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5: L’ANTROPIZZAZIONE DELLE ALPI MERIDIONALI DOPO L’ULTIMO

5.1 Siti principali: Riparo Dalmeri, Riparo Soman, Riparo Tagliente

5.2.6 Arco

Il sito all’aperto di Arco (85 m s.l.m.) si trova a nord della piana dell’Altogarda, in prossimità della pianura alluvionale del Fiume Sarca, che sfocia nel Lago di Garda, a 6 km di Riva del Garda. Le indagini archeologiche nell’area, già conosciuta per una serie di rinvenimenti riconducibili al Neolitico e all’età romana, hanno avuto origine nel 2013, in previsione della realizzazione di un complesso commerciale e residenziale (archeologia preventiva) (Mottes, et al., 2018). Le ricerche hanno avuto proseguimento nel corso del 2015 condotte e finanziate dall’Ufficio dei beni archeologici della Provincia autonoma di Trento (Mottes & Bassetti, 2016). Le indagini hanno consentito di documentare la presenza di un deposito costituito da una sequenza stratigrafica di suoli sepolti in grado di restituire importanti informazioni sulla frequentazione antropica, testimoniata nel sito a più fasi (Mottes, etal., 2014). La sequenza archeologica interessa il tetto di depositi alluvionali ghiaiosi del Fiume Sarca, riferibili al “conoide di Arco” di età tardoglaciale e la porzione distale del “conoide del Rio Bordellino” (Mottes, et al., 2014). Più in particolare, i livelli attribuibili all’Epigravettiano recente, immediatamente al di sotto dei livelli testimonianti la frequentazione mesolitica, si sviluppano su un suolo sepolto posto alla base di una sequenza clinostratificata di depositi

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di versante del conoide del Rio Bordellino (Mottes & Bassetti, 2015). Il sito è fondamentale per la ricostruzione delle frequentazioni antropiche preistoriche del territorio, poiché il rinvenimento di 14 aree strutturate (AS), attribuibili al Paleolitico superiore, testimonia modalità organizzative e spaziali dell’insediamento abitativo, prima sconosciute nei contesti di fondovalle italiani (Mottes & Bassetti, 2016). Le aree insediative, che non subiscono mai sovrapposizione, si presentano ognuna situata intorno a una struttura di combustione. Tutte le aree strutturate sono costituite da un’abbondante presenza di manufatti litici e da settori specializzati nella produzione di supporti, nel confezionamento e mantenimento di utensili, nei lavori domestici (Mottes, et al., 2018) e nella scheggiatura della selce, nonché dalla consistente quantità di fauna calcinata e residui di ocra (Mottes & Bassetti, 2015). Interessante è l’aspetto riguardante l’uso di approntare lo spazio abitativo, attuato in seguito ad un’attività di incendiamento della foresta; questa pratica è documentata dalla presenza di importanti evidenze di combustione di tronchi a terra e ceppaie (Mottes & Bassetti, 2016). Oltre alla presenza di ceppaie non combuste degradate in situ, sono documentate cavità prodotte in seguito allo sradicamento di alberi e impronte di tronchi con tracce di combustione, spesso associate a prodotti di scheggiatura della selce e a resti di fauna calcinati (Mottes & Bassetti, 2015).

È di fondamentale importanza ricordare che l’impiego del fuoco in relazione allo sradicamento è una pratica svolta a partire dal Neolitico, in contesti adibiti per attività di coltivazione o di pascolo (Mottes, et al., 2014). Nel sito sono stati inoltre documentati fenomeni di caduta degli alberi immediatamente successivi alla fase di occupazione epigravettiana e una fase di degrado del versante posto a monte del sito con conseguente deposizione di lenti colluviali che hanno sigillato il suolo di abitato di tutto il Settore 3. La presenza di apparati radicali con tracce di rubefazione che hanno alterato il colluvio testimonia lo sviluppo di una successiva fase di forestazione e di incendio. La presenza di

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ceppaie che mostrano tracce di sradicamento posteriore alla combustione e il ritrovamento di scarso materiale litico all’interno del riempimento confermerebbero l’ipotesi di un ulteriore intervento antropico (Mottes & Bassetti, 2015).

Figura5.2.6.1: AS 7: struttura di combustione in fase di scavo. Si noti la stesura di ghiaia fine (US 476) che copre l’area rubefatta (US 482) (Mottes & Bassetti, 2015: 201).

