tempi della massima espansione dei ghiacciai possano essere differenti da luogo a luogo, poiché legati alla posizione del fronte polare (Baroni, et al., 2018).

La massima estensione dei ghiacciai in un determinato luogo viene denominata Local Last Glacial Maximum (LLGM). A scala globale, lo LGM viene posto, sulla base di diversi studi, in differenziate cronozone relativamente simili: tra 30 e 17 ka BP (Lambeck, et al., 2014), tra 23 e 19 ka BP (Sarnthein, et al., 2003), tra 26.5 e 19 ka BP (Clark, et al., 2009). Recenti indagini effettuate sugli Appennini settentrionali italiani aggiungono informazioni sulla

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situazione geocronologica glaciale del continente europeo, situando lo LLGM in concomitanza con lo LGM globale espresso da Clark, et al. 2009, dunque tra 27-26 e 19 ka BP (Baroni, et al., 2018).

Figura 3.1.1: Le linee tratteggiate limitano le età dello LLGM, corrispondenti a quelle relative allo LGM secondo Clark, et al. 2009. La striscia in grigio equivale al MIS 2 (Baroni, et al., 2018: 361).

Per quanto concerne i ghiacciai alpini, devono aver raggiunto il picco massimo a ca. 26-24 ka BP (ALGM) (Monegato & Ravazzi, 2018).

Il ghiacciaio del Tagliamento, infatti, nelle Alpi meridionali, potrebbe aver raggiunto il suo picco massimo tra 26,5 e 23 ka cal BP (Monegato, et al., 2007). Interessante è notare che proprio a ca. 26–23 ka BP, l’estensione dei ghiacciai nel Nord America, spinsero le acque dell’Oceano Atlantico del Nord verso sud. Questo fenomeno avrebbe condizionato l’espansione dei ghiacciai alpini, aumentando i tassi di precipitazioni nell’Europa meridionale10; il ritiro dei ghiacciai nordamericani a ca. 23 ka BP avrebbero successivamente avviato una nuova circolazione di umidità verso l’Europa settentrionale, riducendo la

10 L’origine delle precipitazioni nell’Europa meridionale è da ricondurre al tasso di umidità presenti nel

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percentuale di umidità presente nel Mar Mediterraneo e attivando la fase recessiva dei ghiacciai alpini a partire da ca. 22 ka BP. Le principali fonti di umidità, riconducibili al Mar Mediterraneo e all’area subtropicale, avrebbero riguardato maggiormente il settore centro-orientale delle Alpi, facilitando lo sviluppo di grossi ghiacciai anche in piccoli bacini (come nel caso del Tagliamento) (Monegato, et al., 2017).

Ricerche effettuate da Carraro e Giardino (2004) sulle glaciazioni quaternarie nelle Alpi occidentali italiane indicano che ogni singolo evento glaciale nel territorio delle Alpi era caratterizzato da:

- una massa glaciale unica che si estendeva dalle teste del bacino alle vallate inferiori, delineando lingue ben distinte (glaciazione regionale);

- ghiacciai locali (glaciazione locale).

Recenti studi sullo LGM in Europa, basati su dati etnologici e paleoclimatici, messi in relazione a dati archeologici, dimostrano, infatti, che le fluttuazioni climatiche hanno influenzato notevolmente la densità demografica, in particolar modo da ca. 30 ka a 13 ka e durante le fasi più fredde (la simulazione indica la presenza di circa 330.000 individui a 30 ka, 130.000 ca. 23 ka, e quasi 410.000 a 13 ka). Tuttavia, anche durante l’Ultimo Massimo Glaciale, l’area facilmente abitabile dall’uomo copriva il 36% dell’Europa, suggerendo che le aree più idonee per i cacciatori-raccoglitori fossero la penisola iberica e la regione mediterranea (Tallavaara, et al., 2015).

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3.2 Il glacialismo nelle Alpi italiane

Il paesaggio dell’Ultimo Massimo Glaciale viene ricostruito attraverso i depositi glaciali. In Europa, ad esempio, molti di essi sono stati attribuiti all’ultimo periodo glaciale, e i più complessi sembrerebbero proprio appartenere alle zone alpine (Allen, et al., 2008).

