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Controllo termico dei polloni della vite.

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Academic year: 2021

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PISA

Dipartimento di Scienze Agrarie, Alimentari e Agro-ambientali

CORSO DI LAUREA MAGISTRALE IN PRODUZIONI

AGROALIMENTARI E GESTIONE DEGLI AGROECOSISTEMI

(curriculum biologico)

ELABORATO FINALE

Controllo termico dei polloni della vite

Candidato Relatori

Valentina Panicucci Prof. Michele Raffaelli Dr. Christian Frasconi

Correlatore

Prof. Claudio D’Onofrio

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Credo che avere la terra e non rovinarla sia la più bella forma d’arte che si possa desiderare.

(Andy Warhol) La nostra sfida più grande in questo nuovo secolo è di adottare un'idea

che sembra astratta: lo sviluppo sostenibile. (Kofi Annan)

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1. RIASSUNTO 1

2. INTRODUZIONE 4

2.1. La vite 4

2.1.1 Metodo di conduzione biologica del vigneto 6 2.1.2 Gestione della pianta in campo 8

2.1.2a Inerbimento e gestione infestanti 10

2.1.2b Gestione vigore vegetativo della vite 14

2.2. I polloni 16

2.2.1 Il controllo dei polloni 18 2.2.2 Macchine per il controllo meccanico dei polloni 22

2.3. Il pirodiserbo 25

2.3.1. Le macchine del pirodiserbo 29

2.3.1a Macchine manuali 31

2.3.1b Macchine semoventi 35

2.3.1c Macchine portate 38

2.3.2. Utilizzi in azienda 42

2.3.3. Tecnologie ed accessori presenti sulle macchine del

pirodiserbo 43

3. SCOPO DELL’ELABORATO 49

4. MATERIALI E METODI 51

4.1. Macchina utilizzata 51

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4.3. La sperimentazione 57

4.3.1. Rilievi fenologici 63

4.3.2. Campionamento acini e vendemmia 67

4.3.3. Analisi statistica 75

5. RISULTATI E DISCUSSIONE 77

5.1. Sviluppo della nuova macchina del pirodiserbo 77

5.2. Prestazioni operative 83

5.3. Risultati sperimentazione e discussione 84

5.3.1. Numero polloni 85

5.3.2. Stadio fenologico dei polloni 90 5.3.3. Analisi chimica degli acini 93

5.3.4. Analisi produzione 96

5.4. Conclusioni 98

6. BIBLIOGRAFIA 100

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1

RIASSUNTO

I succhioni della vite, comunemente chiamati polloni, sono germogli non uviferi posti alla base del tronco o in posizione prossimale al suolo. La loro eliminazione è necessaria in quanto forti competitori di nutrienti dei germogli uviferi, vista la loro crescita contemporanea. In una gestione convenzionale, questi vengono tolti utilizzando sostanze chimiche disseccanti che non penetrano nella pianta adulta. In agricoltura biologica il problema della spollonatura è molto attuale; le aziende tuttora utilizzano mezzi meccanici invadenti, oppure poco efficienti, in alternativa al controllo manuale che implica un’elevata manodopera in condizioni poco agiate e quindi un alto dispendio economico. In commercio sono presenti macchine per l’operazione del pirodiserbo che, opportunamente modificate, possono effettuare la pirospollonatura riuscendo a devitalizzare i polloni senza danneggiare la pianta; la tecnica è utilizzabile anche in agricoltura biologica, in quanto non fa uso di sostanze chimiche di sintesi ad azione disseccante per contatto. La sperimentazione, avvenuta nella stagione vegeto-produttiva 2016 in un vigneto di sangiovese della Tenuta di Ceppaiano (Ceppaiano, Pisa) della Fam. Castellani, ha lo scopo di studiare il miglior stadio fenologico in cui effettuare il trattamento di pirospollonatura, valutandone inoltre gli effetti sulla produzione, analizzando le uve durante la maturazione e al momento della vendemmia. Con questa finalità, adottando un disegno

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sperimentale a blocchi randomizzati, sono state confrontate quattro tipologie di gestione termica dei polloni: trattamento precoce (in data 21/04/16), tardivo (in data 05/05/16), doppio trattamento precoce-tardivo, testimone (non trattato). La macchina utilizzata nella sperimentazione è sviluppata dalle Officine Mingozzi, modello PFV-600. È stata collegata ad un trattore Same Frutteto 100 con potenza nominale di 67 kW, anch’esso presente nel parco macchine aziendale. I trattamenti sono stati effettuati ad una velocità di 3 km/h con una pressione di esercizio del GPL di 2 bar. Sono stati effettuati rilievi periodici sulle piante contrassegnate con cartellino, rilevando ogni volta il numero di polloni e germogli presenti, e il loro stadio fenologico (seguendo la descrizione fenotipica FA1003). Successivamente, nel laboratorio del DiSAAA-a di Pisa sono state svolte analisi qualitative e produttive, rilevando: il peso medio dell’acino, il grado Brix, il pH e l’acidità totale. I dati sono stati analizzati statisticamente attraverso un modello generale lineare. I dati relativi allo stadio fenologico dei polloni sono stati sottoposti ad un’analisi non parametrica. Dall’analisi risulta che i trattamenti non sembrerebbero influenzare i principali parametri qualitativi e produttivi presi in considerazione durante la vendemmia. Le analisi statistiche condotte sui dati relativi al numero e allo stadio fenologico dei polloni hanno evidenziato un’importante differenza tra i trattamenti posti a confronto. Nelle unità sperimentali in cui sono stati effettuati i trattamenti di pirospollonatura precoce e il doppio trattamento (precoce e tardivo) le piante

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di vite sembrerebbero presentare un numero di polloni ed uno stadio fenologico inferiore, a quelle presenti nelle unità sperimentali sottoposte al trattamento tardivo e quelle in cui non è stato effettuato alcun trattamento (testimone). Il trattamento di pirospollonatura, inoltre, permette di ridurre notevolmente i tempi di lavoro in confronto alla spollonatura manuale, con un risparmio netto sul costo della manodopera.

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2

INTRODUZIONE

2.1 LA VITE

In Italia la viticoltura è sicuramente uno degli ambiti agricoli più importanti, in termini di fatturato, di export e di superficie coltivata. Gli ultimi dati del Censimento Agricolo (2010) confermano un trend già notato in precedenza: la grande produzione e le grandi distese di vigneti stanno lasciando sempre di più spazio a piccole realtà, con prodotti particolari e di nicchia, che vengono gestiti con una conduzione integrata e molto spesso biologica. Infatti si rileva che su circa 554.250 ha (389.000 aziende) di coltivazione a vigneto in Italia, ben 44.000 ha (9.900 aziende circa) sono coltivati in biologico (dati ISTAT Censimento Agricolo 2010); a confronto, il Censimento Agricolo precedente (dati ISTAT Censimento Agricolo 2000) rilevava una coltivazione della vite distribuita su circa 717.500 ha (per circa 791.000 aziende). La scelta dell’agricoltore di indirizzare la propria azienda verso una gestione diversa da quella convenzionale implica una modifica profonda di tutte le metodologie di intervento in campo, prima ancora che in cantina; infatti molti sono gli accorgimenti da rivedere nelle pratiche in vigneto, dall’utilizzo di prodotti di sintesi a quello di lavorazioni intensive con le macchine agricole.

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Gli interventi più importanti per ottenere una buona qualità dell’uva e permettere una vinificazione in condizioni ottimali è possibile riassumerle sotto due categorie:

- Interventi agronomici: sono interventi che riguardano il terreno con lo scopo di mantenere e integrare la fertilità del suolo; rientrano in questa categoria le lavorazioni del terreno, da quelle profonde pre-impianto (aratura, scassi, …) a quelle annuali di gestione (arieggiamento interfila, sovescio, erpicatura), gli interventi di gestione delle piante infestanti (sulla fila e nell’interfila, per diminuire la competizione nutritiva e spaziale tra la pianta d’interesse, in questo caso la vite, e le altre), gli interventi di potatura invernale e verde.

- Interventi fitosanitari: utili per il contenimento di possibili malattie fungine, batteriche e virali, e degli insetti dannosi alla vite; si tratta dell’utilizzo di prodotti organici o chimici ammessi dalla legislazione che contrastano lo sviluppo di queste forme biologiche attuando un meccanismo di prevenzione della malattia o in taluni casi di terapia di un’infezione già in corso. Molti gli esempi da citare: il rame contro la Peronospora (Plasmopara viticola), lo zolfo contro l’Oidio (Erysiphe necator, ex Uncinula nectator Schw.), e numerosi fugistatici e insetticidi.

