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Juan Ramón Jiménez: infanzia in un caleidoscopio. Traduzione di "Josefito Figuraciones"

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INDICE

Capitolo I

4

I.1 La vita di Juan Ramón Jiménez

4

I.2 Le tre epoche della poetica di Juan Ramón Jiménez

8

Capitolo II

12

II.1 Un po’ di storia

12

II.2 L’autobiografia: un genere problematico

14

II.3 L’autobiografia di infanzia

17

II.4 Juan Ramón Jiménez autobiografo

18

Capitolo III

Testo originale e traduzione di Josefito Figuraciones

23

I El calidoscopio

28

I Il caleidoscopio

29

II Su madre

30

II Sua madre

32

III El “San Cayetano”

34

III La “San Cayetano”

36

(2)

2

IV L’Assistente scolastico Silóniz

40

V Su tío abuelo

42

V Il suo prozio

44

VI Montemayorcita Jote

46

VI Montemayorcita Jote

47

VII Villegas

48

VII Villegas

49

VIII El quincallero doble

50

VIII Il chincagliere doppio

52

IX Nicolás

54

IX Nicolás

55

X Domingo

56

X Domenica

57

XI Casa atul marino

60

XI Casa azzullo malino

61

XII Ciriaca Marmolejo

62

XII Ciriaca Marmolejo

66

XIII Dolores Arrayás

70

XIII Dolores Arrayás

71

XIV Matilde Navarro

73

(3)

3

XV El zaratán

75

XV Lo zaratán

81

XVI El marinerito

87

XVI Il piccolo marinaio

89

XVII El blancote

91

XVII Il codardo

93

XVIII La casa de la orilla del río

95

XVIII La casa sulla sponda del fiume

96

Capitolo IV

97

IV.1 Josefito Figuraciones

98

IV.2 La lingua e la sintassi di Josefito Figuraciones

101

IV.3 Poesia e prosa: il tono lirico di Juan Ramón Jiménez e

la prosa di Josefito Figuraciones

104

IV.4 Moguer

107

IV.5 Il colore e altri elementi descrittivi

108

IV.6 Analisi della traduzione

110

IV.6.1 I realia

111

IV.6.2 La resa del linguaggio

112

Appendice fotografica

115

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4

CAPITOLO I

I.1 La vita di Juan Ramón Jiménez

Juan Ramón Jiménez nacque nel mese di dicembre del 18811 a Moguer, un paese

della provincia di Huelva, in Andalusia. Il padre, Victor Jiménez, era un ricco produttore e commerciante di vini; la madre, Purificación Mantecón, “allevò, insieme con Juan Ramón e i suoi due fratelli Victoria e Eustaquio, anche la figlia di primo letto di suo marito, Ignacia”2. Juan Ramón trascorse l’infanzia insieme alla famiglia e al suo puledro Almirante con cui andava in giro per le campagne e le vigne. Sin dagli anni infantili emerse la sua indole solitaria che lo spinse a ricercare piacevoli attività quali le passeggiate e l’ammirare i paesaggi attraverso le vetrate colorate della sua casa.

Dopo i primi anni di scuola nel paese natio, Juan Ramón si trasferì a Puerto de Santa María per frequentare il Collegio dei Gesuiti. Gli istituti religiosi erano a quel tempo meta comune delle famiglie agiate che volevano per i loro figli i migliori educatori3. Gli insegnamenti che gli vennero impartiti, però, furono duri e, insieme all’ambiente rigido dei Gesuiti, acuirono il suo senso di nostalgia e malinconia nei confronti di Moguer e delle persone a lui care.

Finito il ciclo di studi, Juan Ramón si spostò a Siviglia per assecondare il volere paterno e iscriversi all’Università dove avrebbe studiato Diritto. Qui, non si dedicò solamente alle materie giuridiche ma si avvicinò anche all’arte e alla letteratura. Fu

1 Sulla biografia di Juan Ramón Jiménez, cfr. Antonio Campoamor González, Vida y poesía de Juan

Ramón Jiménez, Madrid, Sedmay, 1976; Graciela Palau de Nemes, Vida y obra de Juan Ramón Jiménez,

Madrid, Gredos, 1974; Francisco Garfias, Juan Ramón Jiménez, Madrid, Taurus, 1958; Juan Ramón Jiménez, Antología de prosa lírica, edición de M.ª Ángeles Sanz Manzano, Madrid, Cátedra, 2007; Id.,

Platero y yo, edición de Michael P. Predmore, segunda edición, Madrid, Cátedra, 1979; Michael P.

Predmore, La obra en prosa de Juan Ramón Jimémez, segunda edición ampliada, Madrid, Gredos, 1975; Alessandro Martinengo-Carla Perugini, Invito alla lettura di Juan Ramón Jiménez, Milano, Mursia, 1979.

2 Alessandro Martinengo-Carla Perugini, Invito alla lettura di Juan Ramón Jiménez, cit., p. 13. 3 Ivi, p. 14.

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5

proprio a causa di queste che decise di abbandonare gli studi per coltivare i propri interessi artistici e la propria passione letteraria. Frequentò corsi di pittura e lesse Byron, Bécquer, Goethe e Schiller, a quanto lo stesso poeta ci racconta.

La lettura di questi libri lo portò a voler sperimentare e a creare qualcosa di proprio. Il primo testo che egli scrisse fu un poema in prosa che si intitolò Andén e che segnò l’inizio della sua carriera letteraria. Ad esso ne seguirono altri che vennero pubblicati in rivista. Una di queste, Vida Nueva4, inserì tra le sue pagine Nocturno, un componimento in versi in cui il piacere della vita era paragonato alla desolazione della morte. Grazie a ciò, il nome di Juan Ramón Jiménez iniziò a circolare negli ambienti di cultura, all’interno dei quali egli conobbe Salvador Rueda, Francisco Villaespesa e Ruben Darío. Questi ultimi due, diventati in seguito suoi amici, lo esortarono nel 1900 a recarsi a Madrid per pubblicare due suoi libri di poesia di stampo malinconico e sentimentale: Ninfeas e Almas de violeta.

La triste notizia della morte del padre segnò pesantemente la vita di Juan Ramón e trasformò la sua paura per la morte in una ossessione. A causa delle condizioni di salute del poeta e del parere del dottor Simarro, un medico di Madrid amico del poeta, i familiari decisero di farlo ricoverare in una casa di cura. Egli risiedette inizialmente in una clinica della città francese di Le Bouscat (Bordeaux), dove, grazie alla disponibilità del direttore del centro, lo psichiatra Gaston Lalanne, poté consultare e leggere le opere dei poeti simbolisti francesi, come Rimbaud, Baudelaire e Verlaine,

in lingua originale e ampliare le proprie conoscenze poetiche5, in questo luogo trovò

anche la tranquillità adatta per scrivere la raccolta Rimas.

Nostalgico della Spagna, il poeta decise di ritornare a Madrid e di ricoverarsi nella clinica del Rosario. All’interno di questa struttura, incontrò nuovamente lo psichiatra Luis Simarro, che rivestì un ruolo molto importante nella sua vita e che lo ospitò presso la sua casa alla fine del ricovero. Frequentatore della Institución Libre

de Enseñanza6, il medico spinse Juan Ramón a fare altrettanto. Circondato da persone

4 “… una publicación liberal, partidaria de las más avanzadas ideas políticas y anticlericales y de las renovaciones artísticas y literarias más inquietantes”. Antonio Campoamor González, Vida y poesía de

Juan Ramón Jiménez, cit., p. 38.

5 Juan Ramón Jiménez, Antología de prosa lírica, edición de M.ª Ángeles Sanz Manzano, cfr. p. 58. 6 “La Institución Libre de Enseñanza fue fundada en 1876 por un grupo de catedráticos (entre los que se encontraban Francisco Giner de los Ríos, Gumersindo de Azcárate y Nicolás Salmerón), separados

(6)

6

interessanti, come Ortega y Gasset7 e Francisco Giner de los Ríos, il poeta trasse giovamento dal consiglio del dottore, e nel 1903 portò a termine la raccolta Arias

tristes e ampliò la propria formazione culturale attraverso la lettura di testi in inglese

e in tedesco, la partecipazione ad eventi musicali e la visita a musei8. Nello stesso anno, inoltre, Juan Ramón fondò insieme a Martínez Sierra, Pérez de Ayala e altri letterati la rivista Helios, di cui vennero pubblicati solo pochi numeri e che fu portavoce di novità e apertura verso differenti tendenze espressive9.