Le Alpi si sviluppano ad arco dal limite tradizionale del Passo (o Colle) di Cadibona fino alle porte di Vienna, per una lunghezza complessiva di ca. 1200 km. Nella tradizionale ripartizione delle Alpi, si distinguono quelle occidentali fino al massiccio del Monte Bianco (incluso), centrali dal Bianco al Brennero e orientali per la parte restante che si arresta attorno a Gorizia (Bartaletti, 2004); all’interno di questa macro-suddivisione si distinguono una serie di sezioni: i dati archeologici provenienti dal settore delle Alpi meridionali, corrispondenti alle regioni del Trentino-Alto Adige, Veneto e Friuli-Venezia Giulia, forniscono le testimonianze più complete in grado di permettere di delineare un quadro costituito dal rapporto tra l’attività antropica e l’evoluzione del territorio durante la transizione Pleistocene-Olocene.

Il territorio della Regione Trentino Alto-Adige (Alpi meridionali) comprende la sezione alpina del bacino dell’Adige e si sviluppa dallo spartiacque della catena alpina fino allo sbocco nella Pianura Padana, lungo una direttrice di oltre 120 km. L’Ultimo Massimo Glaciale Alpino (ALGM) costituisce l’avanzata dei ghiacciai alpini (essi raggiunsero una superficie di 1500 km, intorno al territorio di Trento, estendendosi anche alla Piana del Po) (Angelucci & Bassetti, 2009). Durante l’ALGM il grande volume d’acqua immobilizzato negli inlandsis causò l’abbassamento di circa 120 metri del livello marino globale e la conseguente estensione della pianura alluvionale nel Mar Adriatico fino all’altezza di Pescara (Correggiari, et al., 1996).

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La prima ricostruzione grafica dell’espansione dei ghiacciai durante la fase würmiana fu pubblicata tra il 1901 ed il 1909 da Penk & Brückner, in base alla distribuzione altimetrica dei depositi glaciali e degli archi morenici laterali e terminali (Fig. 3.2.5). I risultati della loro ricerca indicavano che la massa glaciale occupasse quasi totalmente i rilievi della valle dell’Adige e che il ghiacciaio atesino dovesse raggiungere quota 2000 m. s.l.m. presso Bolzano e ca. quota 1650 m. s.l.m. presso Trento. Le ricerche sono state successivamente approfondite da Trevisan, pubblicati nel 1939, a seguito di analisi effettuate sulle Dolomiti di Brenta e sull’Altopiano di Asiago, intensificando le conoscenze sulle espansioni glaciali durante l’Ultimo Massimo Glaciale. Tuttavia, la pubblicazione di nuovi dati permette di riconsiderare la validità delle ricerche di Penk & Bruckner (1909): le ricostruzioni effettuate con l’ausilio del modello digitale del terreno hanno permesso di stabilire che la quota più alta raggiunta dal ghiacciaio atesino durante lo LGM si aggirasse intorno a 1600 m e solo i crinali più elevati emergessero come nunatak (Paganella, Canfedin, Monte Bondone, Marzola, Dosso di Costalta e Panarotta). I dati rilevati ed esplicati nel Foglio 060 Trento, finanziati dal progetto CARG hanno consentito di elaborare le ricostruzioni del livello massimo raggiunto dal ghiacciaio atesino nelle zone della piana delle Viotte (Monte Bondone) e sopra il Passo del Redebus: nel primo caso una morena insinuata dalla Valle dei Laghi a quota 1590 m e una corrispondente insinuata dalla Valle dell’Adige a quota 1580 m testimoniano il livello massimo durante lo LGM; nella fase immediatamente successiva i due apparati frontali furono separati da un lago proglaciale, identificabile da un secondo ordine di morene (a quota 1560 m e 1540 m sul lato della Valle dei Laghi e a quota 1535 m verso la Valle dell’Adige). Nella zona del Passo del Redebus le morene sono state individuate su versante Est del Dosso di Costalta (Malga Pez) a quota 1585 m (Servizio Geologico Italia, 2010).

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Figura 3.2.1: Semplificazione dell’estensione dei ghiacciai durante lo LGM; le frecce indicano la direzione dei flussi dei ghiacciai; MB: range del Monte Bianco; MR: range del Monte Rosa (MB e MR mostrano le due principali aree di accumulazione nelle Alpi occidentali); BP: range del Pizzo Bernina; O: range dell’Ortles (BP e O mostrano le due principali aree di accumulazione nelle Alpi orientali). Si noti la freccia che delinea le fasi di espansione del ghiacciaio benacense (Becker, et al., 2016: 175).

Nell’area atesina la massa glaciale principale defluiva dall’attuale spartiacque alpino verso sud attraverso la Val d’Adige e l’asse gardesano (Bassetti & Borsato, 2005).