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2.1.1 IL METODO DI CONDUZIONE BIOLOGICA DEL

VIGNETO

Le aziende che intendono produrre seguendo la via dell’agricoltura biologica, oggi sempre più importante in termini di rispetto dell’ambiente e di marketing, sono obbligati ad almeno un controllo annuo da parte dell’Organismo di Controllo che certifica l’azienda come “biologica” e le rilascia l’abilitazione all’utilizzo del simbolo in etichetta (Fig.1) e della menzione “biologico”, in grado quindi di certificare un certo stile produttivo e un aumento sensibile del prezzo sul mercato dettato da queste scelte.

Fig. 1 – Esempio di etichetta prodotto biologico (www.suoloesalute.it).

La gestione biologica dell’azienda molto spesso è più onerosa di quella convenzionale, e questi costi sono dovuti a spese di certificazione, di trattamenti (i prodotti biologici, essendo più innovativi e recenti, molto spesso hanno anche un costo maggiore) e generalmente a una resa più bassa della coltivazione. Uno studio effettuato dall’Università di Udine in Friuli Venezia Giulia (Donati et al., 2006) ha evidenziato le voci costi e ricavi a confronto tra aziende viticole biologiche e convenzionali: è risultato che la resa/ha delle principali varietà cala considerevolmente in produzione

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biologica (-23.81%), i costi medi sono più alti (+6.35%), ma il prezzo spuntato sul mercato della bottiglia finita riesce ad incrementare addirittura del 44,19%. Rimane comunque vero che la scelta della conversione all’agricoltura biologica di un’azienda è una scelta importante, da ponderare considerando tutte le variabili in gioco, le spese e i ricavi, ma soprattutto l’ambiente dove l’azienda è ubicata, e l’adattabilità della coltura ad esso. Coltivare con il metodo biologico non significa infatti non utilizzare i prodotti non ammessi dal regolamento, bensì cercare di valorizzare al meglio il proprio prodotto attraverso il lavoro naturale del territorio, e questo si traduce in una gestione più accurata e “naturale” del processo produttivo, che può essere attuata soltanto in ambienti dove la coltura è agevolata dalle condizioni pedoclimatiche.

La gestione biologica obbliga il produttore a non utilizzare prodotti di sintesi per i trattamenti delle piante in campo, e ad un utilizzo consono e meticoloso dei mezzi di controllo meccanico, in modo da preservare la fertilità del terreno e la biodiversità delle specie presenti, vegetali e animali, importante per un controllo integrato dei patogeni.

Mentre per il controllo delle forme animali e fungine la ricerca ha elaborato diverse metodologie (si ricorda tra queste la confusione sessuale, dove l’Università di Pisa e il Dipartimento di Scienze Agrarie, Ambientali ed Agro-Ambientali sono state tra le prime pioniere dello studio e dell’applicazione in campo attraverso gli erogatori da applicare tra i filari di

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diverse forme, tra le più classiche quella rappresentata in Fig. 2, per il controllo degli insetti dannosi per la vite nel nostro areale, come la Lobesia

botrana) (Bagnoli et al., 2003; Ioratti et al., 2011), per il controllo delle

infestanti e la gestione della vite pochi sono i mezzi da poter utilizzare.

Fig. 2 – Esempio di erogatore in campo (www.woldwinepassion.it).

2.1.2 GESTIONE DELLA PIANTA IN CAMPO

La vite è una pianta arborea con un ciclo vitale lungo (Fig. 3): nei primi tre anni dall’impianto delle barbatelle risulta improduttiva, con una crescita radicale molto spinta che assicurerà una lunga vita alla pianta, con radici che si estendono molto sia in ampiezza che in profondità, condizione necessaria affinché la pianta sopporti le diverse condizioni climatiche e nutritive che si possono avere negli anni. Dal terzo anno la pianta inizia a produrre una quantità sempre più importante di uva, fino al quinto anno dove inizia una

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produzione stabile di circa 2 – 3 kg uva/ceppo; la pianta, a meno di fenomeni particolari quali malattie o stress di varia natura, mantiene questa produzione fino al venticinquesimo anno, quando inizia una fase calante di senilità fino alla vecchiaia che arriva circa al quarantesimo anno di vita.

Fig. 3 – Ciclo della vite (ricerca Google).

Naturalmente questi dati variano in funzione del tipo di vitigno presente in campo, dalla gestione agronomica e dalla produzione richiesta dalla pianta. È bene considerare che una produzione costante elevata di frutto porta la pianta ad un indebolimento progressivo, oltre che ad uno sfruttamento delle risorse del terreno e alla possibilità di incorrere in stress di natura fisiologica o biotica; questi fattori portano quindi ad una produzione di scarsa qualità e ad una resa sempre minore, fino al deperimento della pianta.

Vista l’enorme potenzialità della pianta, la vite necessita di un controllo costante per quanto riguarda il vigore vegetativo e produttivo, oltre al mantenimento di un’adeguata copertura vegetale del terreno con flora spontanea, necessaria per la biodiversità in vigna (intesa come biodiversità vegetale ma anche animale) ma che occorre limitare per non incorrere in

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competizioni per il suolo o per i nutrienti tra la pianta da reddito, in questo caso la vite, e le infestanti spontanee.

2.1.2a

Inerbimento e gestione infestanti

È pratica comune, sia in agricoltura convenzionale ma ancor di più in quella biologica, inerbire l’interfila con essenze seminate ad hoc per le necessità dello specifico terreno, che verranno poi mantenute o molto più spesso sovesciate (lavorate attraverso l’aratura superficiale in modo da interrarle e dare il via alle reazioni di umificazione) nella stagione vegetativa successiva. In questo modo il terreno rimane coperto dalla vegetazione durante l’inverno, prevendendo erosione e dilavamento causato dalle piogge, i nemici naturali trovano riparo nelle diverse essenze (favorendo la sopracitata biodiversità) e viene apportata al terreno nuova sostanza organica da poter utilizzare come “concime a lento rilascio” una volta innescata naturalmente l’umificazione. Inoltre, se come inerbimento invernale vengono utilizzate famiglie botaniche particolari, queste possono favorire l’accumulo di elementi e/o essenze positive alla vite. Una delle specie più usate è il favino (Vicia faba var. minor, Fig. 4a)che, come tutta la famiglia delle Leguminose, favorisce l’accumulo di azoto nel terreno grazie alla fissazione dell’azoto atmosferico ad opera dei batteri azotofissatori che vivono in simbiosi con la pianta (nei rizobi che si sviluppano a livello radicale). Un’altra famiglia molto usata, sia in viticoltura che in altre colture come le ortive, è quella

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delle Brassicacee (come la senape indiana, Brassica juncea, Fig. 4b) che rilasciano nel terreno essenze in grado di controllare i patogeni del terreno rilasciando composti, quali i glucosinolati (composti glucosidici derivanti da amminoacidi), che hanno dimostrato avere azione allelopatica contro i patogeni del terreno (funghi, nematodi, elateridi) (Lazzeri et al., 2000).

Fig. 4 – Inerbimento con favino a sinistra (www.vigneviniequalita.it) e senape indiana

a destra (www.wikipedia.org).

Fatta eccezione per questa pratica agricola, benefica per la pianta e per il terreno, nella maggioranza delle aziende è usuale mantenere basso il livello di infestanti e di inerbimento in vigna, soprattutto sulla fila, per evitare l’incorrere di competizione radicale e per agevolare le altre operazioni eseguite a mano o a macchina. È pratica comune, nelle aziende convenzionali, ripulire l’interfila e la fila del vigneto dalle infestanti attraverso diserbanti chimici che a basse dosi sono efficaci sulla flora erbacea e irrilevanti (o quasi) sulla vite. Una gestione chimica mal ponderata delle infestanti può avere importanti riscontri negativi: lo studio effettuato dall’Università di Nova Gorica (Danielis et al., 2013) ha evidenziato come

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l’utilizzo del solo Glifosate per tre anni consecutivi abbia selezionato la flora infestante rendendola molto resistente alla molecola utilizzata, mentre invece la miscelazione di più sostanze con meccanismo d’azione diverso ha permesso un ottimo controllo delle specie presenti per tutti gli anni della sperimentazione. Inoltre sono numerosi i casi studio della diversa composizione e proprietà del terreno lavorato con un’ottica conservativa biologica piuttosto che con l’utilizzo di mezzi chimici, a favore della prima (Salomé et al., 2016).