Nel 1905 Juan Ramón, non essendo più affascinato dall’atmosfera che si viveva nella capitale spagnola, ritornò a Moguer dove rimase per alcuni anni. Durante questo periodo, il suo animo venne turbato dal grave tracollo economico della famiglia. Nonostante gli aspetti negativi, esso fu prolifico e contraddistinto dalla scrittura di

Jardines lejanos, Pastorales, Elejías, Baladas de primavera, La soledad sonora, Poemas mágicos y dolientes, Melancolía, Laberinto. Nonostante durante questi anni

Moguer fu per il poeta l’ambiente ideale dove scrivere e riflettere su di sé, sentì il bisogno di allontanarsene e di ritornare nel luogo in cui era stato in contatto con altri letterari e in cui si era sentito stimolato intellettualmente.

Nel 1912, si stabilì a Madrid presso la Residencia de Estudiantes, centro fondato nel 1910 dalla Junta para Ampliación de Estudios e Investigaciones Científicas. Vi restò fino al 1916, anno in cui si sposò. Fu proprio in questo luogo che conobbe la futura moglie Zenobia Camprubí, una donna molto istruita che attirò subito la sua attenzione. Con lei Juan Ramón collaborò alla stesura di alcune traduzioni, come quella dall’inglese del poeta indiano Rabīndranāth Tagore. Lo stile del poeta, più maturo in questo periodo, fu caratterizzato dalla predilezione per nuovi temi come l’amore, riscontrabile per esempio nelle opere Sonetos espirituales ed Estío.

de la Universidad por defender la libertad de cátedra y negarse a ajustar sus enseñanzas a los dogmas oficiales en materia religiosa, política o moral”. Cit., http://www.fundacionginer.org/historia.htm

7 Il poeta andaluso ne La corriente infinita afferma: “Ortega siempre ha sido un maestro para mí, y en muchas cosas. Su clarividencia a veces obcecada, ha abierto muchos caminos derechos en España. Ortega se mueve siempre en un nivel superior, y yo juzgo ante todo, a los hombres por el nivel en que se mueven”. Juan Ramón Jiménez, La corriente infinita: crítica y evocación, recopilación, selección y prólogo de Francisco Garfias, Madrid, Aguilar, 1961, cit., p. 165.

8 Michael P. Predmore, La obra en prosa de Juan Ramón Jimémez, cfr. p. 22.

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7

Dopo essersi uniti in matrimonio a New York, al loro ritorno, momento in cui Juan Ramón concluse il suo Diario de un poeta recién casado, i due sposi trovarono una Madrid diversa e più caotica, motivo per cui il poeta, sentendosi estraneo al nuovo ambiente, si chiuse in se stesso. Egli si concentrò quindi solo sui suoi scritti (Eternidades, Piedra y cielo, Segunda antolojía poética, Poesía, Belleza) correggendoli e ricorreggendoli come sua abitudine e contando sull’aiuto della moglie. Nonostante questo suo allontanarsi da tutti, Juan Ramón fu sempre presente per i giovani poeti di quel tempo e li esortò a collaborare con lui per le riviste di cui si occupò durante gli anni 1921-1927: Indice, Sí, Ley. Molti studiosi affermano però che, nonostante questa sua apertura verso i giovani, egli venne considerato da alcuni un uomo dall’indole burbera e venne criticato per la sua scelta di solitudine. Quando l’atmosfera della città si infuocò a causa della guerra civile, il poeta decise che sarebbe stato meglio spostarsi e optò per New York. Arrivati in America, i coniugi Jiménez, non dimenticando però ciò che stava accadendo in Spagna, decisero di intercedere, per quanto loro possibile, presso gli organismi nazionali americani affinché contribuissero alla soluzione del conflitto bellico10.

Nel 1936, il poeta e sua moglie si trasferirono a Portorico dove ricevettero un benvenuto caloroso da parte degli abitanti. Dopo un breve soggiorno a Cuba, i coniugi Jiménez si mossero nuovamente verso gli Stati Uniti, precisamente a Coral Gables (Miami). Nel frattempo venne pubblicato Españoles de tres mundos. Da Washington, dove sia lui che la moglie lavorarono per il governo, i due coniugi si spostarono nel Maryland per poter insegnare all’Università. Il viaggio in Argentina e in Uruguay, che venne compiuto nel 1948, fu un episodio molto positivo e gratificante per il poeta che venne accolto con affetto e stima dalla popolazione locale. Il rientro nel Maryland non fu solamente costellato da ricordi piacevoli ma fu anche momento di scrittura di

Animal de fondo.

Negli anni successivi, iniziarono a manifestarsi i problemi di salute sia di Juan Ramón che quelli di sua moglie Zenobia. Ritornati a Portorico, entrambi ripresero i propri incarichi all’Università e si occuparono anche del miglioramento del centro universitario.

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8

Nel 1956, Juan Ramón ricevette il Premio Nobel per la letteratura ma nello stesso anno perse la moglie Zenobia Camprubí. Distrutto dalla perdita, fu ricoverato d’urgenza. Un po’ di tempo dopo, il poeta si riprese e continuò a lavorare alle sue opere. Ammalatosi gravemente, fu costretto a ritornare in ospedale dove morì il 29 maggio del 1958.

I.2 Le tre epoche della poetica di Juan Ramón Jiménez

Coloro che si sono occupati dello studio della poetica di Juan Ramón Jiménez sono soliti suddividerla in tre epoche: la sensoriale, l’intellettuale e la vera.

La prima epoca, che va dal 1898 al 1915, è caratterizzata principalmente dall’influenza di Bécquer e del Romanticismo, del Simbolismo e del Modernismo. Il poeta lesse i libri di Gustavo Adolfo Bécquer durante il soggiorno a Siviglia e ne rimase molto colpito. All’interno di queste opere la forma poetica e la prosa vengono rappresentati come espedienti attraverso i quali esprimere se stessi, il tutto arricchito da motivi romantici. L’ascendente del poeta sivigliano non si limitò solo a mostrare a Juan Ramón nuovi metodi di scrittura, ma come espresso dalla studiosa María Ángeles Sanz Manzano:

al situar el origen de la inspiración en las simas irracionales y recónditas del alma, hizo reparar a Juan Ramón en las infinitas posibilidades que brinda la poesía como ejercicio de conocimiento interior; al concebir la poesía como misterio, suscitó en su joven discípulo la necesidad de reflexionar sobre la propia creación y, por último, al elevar la “forma libre” a la categoría de ideal estético, estimuló al de Moguer a iniciar una intensa búsqueda formal en verso y en prosa. Con la recepción de estas importantísimas enseñanzas dio comienzo, pues, la trayectoria del poeta11.

Dopo aver seguito per un po’ i precetti stilistici di Becquér, Juan Ramón sentì la necessità di qualcosa di diverso. Subì il fascino del Modernismo, “un movimiento jeneral teolójico, científico y literario que en lo teolójico, su intención primera,

comenzó a mediados del siglo XIX en Alemania y se propagó a distintos países”12,

11 Juan Ramón Jiménez, Antología de prosa lírica, edición de M.ª Ángeles Sanz Manzano, cit., p. 48. 12 Id., El Modernismo: notas de un curso (1953), edición, prólogo y notas de Ricardo Gullón y Eugenio Fernández Mendez, Madrid, Aguilar, 1962, cit., p. 50.

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conosciuto grazie all’amicizia con il poeta nicaraguense Ruben Darío, e in seguito del Simbolismo, con cui venne a contatto durante la sua permanenza nella clinica di Le Bouscat. All’interno di questi fenomeni artistici, i sensi, insieme alle sensazioni che ne scaturiscono, assunsero un ruolo nuovo e vennero adoperati dai letterati come strumento attraverso i quali conoscere la realtà che li circondava. Gli stimoli sensoriali quali per esempio il colore, la luce e il suono diventarono elementi utili alla scrittura, capaci di suscitare impressioni ed emozioni nello scrittore. Il simbolo venne a configurarsi come uno dei principali espedienti espressivi per mezzo del quale associare a un oggetto appartenente alla realtà i sentimenti e i pensieri del poeta. In quest’epoca, Juan Ramón predilesse le descrizioni dei paesaggi, soprattutto quelli che riuscivano a riflettere i suoi stati d’animo, la malinconia, il senso di vaghezza, la riflessione sui sentimenti provati, una ricerca accurata del linguaggio. Juan Ramón “pensaba que la palabra es, ante todo, medio de revelación, tal vez el único apropiado para expresar lo que el alma siente”13. Egli decise di concentrarsi sull’espressione della propria interiorità in quanto:

la lectura de la poesía simbolista le había enseñado que la belleza y la precisión formales se quedan en simples fuegos de artificio si carecen “de fondo”. Lo que confiere “fondo” a la “forma” poética es su arraigo al mundo interior del poeta14.