L’elevata quantità di dati geomorfologici e di datazioni 14C, consente di elaborare un quadro

cronostratigrafico sulla deglaciazione alpina sul versante meridionale alpino; importanti testimonianze provengono dal grande Ghiacciaio del Piave, alimentato dai ghiacciai vallivi delle Dolomiti fino a ricoprire i basamenti intramontani di Belluno e di Alpago, da diverse direzioni; la sua massima espansione è da ricollegarsi a 17.670±320 14C BP (20.168-21.908 cal BP) (Angelucci & Bassetti, 2009). L’attenta osservazione della carta geomorfologica del Foglio 063 Belluno (Servizio Geologico Italia, Note Illustrative del Foglio n. 063 Belluno, 2000) permette di individuare almeno tre fasi del ritiro del ghiacciaio del Piave: una prima fase, identificabile dalle morene del Nevegal (1008 m), di Quantin (752 m), di Val Piana (834 m) e dalIa serie di dossi morenici arcuati, posti sulla dorsale anticlinale che separa la

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Valle di S. Croce dal Vallone Bellunese, è stata datata 16.210±50 anni BP (utilizzando i limi del till di alloggiamento alla base della torbiera di Val Piana a 834 m)11; una seconda fase, riconoscibile con particolare evidenza suI versante settentrionale del Col Visentin (1763 m), all'interno della fascia altimetrica compresa fra i 620 m di Col Palu e i 420 m del Piano di Castion, delinea un abbassamento del livello del ghiacciaio rispetto alle morene dello LGM pari a 520 m. Gli approfondimenti e le indagini effettuate nel bacino lacustre (460 m) formatosi all'interno delle morene di Chiesurazza, indicano che a 12.490±40 14C BP il ghiacciaio si era già ritirato dal fondovalle, mente la formazione della torbiera è relativa a 8410±40 14C BP; la terza e ultima fase è quella maggiormente documentata e i punti di riferimento principali fanno riferimento alla torbiera di Modolo (424 m), suI fianco sinistro della valle del Piave (pochi chilometri a valle della torbiera di Col Palu) e nel piccolo sistema frontale delle morene di Salce (385 m). Durante questa fase la fronte principale del ghiacciaio del Piave doveva essere posta intorno ai 320 m (sosta di Modolo), a monte di un lago di sbarramento che si stava via via espandendo contemporaneamente al ritiro del ghiacciaio. La torbiera di Modolo si è dunque formata a seguito di una sosta da parte del ghiacciaio durante la deglaciazione: la sua sequenza pollinica (che rappresenta la testimonianza paleoambientale successiva allo LGM piu completa che si conosca per il settore orientale delle Prealpi) indica, “in corrispondenza al passaggio Pleniglaciale/Tardoglaciale (datato anche con Ie ritmiti a 14.525 ±280 anni BP), un vistoso crollo dei valori dei taxa steppici simultaneo ad un significativo innalzamemo delle concentrazioni polliniche delle piante arboree, a testimonianza che il ritiro del ghiacciaio in quell 'area era già avvenuto” (Pellegrini, et al., 2005).

11 L' analisi pollinica di questa fase ha messo in evidenza un ambiente con condizioni di clima freddo,

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Il definitivo ritiro del suo fronte dal margine Prealpino deve essere avvenuto tra 14.765±135 14C BP e 14.370±115

14C BP, ovvero tra 17.303-18.544 cal BP e 16.708-17.786

cal BP (Angelucci & Bassetti, 2009).

Recenti analisi dei sedimenti su un record stratigrafico alluvionale del megafan (megaconoide alluvionale) Brenta hanno permesso di ricostruire le dinamiche espansive del sistema glaciale (nel tratto terminale del ghiacciaio): una importante alterazione del sistema di drenaggio avvenne, infatti, poco prima di 27 ka cal BP, quando i sistemi Cismon e Piave si unirono al fiume Brenta nella Valsugana, attraverso la sella Seren e la valle del Corlo, in prossimità di Rocca e terminando approssimativamente 2 km a valle; fra 27 cal BP e 19.5 ka cal BP, i ghiacciai Brenta, Cismon e Piave si fusero nei dintorni del monte Novegno, nelle Prealpi Vicentine. Dopo il collasso dei ghiacciai, il fiume Piave fluì nella sua valle principale, mentre il Cismon continuò a fondersi con il Brenta. Questa indagine mostra che i bacini glaciali possono variare significativamente nel tempo durante una singola glaciazione in terreni alpini robusti (Rossato,et al., 2018).

Anche il Gruppo dell’Adamello, massiccio montuoso tra le Alpi Retiche meridionali, situato tra le province di Brescia e Trento, ha restituito informazioni fondamentali per lo LGM: il

Figura 3.2.2: Evoluzione del settore centrale della Valsugana durante lo LGM, con particolare riferimento ai sistemi del Brenta, del Cismon e del Piave (Rossato, et al., 2018: 823).