L’area indagata era colonizzata, durante la fase epigravettiana, da un ecosistema forestale a pino silvestre/mugo (Pinus sylvestris/mugo) (Bassetti & Borsato, 2005) e poteva avvalersi di un collegamento strategico tra l’area montana e la sponda settentrionale del lago di Garda; nel periodo preso in considerazione, la sponda settentrionale del Lago di Garda doveva trovarsi ad una distanza di alcune centinaia di metri dal sito (Mottes, et al., 2018). La fase lacustre del Tardoglaciale è documentata nel sondaggio effettuato a S.Giorgio (80 m s.l.m.) a nord di Riva del Garda, che ha incontrato tra 102 e 154 m di profondità dal piano di campagna una successione di limi e argille limose talora finemente laminate e ricche in resti vegetali, attestando la riforestazione dell’area dopo l’Ultimo Massimo Glaciale (Bassetti & Borsato, 2005). Datazioni al 14C su frammenti vegetali e una pigna di conifera hanno

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restituito età comprese tra 14.416–15.117 cal BP, 14.410–15.266 cal BP e 14.543–15.658 cal BP (Baroni, et al., 2014). Le datazioni al 14C disponibili per il sito di Arco via Serafini inquadrano le due fasi di occupazione epigravettiana nell’ambito del Dryas recente (Mottes & Bassetti, 2016) (Bassetti & Borsato, 2005).

5.2.7 Riparo Cornafessa

Il Riparo sottoroccia di Cornafessa è localizzato presso la Lessinia Trentina a circa 1.240 m s.l.m. nel Comune di Ala (TN). Le campagne archeologiche sono state coordinate a partire dal 2015, dal MUSE-Museo delle Scienze di Trento, con la collaborazione dell’Università di Trento.

Il sito archeologico sorge su un’area contrassegnata dai calcari oolitici di Capo San Virgilio (Duches, et al., 2018); il termine “Oolite di Capo San Vigilio” fu introdotto nelle Alpi Meridionali da Beneke nel 1866 per indicare l’insieme degli strati compresi tra i “calcari grigi” e la “lumachella a Posidonia alpina” o il Rosso Ammonitico Veronese, nella regione del M. Baldo e del Lago di Garda (Avanzini & Massetti, 2007). Le ricerche, ancora in corso, hanno permesso di documentare la presenza di un deposito contrassegnato da almeno un livello antropico. Esso ha, per il momento, restituito un'industria litica tardo-epigravettiana che conta di 130 artefatti e 827 resti faunistici in buono stato di conservazione (non è stata riscontrata alcuna traccia di segni di carnivori o denti di roditori sulle superfici ossee). La caccia all’orso è documentata dal rinvenimento di una costola di Ursus arctos, contrassegnata da un impatto di punta di proiettile in selce.

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Le datazioni dei livelli antropici ottenute indicano 10.080 ± 70 BP (10.050–9350 cal BC) – 10.171 ± 70 BP (10.200–9450 cal BC), attribuendo il sito al Dryas recente (Duches, et al., 2018).

5.2.8 Andalo

Il sito fu segnalato per la prima volta nel 1979, a seguito dell’individuazione di materiale paletnologico posizionato all’interno di depressioni visibili a causa dello sfruttamento di una cava di ghiaia sulla sponda nord del Lago di Andalo (Guerreschi, 1984).

Il sito costituisce un importante passo naturale che, a quota di ca. 1000 m, collega la Val di Non a nord con il Lago di Molveno e la Valle dei Laghi più a sud, e risulta essere delimitato dalla monoclinale calcarea del gruppo Gazza-Paganella (Cremaschi & lanzinger, 1984). L’industria litica rinvenuta in situ comprende diverse classi e famiglie litiche, costituita da selce variegata, probabilmente proveniente da diverse fonti (Dalmeri & Pasquali, 1980). I reperti archeologici, in parte attribuibili al III sec. d.C. (frammenti ceramici e monete, associati a focolari) giacevano all’interno di una serie di buche tronconiche di profondità compresa fra i 50 e 100 cm, originatosi a causa di processi crioergici. Il materiale litico rinvenuto suggerisce una datazione del sito conciliabile con l’Epigravettiano recente, nonché con la fine dell’oscillazione di Alleröd e la fase iniziale del Dryas recente (Guerreschi, 1984).

5.2.9 Malga Palù

Non è presente alcuna pubblicazione sul sito di Malga Palù che possa documentare l’avanzamento delle ricerche in corso, inaugurate da non molto tempo.

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Tuttavia, poche informazioni riconducono al 1997 la scoperta del sito da parte di T. Pasquali e W. Casagranda. Successive prospezioni di superficie avviate nel 2010 evidenziano la presenza di un sito all’aperto in area umida di torbiera caratterizzato dalla sussistenza di industria litica riferibile all’Epigravettiano recente (Dalmeri & Neri, 2011).

5.2.10 Ripari Villabruna

Ripari Villabruna si trovano nella Valle del Cismon, nei pressi del torrente Rosna, a 500 m di altitudine, in provincia di Belluno. Durante il II Pleniglaciale Würmiano, la Valle del Cismon è stata attraversata da un ghiacciaio che ha raggiunto, nei pressi del riparo, ca. 1000- 1200 m di altitudine (Aimar, et al., 1992).

