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ST2 nel paziente cardiochirurgico: cinetica e utilità clinica

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Academic year: 2021

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UNIVERSITÀ DI PISA

DIPARTIMENTO DI PATOLOGIA CHIRURGICA, MEDICA,

MOLECOLARE E DELL'AREA CRITICA

SCUOLA DI SPECIALIZZAZIONE IN ANESTESIA,

RIANIMAZIONE, TERAPIA INTENSIVA E DEL DOLORE

“ST2 nel Paziente Cardiochirurgico: Cinetica

e Utilità Clinica”

RELATORI

Prof. Francesco Forfori

Dott. Fabio Guarracino

CANDIDATA

Dott.ssa Romilda Tucci

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INDICE ANALITICO

INTRODUZIONE……….5 PREMESSA………...5 IL PAZIENTE CARDIOCHIRURGICO……….8 BIOMARCATORI CARDIACI………...12 ST2………16 - Storia……….16 - Utilità clinica……….20

- ST2 dopo interventi cardiovascolari……….24

STUDIO……….28

OBIETTIVO DELLO STUDIO………28

MATERIALI E METODI………..………28

- Popolazione e disegno dello studio……….………28

- Interpretazione dei valori di ST2………31

- Statistica e analisi dei dati………..………32

RISULTATI……….33

- Analisi descrittiva della popolazione………33

- sST2……….………36

- Troponina………42

- BNP……….44

- EuroSCORE II……….46

- Endpoint primari: durata della degenza e mortalità………47

- Endpoint secondario: complicanze postoperatorie………..…52

DISCUSSIONE……….……56

LIMITI………..……62

CONCLUSIONI………..63

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INTRODUZIONE

PREMESSA

L’evoluzione delle tecniche anestesiologiche, rianimatorie e chirurgiche e la diffusione di affidabili sistemi di monitoraggio delle principali funzioni fisiologiche hanno notevolmente aumentato negli anni recenti l’“offerta chirurgica”, sia rendendo possibili opzioni di trattamento chirurgico precedentemente non esistenti che permettendo di limitare le controindicazioni assolute in pazienti considerati ad alto rischio per età e comorbidità.

Già l’attuale distinzione tra chirurgia invasiva e mini-invasiva, l’espansione delle procedure interventistiche, fanno capire come si sia profondamente modificato il panorama chirurgico. La possibilità di raggiungere lo stesso risultato dell’intervento chirurgico tradizionale, utilizzando procedure meno invasive, meno traumatizzanti dei tessuti, caratterizzate da un più rapido recupero funzionale, ha rappresentato sicuramente un progresso notevole, spesso anche in termini di riduzione del rischio correlato all’intervento.

Accanto ai progressi compiuti dalla chirurgia, di pari passo, analoghi miglioramenti si sono registrati in ambito anestesiologico, per quanto riguarda le tecniche anestesiologiche e le strategie rianimatorie, con il progresso nelle modalità di monitoraggio del paziente durante tutto il periodo peri-operatorio.

Avere più opzioni chirurgiche a disposizione, significa che c’è una maggiore probabilità di individuare l’intervento più consono per il singolo paziente. Pazienti

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che un tempo non venivano considerati idonei all’intervento tradizionale, oggi, avrebbero la possibilità di essere operati, grazie ai più alti standard di sicurezza raggiunti nell’atto anestesiologico-chirurgico.

La diretta conseguenza di questo processo è il cambiamento quantitativo e insieme qualitativo che ha subito la popolazione dei pazienti chirurgici.

Il paziente chirurgico è sempre più anziano. La cosiddetta “chirurgia della terza età” ha visto un grande sviluppo negli ultimi anni, sia con l’aumento dei pazienti ammessi all’intervento chirurgico, che con il progressivo innalzamento del limite d’età che oggi raggiunge in alcuni casi i novanta anni. Questo cambiamento, che non riguarda solo interventi di necessità o d’urgenza ma anche procedure in elezione, è stato sicuramente favorito dagli straordinari progressi precedentemente indicati, ma anche dalla raggiunta consapevolezza che al paziente anziano va riservata, sin dalla fase pre- fino a quella peri- e post-operatoria, un’attenzione del tutto particolare. Egli può essere portatore di una o più patologie, soprattutto croniche, che lo rendono più fragile e vulnerabile nei confronti dello stress chirurgico. Nasce quindi l’esigenza di inquadrare questo paziente in tutta la sua complessità clinica, definendone adeguatamente lo stato funzionale e valutandone le eventuali comorbidità e il rispettivo grado di stabilità clinica.

Si profila per i medici il problema di dover gestire un paziente con un substrato clinico potenzialmente più complesso.

Il cambiamento del substrato chirurgico si è verificato per ogni tipo di chirurgia compresa la Cardiochirurgia. L’evoluzione verificatasi in ambito cardiochirurgico e cardioanestesiologico ha consentito di estendere le indicazioni chirurgiche a

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pazienti con cardiopatie in stadio più avanzato, in pazienti spesso con molteplici comorbidità, come malattia polmonare cronica, ipertensione sistemica, diabete, pregressi eventi cardiovascolari e cerebrovascolari e malattia vascolare periferica. È necessario quindi che questo paziente “complesso” venga sottoposto ad una valutazione preoperatoria completa, in modo che il giudizio di idoneità all’intervento sia corroborato da solide evidenze cliniche, e che l’intervento possa essere effettuato nel rispetto dei maggiori standard di sicurezza, al fine di ridurre al minimo il rischio di complicanze postoperatorie. [1]

Nella valutazione preoperatoria, particolare attenzione deve esse posta alla patologia cardiovascolare e all’estensione del danno miocardico, alla presenza di ischemia sottostante, aritmie e insufficienza cardiaca. [2]

Gli eventi cardiovascolari (infarto miocardico acuto, insufficienza cardiaca, aritmie) sono la principale causa di morte a seguito dell’atto anestesiologico-chirurgico in generale ed in particolare in ambito di chirurgia cardiaca. Scenari sempre più complessi rendono necessaria un’appropriata stratificazione del rischio per programmare un’adeguata strategia di gestione perioperatoria, personalizzata sulla base del grado di rischio del singolo paziente. Un’attenta valutazione rischio/beneficio può garantire la scelta del miglior trattamento per il singolo paziente. La sempre maggiore prevalenza di obesità, malattie cardiovascolari, malattia metabolica, malattia renale cronica, porta ad una crescente prevalenza di pazienti complessi. I pazienti complessi sono difficili da indagare con i soli strumenti tradizionali a disposizione; i fattori di rischio sottostanti spesso interagiscono a livello fisiopatologico. In questo contesto nasce la necessità di individuare nuovi strumenti che possano aiutare nell’

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inquadramento del paziente complesso e il conseguente sempre crescente interesse rivolto alla ricerca di biomarcatori.

Marcatori cardiaci, metabolici e renali possono svolgere un ruolo centrale nella diagnosi, gestione e trattamento del paziente complesso. [3]

Il biomarcatore ideale è sia sensibile che specifico per lo stato di malattia che esamina. La potenziale utilità clinica dei biomarcatori si estende dallo screening di malattia e stratificazione del rischio, alla diagnosi, alla stima della prognosi e alla gestione e trattamento del singolo paziente. Ci sono numerosi biomarkers emergenti attualmente in studio, accanto ed una batteria ben consolidata di markers ampiamente usati il cui ruolo clinico è da tempo riconosciuto.

IL PAZIENTE CARDIOCHIRURGICO

Il paziente cardiochirurgico è per antonomasia un paziente già in partenza “complesso”, con un background di comorbidità spesso importante, o comunque un paziente che si può complicare a seguito dell’atto chirurgico.

La Cardiochirurgia è una disciplina gravata da un alto rischio di mortalità e di complicanze postoperatorie. Nel 2017 l’Agenzia Nazionale per i Servizi Sanitari nell’ultimo PNE (Piano Nazionale Esiti) ha fornito i dati di mortalità della realtà italiana aggiornati al 2016; la mortalità media a 30 giorni è stata stimata del 2,1% dopo intervento di by-pass aortocoronarico isolato e del 2.45% dopo intervento di

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valvuloplastica/sostituzione valvolare isolata. Il rischio individuale varia ampiamente secondo il tipo di procedura, l’età del paziente e le comorbidità associate. [2]

Nella stratificazione del rischio, è importante identificare le diverse comorbidità e ottimizzare lo status preoperatorio del paziente con un lavoro collegiale tra anestesista, cardiologo e cardiochirurgo. Come regola generale, la chirurgia dovrebbe essere rimandata se sussistono le seguenti condizioni: l’intervento è elettivo, la condizione medica del paziente può essere significativamente migliorata, e il rischio di posticipare l’intervento è minore del beneficio di ottimizzare lo stato clinico del paziente. La necessità di stratificare il rischio di ogni singolo paziente, ha portato allo sviluppo di score di rischio. In ambito cardiochirurgico lo score più accreditato in Europa è

l’EuroSCORE, European System for Cardiac Operative Risk Evaluation. Esso predice il rischio di mortalità operatoria nel paziente da sottoporre a chirurgia cardiaca; è risultato inoltre predittivo dell’insorgenza di complicanze maggiori postoperatorie e della durata di degenza in Terapia Intensiva. La versione aggiornata nel 2011,’Euro SCORE II, si è dimostrata più affidabile nella predizione del rischio. L’EuroSCORE II 12 variabili distinte in fattori di rischio propri del paziente (età, sesso, clearance renale, arteriopatia extra-cardiaca, ridotta mobilità, precedente chirurgia cardiaca, BPCO, endocardite attiva, stato preoperatorio critico, DM in terapia insulinica), fattori legati alla patologia cardiaca (classe NYHA, classe CCS 4 dell’angina, funzione del ventricolo sinistro, IM recente, ipertensione polmonare) e fattori legati alla procedura chirurgica (priorità dell’intervento e tipo di intervento).