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ghiacciaio dell'Adamello, che è il più grande ghiacciaio delle Alpi italiane (16 km2 nel 2007), ha raggiunto l’estensione massima tra 26-25 ka e 19 ka (Baroni, et al., 2014).

Figura 3.2.3: Massima espansione dei ghiacciai durante l’ultima glaciazione nelle Alpi con riferimento ai bacini idrografici (1b) (Ravazzi, et al., 2014: 27).

Negli ultimi anni le analisi sulle variazioni atmosferiche delle Alpi europee, hanno portato alla creazione di modelli di circolazione atmosferica che vedono una relazione tra l’espansione dei ghiacciai e i mutamenti dei tassi di precipitazione. Questi evidenziano come lo spessore della Calotta Nordamericana abbia prodotto cambiamenti nella circolazione, favorendo le precipitazioni sulle Alpi (mentre il Nord Europa risultava sottoalimentato); la successiva riduzione della Calotta Nordamericana fu probabilmente la causa del ritiro dei ghiacciai alpini. In ambito italiano, il Mar Mediterraneo viene considerato, inoltre, come fonte aggiuntiva in grado di cooperare allo sviluppo dei ghiacciai nelle Alpi, indicato insieme all’area subtropicale, come zone di origine di alti tassi di precipitazione (Monegato, et al., 2017).

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Figura 3.2.4: lo spessore della Calotta Nordamericana (NAIS) ha prodotto cambiamenti nella circolazione atmosferica favorendo le precipitazioni nell’Europa meridionale e nel Mediterraneo (1); Alla fine dell’Ultimo Massimo Glaciale, il ritiro della Calotta Nordamericana ha ridotto notevolmente le precipitazioni sulle Alpi, con conseguente ritiro anche dei

ghiacciai alpini; nello stesso periodo la Calotta Scandinava (EIS) raggiunse il massimo volume (2) (Monegato, et al., 2017: 6).

Allen, et al., (2008) hanno indagato ed ottenuto, per mezzo di dati sulle precipitazioni attuali, l'anomalia annuale della temperatura relativa allo LGM sulle regioni glaciali a nord delle Alpi e in Italia rispettivamente di -12,0 / -13,9 ° C e -11,0 / -12,0 ° C, registrando un raffreddamento compreso tra 12°C e 17°C, rispettivamente a nord e a sud delle Alpi. Indagini sul clima durante lo LGM sono anche state effettuate da Heyman, et al., (2013) che registrano una riduzione del tasso di precipitazione del 25-75% ed un raffreddamento di 8-15 °C per i piccoli ghiacciai dell’Europa centrale, a nord delle Alpi. Queste analisi sono state confermate da recenti pubblicazioni che delineano una temperatura media di -12 °C ed una riduzione nel tasso di precipitazioni del 20% nel nord delle Alpi e del 47% a sud delle stesse (Becker, et al. 2016).

L’espansione dei ghiacciai nelle aree montane ha dato origine a barriere naturali che hanno fortemente condizionato la comunicazione tra gruppi umani; l’arco alpino sembrerebbe fungere da vero e proprio ostacolo per le comunicazioni tra la penisola italiana e le aree

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transalpine, mentre le zone maggiormente accoglienti divengono quelle mediterranee e quelle occidentali atlantiche (Martini, 2008).

Figura 3.2.5: Storica ricostruzione dell'espansione glaciale wurmiana pubblicata da Penk & Brukner, 1909 e modificata da Bassetti & Borsato (2007: 33).

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3.3 La deglaciazione

Il collasso dei ghiacciai in ambiente alpino si è verificato subito dopo 17.46 ± 0.2 ka cal BP; a questa datazione corrisponde la fine dell’avanzamento di Manerba12 (Ravazzi, et al., 2014).

In uno stato di deglaciazione in atto è previsto l’attuarsi di alcuni processi che consentono gradualmente di rientrare in una fase di Interglaciale, come quella attuale. I principali fenomeni che portano dunque all’abbandono delle condizioni presenti durante le fasi glaciali sono:

- il rapido ritiro dei ghiacciai alpini e la totale estinzione di quelli appenninici;

- l’infittimento della fauna e la sua risalita fino ad alte quote;

- la risalita del livello del mare con conseguente sommersione di tratti di pianure costiere (Cremaschi & Chiesa, 1992).