La seconda epoca, che abbraccia gli anni che vanno dal 1916 al 1936, ruota attorno il rapporto di Juan Ramón con Zenobia Camprubí, tramite la quale conobbe le opere di autori inglesi e nordamericani, e l’allontanamento da quelli che erano stati i dettami stilistici modernisti e simbolisti a cui aveva aderito fino a quel momento. Il modo di scrivere di Juan Ramón cambiò. Da quella volta in poi egli optò per un tipo di scrittura più pura ed essenziale, diversa da quella che aveva utilizzato precedentemente. Questa sua volontà è riscontrabile nella pubblicazione del libro

Diario de un poeta recién casado che venne visto dalla critica come “el primero de

una segunda época, caracterizada por una forma más exacta de su lenguaje poético y

por la búsqueda consciente de la belleza”15. Un’opera in forma di diario contenente le

sensazioni e le riflessioni di Juan Ramón provocate in lui dal mare, dal cielo e

13 Ivi, p. 18.

14 Id., Antología de prosa lírica, edición de M.ª Ángeles Sanz Manzano, cit., p. 60. 15 Antonio Campoamor González, Vida y poesía de Juan Ramón Jiménez, cit., p. 156.

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10

dall’amore per la moglie. Il desiderio di Juan Ramón di affrancarsi dal Modernismo è rintracciabile anche nel testo “Vino primero pura…” facente parte della raccolta

Eternidades (1918), in cui la poesia viene personalizzata sotto forma di donna, i cui

vestiti sono gli artifici retorici utilizzati da Juan Ramón Jiménez nel corso della sua creazione poetica. Facendo “vestire” e “svestire” la donna, egli riassume l’evoluzione del suo modo di fare poesia e la sua predilezione finale per una poesia essenziale, priva del superfluo e di artificiosità.

La terza e ultima epoca, dal 1937 al 1958, è costituita dalle opere scritte dal poeta spagnolo durante il suo esilio. L’educazione cristiana ricevuta da Juan Ramón da bambino, che lo accompagnò durante tutta la sua vita, anche nel processo di scrittura, a volte venne messa in crisi. Il krausismo professato all’interno della Institución Libre de Enseñanza fu una delle cause:

en Juan Ramón, concretamente, se originaron los desvíos religiosos que años adelante le harían rechazar una parte de la doctrina católica, creando en su alma un vacío que intentaría llenar con la invención de un dios posible a través de la poesía16.

Un’opera di quest’epoca molto rilevante e che mostra questa sua ricerca è

Animal de fondo (1949). A riguardo Antonio Campoamor González afferma che:

al llegar a este punto, la lírica del andaluz universal se ilumina de un resplandor, de un halo insuperables. Quien haya seguido toda la creación poética juanramoniana anterior ha debido darse cuenta, sin mayor esfuerzo, de que Juan Ramón anda persiguiendo algo extraordinario, un éxtasis sobrenatural, una identificación religiosa, una visión extraña y original que poco a poco, con ímpetu de inquietud irreprimible, se le va acercando con intensa fuerza arrolladora para arrastrarle a un estado incomunicable de emoción suprema, de perfección poéticamente divina.

Animal de fondo no es otra cosa: una ansia sobrehumana que trata de decir un estado de gracia,

de plenitud conseguida, de lograda armonía que el poeta ha buscado sin descanso, infatigable, desde los comienzos de su segunda época17.

Questo libro riassume in sé l’ansia di perfezione di Juan Ramón Jiménez, che non smise mai di ritornare sulle proprie opere al fine di correggerle e migliorarle. L’introspezione tipica di Juan Ramón è presente anche in quest’epoca che chiude la tripartizione operata dalla critica.

16 Ivi, pp. 93-94.

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Da quanto detto, si può dedurre che gli insegnamenti ricevuti dal poeta, le esperienze vissute e i sentimenti provati furono sempre alla base delle sue opere. Perfino la sua traiettoria poetica si basò sugli incontri fatti durante la sua esistenza, che venne a configurarsi come una ricerca spasmodica di un “giusto” modo di fare poesia, un tipo di poesia con cui egli potesse identificarsi e che potesse sentire veramente proprio.

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CAPITOLO II

II.1 Un po’ di storia

Sfogliando un qualsiasi dizionario, come per esempio il Sabatini Coletti, si osserva che con il termine autobiografia si intende la “narrazione della propria vita; l’opera che ne risulta”18 Nonostante questa definizione possa apparire semplice e lineare, nel corso degli anni gli studiosi hanno avuto non pochi problemi nel delineare il fenomeno autobiografico. Tra questi c’è stato Franco D’Intino, studioso delle forme letterarie e italianista, che nel suo libro L’autobiografia moderna: storia forme

problemi si è occupato di tracciare il percorso che ha portato a quello che oggi è

conosciuto come genere autobiografico.

Nonostante la circolazione vera e propria di quelli che possono essere considerati testi autobiografici si sia verificata solo tra la fine del Seicento e l’inizio del Settecento, la presenza di scritti associabili al fenomeno autobiografico fu visibile anche nei secoli precedenti. Questi testi erano principalmente religiosi e filosofici poiché, come afferma D’Intino:

l’influenza del Cristianesimo sul genere autobiografico è stata, nel complesso enorme, soprattutto nel rivendicare l’uguaglianza di tutte le anime dinanzi a Dio e il valore intrinseco di ogni esistenza umana a prescindere dalla condizione mondana; nell’orientare verso l’analisi interiore il discorso su di sé; nel forgiare una concezione della vita come processo dinamico e drammatico, soggetto a modificazioni e sviluppi; nella formazione insomma di un senso storico19.

Molti studiosi indicano infatti come primo modello di autobiografia le

Confessiones di Sant’Agostino, un’opera che unisce l’introspezione psicologica ai

precetti della tradizione cristiana. Con il Rinascimento si assiste a un cambio della visione dell’uomo. Se in precedenza e nel Medioevo, egli venne considerato solamente

18 Si veda il Dizionario il Sabatini Coletti (2007-2008) alla voce autobiografia.

19 Franco D’Intino, L’autobiografia moderna: storia forme problemi, Roma, Bulzoni, 2003, cit., pp. 21-22.

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come parte di qualcosa, la famiglia, la comunità, con il Rinascimento ne fu messa in risalto l’individualità. Egli fu posto al centro delle opere insieme alle sue azioni e alla sue parole. Ciò è riscontrabile per esempio in due opere fra loro diversissime come La

vita di Cellini (1558-1562) e i Saggi di Montaigne (1580). Un contributo molto

importante ai fini della produzione e della diffusione di opere autobiografiche venne fornito anche dal protestantesimo: “la prima grande produzione di massa di testi autobiografici si verifica, nel secolo XVII, in seguito all’impulso dato all’autoanalisi dal diffondersi della Riforma, soprattutto in Inghilterra e in Germania”20.

Una svolta sostanziale a quello che era stato il panorama autobiografico furono

Les Confessions di Jean-Jacques Rousseau, nella seconda metà del Settecento

considerate dalla maggior parte della critica l’opera cardine del genere autobiografico moderno. Esse diedero l’avvio all’affrancamento dell’uomo dal passato e da tutte quelle norme che ne avevano ostacolato l’espressione e la manifestazione della personalità. Da questo momento in poi, si assistette all’esaltazione della diversità e a un’emancipazione intellettuale grazie alla quale gli uomini si sentirono in diritto di raccontare la propria storia. Si poté notare un cambio anche nella scelta dei protagonisti delle autobiografie. A differenza dei tempi antichi, in cui coloro che scrivevano autobiografie erano uomini illustri ed eroi, a partire da Rousseau divenne protagonista anche l’uomo qualunque:

all’uomo pubblico, sociale, che interpreta ruoli e indossa maschere, Rousseau oppone un uomo “nudo”, un uomo “autentico” che, rifiutando di sottostare al giudizio degli altri, di lasciarsi definire secondo criteri sociali e tradizionali, si isola in uno spazio interiore proprio a lui solo21. Le ricchezze e il prestigio non furono quindi più prerequisiti necessari alla narrazione della propria esistenza.

L’autobiografia, inizialmente indistinta dalla biografia, iniziò a occupare un posto all’interno dei generi letterari alla fine del XVIII secolo, periodo in cui ne vennero delineate le principali caratteristiche e ne vennero descritte le norme stilistiche. Si dovette aspettare però l’Ottocento e il Novecento per vederne i prodotti effettivi, frutto dell’applicazione pratica di tali dettami. Questa modalità di scrittura

20 Franco D’Intino, L’autobiografia moderna: storia forme problemi, cit., p. 25. 21 Ivi, p. 53.

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14

venne utilizzata nel tempo con finalità diverse: da mezzo attraverso cui esprimere le proprie volontà apologetiche e autocelebrative, a forma di rivendicazione di gruppi sociali, come la borghesia, e negli ultimi cinquanta anni, di etnie relegate ai margini per ragioni di genere e razza, impossibilitate quindi a parlare di sé (afroamericani, femministe, immigrati, omosessuali ecc...).