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Le complicanze della chirurgia cardiaca coinvolgono vari organi e apparati: cardiovascolari, polmonari, renali gastrointestinali ed epatiche, neurologiche. Il loro pronto riconoscimento e conseguente trattamento influenzano in modo importante l’outcome e la sopravvivenza del paziente cardiochirurgico.

- Complicanze cardiovascolari: sono tra le più importanti dopo cardiochirurgia, possono minacciare la vita del paziente e causare significativa disabilità. L’insorgenza di tali complicanze è legata sia a motivi di tipo chirurgico che alle comorbidità preesistenti nel singolo paziente. Gli eventi cardiovascolari maggiori richiedono una pronta diagnosi e un trattamento tempestivo. Le principali complicanze cardiovascolari sono: tamponamento cardiaco, bassa portata e disfunzione d’organo, infarto miocardico perioperatorio, aritmie, stroke, ischemia periferica e mesenterica. [4-5-6]

- Complicanze polmonari: l’insufficienza respiratoria è una possibile complicanza a seguito di cardiochirurgia e può causare aumento della degenza in terapia intensiva, della degenza ospedaliera ed incremento della mortalità. Si stima che il 5-8% delle morti dopo chirurgia cardiaca abbiano una causa respiratoria sottostante. [7] Il rischio di sviluppare complicanze polmonari è legato a fattori preoperatori come malattia cronica polmonare, fumo, età avanzata e fragilità; fattori perioperatori come manipolazione fisica dei polmoni, infiammazione legata al bypass cardiopolmonare (CPB), gestione della fluidoterapia; e infine fattori postoperatori come strategie di weaning, funzione cardiaca, mobilizzazione e controllo del dolore. [8]

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Complicanze renali, gastrointestinali ed epatiche:gli stati di bassa portata minacciano la perfusione e la funzione dei vari organi. Anche se l’autoregolazione di organi e tessuti può mitigare il rischio di danno, questi meccanismi possono essere alterati in pazienti sottoposti a cardiochirurgia, soprattutto pazienti anziani o ipertesi con malattia aterosclerotica. Il bypass cardiopolmonare non pulsatile è probabilmente un fattore di aggravamento. Tra le possibili complicanze: danno renale acuto, emorragia gastrointestinale, ischemia mesenterica, pancreatite, colecistite, diverticolite, ileo, occlusione intestinale/perforazione intestinale, disfunzione epatica ecc... [9]

- Complicanze neurologiche: il verificarsi di complicanze neurologiche può causare grave disabilità. Esse comprendono: stroke, delirium, declino cognitivo. [10]

Tenuto conto dell’alto grado di mortalità e di morbilità legato alle complicanze postoperatorie in questo tipo di chirurgia, ogni sforzo deve essere volto alla stratificazione del rischio del singolo paziente, per permettere la pianificazione di una strategia perioperatoria quasi personalizzata che permetta di prevenire, per quanto possibile, l’insorgenza di tali complicanze e garantire la migliore riuscita dell’atto chirurgico-anestesiologico. Nel 2013, secondo i dati dell’American Heart Association, le malattie cardiovascolari sono state la prima causa di morte nel mondo, con una stima di 17,3 milioni di 54 milioni di morti totali, il 31.5% delle morti globali. [11] La valutazione clinica rimane la chiave di volta della gestione del paziente ma bisogna considerare che essa ha comunque dei limiti. [12-13-14] È quindi utile avere a disposizione degli strumenti addizionali, utili nella fase di

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inquadramento clinico, per meglio identificare il paziente “vulnerabile”, a rischio di malattia cardiovascolare. I biomarcatori rappresentano questo strumento. Essi aiutano ad individuare i pazienti ad alto rischio, a diagnosticare in modo più rapido e accurato le patologie, a stabilire la prognosi con maggiore accuratezza e a guidare il trattamento. Essi possono rappresentare un’arma in più in mano al clinico per guidarlo nel processo decisionale.

BIOMARCATORI CARDIACI

Secondo la definizione formulata nel 2001 da un gruppo di lavoro del National Institute of Health, un biomarcatore è “una caratteristica obiettivamente misurabile e valutabile come indicatore di processi biologici, fisiologici e patologici, e/o di una risposta farmacologica ad un intervento terapeutico”. [15] Nel contesto di uno specifico stato patologico, un biomarcatore può essere classificato come “antecedent biomarker” (identifica il rischio di sviluppare una malattia), “screening biomarker” (utile nell’identificazione della malattia subclinica), ”diagnostic biomarker” (a malattia clinicamente manifesta), “staging biomarker” (definisce la severità di malattia) e “prognostic biomarker” (in grado di predire, rispettivamente, il corso di malattia o la risposta ad un atto terapeutico), “surrogate end - point” (può essere usato come outcome, per predire l’efficacia o meno e la sicurezza nei trial clinici di valutazione di nuovi farmaci e dispositivi). [15] Per quanto le caratteristiche del biomarcatore ideale siano differenti a seconda della categoria di appartenenza, un biomarcatore è considerato utile se è

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in grado di incidere in maniera significativa sulla strategia di gestione del paziente. [16]

Tra i biomarcatori sono compresi anche: varianti genetiche, dati di imaging, test fisiologici, e biopsie tissutali; l’argomento di questa tesi si rivolge a biomarcatori rappresentati da molecole dosabili nei liquidi biologici.

I biomarcatori cardiaci sono molecole rilasciate in circolo quando il cuore o più in generale il sistema cardiovascolare sono danneggiati o sottoposti a stress. Esistono innumerevoli molecole oggetto di studio. Braunwald, in una review del 2008 pubblicata su NEJM, metteva in rassegna i marcatori allora noti per l’insufficienza cardiaca, dividendoli in sei categorie, come riportato nella tabella 1. [17]

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Tabella 1

Biomarkers in Heart Failure

Inflamma-on *†‡ Myocite injury *†§

C-Reactive Protein Cardiac-specific troponin I and T TNF-alfa Myosin light-chain kinase I Fas (APO-1) Heart-type fatty-acid protein Interleukins 1,6, 8 Creatine kinase MB fraction

Oxyda-ve Stress *†§ Myocite stress †‡§¶

Oxidized low-density lipoproteins BNP Myeloperoxidase NT-proBNP

Urinary biopyrrins Mid-regional fragment of proadrenomidullin Urinary and plasma isoprostanes ST2

Plasma malodialdehyde New biomarkers † Extracellular-matrix remodeling *†§ Chromogranin Matrix metalloproteinases Galectin 3 Tissue inhibitors of metalloproteinases Osteoprotegerin Collagen propeptides Adiponectin

Propeptide procollagen type I Growth Differentiation Factor 5 Plasma procallagen type III

Neurohormones *†§ Norepinephrine Renin Angiotensin II Aldosterone Arginine Vasopressin Endothelin

* Biomarkers in this category aid in elucidating the pathogenesis of heart failure.

† Biomarkers in this category provide prognosSc informaSon and enhance risk straSficaSon. ‡ Biomarkers in this category can be used to idenSfy subjects at risk for heart failure. § Biomarkers in this category are potential targets of therapy.

¶Biomarkers in this category are useful in the diagnosis of heart failure and in monitoring therapy.

Considerando la numerosità dei soli marker di insufficienza cardiaca, è evidente la complessità e la vastità dell’argomento. Esiste un’enorme quantità di molecole già indagate in studi clinici e di accertata utilità; per di più emergono di continuo sostanze di nuovo interesse.