Questo naturalmente è vietato in agricoltura biologica, trattandosi di sostanze chimiche non ammesse e soprattutto di una pratica distruttiva nei confronti della biodiversità animale e vegetale, dove il controllo delle infestanti rimane un problema aperto. Le aziende biologiche ricorrono all’uso di mezzi meccanici di controllo, ammessi dal disciplinare di produzione e soprattutto concordi alla filosofia biologica di rispetto della pianta e dell’agroecosistema.

I mezzi meccanici utili per il controllo delle infestanti sono fondamentalmente di due tipi:

- Controllo meccanico: possibile sia come metodo preventivo che terapeutico. In prevenzione, può essere effettuata una falsa semina o una lavorazione del terreno; una volta presente l’infestante è possibile agire con una strigliatura (erpice con denti flessibili regolabili) o una sarchiatura.

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- Controllo termico: attraverso l’utilizzo delle alte temperature secche o umide; pirodiserbo, vapore, acqua calda o raggi infrarossi (poco usati).

Per il controllo fisico delle infestanti sulla fila, a diretto contatto col ceppo della vite, le macchine utilizzate sono diverse, in quanto devono avere l’accuratezza di non danneggiare il ritidoma della vite; per questo vengono usati dei rotori dotati di fili polimerici collegati a un tastatore che allontana la macchina in presenza della pianta arborea. Questi in realtà non sono così innocui per la pianta, in quanto i fili rotanti provocano delle leggere ferite nel ritidoma, aprendo l’accesso a funghi e batteri che possono attaccare la vite, oltre ad essere fonte di inoculo di malattie quali il Mal dell’Esca (Fig. 5) che si propagano con l’utilizzo di attrezzi per potatura/lavorazioni non sanificate (Palliotti et al., 2015). Sempre di più le aziende stanno adottando il metodo del pirodiserbo, essendo una tecnica ecosostenibile e non dannosa per la pianta; inoltre la stessa macchina è utilizzabile anche in altre modalità, modificando semplicemente l’orientamento dei bruciatori, ma di questo parleremo più avanti.

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2.1.2b

Gestione vigore vegetativo della vite

La gestione della chioma della vite è un altro insieme di pratiche molto onerose per l’azienda viticola, in quanto si tratta di lavorazioni per lo più manuali che richiedono molte ore di lavoro in campo da parte di un alto numero di operai. Sono pratiche indispensabili per ottenere una buona produzione, e solo in parte possono essere meccanizzate; queste vanno sotto il nome generico di “potatura”, anche se rientrano nella gestione vegetativa molte lavorazioni diverse. Esistono due tipi di potatura:

- Potatura secca: è la potatura invernale, dove viene deciso il numero di gemme che daranno origine ai grappoli l’anno successivo (con potature corte o lunghe a seconda del vitigno in questione, dell’ambiente pedoclimatico e delle scelte produttive dell’azienda). Esistono molti tipi diversi di forme di allevamento e quindi di tipologie di potatura; in Toscana le più utilizzate sono quelle a Cordone Speronato e a Guyot (Fig. 6), mentre altre sono in fase di studio sia come adattabilità all’ambiente che come meccanizzazione (Intrieri, 2012). Gli interventi di potatura invernale sono da effettuarsi al termine del freddo intenso, in modo

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da poter valutare eventuali danni subiti dalla stagione rigida (Marenghi, 2010).

Fig. 6 – Schema di potatura del Cordone Speronato e del Guyot (www.agraria.org).

- Potatura verde: in cui si dà forma alla pianta e si gestisce la quantità di vegetazione e di grappoli da mantenere, da effettuare durante la stagione vegetativa, quindi dal pianto della vite (marzo) in poi. Gli interventi di potatura verde sono: piegatura e legatura della vite (da fine marzo, si piega e si lega il nuovo tralcio da dove origineranno i germogli), spollonatura (aprile/maggio, vengono tolti i polloni e i succhioni, cioè i germogli che nascono da gemme presenti nel legno vecchio e che in genere non danno frutto), scacchiatura (aprile, eliminazione dei germogli in eccesso nei primi stadi di sviluppo, per ottenere una chioma non troppo folta e garantire

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l’arieggiamento), defogliazione (precoce a fine maggio o tardiva a luglio dopo l’invaiatura, serve a ridurre il numero di foglie nei pressi del grappolo per migliorare l’insolazione e creare un vuoto per aumentare l’arieggiamento), cimatura (entro fine giugno, si tratta del taglio dei tralci troppo lunghi per permettere la formazione di nuove foglie più efficienti per la fotosintesi, da ripetere più volte in vigneti vigorosi), diradamento dei grappoli (tra l’allegagione e l’invaiatura, serve a riportare in equilibrio il carico di ogni pianta qualora ce ne sia il bisogno).

Come si può notare dalle brevi descrizioni, tutte le operazioni di potatura devono essere eseguite a mano, o nella migliore delle ipotesi vengono rifinite a mano dopo un primo intervento con le macchine (come per la potatura invernale); questo è un costo molto alto per il bilancio aziendale e per questo si cerca di ottimizzarle con macchine innovative e tecniche diverse di gestione.

2.2 I POLLONI

Con il termine “pollone” si intende il germoglio che si sviluppa direttamente sul tronco della pianta, nel nostro caso della vite, da una gemma posta alla base del tronco o in posizione prossimale al suolo (Fig. 7). Molto spesso nell’ambiente agrario le definizioni di “pollone” e “succhione” vengono fatte coincidere; in realtà rappresentano due parti ben distinte della pianta: mentre

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il pollone rappresenta il ricaccio emesso dalle radici nel punto di inserzione sul fusto, il succhione si sviluppa da una gemma posta sulla porzione aerea della pianta. Entrambi hanno portamento verticale e si sviluppano molto velocemente, sottraendo nutrienti importanti che la pianta mette a disposizione ai germogli. Sarebbe quindi giusto chiamarli succhioni, ma è ormai comune parlare di polloni e spollonatura per intendere la pratica agricola di gestione dei ricacci che si formano nella porzione verticale del tronco della vite.

Fig. 7 – Spollonatura manuale (ricerca Google).

Molte sono le specie botaniche che emettono un grande numero di polloni, e in alcuni casi vengono utilizzati come materiale di propagazione, sfruttando la loro capacità di crescere rapidamente e trapiantandoli una volta in grado di fotosintetizzare i nutrienti. Fatta eccezione per questo caso particolare, i polloni vengono sempre trattati meccanicamente o chimicamente al fine di eliminarli per bloccare lo sfruttamento dei nutrienti, inutili dal punto di vista produttivo dato che nella maggior parte dei casi questi germogli basali non portano frutto, oltre ad avere una forte azione competitiva nei confronti dei

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germogli uviferi presenti nel capo a frutto o nel cordone. Inoltre questi germogli indesiderati devono essere rimossi precocemente, per evitare l’eccessiva competizione con quelli uviferi e, in base alla tipologia di intervento, prevenire la formazione di ferite eccessive lungo l’asse verticale del tronco che possono essere passaggio di future malattie fungine o batteriche.

2.2.1 Il controllo dei polloni

I metodi con cui attuare la spollonatura sono numerosi, e adattabili alle diverse esigenze produttive. Tre sono le grandi categorie di intervento:

- Controllo chimico (agricoltura convenzionale): ormai in disuso, si tratta dell’utilizzo di disseccanti che agiscono per contatto a basse concentrazioni e con irrorazione mirata, in modo da colpire il germoglio in uno stadio fenologico precoce (max polloni di 20 cm) e non nuocere al resto dei germogli uviferi della pianta. I prodotti chimici utilizzati sono molti, tra i più importanti “carfentrazone-etile”, “pyraflufen-etile” e di recente reintroduzione “glufosinate-ammonio” (Palliotti et al., 2015). Questa metodologia permette anche il controllo delle infestanti sulla fila, se non viene usata la macchina per l’irrorazione sui soli polloni; infatti l’ultima frontiera della spollonatura chimica è l’utilizzo di una macchina scavallante (Fig. 8) in grado di irrorare con il disseccante la sola parte della

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pianta interessata dai polloni, con un risparmio notevole di prodotto, addirittura fino al 40% (Rabino et al., 2013).