Nel Riparo A di Villabruna, sono testimoniate due fasi di frequentazioni attribuibili al Tardoglaciale: i livelli inferiori 17-10 sono databili tra il 12.150 ± 110 e 11.910± 160 BP (Fiore & Tagliacozzo, 2003) ovvero tra il 14.350 cal BP e il 13.450 cal B.P (Vercellotti, et al., 2008) e riferibili alla fine del Bølling, mentre i livelli 9-4, rientrano nella fase temperata di Allerød ma non hanno restituito datazioni assolute (Fiore & Tagliacozzo, 2003). Il riparo denominato B è riferibile al Castelnoviano e al Neolitico, mentre il riparo C ha restituito un solo livello di occupazione antropica caratterizzato dalla presenza di industria litica riferibile all’Epigravettiano recente (Aimar, et al., 1992). Lavori stradali effettuati nell’area hanno danneggiato i depositi archeologici (Fiore & Tagliacozzo, 2003), intaccando in parte una sepoltura e deterionando la parte inferiore dello scheletro riferibile al Paleolitico Superiore (Aimar, et al., 1992). L’individuo, cromagnoide (Fig. 5.2.10.1), di anni 25, era deposto in posizione supina, distesa e con accanto un gruppo di strumenti in osso e in selce; di particolare interesse è la presenza di un grumo di propoli insieme agli oggetti del corredo. La sepoltura era ricoperta da pietre, una delle quali decorata da uno schema che simboleggia,

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probabilmente, il cacciatore sepolto (Beltrán, 1993). La datazione riferibile alla sepoltura è 14.160–13.820 cal BP (Oxilia, et al., 2015).

Figura 5.2.10.1: Foto della sepoltura di Riparo Villabruna A scattata da A. Broglio (Vercellotti et al., 2008: 145).

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Le pietre dipinte rinvenute a Villabruna sono state messe in correlazione con quelle di Riparo Dalmeri, per il linguaggio pittorico utilizzato nelle rappresentazioni di figure animali o antropomorfe, più in particolare per i contorni marcati, per la stessa tonalità di ocra utilizzata e per la poca cura dei particolari antropici. Queste caratteristiche estremamente simili farebbero riferimento, dunque, al medesimo gruppo culturale nei due siti preistorici (mentre elementi contrastanti si evidenziano in relazione alle pietre rinvenute a Riparo Tagliente, che sono qui incise e non dipinte) (Bertola, et al., 2007). Un particolare confronto tra gli aspetti linguistici e decorativi delle pietre dipinte rinvenute a Riparo Villabruna e a Riparo Dalmeri verrà effettuato successivamente, quando verrà approfondito il tema sulla similitudine e sulla congruenza di numerosi aspetti culturali in entrambi i siti.

5.2.11 Val Lastari

Il sito di Val Lastari è localizzato sulla parte sud-est dell’Altopiano dei Sette Comuni (o Altopiano di Asiago), a 1060 m di altitudine, nelle Prealpi Venete. La scoperta del sito è da attribuirsi ad un gruppo di speleologi, mentre le campagne di ricerca archeologiche sono state effettuate dal 1990 al 1996 sotto la direzione dell’Università di Ferrara (Montoya & Peresani, 2001).

Val Lastari si sviluppa su un’antica rete idrografica, originatasi probabilmente nell’era terziaria e successivamente disattivata a causa di fenomeni erosivi e carsici (Castiglioni, et al., 1988). Durante i pleniglaciali würmiani, l’area non è stata ricoperta dai ghiaccai (fattore che ha invece interessato il settore settentrionale dell’Altopiano), ma fu tuttavia contrassegnata da numerosi fenomeni periglaciali che ne hanno comunque cambiato la morfologia (Broglio, et al., 1994). L’avvio di costruzioni militari durante la Prima Guerra

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Mondiale ha inoltre danneggiato parte del deposito archeologico (Montoya & Peresani, 2001). Nell’area orientale dello scavo è emerso un suolo d’abitato con evidenti tracce antropiche, come accumuli di selce, industria litica, una buca di palo e depressioni caratterizzate dalla presenza di numerosi carboni (Broglio, et al., 1994). I campioni di carbone prelevati hanno offerto diverse datazioni al radiocarbonio e sembra plausibile l’attribuzione del sito all’interstadio Allerôd, più precisamente a 11.213-11.806 cal BC, 11.949-11.194 cal BC, 11.556-12.101 cal BC (Montoya & Peresani, 2001).

Le analisi sulle caratteristiche tecniche, tipologiche e strutturali dell'insieme litico e la presenza di struttre evidenti, indicano che all’interno del sito venivano effettuate attività legate allo sfruttamento di selce locale ( fabbricazione di supporti laminari, di strumenti e di armature) e attività di sussistenza. Sulla base di tali premesse, la frequentazione dell’area potrebbe essersi ripetuta più volte nella stessa area (Broglio, et al., 1994). Le diagnosi geoarcheologiche indicherebbero, inoltre, che nell’area, durante il Tardoglaciale, era predominante un ambiente tipico di steppa, con l’alternanza di periodi stabili e instabili (Angelucci & Peresani, 2000).

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6: DISCUSSIONI: LA RELAZIONE TRA I LIMITI DELLA

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