L’autobiografia continua a rappresentare anche oggi uno strumento tramite il quale, oltre che raccontare la propria vita, è possibile esprimere se stessi e fare sentire la propria voce.

II.2 L’autobiografia: un genere problematico

Come già accennato precedentemente, il genere autobiografico ha spesso presentato delle difficoltà nella sua identificazione a causa della somiglianza con altri generi, in particolare con le modalità di scrittura storico-biografiche e con il romanzo.

Ciò che permette di distinguere, per quanto possibile, questi tre generi l’uno dall’altro è il fatto che nelle opere storico-biografiche vi sia una forte attenzione per la veridicità dei fatti che vengono narrati e nel romanzo per gli elementi narrativi che lo costituiscono. Lo storiografo e il biografo non si limitano al mero riportare su carta quello che è stato, ma si preoccupano di mantenere la realtà storica degli avvenimenti accaduti. L’autobiografo invece intende raccontare la propria vita per come l’ha vissuta, e ciò che ha provato nel farlo, non occupandosi sempre di mantenere un ordine cronologico e lineare ma piuttosto scegliendo di parlare volontariamente di quelli che per lui sono stati i momenti più importanti e più significativi. Alla veridicità degli storiografi, l’autobiografo contrappone la sincerità. Il suo scopo principale è essere sincero e raccontare il più fedelmente possibile le sua storia, che in base alla sua età e alle sue scelte può abbracciare un arco di tempo variabile.

Le ragioni per cui un individuo è spinto a raccontarsi spesso non sono facilmente individuabili ed esplicite. Secondo D’Intino questo accade perché

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le intenzioni del singolo sono intessute in un contesto più ampio che comprende i codici culturali variabili, la natura del pubblico a cui si rivolge, il proprio ruolo sociale e la possibilità di espressione offerte dal sistema dei generi in un dato momento, i modelli disponibili ecc…22. L’uomo è legato all’epoca e all’ambiente in cui vive e sono proprio questi a influire sulla sua scrittura. Per tutto l’Ottocento l’uomo decide di scrivere la propria storia all’avvicinarsi della vecchiaia e della morte. Egli riepiloga quello che è stato e la riflessione che ne scaturisce lo porta a conoscersi più in profondità. Con il passare degli anni, però, si sono aggiunte delle motivazioni diverse. Fenomeno recente è la scrittura di autobiografie da parte di sportivi o personaggi famosi che, sfruttando commercialmente la propria notorietà, decidono di parlare di sé per aumentare il consenso dei loro sostenitori, rendendoli partecipi della loro sfera personale, e per accrescere la propria fama.

L’ottica più utilizzata nelle opere autobiografiche è quella retrospettiva. L’autore volge lo sguardo al passato dal punto di vista del presente e l’espediente primario attraverso cui riesce a farlo è la memoria. Essa gli permette di tornare a vivere un dato episodio, ma, a causa del suo essere lacunosa e selettiva, ne limita al tempo stesso il racconto in quanto impossibilitata a contenerne tutto il vissuto. Il processo operato dalla memoria per riportare a galla i ricordi è molto complicato. La rievocazione di un ricordo può essere sì provocata da diversi stimoli, quali per esempio l’udito, l’olfatto, il gusto, ma non sempre può portare al risultato che ci si aspetta. A volte possono intervenire, come affermato da Freud, dei meccanismi di difesa, per esempio l’oblio, che possono ostacolare il riaffiorare di un particolare ricordo per il troppo tempo trascorso o in quanto avvenimento spiacevole che determina malessere. Al momento della scrittura l’autobiografo si trova davanti a una duplice scelta: quella di lasciar lavorare la memoria da sola, libera nel ricordare ciò che è rimasto più impresso, o aiutarla in qualche modo a richiamare determinati fatti vissuti. Un quesito che molti autobiografi si pongono è se bisogna aggiungere qualcosa al fine della comprensione o se è preferibile lasciare intatte le lacune presenti nel processo mnemonico. Alcuni sono d’accordo nel dire qualcosa in più purché non si venga meno al proposito di sincerità, altri invece preferiscono non aggiungere più del dovuto per mantenere quel

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senso di incertezza che scaturisce al momento della rievocazione e della scrittura. Non essendoci una regola precisa, ogni autobiografo deve decidere quindi autonomamente ciò che gli sembra più giusto fare e più consono allo scopo della sua narrazione.

Lo stile adoperato dagli autobiografi di solito è informale, a volte è colloquiale. Gli studiosi giustificano questa scelta affermando che la volontà di colui che scrive non è quella di raggiungere vette formali ed estetiche, ma piuttosto di mantenere il carattere personale e spontaneo della scrittura autobiografica, di introspezione, e anche di dare un effetto di sincerità a quello che si sta scrivendo. Coloro che si accostano a tale modalità di scrittura sono consapevoli che un linguaggio troppo formale sembrerebbe falso e stonerebbe con la natura privata del racconto e decidono pertanto di utilizzare una retorica della spontaneità. In alcuni testi è visibile inoltre un’alternanza tra prima e terza persona, anche se la maggior parte degli autobiografi tende a usare la prima.

Un ruolo importante nelle autobiografie viene rivestito dai luoghi e dalle persone legate alla figura dell’autore. In alcune opere, “il nome di una città, di un paese, di una proprietà di campagna diviene così il centro di un complesso quadro simbolico, il nucleo di una fase vitale”23 e insieme a familiari, amici e conoscenti aiuta lo scrittore a ricostruire al meglio la propria vita e raccontare fedelmente le sue esperienze al lettore. Quest’ultimo, il cui giudizio lo condiziona fortemente, è una figura rilevante nel processo di scrittura. Quanto alla struttura del racconto autobiografico, come affermato dallo studioso francese Philippe Lejeune a metà degli anni ‘70 dello scorso secolo nel suo libro Il Patto autobiografico, l’autore stipula dei patti con il lettore per far sì che l’orizzonte di attesa, ossia le sue aspettative sul testo che si sta accingendo a leggere, venga rispettato e per impedire che lo si accusi di insincerità.

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II.3 L’autobiografia di infanzia

Tra le varie forme di autobiografia vi è quella di infanzia, la cui importanza è cambiata notevolmente nel corso degli anni. Per secoli considerata come un elemento da trascurare, essa iniziò a essere presa sul serio solo nel XVIII secolo.

Tra gli studiosi che si sono occupati dell’autobiografia d’infanzia bisogna annoverare Francesco Orlando che in Infanzia, memoria e storia da Rousseau ai

Romantici ne individua il peso all’interno della scena letteraria e Sergio Zatti che ne

completa il quadro nell’appendice del libro.

Prendendo come punto di partenza la figura di Jean-Jacques Rousseau, Orlando mostra come l’infanzia si trasformi da semplice tappa piena di aneddoti esemplari (cadute, malattie, disavventure scolastiche) a parte fondamentale della vita umana e della personalità dell’individuo. Essa diventa un tema su cui si può improntare un racconto organizzando i ricordi in una trama. La maniera in cui l’uomo vive la propria infanzia viene considerata infatti determinante per la formazione del carattere e della persona che sarà. Si sviluppa il piacere per il ricordo infantile che diventa un mezzo attraverso cui riscoprire il proprio passato e il proprio io spesso messo a tacere a causa delle convenzioni sociali. L’autobiografo vuole rievocare questo paradiso perduto

nonostante “la natura oggettivamente intermittente della ricostruzione memoriale”24

rappresenti per lui un ostacolo. Alcuni autori, proprio per ovviare questo problema, decidono di utilizzare delle tecniche stranianti, per esempio il punto di vista del bambino, per riportare a galla e rivivere le stesse sensazioni provate durante l’esperienza infantile e accrescerne così il valore.

Come affermano gli studiosi, il racconto di infanzia non è semplicemente il trattare una breve periodo della vita dell’individuo, ma è il risultato di una lunga evoluzione antropologica e culturale che affonda le radici in diversi fenomeni sociali e non, quali per esempio lo sviluppo dell’individualità borghese e la nascita della psicanalisi. Grazie a Freud, che “ha conferito a questo tipo di racconti una

legittimazione scientifica”25, il racconto di infanzia diventa una dominante

24 Francesco Orlando, Infanzia, memoria e storia da Rousseau ai Romantici, postfazione di Sergio Zatti

Raccontare la propria infanzia, Pisa, Pacini, 2007, cit., p. 300.

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dell’autobiografia novecentesca. Fino al punto che alcuni autobiografi decidono di incentrare i loro lavori solo sulla narrazione dell’infanzia, tralasciando le altre tappe della vita, per risaltarne l’importanza e sottolinearne il valore.