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Le Troponine cardiache sono diventate il marker diagnostico di scelta nel sospetto di sindrome coronarica acuta. La misurazione della troponina è divenuta centrale e addirittura mandatoria per la diagnosi in infarto miocardico acuto grazie alla sua sensibilità ed accuratezza. [18]

I Peptidi Natriuretici (BNP e NT-proBNP) sono i marcatori di riferimento per l’insufficienza cardiaca. Essi hanno dimostrato di essere altamente efficaci per la diagnosi o l’esclusione di insufficienza cardiaca acuta [19-20], sono utili anche per predire l’insorgenza di futuri eventi legati all’insufficienza cardiaca cronica, rappresentando così attualmente il gold standard per la stratificazione del rischio nei pazienti con tale patologia. [21] Il monitoraggio nel tempo dell’andamento dei valori di BNP/NT-proBNP, aiuta a seguire il paziente valutando la sua risposta alla terapia [22-24]. Il livello circolante dei peptidi natriuretici è significativamente influenzato da diversi farmaci come diuretici che influenzano le pressioni di riempimento e la volemia, dai beta-bloccanti e dai farmaci utilizzati nella terapia dello scompenso cardiaco per contrastare il rimodellamento cardiaco, attivi per esempio sul sistema renina-angiotensina-aldosterone (ACE-inibitori, sartanici, antagonisti dei mineralcorticoidi). [25]

Il ruolo prognostico che i peptidi natriuretici dimostrano di avere nell’insufficienza cardiaca, ha fatto nascere l’idea di utilizzare i biomarcatori per raggiungere la personalizzazione della terapia nel singolo paziente, a sostegno di una possibile “Biomarker Guided Therapy”.

L’interesse di questa tesi è stato rivolto al dosaggio di un marcatore chiamato ST2, che, nella tabella di Braunwald precedentemente proposta, figura tra i marker di stress miocardico.

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ST2

Storia

Nel 1989 Tominaga, durante i suoi studi sul segnale di trasduzione per l’inizio del ciclo cellulare, isolò da cellule murine stimolate in vitro, un RNA messaggero (provvisoriamente chiamato ST2, Suppression of Tumorigenicity 2) che codificava per una proteina molto simile nella sua sequenza ai membri della superfamiglia delle immunoglobuline, specialmente alla porzione extracellulare del recettore dell’interleuchina-1 (IL-1) murino. [26] Il gene ST2 codificava per due isoforme, una forma solubile secreta (sST2) e una forma transmembrana (ST2L). [27]

Nel 1996 utilizzando la PCR-real time, un gruppo giapponese trovò che il gene ST2 era ampiamente espresso in cellule della linea ematopoietica. Esso era anche espresso in cellule della linea T helper. L’analisi dell’espressione nel modello murino mostrò che ST2L era espresso basalmente nelle cellule Th2 ma non nelle cellule Th1; l’espressione di ST2 solubile (sST2) avveniva invece sotto stimolo antigenico. Queste iniziali scoperte facevano ipotizzare che il gene ST2 fosse coinvolto nella regolazione del sistema immunitario. [28]

Nonostante il dominio extracellulare di ST2 presentasse un’elevata omologia con lo stesso dominio del recettore dell’IL-1, esso non legava con alta affinità l’IL-1. [29-30]

Per indagare il ruolo biologico del gene ST2 gli studi di biologia molecolare misero a punto anticorpi monoclonali (MAbs) rivolti contro il gene ST2 umano. Gli studi eseguiti con varie metodiche (ELISA, citometria a flusso, immunoprecipitazione e immunoblotting), permisero di identificare tre isoforme: forma solubile secreta

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ST2, forma transmembrana ST2L e una variante ST2V. Queste tre forme sono prodotte dallo stesso gene per splicing alternativo. Una grande varietà di cellule e tessuti esprimeva il prodotto del gene ST2 umano, come fibroblasti, diverse linee di cellule ematopoietiche, molte cellule tumorali, linee cellulari derivate dalla glia del tessuto cerebrale e linfociti Th2. Ciò suggeriva un ampio spettro di funzioni del prodotto del gene ST2. [31]

Nel 2002 fu scoperto che l’RNA messaggero di ST2 risultava indotto in cardiomiociti sottoposti a stress meccanico. Nel modello murino, sottoposto ad intervento di legatura coronarica, il livello sierico di ST2 aumentava in modo transitorio se paragonato ai controlli non operati (20.8±4.4 versus 0.8±0.8 ng/mL, p<0.05). Anche nell’uomo, i livelli sierici di ST2 erano aumentati in prima giornata dopo infarto miocardico e ciò correlava positivamente con il valore di creatin chinasi (r=0.41, p<0.001) e negativamente con la frazione di eiezione (p=0.02). [32] Per la prima volta si palesava il possibile ruolo del prodotto del gene ST2 nella risposta miocardica allo stress e al danno.

Queste scoperte, che mostravano il rialzo rapido e transitorio di ST2 dopo infarto miocardico, fecero avanzare l’ipotesi che esso fosse cronicamente elevato in pazienti con insufficienza cardiaca. Inoltre, lo stimolo meccanico che portava al rialzo di ST2 in vitro, poteva essere considerato simile all’induzione meccanica in vivo della produzione di BNP, già considerato utile marker diagnostico e prognostico nell’insufficienza cardiaca. Perciò nel 2003, Weinberg et al., idearono uno studio per verificare l’ipotesi che i livelli di ST2 fossero elevati nei pazienti con insufficienza cardiaca cronica con attivazione neurormonale. [33] Essi trovarono che i livelli di ST2 correlavano con i livelli basali di BNP (r=0.36, p<0.0001), basali

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di ProANP (r=0.36, p<0.0001), e basali di noradrenalina (r=0.39, p<0.0001). Nell’analisi univariata, il cambiamento dei livelli di ST2 era predittore di mortalità o di trapianto (p=0.048), come lo era il valore basale di BNP (p<0.0001) e il basale di ProANP (p<0.0001). Nell’analisi multivariata che comprendeva BNP, ProANP, il cambiamento dei livelli di ST2 manteneva la significatività come predittore indipendente di mortalità o di trapianto. Per la prima volta l’ST2 si proponeva come nuovo biomarcatore di attivazione neurormonale in pazienti con insufficienza cardiaca.

Non era però ancora noto il ruolo delle due isoforme di ST2, e ne restava ancora sconosciuto il ligando.

Nel 2005 Schmitz et al. identificarono una proteina, ora chiamata IL-33, che si dimostrò essere il ligando funzionale di ST2L, capace di attivare il fattore di trascrizione NF-κB, la più comune via di segnale della superfamiglia dei recettori IL-1R/TLRs. [34]

Fu possibile da allora studiare la via di segnale intracellulare attivata dal legame IL-33/ST2L.

Nel 2007 Sanada e colleghi scoprirono che l’espressione basale di IL-33 era 5 volte maggiore nei fibroblasti cardiaci in confronto ai cardiomiociti; la stimolazione meccanica ciclica delle cellule induceva la produzione di IL-33 in entrambi i tipi cellulari. [35] Anche il forbolo miristato acetato e l’angiotensina II stimolavano la produzione di IL-33 in fibroblasti e cardiomiociti. In vivo, lo strain meccanico indotto dal clampaggio aortico trasversale, induceva l’espressione di IL-33 in modo più spiccato nei fibroblasti cardiaci. Per studiare l’effetto dell’IL-33 secreta dai fibroblasti sui cardiomiociti adiacenti, colture di cellule neonatali di ratto furono

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incubate con IL-33 ricombinante. L’IL-33 bloccava in modo dose-dipendente l’effetto pro-ipertrofizzante indotto da angiotensina II e da fenilefrina. La proteina ST2 solubile (sST2) annullava in maniera dose-dipendente l’effetto anti-ipertrofizzante di IL-33. Ciò suggeriva che sST2 funzionasse come recettore esca, legando l’IL-33 e impedendo la via di trasduzione del segnale. Questi esperimenti dimostravano le proprietà anti-ipertrofizzanti di IL-33 in vitro e che sST2 inibiva il segnale IL-33/ST2L. Studi precedenti sull’uomo avevano dimostrato che livelli aumentati di sST2 erano un segno prognosticamente negativo nelle malattie cardiovascolari. [33,36] Ciò faceva avanzare l’ipotesi che il segnale IL-33/ST2L potesse essere cardioprotettivo in vivo. Per ulteriore conferma, fu indagato l’effetto del sovraccarico meccanico nel ceppo murino con genotipo ST2-/-, mancante di entrambe le isoforme di ST2, in confronto al ceppo wild-type. Studi istologici dimostrarono che il clampaggio aortico trasversale causava fibrosi cardiaca, ipertrofia miocardica, dilatazione delle camere cardiache e ridotta frazione di accorciamento, in modo molto più spiccato nel topo ST2-/- e che il trattamento con IL-33 ricombinante, riduceva queste alterazioni patologiche unicamente nel miocardio del ceppo wild-type.

Il segnale IL-33/ST2L si configurava come un meccanismo cardioprotettivo, fornendo anche nuove informazioni sul segnale paracrino esistente tra cardiomiociti e fibroblasti cardiaci durante il sovraccarico meccanico.