Alcuni dati che documentano gli effetti della deglaciazione nel Trentino-Alto Adige provengono dai bacini di Palughetto, in Pian Cansiglio, a quota 1053 m. s.l.m., che indicano a 12.174 ±141 anni 14C BP (13.736- 14.670 anni cal. BP) l’inizio della sedimentazione della

torba; e dal Lago Nero di Cornisello, nel territorio del Parco Naturale Adamello-Brenta, a quota 2233 m. s.l.m., cui indicano che a 12.320 ±80 anni 14C BP (13.990-14.740 anni cal. BP) il lago era già formato e il suo bacino di alimentazione almeno in parte deglaciato (Bassetti & Borsato, 2005), mentre la sua ultima riforestazione tardoglaciale è datata, sulla base di associazioni polliniche, all’intervallo Bølling-Allerød (Filippi, et al., 2007).

12 La morena appartenente all'avanzata di Manerba lambisce il massiccio calcareo oligocenico che forma la

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Importanti informazioni sull’ultima deglaciazione alpina provengono anche dallo studio sedimentologico, malacologico ed isotopico di una carota prelevata dai sedimenti lacustri presenti a Terlago, in prossimità di Trento, che ha consentito di elaborare l’evoluzione paleoambientale del lago, dal Dryas Recente alla fase iniziale dell’Olocene: l’età più antica ottenuta, 11.890±90 ka BP, documenta l’avvenuta deglaciazione dell’area e coincide con la prima comparsa di Pisidium sp., molluschi capaci di sopravvivere in ambienti lacustri relativamente profondi (Baroni, et al., 2001). A ca. 14.000 anni BP viene, invece, fatta risalire la completa deglaciazione del Lago di Garda, in quanto i maggiori ghiacciai delle vallate alpine avevano già compiuto il loro ritiro (Baroni, 2010). In relazione al Tardoglaciale, sono da associare anche le datazioni testimonianti il continuo avanzamento e ritiro del ghiacciaio dell’Adamello: LG1: 16.5-15.8 ka; LG2: 15.5-15.3 ka; LG3: 12.5-11.5 ka (Baroni, et al., 2014). Si rimembri che le informazioni sulle fasi di ritiro del ghiacciaio del Piave dal fondovalle della Val Belluna sono fondamentali per la ricostruzione del Tardoglaciale in ambito alpino; significative informazioni provengono dalla foresta monospecifica subfossile di larice delle fornaci di Revine13, nella provincia di Treviso in Veneto, che ha fornito una data compresa tra 14.765 ±135 anni 14C BP (17.303-18.544 anni cal. BP) e 14.370 ±115 anni 14C BP (16.708-17.786 anni cal. BP) (Casadoro, et al., 1976) e

da depositi lacustri che offrono le datazioni di 14.4±115 e 14.8±135 ka BP (Castiglioni B. , 2004). Questi dati dimostrano come la fase di deglaciazione fosse già in corso e che l’ambiente fosse colonizzato da vegetazione steppica-periglaciale; il seppellimento della foresta di Revine da parte di depositi di versante, avvenuto subito dopo 16.1 ka cal BP,

13 La foresta monospecifica subfossile di larice di Revine è caratterizzata dalla presenza di tronchi in posizione

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delinea, invece, un’interruzione della successione forestale pioniera degli anfiteatri che può essere attribuita ad una fase fredda (“Oscillazione di Ragogna”) 14 (Monegato, et al., 2007).

3.4 Il Tardoglaciale

Nel Tardoglaciale avviene il più drammatico e repentino cambiamento ambientale del Quaternario recente, in quanto si passa da condizioni pienamente glaciali a condizioni interglaciali in breve tempo (in termini geologici) (Cremaschi, 2004). Il termine indica la fase che segue l’ultima culminazione dell’ultima glaciazione würmiana fino all’inizio dell’Olocene, in corrispondenza di un brusco evento isotopico, palinologico e dendrocronologico a 11.550 ± 50 anni cal BP (10.000 14C BP) (Orombelli, et al. , 2005). Non è ancora stato riconosciuto il momento idoneo da correlare all’inizio del Tardoglaciale; alcuni studiosi sono indirizzati a fissare il limite durante l’inizio del Greenland Interstadial 1, equivalente a miglioramenti climatici e corrispondente circa al “Bølling-Allerød”, posto a 14.700 anni cal BP della carota GRIP (Orombelli, et al,, 2005). La datazione appena menzionata corrisponde, inoltre, al termine del Pleniglaciale (fase che indica la presenza di steppa e tundra artica tra l’inizio dello Stadio Isotopico Marino 4 e la riforestazione all’inizio dell’interstadio di Bølling –Allerød) circa 14,45-14,7 mila anni cal BP (Ravazzi, et al., 2007).