II.4 Juan Ramón Jiménez autobiografo

Anche Juan Ramón Jiménez si è cimentato nella scrittura di opere autobiografiche, le Elejías andaluzas ne sono un esempio. Una studiosa che si è spinta a mettere in relazione la sua opera con il genere autobiografico è stata María Ángeles Sanz Manzano. La studiosa asserisce che l’associazione con l’autobiografia è possibile in quanto “dentro de su proceso creador, Juan Ramón adjudica a su vida una función primordial: la de ser la «fuente», el surtidor de su escritura. Su experiencia vital le proporciona todo el estímulo y todo el material que necesita para su «prosa lírica»”26. L’autore spagnolo incentrando i propri scritti sulla famiglia, sull’infanzia, sui luoghi in cui ha vissuto e che ha visitato e sulle persone che ha conosciuto nel corso della sua esistenza può essere quindi ricollegato all’autobiografia e, in particolare, all’autobiografia di infanzia.

Egli, facendo uso sia della prima che della terza persona, non segue un ordine logico e lineare, ma preferisce raccontare quello che ritiene più importante ai fini della narrazione, quello che è necessario alla comprensione dell’episodio vissuto, “presenta

una visión intencionadamente fragmentada y diversa de su existencia”27. Il suo stile,

pur essendo informale, presenta delle particolarità linguistiche, quali l’uso di tecnicismi, un’ortografia che si distacca dalla norma, e l’uso del linguaggio con precisi fini espressivi.

Le ragioni che portarono Juan Ramón ad accostarsi al genere autobiografico “no pudieron ser fruto de la casualidad sino de una conjunción de circunstancias

«individuales» e «históricas»”28. Fortemente influenzato dall’ambiente che lo circonda

26 María Ángeles Sanz Manzano, La prosa autobiográfica de Juan Ramón Jiménez: estudios de sus

autobiografías, autorretratos y diarios, Alcalá de Henares: Universidad de Alcalá, Servicio de

publicaciones, 2003, cit., p. 64. 27 Ivi, p. 105.

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e dall’epoca in cui vive, l’autore spagnolo sente spesso il bisogno di riflettere, di conoscere se stesso, e ritenendo il trascorrere del tempo una cosa dannosa per il proprio essere utilizza la memoria come strumento attraverso cui contrastarne la forza disgregatrice. Egli lascia fare tutto a lei e le permette di decidere autonomamente quali episodi ricordare e quali no.

“De las distintas edades en que se divide su vida, Juan Ramón elige la infancia como la etapa que su “memoria” ha de rescatar de un modo más exhaustivo y

detenido”29. L’infanzia è vista dal poeta come tappa fondamentale della vita umana, il

cui studio è necessario alla riflessione e al ritrovamento del proprio io. Le Elejías

andaluzas citate in precedenza fanno parte di questo processo di recupero. Esse

comprendono i seguenti testi: Platero y yo, Josefito Figuraciones, Entes y sombras de

mi infancia e Piedras, flores y bestias de Moguer. A questi titoli vanno aggiunti anche En mi casita azul, Adolescente, El poeta en Moguer, Micromegas en Moguer, Moguer

e Por el cristal amarillo, rimasti però solo dei progetti. I testi del primo elenco contengono i ricordi e le esperienze vissute da Juan Ramón Jiménez durante la sua infanzia trascorsa a Moguer. Essi sono costituiti da racconti, ognuno dei quali viene preceduto da un titolo ben preciso e dotato di un particolare significato. Tra questi libri l’unico che venne pubblicato fu Platero y yo che uscì in due edizioni, una nel 1914 e una nel 1917, gli altri, iniziati nel 1906, vennero sottoposti alla continua correzione da parte dell’autore e finirono per rimanere in forma di bozzetto.

È proprio Platero y yo ad aver assicurato il successo del poeta andaluso. Qui, il poeta insieme ad un asinello, il Platero del titolo, passeggia tra i luoghi della sua infanzia e ne ricorda le antiche bellezze:

por los hondos caminos del estío, colgados de tiernas madreselvas, ¡cuán dulcemente vamos! Yo leo, o canto, o digo versos al cielo. Platero mordisquea la hierba escasa de los vallados en sombra, la flor empolvada de las malvas, la vinagreras amarilla. Está parado más tiempo que andando. Yo lo dejo... El cielo azul, azul, azul, asaetado de mis ojos en arrobamiento, se levanta, sobre los almendros cargados, a sus últimas glorias. Todo el campo, silencioso y ardiente, brilla.

29María Ángeles Sanz Manzano, La prosa autobiográfica de Juan Ramón Jiménez: estudios de sus

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En el río, una velita blanca se eterniza, sin viento. Hacia los montes la compacta humareda de incendio hincia sus redondas nubes negras30.

Platero è un compagno particolare, il cui silenzio evocativo e la muta presenza sono parte fondamentale della solitudine del poeta:

[…] el burrillo gris y blanco, que ni es nadie ni es alguien. Que responde dulcemente con el azabache de sus ojos duros, que topa suavemente, que rebuzna hacia lo alto, sin decir nada, que goza con la cosas, con las frutas, con los niños, sin intervenir. Con Platero, Juan Ramón sigue solo. Pero esa soledad se comunica. Platero y yo: está todo en el título. Juan Ramón puede decir: nosotros; pero Platero, no; Platero no hace más que frotarse mimosamente contra Juan Ramón, estar con él, serle un casitú, sin ser nunca yo… No hay más que un yo en todo el libro; el otro es Platero31.

Il libro per il suo linguaggio particolare e delicato e per il dolce protagonista che lo popola ha assunto un ruolo molto importante all’interno della letteratura per l’infanzia.

Josefito Figuraciones è invece il racconto, in prima e in terza persona, di un

bambino che si chiama Josefito e delle rappresentazioni delle cose, le figuraciones del titolo spagnolo, delle persone e dei fatti che scaturiscono dall’uso del suo caleidoscopio. In questo testo, gli episodi infantili di Juan Ramón Jiménez vengono riportati alla memoria attraverso il punto di vista di un bambino:

el niño venía, abría encaramándose el cajón de arriba de la cómoda y sacaba el calidoscopio. Su madre estaba allí, a su lado, seca, sufrida, harta de padecer. Pero él daba una vueltecita al calidoscopio, se caían musicalmente unos cristales y aparecía una madre suya bordeada de colores trasparentes. Lo que allí aparecía él no lo sabía bien. Como si fuera la juventud de su madre […]32.

In Entes y sombras de mi infancia, il poeta introduce elementi di mistero e di inquietudine. Scrive di quelle persone e cose che da piccolo gli provocarono sentimenti sia di attrazione che di paura. Rivive e descrive le esperienze per come le vede il bambino protagonista attraverso i propri occhi:

30 Juan Ramón Jiménez, Platero y yo, edición de Michael P. Predmore, cit., p. 152.

31 Julián Marías, Al margen de estos clásicos: autores españoles del siglo XX, Madrid, Afrodisio Aguado, 1966, cit., pp. 200-201.

32 Juan Ramón Jiménez, Obras. Elejías andaluzas, II: Josefito Figuraciones. Texto preparado por

Soledad González Ródenas y Howard T. Young, prólogo de Francisco Silvera, Madrid, Visor, 2007, cit.,

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Fernandillo venía al oscurecer, cuando a mí me iba entrando el sueño; entonces, al menos, me decían que venía. "¡Ahí viene Fernandillo!". Y yo abría inmensamente los ojos y miraba absorto, estático, asombrado, ya casi sin ver, a la lámpara del comedor, es decir, al florón hueco de rosas de yeso que tenía el cielo raso en el sostén de la lámpara, en cuyos agujeritos negros, no he sabido nunca por qué, situaba yo a Fernandillo […]33.

Juan Ramón ritiene che la natura sia l’unico habitat dell’uomo, il solo luogo in cui egli possa trovare quella pace a cui aspira, con se stesso e con il resto del mondo. Proprio per questo, i protagonisti di Piedras, flores y bestias de Moguer sono gli esseri presenti in essa. Nelle pagine di questo testo prendono la parola le pietre, i fiori. Nei seguenti passaggi i personaggi principali sono le violette e i gigli:

pasaba entre nosotras dejando sus ojos negros que no veían, mirando a sus alas en nuestra amoratada y fresca melancolía. Y nosotras nos poníamos codo en la tierra y la barba en la mano, como esos ánjeles de Rafael, para que descansara plácido. Su barba, negra y dorada, le daba aire de nazareno lírico…; Cuando en mayo nos ponían en el patio de mármol, sobre el aljibe ‒en aquel brocal de una sola pieza de mármol‒, nos coloreábamos de los más vivos y cambiantes tonos por el reflejo azul, verde y rojo de los cristales de la montera pasados por el sol. El patio de mármol era un recinto de frescura, aroma, luz y color34.