L’ipertrofia dei cardiomiociti e la fibrosi cardiaca sono processi fisiopatologici comuni in molte malattie cardiovascolari. Tradizionalmente questi cambiamenti, che rientrano nel rimodellamento cardiaco, sono stati interpretati come un meccanismo adattativo del cuore per far fronte al sovraccarico meccanico, nel

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tentativo di ripristinare normali valori di stress di parete; tale meccanismo però, alterando la struttura del muscolo cardiaco, in ultimo esita nello sviluppo di insufficienza cardiaca. I meccanismi che portano dal sovraccarico meccanico al rimodellamento cardiaco sono di estrema importanza e da ciò discende l’interesse rivolto alla loro comprensione, al fine di aprire nuove strategie per prevenire e curare l’insufficienza cardiaca.

Utilità clinica

Livelli elevati di ST2 solubile sono stati ritrovati in diverse patologie cardiovascolari. Già nello studio di Weinberg del 2002 era stato osservato un rialzo dei valori di sST2 nel topo dopo infarto miocardico a seguito di legatura coronarica, e anche nell’uomo in prima giornata dopo infarto acuto del miocardio (IMA). [32] Nel 2004 Shimpo e colleghi misurarono i livelli di ST2 in 810 pazienti con infarto miocardico acuto. Essi videro che i livelli basali di ST2 erano significativamente più alti nei pazienti che morivano rispetto a coloro che sopravvivevano (0.379 versus 0.233 ng/mL, p<0.0001) o nei pazienti che sviluppavano una nuova insufficienza cardiaca congestizia (0.287 versus 0.233 ng/mL, p=0.009) a 30 giorni. Nell’analisi di regressione logistica, che teneva conto dei più importanti fattori di rischio clinici, aumentati livelli di ST2 all’ingresso rimanevano associati con la mortalità a 30 giorni (p=0.047). La concentrazione di ST2 aumentava in prima giornata dopo infarto del miocardio ed era massima a 12 ore; anche i livelli di ST2 a 12 ore risultavano associati in maniera indipendente alla mortalità a 30 giorni. (p=0.001). [36]

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Nel 2008 Sabatine e colleghi vollero indagare in pazienti con IMA, il ruolo predittivo di ST2 rispetto ai tradizionali fattori di rischio clinici, anche confrontandolo con il comune biomarker di strain meccanico rappresentato dal NT-proBNP. Misurarono i livelli basali di ST2 in 1239 pazienti con STEMI arruolati nello studio CLARITY-TIMI 28. [37]

ST2 si confermò un forte predittore di morte cardiovascolare e di insufficienza cardiaca a 30 giorni. Si mostrava predittore indipendente rispetto ai tradizionali fattori di rischio e forniva informazioni prognostiche indipendenti e complementari rispetto a NT-pro BNP. Inoltre, il valore di ST2 alla presentazione non risultava associato a caratteristiche cliniche potenzialmente legate allo stress cronico di parete del ventricolo sinistro, come età, sesso, ipertensione arteriosa, pregresso IM o pregressa insufficienza cardiaca congestizia. Questa indipendenza era netta rispetto a NT-proBNP che invece risultava legato ai fattori appena menzionati. Le misurazioni seriate dei due marcatori permisero di osservare anche la loro differente cinetica. I livelli di ST2 si riducevano modestamente ma significativamente a partire dal valore basale in un periodo in media di 4 giorni. I valori di NT-proBNP invece, aumentavano circa di sei volte nello stesso arco temporale. Per quanto riguarda l’ST2, erano i valori basali ad essere predittori del rischio di morte cardiovascolare o di insufficienza cardiaca, mentre per NT-proBNP, valori successivi rispetto a quelli basali, apparivano maggiormente predittivi. Dati di cinetica sull’andamento di ST2 provengono dal modello ex vivo di cardiomiociti sottoposti a stress meccanico; in questo modello, la massima induzione della trascrizione di ST2 si verificava a 2 ore, restava sostenuta per 9 ore

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e poi calava entro 15 ore mentre la massima induzione di BNP rimaneva elevata almeno per 48 ore. [38-39]

Il primo studio su ST2 nell’insufficienza cardiaca acuta fu condotto da Januzzi. Nel 2007 il suo gruppo dosò l’ST2 nella coorte di pazienti dello studio PRIDE (Pro-Brain Natriuretic Peptide Investigation of Dyspnea in the Emergency Department). Lo studio prospettico, blinded, ideato con lo scopo di validare il dosaggio del NT-proBNP, aveva arruolato 599 pazienti afferenti al Dipartimento di Emergenza del Massachusetts General Hospital per dispnea acuta. [40]

Il dosaggio di ST2 fu disponibile per 593 di questi pazienti. Dai risultati emerse che: NT-proBNP era il marker migliore tra i due per la diagnosi di insufficienza cardiaca acuta; le concentrazioni di ST2 erano più alte nei pazienti con insufficienza cardiaca (HF) acuta rispetto ai pazienti dispnoici non su base cardiaca, e nei pazienti con HF acuta erano maggiori in presenza di alterata funzione sistolica del ventricolo sinistro; i valori di ST2 alla presentazione risultavano più elevati nel gruppo di pazienti che andavano incontro a decesso rispetto a coloro che sopravvivevano; nell’analisi multivariata, valori di ST2≥0.20ng/ml predicevano fortemente il rischio di morte ad un anno dalla presentazione in tutta la popolazione di pazienti, con o senza HF acuta; ST2 e NT-pro BNP erano predittori indipendenti di morte e il rialzo contemporaneo di entrambi i marcatori era associato con il più alto rischio di morte ad un anno (circa il 40%). È interessante notare che, un alto livello di ST2 riclassificava il rischio di morte in pazienti con basso livello di NT-proBNP, innalzandolo.

Questo studio ribadiva la possibile utilità prognostica di ST2 nel paziente con dispnea acuta e con insufficienza cardiaca acuta. Un approccio multimarker, con

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il dosaggio sia del peptide natriuretico che di ST2, permetteva inoltre una migliore stratificazione del rischio nei pazienti con HF acuta, identificando quelli con il maggior rischio di morte.

Singole concentrazioni di ST2 sono tra i più forti predittori di complicanze nell’insufficienza cardiaca, incluse riospedalizzazione, aritmie e morte.

Nel 2008 Boisot studio l’andamento di ST2 in pazienti con insufficienza cardiaca acuta tramite misurazioni seriate: sei misurazioni per paziente, dall’ingresso alla dimissione. Il cambiamento percentuale del valore di ST2 era un forte predittore di mortalità a 90 giorni. [41]

Sin dagli studi di Weinberg del 2003, dati sempre più consistenti mostravano l’utilità prognostica di ST2 nell’insufficienza cardiaca cronica.

Nel 2015 Januzzi ripercorse gli studi presenti in letteratura per capire se misurazioni seriate di ST2 potessero rivelarsi utili nel monitoraggio nel paziente con insufficienza cardiaca cronica e se questo marcatore potesse anche influenzare la terapia. [42] Tre studi al tempo contenevano le maggiori informazioni a riguardo: CORONA, PROTECT e Val-HeFT. [43-44-45] Da queste analisi emergeva che, se misurato nel tempo, ST2 era capace di aggiungere sostanziali informazioni per la predizione del rischio di eventi cardiovascolari tra cui progressione dell’insufficienza del ventricolo sinistro, ospedalizzazione e morte per insufficienza cardiaca. Un valore di ST2≥35ng/ml fu individuato come soglia per una peggiore prognosi nei pazienti con insufficienza cardiaca. [46] Inoltre, i farmaci per lo scompenso cardiaco, ACE inibitori, sartanici, antagonisti dei mineralcorticoidi e beta-bloccanti, erano tutti associati a valori più bassi di sST2. Il maggior beneficio derivato dall’aggiunta o dalla titolazione di betabloccanti e

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antagonisti dei mineralcorticoidi, era registrato nei pazienti con più alti livelli di sST2. Ciò suggeriva la potenziale utilità della biomarker-guided therapy per valutare la risposta del paziente ai farmaci.

Sulla base di tutti i dati disponibili, le linee guida di ACCF/AHA del 2013 per la gestione dell’insufficienza cardiaca, fornivano una classe di raccomandazione IIb per la misurazione di ST2 in pazienti con insufficienza cardiaca acuta e cronica. Le linee guida sottolineano che ST2 non solo è predittivo di ospedalizzazione e di morte nei pazienti con insufficienza cardiaca, ma esso ha un valore prognostico additivo rispetto a quello derivato dai soli peptidi natriuretici. [47]

ST2 dopo interventi cardiovascolari

Nel 2005 Szerafin pubblicò i risultati di uno studio in cui su 30 pazienti cardiochirurgici sottoposti a CABG on-pump (15 pazienti) e off-pump (15 pazienti), venivano dosati serialmente ST2 e IL-10, entrambi marker di attivazione immunologica Th2. [48] I prelievi erano effettuati prima dell’intervento, a 30 minuti, a 60 minuti e a 24 ore dalla procedura. In entrambi i gruppi si evidenziò un importante rialzo di ST2 a 24 ore dall’intervento (p<0.0001) e non c’era differenza tra le due coorti.