14 Nella successione lacustre di Ragogna, all’espansione della foresta a parco durante il primo Tardoglaciale

segue una fase di parziale arretramento (17 a 15,6 mila anni cal BP) che precede l’inizio dell’interstadio di Bølling–Allerød. Questa interruzione è attribuibile ad una fase fredda che prende il nome di “Oscillazione di Ragogna”. Di tale evento non ci sono riscontri biostratigrafici sul versante settentrionale delle Alpi, né tantomeno in Europa centrale, ove a quel tempo non vi erano specie forestali (Ravazzi, 2007).

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Diversi autori, invece, preferiscono fissare l’inizio del Tardoglaciale nel momento in cui termina lo LGM, impiegando il termine con valenza globale; altri ancora preferiscono fissare l’inizio del Tardoglaciale con il presunto inizio della deglaciazione locale. In realtà, non essendo essa la stessa nelle diverse regioni glacializzate, si ottengono, così facendo, date diverse a seconda delle zone geografiche prese in considerazione (Orombelli, et al., 2005). È ancora da intuire, dunque, se il Tardoglaciale sia direttamente correlato alla fine dell’Ultimo Massimo Glaciale o se ci sia uno iato cronostratigrafico.

Nelle prime formulazioni della zonazone pollinica, elaborate a partire dagli anni ’30 nell’Europa centro-settentrionale, il Tardoglaciale iniziava ca. 14.45-14.7 mila anni cal BP, con la fine del Pleniglaciale, e veniva suddiviso in periodi: Bølling15, Dryas Antico16, Allerød17 e Dryas Recente18 (Jessen, 1935) (Iversen, 1954) (Menke, 1968). Il confronto tra gli eventi bruschi individuati su base isotopica, pollinica e tefrostratigrafica nelle carote di ghiaccio in Groenlandia, nell’Oceano Atlantico settentrionale e nelle successioni lacustri ad alta risoluzione in Europa Centrale, ha portato all’abbandono di questa cronozonazione in favore di una divisione climatostratigrafica (Bjork, et al., 1998): sono, infatti, stati evidenziati una serie di eventi climatici simili nelle regioni artica e centro-europea (anche se risultano evidenti differenze regionali nelle temperature medie e precipitazioni) (Litt, et al.,

15 La cronozona Bølling è caratterizzata da un rapido aumento della temperatura fino a livelli equiparabili a

quelli odierni (7-8°C, forse anche 15°C), collocata convenzionalmente intorno a 14.700 anni fa (Cremaschi, 2004).

16 Il Dryas Antico sarebbe contraddistinto da un picco freddo (Cremaschi, 2004).

17 Al passaggio con la cronozona Allerød, la temperatura ha una flessione di ca. 5°C, assestandosi su valori di

poco inferiori alle attuali (Cremaschi, 2004).

18 La terminazione del Dryas recente, correlabile ad un episodio di improvvisa degradazione climatica, coincide

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2003). Il ritiro dei ghiacciai alpini dagli anfiteatri pedemontani è datato tra 21 e 18 mila anni cal BP, sia in Svizzera che in Italia (Monegato, et al., 2007).

Teoricamente, dunque, tra l’inizio della deglaciazione delle valli alpine e l’interstadio di Bølling –Allerød corrono dunque circa 3500 anni che sono tuttora privi di una collocazione cronostratigrafica; per questo motivo, l’impiego dell’ Oldest Dryas andrebbe evitato, mentre si rende necessaria la presenza di una nuova biozonazione della prima metà del Tardoglaciale nelle Alpi (Ravazzi, 2007). A seguito del collasso dei ghiacciai alpini, le fasi di riavanzate e stazionamenti degli stessi, sono stati indicati come stadi tardoglaciali, distinte, sulla base di apparati di deposizione glaciale nelle Alpi Svizzere interne, in Bühl, Steinach, Gschnitz, Clavadel, Daun, Egesen (Maisch, 1982): i primi due, interpretati inizialmente come stadi di riavanzata, delineano in realtà semplicemente una fase di accomodamento di corpi stagnanti di ghiaccio a seguito del collasso delle lingue e della reazione dei ghiacciai tributari; i restanti, invece, si svilupparono dopo la deglaciazione delle vallate (Reitner, 2007). La collocazione cronologica di Gschnitz, Clavadel e Daun resta problematica a causa della mancanza di vegetazione legnosa (e di conseguenza dalla difficile resa delle datazioni radiocarboniche) (Ravazzi, 2007). Lo stadio di Gschnitz è stato datato a 16-15,5 ± 1,4 mila anni cal BP nell’area tipo (Innsbruck, Austria); lo stadio di Daun precede l’inizio dell’interstadio di Bølling-Allerød e viene ad oggi collocato tra 15,5 mila anni cal BP e l’inizio del Dryas Recente (Ivy Ochs, et al., 2006); alla luce di ciò, gli stadi precedenti il Daun si collocano, dunque, prima dell’inizio dell’interstadio di Bølling-Allerød.