Juan Ramón Jiménez non si limita a narrare le cose da un punto di vista solito e scontato, ma sceglie deliberatamente di far parlare coloro che abitualmente non possono farlo. I vasi, le lastre di pietra, tutto ciò che circonda l’uomo è degno di esprimere il suo pensiero e di avere quell’attenzione che merita. L’autore utilizza la tecnica dello straniamento per descrivere e configurare la realtà in maniera innovativa e diversa e per indurre il lettore a trovare nuovi significati alle cose. È normale quindi sentir parlare tra di loro dei vasi di gerani, come accade in Josefito Figuraciones, con un linguaggio colloquiale, come il termine mocilla, e di tutti i giorni data la giovane età dei due fiori:

¿Quién era Ciriaca Marmolejo? El muchacho jeranio colorado de una maceta sin pintar del balcón de la barbería de conde Reyné, le repitió más fuerte, y ya por tercera vez, a una jeranita rosa, mocilla de la otra maceta, la pintada de azul, de la ventana de la honda casa de Paquito Pérez Coronel, el que se llamaba a sí mismo el ‘Milord’; la casa aquélla pegada al

33 Juan Ramón Jiménez, Obras. Elejías andaluzas, II: Entes y sombras de mi infancia. Texto preparado

por María Pilar Celma Valero, prólogo de Francisco Silvera, Madrid, Visor, 2007, cit., p. 105.

34 Id., Obras. Elejías andaluzas, II: Piedras, flores y bestias de Moguer. Texto preparado por Richard

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Cabildo: Quién era Ciriaca Marmolejo?...; …Ciriaca Marmolejo, Ciriaca… Espera, hermano. ¿Cómo se te ha ocurrido hacerme esa pregunta tan de repente? Estoy creyendo recordar que mi madre dijo una vez que Ciriaca vivía al lado de tu casa, en lo que hoy es de Paniagua; pero, la verdad, yo no me acordaba ya de eso […]35

La domanda iniziale del ragazzo-geranio, che vuole saperne di più su Ciriaca, dà l’avvio a un dialogo tra due amici. L’alternarsi di domande e risposte, i ricordi e le descrizioni della geranietta aiutano a figurarsi la scena e rendono il tutto più “umano”. Se in un primo momento il lettore può infatti sentirsi estraneo a questa tipologia di narrazione, proseguendo nella lettura egli riuscirà ad apprezzarne il valore e l’incisività.

Il poeta si cala alla perfezione nel ruolo di colui che, attraverso delle figure che non sono mai false imitazioni o caricature eccessive e crudeli, ha come scopo l’essere il narratore di ciò che lui stesso ha provato e vissuto, riportandolo sulla carta in maniera veritiera e a volte con della sottile ironia.

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CAPITOLO III

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28 I

EL CALIDOSCOPIO

El niño venía, abría encaramándose el cajón de arriba de la cómoda y sacaba el calidoscopio.

Su madre estaba allí, a su lado, seca, sufrida, harta de padecer.

Pero él daba una vueltecita al calidoscopio, se caían musicalmente unos cristales y aparecía una madre suya bordeada de colores trasparentes.

Lo que allí aparecía él no lo sabía bien. Como si fuera la juventud de su madre. Como si fuera andando por caminos de primavera sostenida por hilos invisibles. Como una rosa que fuera su madre o una vidriera de colores, como la de la iglesia, con su madre en el centro como una Virjen.

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29 I

IL CALEIDOSCOPIO

Il bambino arrivava, apriva arrampicandosi il cassetto superiore del canterano e ne tirava fuori il caleidoscopio.

Sua madre era lì, accanto a lui, secca, sofferente, stanca di patire.

Ma lui dava una giratina al caleidoscopio, alcuni cristalli cadevano musicalmente e appariva una madre incorniciata da colori trasparenti.

Quello che lì appariva, lui non sapeva bene cosa fosse. Come se fosse la giovinezza di sua madre. Come se stesse passeggiando lungo cammini di primavera sostenuta da fili invisibili. Come una rosa che fosse sua madre o una vetrata, come quella della Chiesa, con sua madre al centro come una Vergine.

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30 II

SU MADRE

Su madre estaba allí a su lado bordando un cojín, pensativa, leñosa, acabada, con un resto de belleza que al menor cuidado brotaba como el rosal en primavera.

Josefito Figuraciones, en una sonrisa vergonzosa, la pasaba con sus ojos al calidoscopio, y allí dentro, dando vueltas despacito al tubo azul y oro, deteniéndolo donde más le gustaba, vivía una historia. Primero veía a su madre casi como era, pero como en su no conocida juventud, bordeada toda su graciosa edad de colores finos celestes, violetas, rosados. Luego, al jirar el májico tubo, las figuras se abrían súbitas y se componían otra vez en flores colgantes, pensiles ricos, preciosa estampa presente, pero aún sin relación, como el desconocimiento que él tenía de la otra edad de ella. Rosas después, lirios a un lado y otro de un camino verdeoro, por el que la caminante fuera al mismo tiempo su madre mayor, la nube y la vereda. Aquel camino bajaba a un río claro que era casi el río Tinto de Valdemaría, por una bellísima ladera oriental; y en el río había, bajo un álamo, una barca que iba llevando del Sur al Poniente y que era un cristal de color donde su madre estaba embarcada con su maleta, como una imajen dulce, aún joven, radiante en el centro, y alrededor cristalitos granas, rosas, un poco blancos pasados de una luz altísima…

‒¿Qué haces, pillo? ‒¡Nada!

Josefito dejaba el calidoscopio, iba al comedor por un pico de rosca y:

‒Mamá, ¿no te vas a arreglar?

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… Sobre la concentrada, rápida, última alegría de la tarde de abril en los cristales grandes de la galería, tras la que las flores de las macetas añiles volvían, el calidoscopio, flauta de sus ojos, le seguía contando y cantando su cuento. Los cascabeles del coche de las cinco, que bajaba por el medio sol de la Calle Nueva, él los oía finísimos, pequeñitos, proporcionados, dentro del calidoscopio, música graciosa que cercaba, como una cabellera también negra y oro, la felicidad abstracta de una renovada madre invisible. Él no veía ojos ni boca ni manos, sólo armonía actual, viva leyenda encantadora, una frente total a veces, una sien absoluta, lo que él consideraba más dolorido en la vida de su madre. Y él la convertía sucesivo, apoteosis ardiente, en agua primaveral, en sol y luna, en azucena del patio de mármol, en repique de campanas de víspera, en racimo de uvas, en cruz de mayo, en espiga granada, en Virjen del Rocío, en lluvia enredadera de campanillas azules, carmines, moradas…

… Moradas, azules, malvas. La hora real volvía la historia un poco distinta, no sabía él cómo ni por qué. Pero el color no era del sentido de antes. Y, como huyendo de algo estraño, incomprensible, dejaba el calidoscopio escondido bajo un cojín de damasco amarillo y se iba corriendo a la puerta de la calle, a ver si veía a Lauro, su confidente único.

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32 II

SUA MADRE

Sua madre era lì accanto a lui che ricamava un cuscino, pensierosa, legnosa, sfinita, con un residuo di bellezza che alla più piccola cura sbocciava come rose a primavera.

Josefito il fantasioso, con un sorriso timido, la guardava attraverso il caleidoscopio, e lì dentro, girando lentamente il tubo azzurro e oro, fermandolo dove più gli piaceva, viveva una storia. Per prima cosa vedeva sua madre quasi com’era, ma come era nella sua non conosciuta giovinezza, tutta la sua graziosa età contornata di colori delicati: celeste, viola, rosato. Dopo, quando girava il magico tubo, le figure si aprivano di colpo e si ricomponevano di nuovo in fiori pendenti, pensili ricchi, preziosa stampa del presente, ma senza un senso, data l’ignoranza che aveva dell’altra età di lei. Poi rose, iris su entrambi i lati di un cammino verdeoro, nel quale la camminatrice era al tempo stesso sua madre adulta, la nuvola e il sentiero. Quel cammino scendeva verso un fiume cristallino che era quasi il fiume Tinto di Valdemaría, lungo un bellissimo pendio orientale; e nel fiume c’era, sotto un pioppo, una barca che portava da Sud a Ovest e che era un cristallo di colore in cui sua madre era imbarcata con la sua valigia, un’immagine dolce, ancora giovane, che risplendeva al centro, e tutt’attorno piccoli cristalli rossi, rosa, un po’ bianchi, attraversati da una luce altissima…

‒Che fai, birbante? ‒Niente!