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Figura 1. Livelli sierici di ST2 (pg/mL preoperatori, a 30 min, 60 min e 24 ore dall’operazione di CABG. I triangoli e i quadrati rappresentano il valore medio, i baffi l’errore standard della media (*** p<0.001).

Questo studio mostrò che il livello sierico di ST2 aumenta di circa 30 volte in prima giornata operatoria dopo intervento di CABG indipendentemente dal tipo di procedura scelta (on-pump vs off-pump).

Nel 2013 il gruppo di Willems indagò l’andamento temporale di ST2 dopo vari interventi cardiovascolari: bypass aortocoronarico (CABG), procedure percutanee coronariche in elezione (PCI) e chirurgia vascolare periferica. [49]

I campioni furono raccolti basalmente, entro un’ora dalla procedura e a 24 ore. In tutti i gruppi il valore di sST2 correlava positivamente con l’età. A 24 ore i pazienti con BMI<25 avevano valori di sST2 più bassi rispetto ai pazienti con BMI≤25, nei gruppi sottoposti a CABG e a chirurgia vascolare.

Il livello di ST2 ad un’ora dalla procedura era significativamente aumentato e in prima giornata postoperatoria i livelli erano maggiori di circa 20 volte rispetto a quelli basali.

ST2 aumentava anche dopo interventi vascolari periferici anche se in modo meno spiccato che dopo CABG. Considerando che i livelli basali di ST2 erano simili nei

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due gruppi, si poteva ipotizzare che l’entità del rialzo di ST2, dopo un intervento, potesse essere legata al grado di danno chirurgico e alla conseguente risposta infiammatoria. In 52 pazienti sottoposti a PCI fu fatta anche una rilevazione a distanza di due mesi dalla procedura, che mostrò valori di ST2 significativamente più alti rispetto a quelli basali. Questo studio dimostrò che i livelli di ST2 si innalzano non solo dopo un evento cardiovascolare acuto ma anche dopo procedure chirurgiche o interventistiche sul sistema cardiovascolare.

Poiché i livelli del marcatore possono restare elevati anche a distanza di mesi dalla procedura, è lecito chiedersi in quale momento il valore di ST2 abbia il maggiore potere predittivo per la prognosi del paziente. La maggior parte dei lavori pubblicati mostra che il valore basale al momento dell’ammissione è predittivo dell’outcome clinico. In alcuni studi tuttavia, il cambiamento nei livelli di ST2 in un periodo di pochi giorni è predittore indipendente di mortalità e di trapianto. [41,50-51]

Recentissimamente, a luglio 2018, Polineni ha pubblicato i risultati del suo studio volto ad indagare l’utilità dell’aggiunta del valore basale di tre biomarcatori, NT-proBNP, ST2 e Galectina-3, ai tradizionali modelli di rischio, in pazienti sottoposti ad intervento di CABG. [52] Dal suo lavoro emerge un’associazione statisticamente significativa tra elevati livelli preoperatori di ST2 e di NT-proBNP e mortalità intraospedaliera (p=0.006 e p<0.01, rispettivamente). I valori preoperatori di Galectina-3 non fornivano una differenza significativa (p=0.250). L’aggiunta di ST2 al modello predittivo di rischio usato (NNE prediction model), migliorava significativamente la predizione preoperatoria della mortalità intraospedaliera rispetto alle caratteristiche del paziente e ai fattori di rischio da soli.

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Dalla letteratura si evince quindi la potenziale utilità prognostica del dosaggio di ST2 anche nel paziente chirurgico; tuttavia la ricerca in questo ambito è ancora agli inizi e necessita di nuovi studi per confermare le evidenze finora emerse.

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STUDIO

OBIETTIVO DELLO STUDIO

L’obiettivo dello studio è stato quello di osservare, in un campione di pazienti cardiochirurgici, la cinetica dell’andamento del biomarcatore ST2 ed indagare la sua potenziale utilità clinica. L’outcome primario era rappresentato dalla durata della degenza, in terapia intensiva ed ospedaliera, e dalla mortalità intraospedaliera e a 30 giorni. Outcome secondario era l’insorgenza di complicanze postoperatorie (aritmie, insufficienza renale acuta, infezioni, eventi cardiovascolari…).

MATERIALI E METODI

Popolazione e disegno dello studio

La popolazione oggetto di studio è costituita da 43 pazienti sottoposti ad interventi di cardiochirurgia presso l’AOUP e successivamente ricoverati presso la Terapia Intensiva Cardiotoracovascolare della stessa Azienda Ospedaliera. Il periodo di arruolamento è andato dal mese di settembre 2017 a marzo 2018. Il campione comprende pazienti sottoposti ad interventi in regime di elezione, d’urgenza e di emergenza.

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Per ogni paziente sono stati prelevati tre campioni di sangue: basale, entro un’ora dalla fine dell’intervento e a 24 ore. I prelievi in provetta con EDTA, venivano subito centrifugati in modo da estrarre la componente plasmatica che sempre in provette con EDTA veniva congelata, in attesa di effettuare l’analisi.

I prelievi di 19 pazienti sono stati analizzati con la metodica rapida joint-of care, Aspetti-Plus; i campioni degli altri 24 pazienti sono stati analizzati in laboratorio con la metodica Presaghe® ST2 Assai. I kit per entrambe le metodiche sono stati forniti dalla Critical Diagnostica (San Diego, CA, USA). Come si può vedere nel grafico sottostante risultato dell’analisi di regressione, il confronto tra le due metodiche ha dimostrato che esse forniscono dei valori comparabili di ST2. Partendo da questa assunzione, nel nostro studio abbiamo considerato i nostri pazienti come appartenenti ad un’unica popolazione.

Figura 2. Analisi di regressione per valutare la performance a confronto di Aspect-PLUS ST2 e di Presage® ST2 Assay. Il dosaggio di ST2 è stato eseguito con entrambe le metodiche su 60 campioni di plasma EDTA. Non è emersa differenza significativa tra le due metodiche (p=0.75).

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La metodica rapida è eseguita con ASPECT PLUS Reader, un lettore semiautomatico che sfrutta i principi della tecnologia dell’immunodosaggio monoclonale a sandwich a flusso laterale; i campioni vengono analizzati utilizzando una cassetta, detta cartuccia, che contiene un identificativo a radiofrequenza (RFID). Nel pozzetto per campioni della cartuccia viene pipettato un quantitativo predefinito di campione da analizzare che viene a contatto con la striscia rivestita di anticorpo anti-ST2. Nel secondo pozzetto viene immessa una soluzione tampone. La cassetta viene quindi inserita immediatamente in ASPECT Reader per l'analisi. Il lettore misura il segnale fluorescente che, una volta elaborato attraverso l'algoritmo della curva di calibrazione, genera un risultato quantitativo. L’analisi richiede 18 minuti, alla fine dei quali il valore dell’analita viene visualizzato sullo schermo del lettore, permettendo un dosaggio rapido al letto del paziente.

Questo test rapido è stato ideato con un limite lineare inferiore di 12,5ng/mL e superiore di 250ng/mL. Nel nostro lavoro, quando il valore di sST2 risultava inferiore o superiore rispetto ai limiti quantitativi del test, abbiamo assegnato al campione un valore di sST2 pari al limite del range di rilevazione.

La metodica Presage è il dosaggio di riferimento per il test ASPECT-PLUS ST2. Il dosaggio Presage® ST2 Assay è un immunodosaggio ELISA (Enzyme-Linked ImmunoSorbant Assay) quantitativo, monoclonale di tipo sandwich in formato piastra per la misurazione di ST2 nel siero o nel plasma. I campioni diluiti sono caricati in appositi pozzetti della piastra rivestiti di anticorpi anti-ST2 e incubati per il tempo prescritto. Dopo una serie di passaggi in cui i reagenti vengono lavati dalla piastra, l’analita viene infine rilevato aggiungendo un reagente colorimetrico per

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produrre un segnale misurabile. L’intensità del segnale è direttamente proporzionale alla concentrazione del target presente nel campione originario. Viene tracciata una curva standard con i valori medi di assorbanza. La concentrazione corrispondente di ST2 (ng/mL) può essere determinata matematicamente dalla curva standard. La metodica Presage® ST2 Assay prevede per ogni campione eseguito anche due kit di controllo del dosaggio di ST2, per verificare la sua performance. Il dosaggio è calibrato in un range compreso tra 3,1 to 200 ng/ml. I valori superiori al limite di 200 ng/mL vengono estrapolati matematicamente dalla curva.

Interpretazione dei valori di st2

In individui sani, il range interquartile del valore di ST2 è compreso tra 15 e 25ng/mL.