Fig. 8 – Spollonatrice chimica di precisione (www.tecnovict.com).

Naturalmente non è applicabile in agricoltura biologica e biodinamica, ed è sconsigliata anche in agricoltura integrata; questo perché sono utilizzate molecole chimiche che confluiscono nel terreno e nella pianta e si vanno ad aggiungere al pool di trattamenti fitosanitari necessari alla vite, come quelli rivolti alla lotta agli insetti dannosi e alle malattie fungine e batteriche. Inoltre i territori vocati alla viticoltura fanno di questa coltivazione una delle risorse più importanti per la valorizzazione del territorio (soprattutto in Italia), e il diserbo chimico mal si concilia con questo: infatti il residuo del trattamento, cioè la colorazione giallo/arancio che tende ad avere la zona sottoposta al diserbo, è un chiaro indice del forte impatto di questa gestione agricola sull’ambiente (Fig. 9). Soprattutto in produzioni di qualità, regolate da severi Disciplinari di Produzione (come i vini DOC e

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DOCG), questi trattamenti sono molto limitati o addirittura proibiti; recenti studi hanno evidenziato infatti che i trattamenti chimici non hanno impatto solo sull’agroecosistema, ma anche sulla qualità della produzione: una gestione biologica o biodinamica della vigna invece sembra avere una qualità maggiore rispetto a quella convenzionale (in termini di popolazione fungina autoctona e risposta alle malattie della pianta) soprattutto in annate con clima sfavorevole (Guzzon et al., 2016). Dal punto di vista enologico una conduzione biologica della vigna, a parità di altri fattori, porta ad un prodotto totalmente concorrenziale se non migliore rispetto a quello convenzionale (Kok et al., 2016).

Fig. 9 – Diserbo chimico nei vigneti del Chianti Classico (www.slowfood.it).

- Controllo manuale: è il metodo tradizionale, il più usato nelle aziende di piccole/medie dimensioni; si tratta della pulitura

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manuale della pianta sia nella porzione verticale (spollonatura) che in quella orizzontale (scacchiatura). È il controllo sicuramente più preciso, ma è costoso e molto faticoso dovendo operare in basso, in una porzione della pianta scomoda per l’operatore. È anche il metodo più costoso, se si considera una capacità di lavoro variabile da 20 a 70 ore/ha e un costo della manodopera di 10/12 €/ora (Palliotti et al., 2015). Studi (Pomarici et al., 2006) evidenziano come in un’azienda con estensione minore di 4 ha, la gestione manuale della chioma sia conveniente (mentre con un’estensione maggiore, il punto di pareggio di una gestione meccanica è più basso di quella manuale).

- Controllo meccanico: si tratta nella quasi totalità dei casi di una spollonatrice a flagelli (negli anni 70 ad asse verticale, oggi ad asse orizzontale) che “frusta” la porzione della pianta interessata strappando i polloni e parte delle infestanti sottofila; oggi si stanno sviluppando tecnologie alternative ai flagelli rotanti, che sfruttano l’azione del calore secco (con la fiamma libera) o umido (vapore). La capacità di lavoro è alta, circa 2 – 4 ore/ha (Palliotti et al., 2015), in relazione alla macchina utilizzata e al sistema di allevamento del vigneto.

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2.2.2 Macchine per il controllo meccanico dei polloni

Come già accennato in precedenza, le sperimentazioni sull’utilizzo di mezzi meccanici nelle operazioni di spollonatura iniziano a partire dagli anni 70, con la comparsa sul mercato di nuove macchine agricole dotate di rotori su cui erano fissati cinghie o fili in materiale plastico. Le prime operatrici vengono realizzate in Francia, utilizzando fruste a forma di cinghia in materiale morbido come cuoio o caucciù (alcuni esempi in Fig. 10) (Spezia, 2006). Queste macchine nel tempo non hanno subìto una grande evoluzione, sono diventate sempre più precise utilizzando nuovi polimeri per la costruzione di flagelli meno impattanti o vengono utilizzate in consociazione agli strumenti chimici, ma sostanzialmente sono rimaste identiche. L’azione spollonante è molto semplice: i flagelli, mossi per trascinamento ed energia centrifuga dalla rotazione ad alta velocità del rotore, “frustano” letteralmente il ritidoma della vite strappando i polloni (a qualsiasi stadio di sviluppo). Nel fare questo, si ha un’azione di controllo anche delle infestanti sottofila. La velocità di rotazione del rotore è regolabile, ed è possibile diminuire l’impatto della lavorazione variando la una velocità di avanzamento della trattrice; inoltre è opportuno regolare la macchina nella distanza di lavorazione dalla pianta e da terra, per ottenere nello stesso tempo un buon controllo della vegetazione intorno al tronco della vite.

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Fig. 10 – Tipologie diverse di fili applicati a rotore ad asse orizzontale (Macchine

Agricole 2006).

Le prime macchine spollonatrici erano dotate di un rotore ad asse verticale, i cui fili colpivano lateralmente il tronco della vite. Questa tipologia, ancora oggi in commercio (sia nella versione singola che scavallante, dove sono presenti due rotori), presenta due inconvenienti tecnici non da poco conto: se i fili sono morbidi e flessibili, possono avvolgersi attorno al tronco provocando il trascinamento e la sradicazione della pianta durante l’avanzamento della trattrice; se i fili invece sono robusti e la pianta giovane, si possono avere gravi danni al ritidoma con successive problematiche fitosanitarie. A metà degli anni ’80 fecero la loro comparsa le prime spollonatrici dotate di rotore ad asse orizzontale, che asportavano i polloni con un movimento dei flagelli dall’altro verso il basso evitando così la problematica del trascinamento della vite. Questa macchina (Fig. 11) è stata sviluppata da un artigiano toscano che utilizzò un gran numero di fili lunghi 30-45 cm applicati su un rotore orizzontale; ebbe molto successo grazie alla sua capacità di lavorare anche in spazi angusti (come quelli tra palo e vite) e di ottenere un buon diserbo meccanico delle infestanti sottofila. Questo portò all’abbinamento di questi rotori ad altre macchine già esistenti, come le

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trinciatrici centrali, per completare lo sfalcio dell’erba nell’interfila e sottofila con un unico passaggio (Spezia, 2006). Un limite operativo molto importante di queste macchine è la veloce usura dei fili, che può essere risolto con un rotore in grado di contenere all’interno una grande quantità di filo da estrarre durante la lavorazione (2,5-3 m per ogni gruppo di flagelli). Oggi queste macchine, anche nella tipologia scavallante, lavorano a regimi di rotazione più limitati e montano fili più morbidi e di diametro maggiore che sono utili per la spollonatura e non per il diserbo sottofila, da attuare con altre tecnologie.

Fig. 11 – Prima spollonatrice portata sviluppata in Toscana (VigneVini n°5/2006).

Spesso il controllo dei polloni con le spollonatrici meccaniche è molto problematico: basti pensare ai vigneti che si trovano in aree con terreno ricco di scheletro. In questi casi il suolo sconnesso renderebbe difficoltoso il trattamento mettendone a rischio l’efficacia e compromettendo la salute della pianta, qualora la trattrice (e quindi il rotore) venisse sbalzata oltre la tolleranza sopportata dalla regolazione della macchina. Inoltre la macchina ha una capacità di lavoro bassa: si parla di circa 0,5 ha/h nel caso in cui i polloni non siano ancora lignificati; questo è un grosso problema,

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considerando il costo delle ore lavorative ma soprattutto il tempo ottimale di esecuzione, molto stretto data la necessità di lavorare su polloni non ancora lignificati (Giordano, 2011).

Vista l’importanza della coltura in Italia e la sempre maggiore attenzione alle problematiche ambientali e salutistiche, analizzando le possibili alternative ai trattamenti chimici tradizionali, la ricerca è concentrata sulle metodologie innovative di controllo fisico sfruttando l’azione che il calore ha sui piccoli germogli. Per questo negli ultimi anni alla meccanizzazione viticola si accosta la pratica del pirodiserbo, con nuove macchine in via di sviluppo al fine di migliorare le prestazioni lavorative, il dispendio energetico e l’impatto della pratica agricola nei confronti della pianta e dell’ambiente.