Le analisi palinologiche effettuate nelle zone in prossimità dell’arco alpino, per la ricostruzione della vegetazione durante il tardoglaciale, mettono in evidenza tre fattori fondamentali per lo sviluppo della vegetazione: altitudine, continentalità e latitudine; elementi che condizionano ancora oggi la vegetazione alpina (Argant & Argant, 2003).

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Nello schema della stratigrafia climatica del Tardoglaciale in Europa Centrale, in correlazione con quello relativo della Groenlandia, pubblicato da Ravazzi, et al. (2007) vengono delineati i principali eventi climatici e vegetazionali documentati nel versante meridionale delle Alpi: viene mostrato il riavanzamento della vegetazione a seguito dell’inizio della deglaciazione, nonché la presenza di foreste di conifere a parco negli anfiteatri glaciali e di foreste rade almeno fino a 500 m. s.l.m. nella prima parte del Tardoglaciale (Fig. 3.4.1).

Figura 3.4.1: Schema climatostratigrafico del Tardoglaciale in Groenlandia e in Europa Centrale (Ravazzi, et al. 2007: 167). Vengono mostrate da sx a dx: la stratigrafia isotopica GRIP- in cui le barre orizzontali indicano intervalli di 100

anni- la cronologia e la suddivisione stratigrafica proposta da INTIMATE; la cronologia e la stratigrafia delle successioni varvate dell’Europa Centrale, le serie dendrocronologiche. Il quadrante relativo alle Alpi mostra le climatozone, la successione di stadi glaciali definiti su base paleoglaciologica, eventi vegetazionali sul versante

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A ca. 14.700 ka si ha l’inizio dell’interstadiale Bølling-Allerød suddiviso, secondo la classica zonazione pollinica del Tardoglaciale, in Oldest Dryas, Bølling, Older Dryas, Allerød, Younger Dryas (o Dryas recente), cui diede, quest’ultimo, fine al Pleistocene Superiore e inteso qui come episodio di breve durata situato all’interno dell’intestadio di Bølling-Allerød.

Una elaborazione aggiornata, riproposta da Ravazzi, et al., (2013) mette, invece, in evidenza il contesto crono-stratigrafico in relazione alla deglaciazione nell’area lombarda orientale, con riferimento anche ai depositi localizzati intorno al lago di Garda (Fig. 3.4.2)

Figura 3.4.2: Collocazione nel tempo dei principali eventi climatici che hanno condizionato l’evoluzione del territorio a partire dall’ultima glaciazione, con particolare riferimento all’area lombarda (Ravazzi, et al., 2013: 25).

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3.4.1 Il Dryas recente

Dopo il collasso dei ghiacciai alpini nelle aree comprendenti anfiteatri morenici e grandi laghi (da 21 a 17,5 mila anni cal. BP) si sono verificati ripetuti episodi di avanzate e soste/ritiro dei ghiacciai, fenomeni ai quali è stato attribuito il nome di “stadi tardoglaciali”. Nel 1982, Maisch, in una pubblicazione intitolata “Zur Gletscher-und Klimageschichte des alpinen Spätglazials”, distingue nelle Alpi svizzere interne, gli stadi Bühl, Steinach, Gschnitz, Clavadel, Daun, Egesen. In recenti studi, Ravazzi (2007), presenta le problematiche ancora oggi attive nella collocazione cronologica di questi stadi, dovuti principalmente all’assenza di vegetazione legnosa e di conseguenza alle datazioni radiocarboniche. Dimostra, tuttavia, sulla base di odierne pubblicazioni, che lo stadio di Gschnitz è stato datato nell’area tipo (presso Innsbruck, Austria) con il metodo del 10Be a

16-15,5 ±1,4 ka cal. BP e correlato con lo Heinrich Event 1; il Daun, non avendo ancora datazioni al radiocarbonio, può essere collocato tra 15,5 mila anni cal. BP e l’inizio del Dryas recente; mentre il successivo stadio di Egesen è stato datato con il metodo del 10Be e correlato con il Dryas recente e la prima metà del Preboreale.

Secondo la cronologia più aggiornata dedotta dalle carote di ghiaccio in Groenlandia (Rasmussen, et al., 2007), il Dryas recente in area alpina inziò bruscamente circa 12.895 anni fa, terminando, a seguito di un riscaldamento altrettanto brusco, con l’inizio dell’Olocene circa 11.700 ± 99 anni cal BP (Rasmussen, et al., 2014).

