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La mania sottosoglia come predittore di depressione durante il trattamento con interferone in pazienti HCV positivi, senza disturbi dell'umore di asse I in atto o lifetime

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Academic year: 2021

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RIASSUNTO

Introduzione: la depressione è ritenuta il più frequente disturbo mentale

interferone (IFN) - -indotto. Abbiamo analizzato l’impatto dei sintomi maniacali-ipomaniacali lifetime (cioè riferiti all’intero arco della vita) sullo sviluppo di depressione in soggetti positivi al virus dell’epatite C (HCV), trattati con due tipi differenti di IFN- .

Metodi: prima dell’inizio del trattamento i pazienti sono stati sottoposti a

valutazione diagnostica completa, per escludere sintomi psichiatrici in atto o lifetime.

Risultati: sei (12%) dei 50 pazienti con storia negativa per disturbi dell’umore

hanno sviluppato depressione maggiore durante il trattamento con l’IFN. La comparsa di depressione era associata in maniera significativa con la presenza di sintomi maniacali-ipomaniacali sottosoglia lifetime. I soggetti che superavano la soglia maniacale avevano infatti maggiore probabilità di manifestare depressione rispetto a quelli sotto la soglia (33% vs 7,5% p=0,033).

Conclusioni: gli individui trattati con l’interferone senza pregressa storia di

disturbi dell’umore avevano una probabilità significativamente maggiore di sviluppare depressione se avevano sperimentato sintomi maniacali-ipomaniacali sottosoglia nel corso della loro vita.

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INTRODUZIONE

1) I DISTURBI DELL’UMORE

L’umore è il tono affettivo di base che colora l’intera esperienza del soggetto. L’umore va normalmente incontro a fluttuazioni e improvvisi cambiamenti e questo suo elevato grado di plasticità permette adeguate risposte a eventi diversi, situazioni esterne ed interne, senza che assuma caratteri patologici. Le oscillazioni dell’affettività tra i due poli opposti della tristezza e dell’ euforia svolgono, quindi, importanti funzioni adattative, permettendo al singolo individuo di adottare strategie comportamentali adeguate al mutare delle circostanze. Nel caso, però, si verifichi una disfunzione dei sistemi neurofisiologici alla base della nostra affettività, l’ampiezza e la durata delle oscillazioni dell’umore oltrepassano la soglia dei bisogni adattativi, sfociando in condizioni psicopatologiche caratterizzate dall’incapacità di mantenere un equilibrio affettivo con l’ambiente circostante e da sintomi psicomotori, cognitivi e neurovegetativi.

a) Epidemiologia e fattori di rischio

I disturbi dell’umore costituiscono una patologia molto diffusa nella popolazione generale ed in particolar modo la depressione costituisce un motivo frequente di consultazione del medico di base. Circa il 20% della popolazione nell’arco della vita va incontro ad episodi depressivi o maniacali con un rapporto di 1:3 fra forme unipolari e bipolari.

La depressione maggiore nel corso della vita ha una prevalenza del 21,3% nelle donne e del 12,7% negli uomini (Kessler, 2003), con una frequenza doppia nelle donne documentata in diversi Paesi ed in diversi gruppi etnici

(Weissman e Klerman, 1977; Weissman e coll, 1996; Lutch e Kasper, 1999). Il

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generale (Muller-Oerlinghanusen e coll, 2002; Jonas e coll, 2003); la prevalenza lifetime del disturbo bipolare I è dello 0,4% (Kessler e coll, 1994) e per il disturbo bipolare II varia dallo 0,5 al 3% (Bauer e Pfennig, 2005). Lo spettro bipolare è presente in oltre il 5% della popolazione generale (Angst,

1998).

L’esistenza di una suscettibilità genetica per molti disturbi mentali è un dato ampiamente riportato in letteratura. In particolare, per i disturbi dell’umore la percentuale dei casi con una componente ereditaria è stata calcolata fra il 50% e l’80% (Merikangas e Kupfer, 1995).

Alla familiarità si aggiungono altri fattori di rischio:

sesso: la depressione maggiore ha una frequenza doppia tra le donne, il

disturbo bipolare I ha una pari distribuzione fra i due sessi (Bauer e Pfennig,

2005), il disturbo bipolare II viene descritto con una frequenza maggiore

nelle donne (American Psychiatric Association, 2000), anche se alcuni studi non riportano alcuna differenza di genere (Hendrick e coll, 2000).

età: i disturbi dell’umore possono presentarsi a qualsiasi età, ma hanno un

picco di incidenza tra i 18 e i 44 anni (in media 30 anni). Le forme familiari, come larga parte delle malattie ereditarie, hanno un esordio precoce.

stato civile: tra i pazienti bipolari sono frequenti i celibi, i nubili ed i separati.