Una concentrazione di 35 ng/mL è tra il 90° e il 95° percentile della popolazione normale. Nei pazienti con insufficienza cardiaca nota o sindrome coronarica acuta e concentrazione di ST2≥35ng/ml, il rischio di eventi avversi (ospedalizzazione e mortalità entro l’anno) è maggiore rispetto ai pazienti con una concentrazione di ST2 sotto questo livello. Il rischio di mortalità cresce all’aumentare delle concentrazioni di ST2. In individui asintomatici e apparentemente sani, una concentrazione elevata di ST2 si è dimostrata indicativa di un rischio due volte maggiore di sviluppare insufficienza cardiaca.

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Statistica e analisi dei dati

I dati sono stati raccolti in un database creato con Excel 2016.

L’analisi descrittiva della popolazione di studio è stata condotta in parte tramite Excel ed in parte con il software di statistica SPSS 20.0 (IBM corporation, Armonk, NY, USA).

L’analisi statistica è stata eseguita interamente con SPSS 20.0.

Le variabili continue gaussiane sono state espresse come media ± deviazione standard, le variabili continue che non rispettavano una distribuzione normale sono invece state espresse come mediana e range interquartile; le variabili categoriche sono state presentate come frequenze e percentuali. Il test t di Student per campioni indipendenti e il test di Mann-Whitney sono stati usati per testare le differenze delle variabili rispettivamente parametriche e non parametriche scalari. L’analisi della varianza (ANOVA) con l’applicazione della correzione di Bonferroni per confronti multipli post-hoc, è stata utilizzata per esplorare l’andamento delle variabili parametriche nei diversi gruppi di pazienti divisi in base alla priorità dell’intervento. La correlazione tra variabili continue è stata stimata dal coefficiente di correlazione di Pearson o di Spearman, rispettivamente per variabili con distribuzione gaussiana e non gaussiana. L’analisi di regressione è servita per indagare il tipo di relazione tra le variabili correlate e gli eventuali rapporti di dipendenza. L’analisi delle curve ROC con la misurazione nell’AUC è servita per stimare il ruolo predittivo di sST2.

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RISULTATI

Analisi descrittiva della popolazione

La popolazione è composta da 43 pazienti sottoposti ad interventi di cardiochirurgia di vario tipo. La tabella 2 riassume le caratteristiche basali della popolazione. L’età media dei pazienti è 67 anni (DS 13), con una prevalenza del sesso maschile (63%). Il 14% dei pazienti è stato sottoposto ad intervento in regime di urgenza o emergenza.

I valori di ST2 basali e ad un’ora dall’intervento non rispecchiavano una distribuzione gaussiana e sono stati espressi come mediana e range interquartile (rispettivamente 26 [IQR 19-49] e 32 [IQR 20-71]); invece i valori di ST2 a 24 ore si distribuivano normalmente (media±DS 228±82).

Nella tabella 3 sono invece riassunti i dati relativi alla durata della circolazione extracorporea, le complicanze postoperatorie, gli indici ecocardiografici alla dimissione, la creatininemia alla dimissione, la durata della degenza in Terapia Intensiva e in Ospedale e infine i dati di mortalità intraospedaliera e a 30 giorni.

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Tabella 2

CARATTERISTICHE BASALI DELLA POPOLAZIONE

Età, mediana (IQR) 67 (13)

BMI , mediana(IQR) 26 (4) Sesso, n (%) Maschio 27 (63) Femmina 16 (37) Fumo, n (%) 6 (14) Ipertensione, n (%) 37 (86) Diabete mellito, n (%) 17 (40) Dislipidemia, n (%) 27 (63) BPCO, n (%) 14 (33) IRC, n (%) 7 (16) Storia di IM, n (%) 4 (9) Storia di PCI, n (%) 6 (14) Insufficienza cardiaca, n (%) 11 (26) Recente IM, n (%) 11 (26) REDO, n (%) 2 (5) Endocardite, n (%) 4 (9) Urgenza/Emergenza, n (%) 6 (14) ECOCARDIOGRAFIA

EF % preop, mediana (IQR) 56 (9)

TAPSE mm preop, mediana (IQR) 21(2)

TERAPIA Beta-bloccanti, n (%) 21 (49) ACEi/ARBs, n (%) 31 (72) Aspirina, n (%) 29 (67) Anticoagulanti, n (%) 9 (21) BIOMARCATORI sST2 ng/mL

PRE-CEC, mediana (IQR) 26 (19-49)

POST-CEC, mediana (IQR) 32 (20-71)

24 ore, media (DS) 228 (82)

Troponina HS ng/L, mediana (IQR)

POST-CEC 360 (291-590)

1^gpo 585 (363-1073)

BNP preop pg/mL, mediana (IQR) 112 (50-434)

Creatinina preop mg/dL, mediana (IQR) 0,96 (0,80-1,13)

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Tabella 3

CARATTERISTICHE INTRA E POST-OPERATORIE

Durata CEC min, media (DS) 96 (46)

Durata CLAMP min, media (DS) 74 (36)

Revisione emostasi, n (%) 5 (12) Terapia antibiotica, n (%) 9(21) Ipotensione, n (%) 23(53) Aritmie, n (%) 12(28) Necessità di Amine, n (%) 25(58) Tipo di Amina, n (%) nA 24(96) nA+A 1(4)

Durata Amine gg, mediana (IQR) 3 (2-4)

Necessità di Inotropi, n (%) 16(37)

Tipo di Inotropo n (%)

Enoximone 8 (50)

Simdax 4 (25)

Enoximone+Simdax 4 (25)

Durata Inotropi gg, mediana (IQR) 1 (1-2,5)

Durata VM gg, mediana (IQR) 1 (1)

IABP, n (%) 2(5) ECMO, n (%) 1 (2) AKI, n (%) 5 (12) CRRT, n (%) 6 (14) Polmonite, n(%) 1 (2) Sepsi, n (%) 4(9)

EF% dimissione, media (DS) 55 (8)

TAPSE mm dimissione, media (DS) 19 (3)

Creatinina mg/dL dimissione, mediana (IQR) 0,87 (0,77-1,17)

Durata degenza, gg, mediana (IQR)

UTI 3 (5-2)

Ospedale 8 (7-11)

Mortalità, n° decessi (%)

Ospedaliera 3 (7)

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Per degenza ospedaliera si intendevano i giorni di ricovero dalla data dell’intervento alla data di dimissione dal reparto di cardiochirurgia.

La mediana della durata della degenza in Terapia Intensiva e in ospedale erano rispettivamente di 3 giorni (IQR 2-5) e di 8 giorni (IQR 7-11).

Durante il periodo di degenza si sono osservati 3 decessi (7%); entro i primi 30 giorni dall’intervento, il verificarsi di un ulteriore decesso, ha fatto salire al 9% la mortalità globale osservata a 30 giorni della nostra popolazione. La mortalità extraospedaliera a 30 giorni risultava quindi del 2.5%. Estrapolando i dati di mortalità per tipo di procedura si è osservato un tasso di mortalità a 30 giorni del 16% dopo bypass aortocoronarico isolato e del 9% dopo sostituzione valvolare isolata. I dati di mortalità del nostro studio sono ovviamente influenzati dalla scarsa numerosità del campione e alla luce di questo vanno interpretati.

sST2

Cinetica di sST2

Le tre rilevazioni di sST2, basale (pre-CEC), ad un’ora (post-CEC) e a 24 ore dall’intervento hanno mostrato globalmente un progressivo aumento con un rialzo importante a 24 ore.

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Figura 3. Concentrazioni sieriche di sST2 (ng/mL): basale, entro un’ora e a 24 ore dopo intervento di cardiochirurgia.

Il confronto dei valori medi, con il test di Wilcoxon per dati appaiati, ha evidenziato una differenza significativa tra i valori di sST2 pre-CEC rispetto a quelli a 24 ore (p<0.001); significativo è risultato anche il confronto tra i valori post-CEC e quelli a 24 ore (p<0,001). La differenza tra i valori basali (pre-CEC) e quelli ad un’ora dall’intervento (post-CEC), non è risultata significativa (p=0,086).

Tabella 4 Test Statisticsa st2 postCEC - st2 preCEC st2 24ore - st2 postCEC st2 24ore - st2 preCEC Z -1.719b -5.442b -5.633b

Asymp. Sig. (2-tailed) .086 .000 .000

a. Wilcoxon Signed Ranks Test b. Based on negative ranks.

Il valore di sST2 a 24 ore dall’intervento subiva un incremento medio di 9 volte rispetto al valore basale, di 7 volte circa rispetto al valore post-CEC.

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Abbiamo voluto vedere se il marcatore potesse avere un andamento diverso a seconda del tipo di intervento chirurgico. A tal scopo, abbiamo diviso i pazienti in due gruppi in base all’esecuzione o meno durante l’intervento di un by-pass aortocoronarico, per distinguere pazienti coronarici e non coronarici. La distribuzione dei valori di sST2 non ha mostrato sostanziali differenze, il marcatore aveva andamento similare nei pazienti così raggruppati.