Josefito lasciava il caleidoscopio, andava nella sala da pranzo a prendersi una fetta di ciambella e:

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‒Hai ragione, sono già le cinque. Vado, figliolo.

… Sull’attenta, rapida, ultima allegria della sera di aprile nelle grandi finestre della veranda, dietro la quale i fiori dei vasi indaco riapparivano, il caleidoscopio, flauto dei suoi occhi, continuava a raccontargli e a cantargli il suo racconto. I sonagli della carrozza delle cinque, che scendeva attraverso il sole al tramonto di Calle Nueva, lui li sentiva nitidissimi, piccolini, proporzionati, dentro il caleidoscopio, musica gradevole che accerchiava, come una chioma anch’essa nera e oro, la felicità astratta di una rinnovata madre invisibile. Egli non vedeva occhi né bocca né mani, solo armonia attuale, viva leggenda affascinante, un intero viso a volte, una tempia assoluta, quello che considerava più doloroso nella vita di sua madre. E la trasformava successivamente, apoteosi ardente, in acqua primaverile, in sole e in luna, nel giglio del patio di marmo, in suono festoso di campane di vigilia, in grappolo d’uva, in croce di maggio, in spiga matura, nella Vergine del Rocío, in pioggia avvolgente di campanelle di color azzurro, carminio, viola...

… Azzurro, carminio, lilla. L’ora effettiva rendeva la storia un po’ diversa, non sapeva come né perché. Ma il colore non assumeva lo stesso significato di prima. E, come fuggendo da qualcosa di strano, incomprensibile, lasciava il caleidoscopio nascosto sotto un cuscino di damasco giallo e correva all’entrata della via, per vedere se avrebbe incontrato Lauro, suo unico confidente.

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34 III

EL “SAN CAYETANO”

Cristal oscuro, dátil verde, tenebrosa esmeralda mayor, mate y tenaz, que se desprendía solo del total laberinto. Le pareció un barco que se despegaba de la orilla. Sí, era el “San Cayetano”, que él oyó contar tantas veces que había varado en La Barra una ardiente noche de temporal eléctrico. Y ahora, a una aguaje favorable, quizá el de Santiago, a una resaca briosa, se desprendía del banco de arena, se separaba de él, meciéndose como una cuna, y por fin se quedaba a flote, alto, equilibrado, como recién botado, hermoso, lo mismo que su Almirante rojo en el patio de piedra en medio del río, del mar.

Estaba cargado, como la tarde lujosa que él lo vio acabado de pintar, verde y amarillo, de bocoyes nuevos, preciosos, aromados, ciento, más, todos repletos de vino moscatel que los orillaba de mieles, dispuesto a salir de madrugada para El Puerto, Cádiz, Gibraltar, Málaga. Caía la tarde y la ribera de Moguer brillaba, de trasparente y solitario azul Prusia, con los laúdes, faluchos, bergantines, casi vapores anclados entre el muelle y la barca del Baño de las Mujeres. Él leía perfectamente en las popas pintadas de blanco y rojo, de celeste y negro, de ocre y verde, combinaciones como los trajes de los toreros, los nombres, letras y colores, que le gustaban unos más que otros: “La Estrella”, “El Lobo”, “La Joven Eloísa”, “Enriqueta”, “La Caprichosa”, el “San Cayetano”.

El “San Cayetano” era el suyo, el de su padre, el más grande, el más hermoso, el mejor, el más nuevo, el que andaba más, el que tenía mejor patrón y más marineros. Y Picón lo llevaba a él, al señorito chico, de la mano por el peligro redondo de los bocoyes acumulados, un rebaño, y le contaba del viaje sonriendo en su rubia morenez de hombre de la Calle de las Flores. Luego bajaban a la lancha y volvían al muelle, evitando con la cabeza cadenas y maromas. Las popas, los timones de los barcos, se

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agrandaban primero, se agrandaban como monstruos; después disminuían, disminuían, daban una vuelta y se quedaban lejos. Y el “San Cayetano” se perdía al fin entre otros barcos más pequeños que entonces parecían mayores. Y él se lo imajinaba cerrado con sus linternas e sus gatos, más cerca de la otra orilla, ya en la noche verdinegra cruzada de palos y amarras…

“¡A comer!”. Jugueando su risa, Josefito repetía, casi inconsciente, a su padre: “¡A comer!”, y sin transición, se quedaba serio y encojido en su silla, mirando absorto el agua del vaso, el vino de la copa, marinos en aquel instante confuso.

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36 III

LA “SAN CAYETANO”

Cristallo scuro, dattero verde, cupo smeraldo tra i più grandi, opaco e resistente, che si separava solo dall’intero labirinto. Gli sembrò una nave che si allontanava dalla riva. Sì, era la “San Cayetano”, della quale sentì dire molte volte che si era arenata ne La Barra durante una notte ardente di temporale elettrico. E ora, con una scia favorevole, forse quella di Santiago, con una risacca spumeggiante, si allontanava dal banco di sabbia, se ne separava, ondeggiando come una culla, e finalmente riusciva a stabilizzarsi, alta, equilibrata, come appena tirata in secco, bella, allo stesso modo del suo Almirante rosso nel patio di pietra, in mezzo al fiume, al mare.

Era carica, come la sera lussuosa in cui la vide appena finita di dipingere, verde e giallo, con botti da 600 litri nuove, pregiate, aromatizzate, cento, forse di più, tutte piene di moscatello che le bordava di miele, pronta a salpare all’alba verso El Puerto, Cadice, Gibilterra, Malaga. Scendeva la sera e la costa di Moguer brillava di un trasparente e solitario azzurro Prussia, con i leuti, le feluche, i brigantini, come nubi ancorate tra il ponte e la barca del Baño de las Mujeres. Egli leggeva perfettamente sulle loro poppe dipinte di bianco e di rosso, di celeste e di nero, di ocra e di verde, combinazioni formate da vestiti da torero, da nomi, da lettere e da colori, che gli piacevano alcune di più, altre di meno: “La Estrella”, “El Lobo”, “La Joven Eloísa”, “Enriqueta”, “La Caprichosa”, la “San Cayetano”.

La “San Cayetano” era la sua, quella di suo padre, quella più grande, quella più bella, quella migliore, quella più nuova, quella che andava più veloce, quella che aveva il miglior proprietario e più marinai. E Picón lo accompagnava, il padroncino, tenendolo per mano a causa del pericolo rotondo delle botti da 600 litri accumulate, un gregge, e gli raccontava del viaggio sorridendo nella sua brunezza bionda di uomo di Calle de las Flores. Dopo salivano sulla lancia e ritornavano al ponte, schivando con

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la testa catene e funi. Le poppe, i timoni delle navi, all’inizio si ingigantivano, si ingigantivano come dei mostri; dopo si rimpicciolivano, si rimpicciolivano, giravano e rimanevano in lontananza. E la “San Cayetano” si perdeva infine tra le altre barche più piccole che in quel momento sembravano più grandi. E lui se la immaginava chiusa con le sue lanterne e i suoi gatti, più vicina all’altra sponda, ormai nella notte verdenera attraversata da alberi e ormeggi…

"A tavola!". Scherzando, Josefito imitava, quasi inconsciamente, il padre: "A tavola!", e senza batter ciglio, rimaneva serio e immobile sulla sua sedia, guardando assorto l’acqua nel bicchiere, il vino nel calice, come se fossero dei mari in quell’instante confuso.

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38 IV

EL AUXILIAR SILÓNIZ

Y aquel circular, hondo pardo en esmeril del día de agua, con los cristalitos más pardos todavía y goteantes, pinar también mojado en horizonte triste, racimo de uva negra en aguardiente, le trajo a la memoria de sus ojos a don Paco Silóniz, el Auxiliar del colejio de don Carlos Girona y Mexía, que estaba en la cárcel por aquel robo de aquel tejado de aquel granero de aquella casa de la Calle del Sol. Todo aquello que él había oído contar de sobremesa a su tío Esteban sin creerlo ni mellar en lo más leve su cariño y su admiración por don Paco.

De pronto, Josefito dejó el calidoscopio en el sofá y, disimulando, se acercó de silla en silla chillantes sobre el mármol, a su madre. Y le dijo repentino, mirando y oyendo en la montera de melancólico tono el grueso aguacero: “¿La cárcel de Moguer tiene montera, mamá?”. Y casi sin esperar respuesta se fue corriendo a la sala de damasco amarillo.

Él había oído, además, condenar a don Paco Silóniz en la calle, en el Casino de los Caballeros, en el Teatro, en la Velada; pero la idea de que era inocente estaba tan honda y firme en su corazón, que hubiese sido capaz de herir a todos en uno, como David a Goliat, con honda, escopeta de salón o tirachinos. Sin embargo, no se atrevía a hablar del asunto abiertamente con los mayores ni a nombrar al Auxiliar siquiera. Sólo a Manolito Infante, el secretario de su padre: “¿La cárcel de Moguer tiene camas?”. Y se iba otra vez corriendo del escritorio a la sala honda, sola, a mirar por el calidoscopio su fantasía iluminada sobre el jardín.