Tale evenienza può essere spiegata con la giovane età dei pazienti, con l’influenza negativa della malattia sui rapporti affettivi, o con la possibilità che lo stress da separazione costituisca un fattore scatenante.

classe sociale: il disturbo bipolare risulta più frequente nelle classi sociali

più elevate, forse come conseguenza delle caratteristiche temperamentali di questi pazienti, che hanno loro permesso il raggiungimento di livelli sociali elevati, o come conseguenza dello stress a cui tali individui sono sottoposti.

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b) Eziopatogenesi ed eventi scatenanti

L’eziopatogenesi dei disturbi dell’umore è probabilmente di tipo multifattoriale, con basi sia biologiche che psicologiche. I fattori che, interagendo fra loro a diversi livelli e in misura differente, sembrano contribuire alla comparsa di un disturbo dell’umore sono: caratteri genetici, il temperamento, il sesso, fattori biologici, eventi che avvengono precocemente nella vita, eventi lungo il corso della vita, momenti di stress fisico.

Fattori genetici. I fattori genetici rivestono un ruolo di primaria importanza,

non se ne conoscono ancora i meccanismi di trasmissione, ma si è ipotizzata la presenza di un singolo gene dominante a penetranza variabile, oppure di un’ereditarietà poligenica. Avere dei genitori con disturbi dell’umore comporta un doppio fattore di rischio: la possibilità di ereditare la predisposizione al disturbo e la possibilità che si verifichino alterazioni dello sviluppo legate ad un ambiente disturbato.

Temperamento. Il tono dell’umore e l’abituale stato di energia rappresentano gli elementi principali del temperamento (dal latino “temperare”, mescolare), che modula l’intensità dei sentimenti e delle emozioni. Il temperamento è il risultato di complessi processi metabolici a loro volta determinati dalle caratteristiche genetiche dell’individuo. Vengono descritti quattro differenti temperamenti affettivi: ciclotimico, ipertimico, depressivo o distimico e irritabile. I tratti temperamentali si presentano fin dall’infanzia e rappresentano una condizione intermedia fra benessere e malattia e possono anche costituire delle forme subcliniche di disturbi dell’umore, precedendo di molti anni un disturbo maggiore.

Sesso. Le donne sono a più elevato rischio per i disturbi dell’umore, in particolar modo per la depressione. Tale vulnerabilità, oltre che a fattori psicosociali, è attribuibile a fattori biologici. Le donne risultano più sensibili alle variazioni dell’equilibrio ormonale, come nel post-partum e in fase premestruale, ed hanno un maggior rischio di patologia tiroidea. E’ stata messa in evidenza una correlazione fra sesso femminile e livelli di mono-amino-ossidasi (MAO), enzimi controllati dal cromosoma X, che potrebbero essere in parte responsabili delle manifestazioni cliniche di alcune

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depressioni atipiche (ipersonnia, iperfagia) e della specificità della risposta agli inibitori delle MAO nelle donne.

Fattori biologici. I trattamenti farmacologici efficaci per la depressione e la mania hanno dato impulso alle ricerche in campo biologico e allo studio dei sistemi neurotrasmettitoriali. Numerose sono le ipotesi elaborate ma ancora non sono state individuate specifiche alterazioni.

Eventi precoci. Eventi esistenziali avvenuti nell’infanzia, quali la perdita dei genitori, sembrano avere un effetto di tipo patoplastico sulle manifestazioni cliniche. Bowlby ha messo in evidenza che in adulti che hanno subito perdite precoci si presenta una gran varietà di disturbi di personalità, generalmente associati a instabilità dell’umore e a comportamenti esplosivi. Perris ha osservato che in questi soggetti si ha un esordio precoce di malattia e una maggiore frequenza di tentativi di suicidio.

Eventi di vita. Fattori esterni possono essere determinanti per l’esordio della patologia dell’umore in soggetti vulnerabili, soprattutto per quanto riguarda i primi episodi depressivi.

Stress fisici. E’ noto che alcune malattie, farmaci o sostanze possono precedere l’insorgenza di un episodio depressivo o maniacale.

Nell’indagare la causa dei disturbi dell’umore è importante cercare un approccio unitario in cui siano compresi gli aspetti biologici, psicologici e comportamentali e le esperienze di vita. Akiskal e collaboratori (1995) hanno proposto un modello di tipo multifattoriale in cui il temperamento costituisce l’anello di congiunzione fra fattori remoti, come l’ereditarietà ed il sesso, ed esperienze di perdita sia precoci che recenti, come gli eventi stressanti. Il temperamento e i fattori ambientali determinerebbero alterazioni reversibili nelle strutture diencefaliche, che rappresenterebbero il correlato biologico delle manifestazioni cliniche dei disturbi dell’umore. A loro volta, i centri limbico-diencefalici, direttamente o attraverso le loro connessioni con aree sottocorticali e prefrontali, sarebbero responsabili della sintomatologia, in particolare delle disfunzioni dei ritmi circadiani che si riscontrano nelle fasi acute maniacali e depressive.