Inoltre l’analisi di correlazione non ha mostrato nessuna relazione tra l’andamento del biomarcatore e la durata della circolazione extracorporea o del clampaggio aortico nel corso dell’intervento cardiochirurgico.

Relazione tra sST2 e caratteristiche cliniche

È stato indagato il rapporto tra i valori di sST2 e le variabili cliniche basali della popolazione in studio. Nessuna significatività è emersa per quanto riguardava il valore basale del biomarcatore in associazione alla presenza della maggior parte dei fattori clinici indagati (età, sesso, BMI, fumo, ipertensione arteriosa, dislipidemia, diabete mellito, COPD, FAC, storia di IMA, IMA nei precedenti 7 giorni, pregressa PCI, malattia cerebrovascolare, pregresso stroke, malattia vascolare periferica, insufficienza cardiaca).

Abbiamo osservato che il valore di sST2 a 24 ore dall’intervento era significativamente più alto nei pazienti con anamnesi positiva per insufficienza renale cronica (292±74 vs 214±78, p=0,014). Il valore di sST2 a 24 ore inoltre correlava positivamente con il valore di creatinina preoperatorio (ρ=0,387, p=0,011).

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Confrontando i valori di sST2 in relazione all’assunzione di farmaci, è emerso che il valore di sST2 pre-CEC era diverso nel gruppo di pazienti che assumeva farmaci betabloccanti nel preoperatorio (media±DS 57±58) rispetto a chi non li assumeva (32±30), p=0,035.

Il valore basale di sST2 pre-CEC era statisticamente più alto nei pazienti con endocardite (media±DS 76±27 vs 41±48, p=0,012).

Il fatto che il paziente dovesse sottoporsi ad un REDO non influenzava l’andamento del marcatore.

Il valore di sST2 a 24 ore, nell’analisi di correlazione, ha mostrato una relazione positiva con lo score di rischio comunemente usato in Cardiochirurgia, l’EuroSCORE II (ρ=0,356, p=0,019).

L’analisi della varianza (ANOVA), con l’applicazione della disuguaglianza di Bonferroni per i confronti multipli post-hoc, è servita per indagare le differenze nei valori di sST2 a seconda della priorità dell’intervento (elezione, urgenza o emergenza).

Il valore PRE-CEC di sST2, come si vede nella tabella 5, è risultato diverso tra il gruppo di pazienti operati in emergenza rispetto sia ai pazienti in elezione (p<0,001) che ai pazienti in regime di urgenza (p<0,001).

Statisticamente significativo è risultato anche il medesimo confronto tra le medie del valore di sST2 POST-CEC (tabella 6). Non hanno invece dimostrato una differenza significativa i valori a 24 ore dall’intervento (tabella 7).

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Tabella 5

sST2 PRE-CEC Differenza fra medie Errore std. Sig. IC 95% Limite inf Limite sup

Elezione Urgenza -24,365 16,731 0,459 -66,173 17,444 Emergenza -164,654* 23,077 0,000* -222,320 -106,988 Urgenza Elezione 24,365 16,731 0,459 -17,444 66,173 Emergenza -140,299* 27,529 0,000* -209,080 -71,499 Emergenza Elezione 164,654 * 23,077 0,000* 106,988 222,320 Urgenza 140,299* 27,529 0,000* 71,499 209,080

*La differenza media è significativa al livello 0.05

Tabella 6 sST2 POST-CEC Differenza fra

medie

Errore

std. Sig.

IC 95% Limite inf Limite sup Elezione Urgenza -4,944 28,473 1,000 -76,094 66,207 Emergenza -199,170* 39,273 0,000* -297,307 -101,033 Urgenza Elezione 4,944 28,473 1,000 -66,207 76,094 Emergenza -194,227* 46,850 0,001* -311,297 -77,156 Emergenza Elezione 199,170* 39,273 0,000* 101,033 297,307 Urgenza 194,227* 46,850 0,001* 77,156 311,297

* La differenza media è significativa al livello 0.05

Tabella 7 sST2 24 ore Differenza fra

medie

Errore

std. Sig.

IC 95% Limite inf Limite sup

Elezione Urgenza 0,568 44,133 1,000 -109,713 110,849 Emergenza -22,494 60,872 1,000 -174,603 129,616 Urgenza Elezione -0,568 44,133 1,000 -110,850 158,394 Emergenza -23,062 72,616 1,000 -204,518 159,394 Emergenza Elezione 22,494 60,872 1,000 -129,616 174,603 Urgenza 23,062 72,616 1,000 -158,394 204,518

*La differenza media è significativa al livello 0.05

I due pazienti operati in regime di emergenza (rottura di muscolo papillare post-infartuale e dissezione aortica di tipo A) presentavano già all’ingresso valori di sST2 molto più alti rispetto ai valori medi (rispettivamente 250 ng/mL e 148 ng/mL vs 26ng/mL [IQR 19-49]) e tale differenza rimaneva significativa, rispetto alla media

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della popolazione, anche ad un’ora dalla fine dell’intervento (rentrambi 250ng/ml vs 26ng/mL IQR 71-20]).

Relazione tra sST2 e complicanze postoperatorie

I pazienti a cui nel postoperatorio veniva somministrata terapia antibiotica, mostravano valori maggiori di sST2 post-CEC (p=0,042) e a 24 ore (p=0,012). Analogo andamento si è rilevato per i valori di sST2 a 24 ore in chi sviluppava sepsi nel postoperatorio (p=0,05).

Il gruppo di pazienti con ipotensione nel postoperatorio mostrava una differenza significativa in termini di sST2 a 24 ore (p=0,003). In accordo con quest’ultima osservazione, coloro che necessitavano di supporto aminico, presentavano valori di sST2 a 24 ore più alti (p=0,001).

Interessante è anche notare che sempre il valore di sST2 a 24 ore era più alto in coloro che sviluppavano AKI (p=0,028) o che necessitavano di CRRT (p=0,011) nel postoperatorio. Nella tabella 8 sono riportati i risultati del confronto delle medie dei livelli sST2 a 24 ore in base all’insorgenza delle suddette complicanze.

Tabella 8 sST2 24 ore t P Media±DS Sepsi -2,979 0,005 335±104 vs 218±72 Antibioticoterapia -2,616 0,012 288±98 vs 213±71 Ipotensione -3,176 0,003 262±74 vs 190±74 Necessità di amine -3,413 0,001 261±71 vs 183±76 AKI -2,285 0,028 304±92 vs 219±77 CRRT -2,651 0,011 305±82 vs 216±76

Per tutte le altre complicanze indagate non è stata rilevata significatività (aritmia, polmonite, necessità di inotropi, necessità di supporto meccanico o di ECMO).

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Il valore di sST2 a 24 ore correlava positivamente con la durata del supporto aminico (ρ=0,573, p<0,001) e con la durata della ventilazione meccanica (ρ=0,320, p=0,037).

Relazione tra sST2 durata degenza e mortalità

L’analisi di correlazione, per indagare il rapporto tra sST2 e durata della degenza, ha mostrato una relazione positiva tra il valore di sST2 a 24 ore e la durata della degenza in Terapia Intensiva (ρ=0,456, p=0,002) e della degenza ospedaliera (ρ=0,311, p=0,042).

Il valore di sST2 a 24 ore è risultato più elevato nei pazienti deceduti durante la degenza ospedaliera (media±DS 360±106) rispetto ai sopravvissuti (219±72) con valore di p=0,003. Tale differenza restava significativa anche nei deceduti a 30 giorni (349±90 vs 216±72, p=0,001).

Troponina

Nella nostra popolazione di pazienti, il valore di troponina è stato dosato nell’immediato postoperatorio (post-CEC) ed in prima giornata postoperatoria (1^gpo). L’andamento dei valori del marcatore di necrosi miocardica non rispecchiava un andamento gaussiano, perciò i valori sono espressi come mediana e range interquartile: troponina post-CEC 360 ng/L (291-590), troponina 1^gpo 585 ng/L (363-1073) e la differenza tra le due misurazioni è risultata statisticamente significativa, p<0,001.

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Figura 4. Concentrazioni di hsTnT (ng/L) entro un’ora da intervento di cardiochirurgia e in prima giornata postoperatoria.

Il valore di troponina in 1^gpo correlava positivamente con il valore di sST2 a 24 ore (ρ=0,355, p=0,021). L’andamento della troponina non era diverso a seconda della priorità dell’intervento (elezione/urgenza/emergenza).

Entrambe le rilevazioni invece erano sostanzialmente più elevate nei pazienti che si sottoponevano ad un REDO: troponina post-CEC (2134±1253 vs 530±559, p=0,015), troponina 1^gpo (5715±6061 vs 912±1204, p=0,014).