2.3 IL PIRODISERBO

Il pirodiserbo è una metodologia di controllo termico delle infestanti, che consiste nell’esporre le parti verdi della pianta (ad uno stadio precoce) ad un rapido innalzamento della temperatura, in modo da alterarne i metabolismi biochimici e danneggiarne le cellule portando al disseccamento della pianta indesiderata in poco tempo (Ellwanger et al., 1973). I tessuti vengono disidratati, le proteine e gli enzimi denaturati e le membrane alterate; la scottatura degli organi fotosintetizzanti provoca quindi un effetto pari a quello dell’erbicida chimico. I mezzi termici utilizzati ad oggi sono la fiamma libera, il vapore e l’acqua calda. Soprattutto le ultime due

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metodologie citate hanno un importante risvolto negativo: il dispendio energetico per portare l’acqua utilizzata ad almeno 90°C è enorme, oltre alla grande quantità di acqua necessaria per il trattamento (Collins, 1999). Invece l’utilizzo della fiamma libera è più accessibile e offre prestazioni migliori in termini di costi e capacità di lavoro. Questi mezzi possono inoltre essere utilizzati in modo integrato coi mezzi meccanici.

L’utilizzo della fiamma libera (Fig. 12) induce uno shock termico nei tessuti vegetali, causato dall’esposizione degli organi verdi ad alte temperature (1000-2000°C) per pochi decimi di secondo, in modo da “lessare” le parti più tenere e non provocare danni alla pianta arborea, la vite nel nostro caso (mentre in ambito peri-urbano, le infestanti vengono trattate ad uno stadio di sviluppo precoce, colpendo interamente la pianta allo stadio erbaceo).

Fig. 12 – Azione del pirodiserbo (quaderno n° 9 del Centro Enrico Avanzi).

Il primo brevetto di una macchina per il pirodiserbo risale all’anno 1852, depositato da J.A Graig. Negli USA questa tecnica iniziò ad essere studiata e utilizzata in ambito agricolo dagli anni ’40 del secolo scorso, per poi essere abbandonata negli anni ’70 a causa della crisi petrolifera. La ricerca continuò invece in Europa, soprattutto nei paesi Nord-Europei. In Italia questa metodologia ha sempre trovato poca convinzione sia da parte degli addetti ai

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lavori che dei ricercatori; soltanto negli ultimi anni questa tecnica ha riscontrato un crescente interesse, dovuto alla diffusione della gestione biologica delle aziende agricole e quindi all’impossibilità di utilizzo di mezzi chimici per la gestione delle infestanti. Mentre in Italia il pirodiserbo è utilizzato soprattutto in ambito agricolo, nel nord Europa questa tecnica è ormai di uso comune anche per il contenimento della flora infestante urbana e in aree non-agricole; i numerosi casi di contaminazione chimica delle acque dovuta allo sproporzionato utilizzo di erbicidi e agrofarmaci (in zone agrarie e urbane) hanno sviluppato una discreta sensibilità da parte dei cittadini sull’utilizzo di metodi alternativi, unico mezzo per poter contenere i rischi dovuti alla concentrazione eccessiva di sostanze chimiche nelle falde (Skark et al., 2004). È importante tenere sotto controllo le infestanti anche su superfici dure, quali asfalto, pietre o mattoni di strutture e pavimentazioni, in quanto provocano la rottura di queste a causa della crescita e infiltrazione radicale, con conseguenti problemi di stabilità e stazionamento di acqua e umidità (Rask et al., 2006) (Fig. 13). Differente in questo caso è la logica con cui viene effettuato il controllo, in quanto su queste superfici la percentuale di infestante ammessa è uguale a zero; ben diversa invece è la gestione dell’infestante in campo, dove naturalmente la loro presenza è tollerata al di sotto della soglia economica di intervento.

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Fig. 13 – Importante presenza di infestanti in un centro urbano (ricerca Google).

In aree urbane e agricole in Italia la sperimentazione è stata condotta prevalentemente dal gruppo di ricerca di Meccanica Agraria e Meccanizzazione Agricola dell’Università di Pisa dal 2004; questo lavoro ha portato alla pubblicazione di Quaderni Informativi utili alla gestione biologica delle infestanti urbane e agrarie (Raffaelli et al., 2002; Peruzzi et al., 2006; Peruzzi et al., 2009; Peruzzi et al., 2010; Peruzzi et al., 2013). Il pirodiserbo, come tutte le tecniche termiche per il controllo delle infestanti, è una valida alternativa al controllo chimico in quanto non rilascia residui sul terreno e sulle piante (evitando quindi problemi di inquinamento delle falde e del suolo), non provoca casi di resistenza acquisita, non proietta oggetti contundenti durante il trattamento, non danneggia le parti dure della pianta (es. la corteccia) e non facilita la disseminazione o la propagazione delle piante spontanee (Upadhyaya et al., 2007). Rispetto alla scerbatura manuale, vengono ridotti drasticamente i tempi di lavorazione e quindi il costo della manodopera, oltre a migliorare le condizioni di lavoro degli operai. Il trattamento è efficiente ed efficace, considerando inoltre la

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progressiva riduzione delle piante infestanti mano a mano che vengono trattate con la tecnica del pirodiserbo (Rask et al., 2009). Naturalmente i trattamenti fisici che sfruttano il calore devono essere tempestivi, per non incorrere in percentuali di efficacia nettamente inferiore alla soglia accettata; inoltre, essendo una tecnica “a residuo zero”, il pirodiserbo offre ottime prestazioni se ripetuto sullo stesso terreno, con dei risultati paragonabili al trattamento chimico (Hewitt et al., 1998).

2.3.1 Le macchine del pirodiserbo

Negli anni ‘30/’40 negli USA il pirodiserbo veniva utilizzato per il controllo non selettivo delle erbe lungo le linee ferroviarie e i fossati e nelle piantagioni di cotone. Le attrezzature erano alimentate a petrolio, benzina o kerosene e producevano una fiamma instabile e difficilmente regolabile, oltre a emettere fumi inquinanti e possibili gocciolamenti di liquido altamente infiammabile e fitotossico (Upadhyaya et al., 2007). Negli anni ’50 fecero la loro comparsa le macchine alimentate a GPL (Gas di Petrolio Liquefatto), che utilizzavano come combustibile una miscela di gas propano (85-90%) e butano (10-15%) resa liquida sottopressione; in questo modo la macchina risultava più sicura, pulita e efficace, oltre ad essere più economica. Ancora oggi viene utilizzata la fiamma alimentata a GPL, modificandone soltanto l’efficienza con bruciatori sempre più innovativi che

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sfruttano una miglior composizione dell’aria in entrata per garantire migliori prestazioni (Raffaelli et al., 2015).

Ci sono diverse tipologie di macchine per effettuare il pirodiserbo, catalogabili sotto tre diverse categorie: macchine manuali, semoventi e portate. Le principali aziende produttrici di macchine per il pirodiserbo in Italia sono la Maito srl (Arezzo) e le Officine Mingozzi (Mingozzi Group, Ferrara).

Per le diverse macchine, sia manuali che semoventi che portate, importante considerare il consumo dei bruciatori (kg/ha), che dipende dalle caratteristiche del bruciatore, ma soprattutto dalla velocità di avanzamento con cui viene effettuato il trattamento e dalla pressione di esercizio (sono stati riscontrati consumi dello stesso ordine di grandezza per trattamenti a pressioni e velocità elevate, che per trattamenti a pressioni e velocità ridotte); in bibliografia ad una velocità di avanzamento di 3-5 km/h, quindi una capacità di lavoro di 2-3 ore/ha, corrisponde un consumo di GPL di circa 12 kg/ha (Skark et al., 2004). In generale, l’aumento della pressione di esercizio produce una fiamma più energica (più lunga e più estesa) e questo è tradotto in una riduzione del tempo necessario per eseguire correttamente il trattamento (e quindi la possibilità di lavorare ad una velocità maggiore). Per massimizzare l’efficacia del trattamento e il consumo di GPL occorre un intervento in campo tempestivo, quando la biomassa da trattare non è ad uno

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stadio avanzato ma al contrario è allo stadio di foglie cotiledonari o di prime foglie vere.