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c) Quadri clinici

I disturbi dell’umore comprendono due quadri clinici principali, la depressione e la mania, ed una varietà di condizioni intermedie, gli stati misti, in cui sono presenti elementi dell’uno e dell’altro quadro sindromico. Ciascuna di queste forme è caratterizzata da una serie di sintomi, variamente associati fra loro, riguardanti il tono dell’umore, la psicomotricità, il sistema cognitivo e neurovegetativo.

Episodio depressivo. La tristezza rappresenta una fisiologica oscillazione del

tono affettivo in risposta a numerose condizioni fisiche e mentali, ma può costituire anche la manifestazione centrale di un disturbo primario dell’umore, patologia complessa che tende a manifestarsi in maniera episodica.

Esordio. L’episodio depressivo maggiore, diagnosticato secondo i criteri del

Diagnostic and statistical manual of mental disorders, Fourth revised edition, (DSM-IV-TR), può avere un esordio improvviso o, più spesso, per giorni o settimane può essere preceduto da prodromi quali labilità emotiva, astenia, difficoltà di concentrazione, diminuzione degli interessi, inappetenza, insonnia, cefalea, senza però particolari ripercussioni sul piano lavorativo e sociale. L’esordio brusco è più frequente nelle forme con decorso bipolare e si verifica con un improvviso passaggio da una situazione di benessere, talvolta di tipo ipertimico, ad una condizione depressiva caratterizzata da una sintomatologia piena.

Periodo di stato. Con il progredire della malattia il quadro clinico si evidenzia in

maniera completa determinando la compromissione di ogni tipo di attività che richieda un impegno fisico o intellettivo. Il periodo di stato ha una durata spontanea di circa 6-12 mesi, ma in alcuni casi può essere più breve o superare i 2 anni. La sintomatologia è costituita da una serie di disturbi a carico dell’umore, della psicomotricità, della sfera cognitiva e neurovegetativa. L’umore è abitualmente depresso, il paziente si sente triste, cupo, sfiduciato, angosciato, disperato; intenso è il dolore psichico. Particolare è la fissità dello

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stato d’animo che risulta impermeabile agli eventi esterni, è persa la capacità di provare emozioni, specialmente la gioia ed il piacere (anedonia). Prevale la sensazione di indifferenza, noia, aridità e vuoto interiore; in questo modo si configurano quadri di depersonalizzazione affettiva: il paziente soffre per l’incapacità di provare sentimenti ed emozioni e la sensazione di svuotamento può essere così intensa da indurlo a pensare che la propria vita abbia perso qualsiasi significato. Inoltre, l’esperienza di aridità affettiva, di distacco dagli altri, dà adito a sentimenti di colpa. In altri casi, un incessante stato di agitazione, di irrequietezza, di irritabilità, di ansia, di nervosismo lo rende incapace di stare fermo o di rilassarsi. L’attività psicomotoria risulta nella maggior parte dei casi rallentata ed è evidente già all’aspetto esteriore del paziente, che si presenta trascurato, stanco, triste, invecchiato, senza la normale ricchezza e varietà di gesti; la mimica è ridotta, ma il volto è atteggiato ad un’ espressione di profondo dolore, lo sguardo è spento, gli angoli della bocca abbassati. I movimenti sono lenti, esitanti, trascinati. Il linguaggio è anch’esso lento, privo di intonazione, monotono e raramente spontaneo. Il rallentamento delle funzioni psichiche superiori determina disturbi della memoria e difficoltà di concentrazione, incertezza e indecisione per la difficoltà di ideazione. Anche la nozione del tempo è modificata: i giorni sembrano interminabili per il lento scorrere delle ore tanto da sembrare impossibile giungere al giorno dopo. In alcuni casi, più frequentemente nel sesso femminile, la depressione può al contrario manifestarsi con agitazione, profonda irrequietezza, continua necessità di muoversi, pianto drammatico, mimica vivace che esprime una grande sofferenza, aumentata loquacità. Sul piano

cognitivo, la compromissione delle prestazioni intellettuali, la sensazione di

aridità affettiva e di inefficienza portano il paziente al disprezzo di sé, all’autosvalutazione; si fanno strada i sentimenti di colpa, il passato appare pieno di sbagli ed il futuro privo di possibilità. Possono essere presenti deliri incongrui con tematiche di persecuzione, influenzamento, veneficio. Meno frequenti sono i fenomeni dispercettivi costituiti essenzialmente da allucinazioni uditive di tipo denigratorio. L’ideazione suicida ed il desiderio di morire sono presenti in almeno i due terzi dei pazienti; il rischio di suicidio deve sempre essere preso in considerazione soprattutto in quei pazienti che già in precedenza hanno effettuato dei tentativi o che hanno una storia familiare di