L’origine del Dryas recente (e del deterioramento climatico) è probabilmente da attribuire allo scioglimento del ghiacciaio della Laurentide che ha immesso nell’Oceano Atlantico un’enorme quantità di acqua fredda, causando una modificazione della circolazione oceanica (Cremaschi, 2004).

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A seguito del forte calo delle temperature, è stato registrato un conseguente cambiamento ambientale, verificato nel diradamento della copertura vegetazionale e nell’abbassamento del limite della foresta sotto i 1700 m s.l.m., e documentato, in varie sequenze stratigrafiche, dall’erosione del suolo, dalla deposizione di coltre eolica e l’inizio di una serie di episodi legati al gelo e disgelo (Bassetti & Borsato, 2005).

In linea generale, in relazione alle dinamiche insediative, rispetto alla fase precedente dell’interstadio Bölling-Alleröd (14.500-12.900 anni cal BP) emergono la tendenza ad una riduzione dell’areale stimato di accampamento e della durata di frequentazione dei siti, la ripetuta variazione nella composizione degli insiemi litici e l’evidente frazionamento spazio-temporale delle catene operative; fattori che fanno presupporre ad un aumento di mobilità interna (Dalmeri, et al., 2013).

In riferimento allo stato termico in ambito alpino, una interessante chiave di lettura può essere offerta da recenti studi effettuati su comunità dei chironomidi fossili e di altri resti di invertebrati acquatici nei sedimenti del Lago di Lavarone (TN) che hanno riportato temperature dell’aria di luglio (da 15.000 a 11.000 anni cal. BP) di 10,5-10,8 °C per il periodo antecedente all’Interstadio Tardoglaciale, di 13,8-13,9 °C per la gran parte dell’Interstadio con un leggero aumento a 15,3 °C appena prima del Dryas recente, di 11,7-14,5 °C durante il Dryas recente, e di 15,8-16,4 °C durante l’inizio dell’Olocene. È necessario, tuttavia, tener conto che, per quanto concerne il periodo relativo al Dryas recente, le indagini sono state effettuate su un basso numero di esemplari, rimanendo dunque incerte (Heiri, et al., 2007).

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4: LA VALLE DELL’ADIGE E IL VERSANTE ORIENTALE

DEL GARDA

Il Trentino – Alto Adige è una regione che si trova nella parte meridionale delle Alpi ed è situata nell’Italia nord-orientale. Il territorio è totalmente montano ed è costituito dalla catena delle Alpi Atesine a nord; dalle Alpi Retiche meridionali a sud; dalle Dolomiti ad est. Le montagne più elevate sono l'Ortles (3.899 metri) ed il Monte Cevedale (3.764 metri). La regione comprende la sezione alpina del bacino dell’Adige, corso d’acqua continuo che si sviluppa nel passo di Resia, nell'alta val Venosta, in Alto Adige, a quota 1586 m., e sfocia a Brondolo di Chioggia, in provincia di Venezia, nel mare Adriatico. Lungo 410 km, il fiume Adige attraversa oggi le province di Bolzano, Trento, Verona, Padova, Rovigo e Venezia, ed è il secondo fiume più lungo italiano. L'affluente più importante di destra dell'Adige è il Noce; a Trento l'Adige riceve il Fersina che nasce da due laghetti ai piedi della Cima di Cave.

La Valle dell’Adige costituisce, dunque, un naturale punto di connessione tra la Pianura Padana e le Alpi settentrionali.

Il settore settentrionale del Trentino Alto-Adige, “compreso tra la sorgente dell’Adige fino poco oltre la conca di Merano, è costituito da metamorfiti dell’unità austroalpina (Gruppo dell’Ortles-Cevedale, dalle Alpi Venoste, Breonie e Aurine fino alle Vedrette di Ries). Proseguendo verso sud affiorano le unità subalpine costituite dal basamento cristallino paleozoico e dalle coperture sedimentarie tardo paleozoiche, mesozoiche e terziarie. Nell’area orientale, fino all’altezza di Trento, affiora il Complesso Vulcanico Atesino. L’intero settore meridionale della regione è dominato dall’esteso affioramento delle formazioni calcaree e dolomitiche di età mesozoico-cenozoica” (Bassetti & Borsato, 2005).

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Figura 4.1: immagine ad alta risoluzione dal Modello Digitale del Terreno dell'anfiteatro morenico del Garda e di Rivoli Veronese (da Studio Geologico Associato GeoAlp).

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