2.3.1a

Macchine manuali

Le macchine manuali per il controllo termico sono

macchine semplici e

con costo molto ridotto, adatte al trattamento in piccole aree agricole e non. Queste sono costituite da una lancia (con singolo bruciatore) collegata a una bombola di GPL di volume variabile portata su un piccolo carrello o su uno zaino ergonomico. L’operatore attraverso un grilletto posto sulla lancia regola l’efflusso del gas e di conseguenza la dimensione della fiamma in uscita dal buciatore che può essere cilindrico o prismatico.

Di seguito sono riportate le caratteristiche delle attrezzature manuali disponibili sul mercato:

- Ripagreen (Universal Manure Company): carrello dotato di lancia termica con beccuccio in acciaio inox orientabile (Fig. 14). È dotata di un dispositivo di accensione istantanea che permette una

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veloce utilizzazione della macchina e un risparmio di GPL, rendendo possibile un’autonomia di 6 ore.

Fig. 14 – Ripagreen con scheda tecnica (www.unmaco.it).

- PZ1 (Officine Mingozzi): attrezzatura con zaino ergonomico dotata di una piccola bombola di GPL da 5 kg (Fig. 15). Idonea per piccoli lavori di rifinitura (scarsa autonomia, circa 3,5 ore di lavoro in continuo), con bruciatore singolo in testa alla lancia, con una larghezza di lavoro che può variare da 4 a 25 cm.

Fig. 15 – PZ1 in funzione (www.pirodiserbo.it).

- PC2 (Officine Mingozzi): attrezzatura (Fig. 16) composta da un carrello con ruote di gomma, su cui è posta una bombola di GPL di

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dimensione variabile (10-25 kg) collegata ad una lancia con bruciatore singolo o doppio (larghezza di lavoro 4-40 cm), adatta per piccoli lavori su superfici idonee alla trasportabilità del carrello. Il consumo di GPL in kg/h varia in funzione del tipo di bruciatore usato (da 1,5 a 4,5 kg/h), dal tipo di inerbimento presente e dalla pressione di lavoro.

Fig. 16 – PC2 in funzione (www.pirodiserbo.it).

- Piro-Bag One 15/30 (Maito srl): l’azienda Maito ha sviluppato uno zaino ergonomico (Fig. 17) con alloggio per bombola da 5 kg di GPL, collegata ad una lancia manuale (bruciatore prismatico da 15 o 30 cm) a basso consumo e un regolatore di pressione dotato di manometro per la regolazione della pressione di esercizio. Come già visto, queste attrezzature manuali hanno bassa autonomia di lavoro, in funzione della pressione di esercizio utilizzata (3-4 ore);

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la capacità di lavoro dell’operatore, in condizioni standard, è compresa tra 150 e 500 m2/h.

Fig. 17 – Piro-Bag One (www.maito.it).

- Piro-Trolley 15/30 (Maito srl): carrello (Fig. 18) con alloggio per bombola di GPL da 15 kg, collegata ad una lancia manuale (vedi Piro-Bag One). Naturalmente l’autonomia è maggiore, da 15 a 20 ore, in funzione della pressione di esercizio (consumo orario 1 kg/h con bruciatore da 15 cm).

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2.3.1b

Macchine semoventi

Macchine adatte a superfici ampie sia agrarie che urbane, più complesse e automatizzate e quindi con costo più elevato. Queste sono equipaggiate con numerosi bruciatori alimentati da più bombole di GPL.

- PTEM-FV (Officine Mingozzi): macchina semovente con operatore al seguito indicata per il pirodiserbo in vigneto e più in generale su colture arboree (Fig. 19). La larghezza ridotta (600-1000 mm a seconda della posizione del braccio telescopico nella parte anteriore della macchina) si adatta perfettamente alle esigenze di spazio presenti nell’interfila. Sul transporter cingolato (Merlo S.p.a) è montato il modulo di lavoro, costituito da una tramoggia contenente una singola bombola di GPL. La velocità di lavoro è molto ridotta, e varia con le diverse condizioni tra 1,2 e 2 km/h. Il braccio telescopico è dotato di otto bruciatori cilindrici e due bocche ventilanti (atte a contenere il calore nella zona del trattamento); ogni bruciatore ha un consumo di circa 5 kg/h. Nella

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parte posteriore della macchina è presente la pedana per l’operatore e il quadro comandi, da dove la macchina viene regolata.

Fig. 19 – PTEM-FV (www.pirodiserbo.it).

La macchina PTEM-VA ha la stessa conformazione (Officine Mingozzi, Fig. 20), ma differisce per la diversa disposizione dei bruciatori e delle bocche ventilanti, che rendono quest’ultima utilizzabile per trattamenti nell’interfila del vigneto.

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-

Pirotruck-S (Maito srl): macchina semovente (Fig. 21) dotata di un motore a quattro tempi di cilindrata 135 cc e potenza di circa 3 kW; presenta uno scambiatore termico per singola bombola di GPL da 15 kg a cui sono collegati due bruciatori indipendenti e regolabili da 30 cm (fronte di lavoro massimo: 70 cm) e una lancia manuale da 15 cm a basso consumo. L’impianto di erogazione del GPL è dotato di regolatore di pressione con manometro e valvola antiritorno. La velocità di avanzamento ideale può variare tra 1 e 3 km/h, con una pressione di esercizio tra 2 e 3 bar. Sulla macchina è presente anche un estintore a polvere.

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- Pirotruck-M (Maito srl) (Fig. 22): differisce dalla versione S soltanto per la capacità della tramoggia (scambiatore termico in grado di contenere una bombola da 15 o 20 kg di GPL), e per il numero di bruciatori. Infatti sono collegati alla bombola tre bruciatori prismatici di 50 cm (sostituibili con bruciatori da 30 cm), che assicurano un fronte di lavoro di 1,5 m.

Fig. 22 – Pirotruck-M (www.maito.it).

2.3.1c

Macchine portate

Si tratta di macchine leggere, con attacco a trattrici di poca potenza e ingombro ridotto per trattamenti nel vigneto.

- PFV-600 (Officine Mingozzi): macchina portata anteriormente o posteriormente, viene utilizzata sia per la gestione delle infestanti che per la pirospollonatura. Verrà descritta dettagliatamente nel capitolo 4 “Materiali e Metodi”.

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- PFVD-600 (Officine Mingozzi): macchina analoga alla PFD-600, ma con doppia testata di lavoro (Fig. 23); in questo modo è garantito un fronte di lavoro di 60 cm su entrambi i lati, grazie alla presenza di otto bruciatori cilindrici per fronte, sormontati da due bocche ventilanti per evitare riverberi di calore alla parte produttiva della pianta. Eseguendo il trattamento contemporaneamente su due file, il tempo di lavoro è molto ridotto. La macchina è dotata di sistema di rientro automatico per mezzo di un tastatore che consente di lavorare in estrema sicurezza, mantenendosi alla stessa distanza dalla fila.

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È collegata alla trattrice tramite l’attacco a tre punti e i tubi idraulici. Dati tecnici della macchina contenuti in Fig. 24.

Fig. 24 – Dati tecnici PFVD-600 (www.pirodiserbo.it).

- Pirocab (Maito srl): piccolo rimorchio con attacco per motocoltivatore con sedile per l’operatore e leva a pedale, con la quale è possibile azionare i bruciatori posteriori sia in continuo che a spot (Fig. 25). Supporta una bombola di GPL da 15 o 20 kg e può montare fino a tre bruciatori (da 15, 30 o 50 cm) completamente snodabili; ha un’autonomia di lavoro di circa 8-14 h in relazione

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alla pressione di esercizio. Per la sicurezza, è dotata di estintore e dispositivi antiribaltamento. La velocità di lavoro è compresa tra 1 e 2 km/h. È possibile utilizzare la macchina per il controllo delle infestanti nell’interfila.

Fig. 25 – Pirocab (www.maito.it).

- Pirotractor Basic-Vigna (Maito srl): composta da un telaio di 1,1 m collegato posteriormente alla trattrice con attacco a tre punti, permette la lavorazione in spazi ristretti. Presenta tre bruciatori con funzioni diverse (Fig. 26): uno da 50 cm adatto al contenimento delle infestanti sulla fila, uno da 30 cm per trattare l’interfila, e uno da 30 cm per la pirospollonatura; tutti i bruciatori sono completamente regolabili. È possibile inoltre aggiungere una lancia manuale per i lavori di rifinitura. Il quadro di comando è presente all’interno della cabina del trattore. La macchina ha un’alta autonomia di lavoro grazie allo scambiatore termico che

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può contenere due bombole di GPL dal 15 o 20 kg, riscaldato con i gas di scarico esausti della trattrice stessa.