Josefito veía al Auxiliar con su traje de alpaca gris raído y encojido, en una cárcel preciosa, diminuta y afiligranada, algo así como la Sala de las Damas del Alcázar de Sevilla, que él tenía en una tarjeta postal de colores, sala que era también cámara con luz cenital de buque mayor, sacristía de vidrieras coloristas y el mismo calidoscopio

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de opaca claridad cerrada que él colocaba, disco con disco, contra el bajo sol marino violeta de la mañana de invierno. Y a la luz difusa y armoniosa, el Auxiliar estaba sentado en un cristal del calidoscopio bebiendo despaciosamente una copa de vino dulce del Diezmo Viejo, de aquél que era su delicia, como él decía, puestos en evidencia inocente, al levantar salidos los puños de celuloide de su camisa, los pasadores de oro de su robo, que eran completamente suyos, muy suyos, suyísimos, del Auxiliar don Paco Silóniz y de nadie más. Luego, sobre una carpeta velador de laca negra, rojo y oro, como las que hacía el Madrileño de las cajas de pañuelos de Manila, escribía, con el meñique al aire, una de aquellas maravillosas planas de cuarta con aquella letra española tan esbelta, aquella tinta de fuchina cardenal tornasolada de verde, de un color, un olor y un sabor metálico tan ricos, que a él le gustaba tanto ver caer, los lunes, de la botella grande aceituna en los tinteros, y luego, al trasluz, en el ojo delgado de la chata pluma nueva.

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40 IV

L’ASSISTENTE SCOLASTICO SILÓNIZ

E quel circolare profondo marrone scuro nello smeriglio del giorno acquoso, con i piccoli cristalli ancor più scuri e gocciolanti, pineta bagnata anch’essa in orizzonte triste, grappolo d’uva nera in acquavite, riportò alla memoria dei suoi occhi don Paco Silóniz, l’Assistente scolastico della scuola di don Carlos Girona y Mexía, che si trovava in carcere per il furto del tetto del granaio di quella casa di Calle del Sol. Era tutto quello che aveva sentito raccontare a pranzo da suo zio Esteban, senza credergli né intaccare minimamente il suo affetto e la sua ammirazione per don Paco.

All’improvviso, Josefito lasciò il caleidoscopio sul divano e, facendo finta di niente, si avvicinò a sua madre passando da una sedia all’altra che scricchiolavano sul marmo. E subito le disse, guardando e sentendo nella veranda dai toni malinconici il forte acquazzone: "Nel carcere di Moguer c’è la veranda, mamma?". E quasi senza aspettare una risposta se ne andò correndo nella sala di damasco giallo.

Egli aveva sentito, inoltre, disapprovare don Paco Silóniz per strada, nel Casino de los Caballeros36, a Teatro, nella Velada37; ma l’idea che fosse innocente era così profonda e radicata nel suo cuore, che sarebbe stato capace di ferire tutti in un colpo solo, come Davide a Golia, con la fionda, lo schioppo o la frombola. Tuttavia, non osava parlare apertamente della questione con i più grandi né nominare l’Assistente scolastico. Lo faceva solamente con Manolito Infante, il segretario di suo padre: "Nel carcere di Moguer ci sono i letti?". E se ne andava via di nuovo correndo dallo studio

36 Come riportato nel dizionario online della RAE con il termine casino si intende: una “sociedad de hombres que se juntan en una casa, aderezada a sus expensas, para conversar, leer, jugar y otros esparcimientos, y en la que se entra mediante presentación y pago de una cuota de ingreso y otra mensual”. [N.d.T.].

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alla sala profonda, isolata, a guardare nel caleidoscopio la sua fantasia illuminata sul giardino.

Josefito vedeva l’Assistente scolastico con il suo vestito di alpaca grigio, logoro e infeltrito, in un carcere bellissimo, piccolo e curato nei minimi dettagli, qualcosa come la Sala de las Damas del Alcázar di Siviglia, che era rappresentata in una sua cartolina a colori, sala che era una grande camera con luce proveniente dall’alto, sagrestia con vetrate colorate e lo stesso caleidoscopio di opaca luminosità coperta che lui posizionava, disco contro disco, verso il basso sole marino violetto della mattina d’inverno. E nella luce diffusa e armoniosa, l’Assistente scolastico era seduto su un cristallo del caleidoscopio e beveva lentamente un calice di vino dolce della cantina Diezmo Viejo, ossia di quello che era la sua delizia, come lui stesso diceva, mettendo in un’innocente evidenza, nel sollevare il braccio e facendo sporgere i polsini di celluloide della sua camicia, i gemelli d’oro del suo furto, che erano completamente suoi, molto suoi, suoissimi, dell’Assistente scolastico don Paco Silóniz e di nessun altro. Dopo, su un supporto di lacca nera, rosso e oro, come quelli che creava il Madrileno dalle scatole di scialli di seta ricamati di Manila, scriveva, con il mignolo alzato, una di quelle meravigliose pagine di calligrafia che si fanno a scuola per imparare a scrivere con quel carattere spagnolo così snello, quell’inchiostro di fucsina violetto cangiante di verde, di un colore, un odore e un sapore metallico così prelibati, che a lui piaceva tanto veder cadere, i lunedì, dalla bottiglia a forma di grande oliva nei calamai, e dopo, in controluce, nell’occhio magro della nuova piuma schiacciata.

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42 V

SU TÍO ABUELO

La abundancia de cristales, oscura piña, dramático rosetón cargado y como pegado que tenía el calidoscopio al cojerlo él aquél día, aquella morada negra dalia aceitunosa prieta feona, que aparecía tantas veces y a él le gustaba tan poco, quedó convertida, por no sabía él qué májico escamoteo súbito, en una leve, delgadísima, casi ausente flor de hilos amarillentos, blancotes, verdines, que la espléndida luz estrellada de oro chispa de la tarde, agua y sol de carnaval, trasparentaba musicalmente sobre el opaco cielo redondo del fondo.

Y Josefito vio el Arroyo de Mariana, los Arroyos de las Angustias, y al momento el río Odiel, y luego el Mar, y después Cádiz, y más allá, un poco desconocidos y huraños, el Peñón y el Estrecho de Gibraltar, y unas Islas Filipinas, al fin, de que él había oído tanto a don Luis Bayo y visto en el globo terráqueo del gabinete de física de don Joaquín de la Oliva. Y vio a su tío abuelo vestido de Almirante, en un barco (que era al mismo tiempo el “San Cayetano”, “La Estrella”, el “Conde del Venadito”, el “Pelayo” de «La Ilustración Española y Americana»), rodeado todo de anteojos, banderas, cañones, mariposas disecadas, lanzas largas de madera labrada, cajas de laca, carta marítimas, sables de honor, la sala de su otra casa. Venía el barco suave por un canal encendido entre las orillas de los cristalinos verdientes y amarillosos, que eran islas estraordinarias llenas de loritos reales, piñas, de las negritas desnudas de las cajas de tabaco, de fuentes de Agua de Florida.

Su tío abuelo no tenía otra cosa que hacer que estar vestido de Almirante en medio de su barco. Y su barco, su buque estaría aquella tarde de Carnaval en la solitaria y hermosa altamar de la fiesta terrestre, tan lejos y al lado, sin embargo, de Moguer, casi en Palos, casi en Punta Umbría, casi en la boca de La Barra; pero mucho más allá también, quizá en aquel sitio azul profundo, bandera roja y amarilla, nubes blancas en

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que él, desde el “Conde del Venadito”, vio desfilar, en mediodía universal de agosto, los busques de guerra, colores y músicas de todos los países, cuando el centenario de Colón.

Y su tío abuelo, patillas blancas, muy estirado de vientre y pecho, miraba con un largo anteojo por las Playas májicas y solas de Castilla cercadas y lejanas. Miraba a Moguer, Calle de la Ribera arriba, y miraba las máscaras en la Plaza del Cabildo, miraba la ventana de su sala a la Plaza de la Iglesia, y lo miraba a él, a Josefito, anteojo con calidoscopio, en coincidente túnel largo, largo, interminable. Almirante de gala, Almirante con fin en sí, Almirante para nada y para todo. Es decir, para estar en la mar, como un pino en el monte; para no estar en el bombardeo del Callao, para no estar inválido en un sillón con las hinchadas piernas vendadas y unas hormigas alrededor de los pies con calcetines blancos, como él lo había visto un día fresco y sol de otoño en el tapiado jardín de su otra casa.

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