Nessun fattore di rischio clinico preoperatorio influenzava il valore di troponina. Per quanto riguarda le complicanze postoperatorie, il test non parametrico per il confronto tra medie, ha mostrato una differenza significativa nei valori di troponina 1^gpo in caso di ipotensione (1785±2364 vs 433±198, p=0,005) e conseguente necessità di supporto aminico (1694±2280 vs 404±186, p=0,001), e nel gruppo di pazienti che sviluppava aritmie nel postoperatorio (2011±2805 vs 833±1255, p=0,035).

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Raggruppando tutte le complicanze osservate nella popolazione sotto una sola variabile, i valori di troponina sia post-CEC che in 1^gpo mostravano una distribuzione differente in relazione al verificarsi di almeno una complicanza postoperatoria: troponina post-CEC 764±805 vs 339±169 con p=0,035; troponina 1^gpo 1548±2186 vs 408±180 con p=0,001.

L’analisi di correlazione è servita per indagare la relazione tra i valori di troponina e la durata del supporto con amine e inotropi e la durata della ventilazione meccanica. I risultati significativi sono riportati nella tabella seguente.

Tabella 9 Correlazioni ρ Sig. Troponina post-CEC Durata amine 0,379 0,014 Durata inotropi 0,545 0,000 Troponina 1^gpo Durata amine 0,749 0,000 Durata inotropi 0,436 0,004 Durata VM 0,435 0,004

Il valore di Troponina in 1^gpo ha mostrato una distribuzione diversa nei pazienti deceduti. Il suo valore infatti era statisticamente più elevato sia nei deceduti durante il ricovero in ospedale (4197±3948 vs 988±1617, p=0,046), che a 30 giorni (3210±3273 vs 982±1638, p=0,026).

BNP

Nel nostro studio, tra i dati raccolti, figurava anche il valore di BNP preoperatorio. Purtroppo non è stato possibile tracciare una curva dell’andamento del peptide natriuretico anche nel postoperatorio a causa dei troppi dati mancanti. Mediana

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e range interquartile del marcatore, già riportati nella tabella 2, erano 112pg/mL (50-434).

Il valore del peptide natriuretico misurato prima dell’intervento non ha mostrato una correlazione significativa con il valore preoperatorio di sST2 (ρ=-0,054, p=0,193) né con il punteggio dell’EuroSCORE II (ρ=0,297, p=0,093).

Abbiamo indagato la distribuzione del BNP in relazione prima ai fattori clinici preoperatori e poi agli eventi postoperatori.

Nessuna relazione è stata evidenziata con la EF% preoperatoria (ρ=-0,210, p=0,241) né con le altre caratteristiche cliniche da cui il BNP risulta solitamente influenzato, come età (ρ=0,138, p=0,444), sesso (p=0,817) o BMI (ρ=-0,064, p=0,736). Non è stato possibile confrontare il valore di BNP nei gruppi divisi in base alla priorità dell’intervento (elezione, urgenza, emergenza), in quanto la misurazione basale nei pazienti operati in regime di urgenza o emergenza è venuta a mancare.

La distribuzione dei valori di BNP è risultata significativamente diversa in caso di anamnesi positiva per insufficienza cardiaca cronica (1109±1546 vs 185±246, p=0,014). Questa osservazione, non evidenziata dai valori di ST2, è concorde con il maggiore valore diagnostico riconosciuto in letteratura al peptide natriuretico in relazione alla presenza di insufficienza cardiaca. [42]

L’analisi ha mostrato anche che i livelli di BNP erano diversi in presenza di insufficienza renale cronica (1414±1753 vs 210±307, p=0,002) e di assunzione di farmaci ACEi/ARBs (613±1100 vs 124±231, p=0,007).

Per quanto riguarda gli eventi postoperatori, la distribuzione dei valori di BNP è risultata significativamente diversa in relazione a: sviluppo di AKI (1146±842 vs

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371±936, p=0,008), necessità di CRRT (1917±1871 vs 206±296, p=0,001) e bisogno di inotropi (869±1309 vs 128±137, p=0,012).

L’analisi di correlazione ha permesso invece di evidenziare una relazione positiva tra il valore di BNP preoperatorio e la durata del supporto farmacologico con amine (ρ=0.385, p=0,027) e inotropi (ρ=0.412, p=0,017). Una correlazione di segno negativo invece è emersa tra BNP preoperatorio e EF% alla dimissione (ρ=-0,388, p=0,034). In relazione alla mortalità osservata, si è evidenziata una differenza statisticamente rilevante nel valore preoperatorio di BNP tra i pazienti deceduti a 30 giorni; essi avevano un valore di BNP preoperatorio mediamente più alto rispetto al resto della popolazione (1807±2184 vs 280±474, p=0,018).

EuroSCORE II

È emersa una correlazione positiva tra l’EuroSCORE II e il valore di sST2 a 24 ore (ρ=0,356, p=0,019).

Il test ANOVA per il confronto tra gruppi in base alla priorità dell’intervento, ha mostrato una differenza significativa tra il gruppo di pazienti operati in elezione e quelli operati in regime di emergenza (p=0,015), come mostrato in tabella 10.

Tabella 10 EuroSCORE II Differenza fra medie Errore std. Sig. IC 95% Limite inf Limite

sup Elezione Urgenza -1,270 1,639 1,000 -5,365 2,825 Emergenza -6,770 2,260 0,014* -12,419 -1,122 Urgenza Elezione 1,270 1,639 1,000 -2,825 5,365 Emergenza -5,500 2,697 0,144 -12,238 1,238 Emergenza Elezione -6,770 2,260 0,014* 1,122 12,419 Urgenza 5,500 2,697 0,144 -1,238 12,238

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La frazione di eiezione del paziente, sia preoperatoria (ρ=-0,482, p=0,02) che alla dimissione (ρ=-0,464, p=0,03), correlava negativamente con il valore dell’EuroSCORE II.

Il valore di questo score di rischio correlava positivamente anche con caratteristiche della degenza del paziente in Terapia Intensiva quali la durata del supporto con amine (ρ=0,575, p<0,001) e con inotropi (ρ=0,554, p<0,001) e la durata della ventilazione meccanica (ρ=0,362, p=0,017).

Il punteggio dell’EuroSCORE II mostrava una differenza significativa tra i pazienti che sviluppavano almeno una complicanza nel postoperatorio (aritmia, ipotensione, sepsi, AKI, necessità di supporto meccanico o di ECMO) rispetto ai pazienti che avevano un decorso clinico regolare (4,03±3,78 vs 1,46±0,69, p=0,012).

Una correlazione positiva si è evidenziata nella relazione tra EuroSCORE II e durata della degenza in Terapia Intensiva (ρ=0.442, p=0.003) e della degenza ospedaliera (ρ=0,498, p=0,001).

Il punteggio dell’EuroSCORE II non era significativamente diverso nei pazienti deceduti rispetto al resto della popolazione.

Endpoint primari: durata della degenza e mortalità

L’analisi di regressione è stata eseguita per indagare il potere predittivo di sST2 e di eventuali altri fattori in relazione agli endpoint primari (degenza in UTI e ospedaliera, mortalità intraospedaliera e a 30 giorni).

Dall’analisi di regressione lineare semplice è emerso che la misurazione di sST2 a 24 ore, EuroSCORE II, durata della CEC e il verificarsi di almeno una complicanza

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durante il ricovero in terapia intensiva (comprendendo sotto una sola variabile ogni eventuale complicanza osservata), si dimostravano predittori indipendenti della durata della degenza in UTI, come riportato nella tabella 11.

Tabella 11

Regressione lineare semplice

Durata degenza UTI R² corretto ANOVA B β t Sig

F Sig sST2 24 ore 0,256 15,457 0,000* 0,022 0,523 3,931 0,000* EuroSCORE II 0,181 10,306 0,003* 0,460 0,448 3,210 0,003* Troponina postCEC 0,342 21,805 0,000* 0,003 0,599 4,670 0,000* Troponina 1^gpo 0,560 53,091 0,000* 0,001 0,755 7,286 0,000* CEC min 0,294 18,101 0,000* 0,041 0,558 4,255 0,000* Complicanze 0,094 5,382 0,025* 2,390 0,341 2,320 0,025*

Nel modello di regressione che conteneva tutte le variabili sopra menzionate, solo la Troponina in 1^gpo manteneva la significatività come predittore della durata della degenza in UTI (tabella 12).

Tabella 12

Regressione lineare multipla MODELLO Variabile dipendente: DEGENZA UTI

R² corretto ANOVA Predittori: sST2 24 ore, EuroSCORE, Troponina

post-CEC, Troponina 1^gpo, CEC min, Complicanze F Sig. 0,739 19,435 0,000* B β t Sig sST2 24 ore 0,005 0,114 1,193 0,241 EuroSCORE II 0,052 0,052 0,414 0,681 Troponina post-CEC -0,002 -0,329 -1,949 0,06 Troponina 1^gpo 0,002 0,956 5,556 0,000* CEC min 0,009 0,12 1,067 0,294 Complicanze 0,549 0,078 0,851 0,401

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