Fig. 26 – Pirotractor Basic-Vigna (www.maito.it).

2.3.2 Utilizzi in azienda

Molteplici sono gli utilizzi possibili delle tecniche di controllo termico delle infestanti, sia in ambito agrario che in quello urbano. Infatti come già accennato in precedenza, questo metodo di controllo è molto utile qualora siano necessari interventi di contenimento delle infestanti su superfici dure, su manufatti che non permettono l’utilizzo di sostanze chimiche, in vicinanza di parchi o scuole o ambienti a rischio per la salute del cittadino o di categorie particolari. I risultati ottenuti da molteplici sperimentazioni (Raffaelli et al., 2012), mettono in luce come la strategia del pirodiserbo sia efficace in molti contesti.

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In campo le macchine possono essere utilizzate con diverse modalità, orientando in modo diverso i bruciatori: se rivolti verso il basso, l’utilizzo più comune è quello di controllo non selettivo delle infestanti nell’interfila; se rivolti verso la pianta, la macchina è utile per il controllo delle infestanti sottofila e per la spollonatura della vite. Inoltre, da studi effettuati in campo, risulta come effetto secondario un certo controllo degli insetti dannosi, come ad esempio un disturbo alle larve di nottue che trovano riparo ai piedi del ceppo (Morando et al., 1994).

2.3.3 Tecnologie ed accessori presenti sulle macchine del pirodiserbo

Come già visto, esistono molte tipologie diverse di macchine per effettuare il pirodiserbo, sia in pieno campo che in interventi puntuali da eseguire a mano. Ognuna ha delle peculiarità fornite dalla ditta costruttrice, che rendono le attrezzature adatte all’applicazione nei vari contesti e necessità. Negli anni sono state apportate modifiche e nuovi dispositivi per rendere la pratica del pirodiserbo sempre più puntuale, efficace e sostenibile.

Una delle più importanti innovazioni riguarda lo scambiatore termico, cioè la tramoggia dove viene fornito calore alle bombole di GPL durante il trattamento. Essendo volatile a temperatura ambiente, il GPL viene immagazzinato allo stato liquido sotto pressione all’interno delle bombole, sfruttando le proprietà legate al punto triplo: aumentando la pressione al di

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sopra del punto triplo, il GPL passa dallo stato di vapore a quello liquido lasciando costante la temperatura (Fig. 27).

Fig. 27 – Diagramma di stato di una generica sostanza (ricerca Google).

Durante l’erogazione del GPL, avviene un cambiamento di fase, da quella liquida a quella gassosa, che richiede energia sottraendone all’ambiente esterno; vista l’enorme richiesta termica, le bombole tendono a ghiacciare e quindi a diminuire gradualmente la pressione di esercizio, provocando un malfunzionamento generale della macchina. Per questo è necessario fornire calore alle bombole attraverso uno scambiatore termico; in commercio sono presenti scambiatori costituiti da una tramoggia metallica riempita d’acqua, in cui passano “serpentine” percorse da aria calda che permettono lo scambio termico, al cui interno vengono collocate le bombole. L’aria calda è in genere prodotta da una fiamma alimentata in continuo con lo stesso GPL, con l’inconveniente quindi di aumentare il consumo del gas a discapito del trattamento. L’Università di Pisa ha messo a punto un’idea innovativa che prevede l’utilizzo dei gas di scarico della trattrice, che escono a temperatura

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elevata dalla marmitta e che sono ottimi per il riscaldamento dell’acqua (Raffaelli et al., 2002; Raffaelli et al., 2013), oltre ad avere un effetto positivo sul particolato causato dalla combustione incompleta del carburante della macchina. I fumi di scarico vengono recuperati e convogliati all’interno dello scambiatore di calore per mezzo di un tubo flessibile speciale in silicone, resistente alle alte temperature.

Altra importante categoria di accessori sempre presenti in tutte le attrezzature sono i dispositivi di regolazione della pressione di esercizio, necessari per regolare i consumi della macchina e la fiamma prodotta. Nelle comuni attrezzature sono presenti:

- Valvola di regolazione della pressione: imposta la pressione iniziale e ne garantisce il mantenimento durante il funzionamento della macchina.

- Manometro: necessario per visualizzare costantemente la pressione di esercizio.

- Valvola con circuito di regolazione di massimo e minimo: presenti su ogni bruciatore; nei “tempi morti”, lavora solamente la valvola di minimo che è a flusso regolabile, mentre nella fase di lavoro vi si sovrappone quella di massimo che ha funzionamento di tipo on/off.

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- Valvole aperto/chiuso: poste a monte del circuito di alimentazione dei bruciatori, permettono l’afflusso del gas ai diversi settori della macchina.

Le attrezzature manuali non presentano tutti questi dispositivi, ma è sempre presente la valvola di regolazione della pressione ed il manometro, mentre la quantità di gas in uscita viene regolata dai rubinetti di massimo e minimo e dal grilletto posti sull’impugnatura della lancia.

Sicuramente le sperimentazioni e la ricerca stanno lavorando maggiormente sulla modifica e lo sviluppo di nuovi bruciatori, essendo l’organo principale della macchina e quello che ne decreta l’efficienza. Lo scopo è ottenere una fiamma stabile, regolare e ben delimitata ai lati in modo da assicurare un’elevata temperatura nel bersaglio colpito e un minimo impatto nelle zone adiacenti ad esso (che possono essere molto importanti per la produzione, come nel caso della vite). Esistono fondamentalmente due tipi di bruciatori alimentati a GPL: quelli che impiegano il combustibile in forma gassosa, e quelli che lo utilizzano in forma liquida definiti “vaporizing”. I self-vaporizing hanno una camera riscaldata esterna dove avviene la vaporizzazione del combustibile; essendo molto complessi, la loro presenza sul mercato europeo è ridotta soprattutto con l’avvento di nuovi efficienti scambiatori termici, lasciando spazio ai bruciatori che utilizzano combustibile in forma gassosa. Negli anni ’40 sono stati sviluppati i primi bruciatori a GPL gassoso a sezione circolare, per poi evolvere in quelli

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trapezoidali e con camera di combustione orizzontale. Attualmente i bruciatori più utilizzati sono di tipo cilindrico o prismatico (Fig. 28): i primi hanno un unico ugello all’interno di un “carburatore” che sfrutta l’effetto Venturi (un liquido aumenta la sua pressione passando da un tubo a diametro maggiore ad uno a diametro minore) e producono una fiamma cilindrica che provoca un forte riscaldamento localizzato; i secondi sono quelli che hanno subito più modifiche nel tempo, passando da una serie di ugelli a turbolenza posti in fila lungo un profilato a sezione quadra o rettangolare, a un miscelatore con un unico ugello posto esternamente al corpo del bruciatore sviluppato dall’Università di Pisa.

Fig. 28 – Bruciatore cilindrico e prismatico (ricerca Google).

I bruciatori prismatici, più semplici da realizzare rispetto a quelli cilindrici, sono dotati di fori calibrati di diametro maggiore, essendo svincolati dalla funzione di miscelatore aria-GPL (che avviene a monte, nel primo foro di miscelazione), e sono esenti da problemi di ossidazione e quindi di otturazione. Questa configurazione permette di aumentare l’affidabilità e l’efficienza dei bruciatori, che mantengono costante la composizione della miscela aria-GPL e hanno una presa d’aria secondaria, data dai fori di grosso

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diametro, che migliorano la qualità della fiamma. Risultano pertanto facili da costruire, affidabili, connessi a consumi di GPL ridotti e in grado di produrre una fiamma piatta e ben delimitata dalla larghezza di 10-50 cm.

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3

SCOPO DELL’ELABORATO

Le tecniche del pirodiserbo e della pirospollonatura prevedono una tempestività d’intervento maggiore rispetto all’utilizzo dei disseccanti chimici, oltre ad un approccio diverso in termini di efficacia e di numero di trattamenti. Non sono molti i lavori scientifici riguardanti l’argomento, indice della difficoltà e della complessità del tema trattato. Sono numerosi gli aspetti da approfondire; infatti le tecniche di controllo alternative a quello chimico necessitano di conoscenze integrate, che spaziano dalla meccanica agraria, all’agronomia, all’ecologia agraria. Altro importante fattore da considerare è la diffusione della macchina del pirodiserbo; le aziende, comprese quelle viti-vinicole, soltanto negli ultimi anni si stanno avvicinando a questa tecnica, investendo tempo e denaro nello studio della migliore tecnica in termini di costo e efficacia. Le riviste di settore più importanti trattano spesso l’argomento, con esempi pratici di utilizzo dei mezzi fisici di controllo, in particolare quelli termici, in modo da illustrare tutte le possibilità presenti sul mercato, risaltando potenzialità e punti deboli. Sulla questione, il gruppo di ricerca di Meccanica Agraria e Meccanizzazione Agricola dell’Università di Pisa è molto attivo e in contatto sia con aziende interessate alle due tecniche presentate, sia con case costruttrici di macchine agricole.

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Il presente elaborato si inserisce negli studi del gruppo di lavoro; utilizzando una macchina presente in commercio, la PFV-600 sviluppata dalle Officine Mingozzi senza apportarne alcuna modifica, sono state studiate quattro diverse tesi che prevedevano un trattamento di pirospollonatura precoce, tardivo, doppio trattamento (precoce e tardivo), no trattamento in un vigneto presso la Tenuta di Ceppaiano (Pisa) della Fam. Castellani. In contemporanea alla sperimentazione in campo, è stata sviluppata una nuova macchina per il pirodiserbo, modificando un’attrezzatura simile a quella utilizzata nella sperimentazione. Queste modifiche sono incentrate all’aumento dell’efficacia e dell’efficienza della macchina.

La sperimentazione in campo ha avuto lo scopo di trovare il miglior stadio fenologico per trattare termicamente i polloni, con un intervento rapido, puntuale e senza danni alla pianta. Per far questo sono stati necessari rilievi fenologici dei polloni in date prestabilite, campionamenti degli acini per seguirne la maturazione (con successiva analisi in laboratorio) e raccolta manuale dei grappoli delle piante seguite per valutarne e analizzarne la produzione.

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4

MATERIALI E METODI

4.1 LA MACCHINA UTILIZZATA

Per la sperimentazione è stata utilizzata una macchina portata costruita dalle Officine Mingozzi (modello PFV-600) (Fig. 1; Fig. 2).

Fig. 1 – Macchina portata PFV-600 per il pirodiserbo (foto sperimentazione).

La macchina è composta da:

- un telaio che supporta tutte le parti di cui è composta la macchina e gli organi per l’attacco alla trattrice;

- un serbatoio del combustibile: due bombole di GPL commerciale di dimensione variabile (in questo caso da 25 kg);

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- uno scambiatore termico che contiene acqua riscaldata da un piccolo bruciatore alimentato a GPL; la sua funzione è quella di fornire calore alle bombole di GPL durante il trattamento.

- dispositivi di regolazione che permettono la corretta gestione della fiamma e la sicurezza di un’efficace pressione di esercizio. Una elettrovalvola comanda l’afflusso del GPL ai bruciatori, ed un’altra regola la portata da minima a massima;

- otto bruciatori cilindrici disposti in due file;

- sistemi idraulici che permettono di regolare la distanza dal filare, la distanza da terra e l’inclinazione dei bruciatori.

- due bocche ventilanti posizionate al di sopra dei bruciatori, alimentate da un afflusso d’aria prodotto da un ventilatore azionato da un motore idraulico. La loro funzione è quella di isolare la parte trattata termicamente dalla parete vegeto-produttiva della vite.

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Fig. 2 – Dati tecnici PFV-600 (www.pirodiserbo.it).

Durante la sperimentazione è stata sviluppata una macchina per il pirodiserbo, che sarà utilizzata nelle sperimentazioni future in grado di migliorare l’efficacia dei trattamenti.

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4.2 L’AZIENDA AGRICOLA CASTELLANI

La sperimentazione è stata svolta nella stagione vegeto-produttiva 2016, nella Tenuta di Ceppaiano della Fam. Castellani (Fig. 3), produttori di vino in Toscana da inizi ‘900.

Fig. 3 – Logo Castellani Vini e Tenuta di Ceppaiano (www.castelwine.com).

La Tenuta, situata nel paese omonimo nel comune di Crespina Lorenzana (provincia di Pisa), è solo una delle proprietà dell’azienda, che conta circa 1000 ha di vigneto (di cui 210 di proprietà) suddivisi nella zona del Chianti Colline Pisane, Chianti Classico e Maremma; le sei tenute hanno cantina di vinificazione propria, e una linea unica di imbottigliamento situata nella sede storica dell’azienda, la Tenuta Santa Lucia (Pontedera, Pisa).

Ceppaiano (Fig. 4) nasce nel 2005, inizialmente come estensione del vigneto e cantina di vinificazione di Poggio al Casone (altra proprietà della famiglia),

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poi come cantina a sé stante vista la diversità dei terreni e dei vini (confronto vista aerea 2006-2012 Fig. 5). Infatti i 40 ha della Tenuta sono situati in prevalenza su sabbie alluvionali e argilla (parte dell’antico letto del fiume Arno), disposte su alture pedecollinari rivolte verso la costa tirrenica, che dista soltanto 20 km. L’azienda è inoltre sede della fondazione della Famiglia Castellani dedicata all’arte e alla cultura, e espone all’interno una collezione d’arte contemporanea a cui si ispirano le etichette dei vini qui prodotti (circa 370.000 bottiglie ogni anno).

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Fig. 5 – Confronto vista aerea anno 2006-2012 (Geoportale Nazionale).

In questi vigneti, posizionati nell’estremo confine ovest della sottozona Chianti Colline Pisane, è coltivato in prevalenza Sangiovese integrato con vitigni internazionali quali Cabernet Sauvignon e Merlot, mentre la varietà bianca predominante è il Traminer aromatico che ha trovato in questo terreno un’ottima espressione.

L’impianto è costituito da vigne allevate a cordone speronato, con una densità di circa 6000 piante/ha, coltivate secondo i criteri della viticoltura integrata. Volontà della famiglia è riuscire a condurre la Tenuta seguendo totalmente l’agricoltura biologica, vista l’importanza della proprietà per le numerose iniziative che qui hanno sede e la vicinanza al piccolo borgo di Ceppaiano, compresa una scuola elementare a pochi metri di distanza dai cancelli aziendali. Questo ha portato a scegliere la Tenuta come sede della sperimentazione, utilizzando la macchina portata già utilizzata nella

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proprietà di Poggio al Casone, a pochi chilometri di distanza, dove la coltivazione biologica è necessaria per la presenza all’interno dei vigneti di un complesso agrituristico.

4.3 LA SPERIMENTAZIONE

Il progetto sperimentale svoltosi presso la Tenuta di Ceppaiano ha coinvolto il gruppo di ricerca nella stagione vegetativa e produttiva dell’anno 2016. L’anno è stato caratterizzato da un andamento climatico usuale per la zona, senza presentare fenomeni particolari; la zona ha il tipico clima mediterraneo continentale con inverni miti ed estati calde, con precipitazioni concentrate nei mesi primaverili e autunnali. I dati metereologici nelle Fig. 6 e 7 si riferiscono alla località di Collesalvetti (Livorno), a pochi km di distanza dal campo sperimentale.

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Fig. 6 – Temperature max/medie/min mensili anno 2016 loc. Collesalvetti

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La sperimentazione è stata effettuata su un vigneto presente nella Tenuta di Ceppaiano di Sangiovese clone “Rauscedo 24” su portainnesto “775 Paulsen”; questo clone è molto fertile e vigoroso e produce grappoli compatti e di grandezza media. Il portainnesto invece ha una media vigoria ed è molto adatto alla coltivazione in terreni sciolti e freschi. L’età media delle viti è di circa 10 anni, con pochi casi all’interno del filare di reimpianti per fallanze varie; si tratta quindi di una porzione piuttosto omogenea di piante coetanee, normalmente gestite per la produzione di uva da vino. Sono stati individuati 5 filari nel centro della Tenuta, in modo da non aver interferenze con l’esterno e poter gestire in modo semplice e preciso i trattamenti; i filari prescelti rientrano all’interno del riquadro rosso in Fig. 8, e sono stati suddivisi longitudinalmente in 4 blocchi, in modo da ottenere un disegno sperimentale a blocchi randomizzati.

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