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suicidio. Per quanto riguarda i sintomi neurovegetativi: uno dei più precoci è l’insonnia (caratterizzata da risvegli notturni o da risvegli precoci), ma nelle depressioni atipiche prevale l’ipersonnia fino alla letargia; il paziente lamenta un sonno non ristoratore e disturbato da incubi. Sono frequenti la riduzione dell’appetito e sintomi gastrointestinali, con dimagramento e, nei casi più gravi, malnutrizione e squilibri idroelettrolitici; nella fase depressiva del disturbo bipolare può essere presente iperfagia. Precocemente, inoltre, può presentarsi la riduzione della libido fino al completo disinteresse sessuale.

Risoluzione. Nella maggior parte dei casi la risoluzione è graduale ed il paziente

avverte un’attenuazione progressiva dei disturbi. Nelle fasi finali si hanno caratteristiche fluttuazioni di intensità, con l’alternarsi di giorni di miglioramento e giorni di peggioramento. Non sempre si ha una completa risoluzione del quadro; infatti nel 30%-60% dei casi si instaura una sintomatologia residua con manifestazioni depressive attenuate che determinano compromissione sul piano lavorativo, familiare e sociale. Se l’episodio depressivo fa parte del disturbo bipolare può avvenire che si risolva in maniera improvvisa, nel giro di poche ore.

La consapevolezza di malattia è in genere conservata nel corso della depressione; inizialmente può essere parziale con attribuzione dei primi sintomi ad una patologia organica, ad una normale reazione a situazioni avverse, a “pigrizia” o “mancanza di buona volontà”. La consapevolezza può mancare del tutto nei casi più gravi caratterizzati da profonde alterazioni cognitive.

Episodio maniacale. L’episodio maniacale si caratterizza per l’esaltazione dei

sentimenti fisiologici di benessere e di forza, per sentimenti di gioia e potenza eccessivi per intensità e durata. Già nel 150 d.C. Areteo di Cappadocia aveva notato che “la forma e i modi in cui si manifesta la mania sono molteplici. Alcuni sono allegri e vogliono giocare… altri, di natura passionale e distruttiva, cercano di uccidere gli altri e anche se stessi…”.

Esordio. L’esordio della mania può essere graduale, e spesso non riconosciuto

dal paziente e dai familiari, ma più rapido in confronto alla depressione. I prodromi della mania sono più facilmente individuati in quei soggetti con

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caratteristiche temperamentali depressive ed in cui, quindi, si ravvisano cambiamenti improvvisi e radicali di carattere. L’esordio può essere brusco in quei soggetti sottoposti ad eventi stressanti o che hanno fatto uso di sostanze ad azione stimolante. La durata media della fase prodromica è di 3-4 giorni, durante i quali il paziente avverte una sensazione di benessere, di energia, un ridotto bisogno di dormire, un aumentato appetito ed una maggiore spinta sessuale. Il maniaco perde la capacità critica e può arrivare a lanciarsi in ogni tipo di impresa e a prendere decisioni importanti senza valutarne le conseguenze.

Periodo di stato. La sintomatologia raggiunge rapidamente la sua piena

espressione e possono sommarsi complicanze quali l’abuso di alcol e sostanze eccitanti, con frequenti ripercussioni negative nell’ambito sia familiare che sociale. Nella maggior parte dei casi manca la coscienza di malattia e il paziente, nonostante possa aver superato episodi analoghi in passato, sostiene di star bene e può reagire con aggressività se contraddetto. L’umore del paziente maniaco è elevato e questo costituisce il sintomo cardine: il soggetto è allegro, euforico, felice, gioioso, ha atteggiamenti di tipo scherzoso, ride, è molto vivace, comunicativo, iperattivo. Si tratta però di un umore instabile che può trasformarsi in rabbia, risentimento, ira, aggressività o in tristezza profonda che spariscono bruscamente lasciando di nuovo spazio alla gioia. La labilità emotiva è tipica del maniaco, tanto che Schule nel 1880 scriveva “nulla è durevole in mania se non la perpetua trasformazione”. L’incremento dell’attività

motoria è anch’esso tipico e evidente alla prima osservazione: il paziente non

riesce a stare fermo, è irrequieto, ha una gestualità esagerata, lo sguardo mobile e vivace, una mimica mutevole. Il paziente si presenta molto curato, spesso con abiti particolari, molto vistosi, dai colori accesi; le donne sono truccate in maniera appariscente e assumono atteggiamenti seduttivi e provocanti. L’eloquio è fluido, il paziente è logorroico e può arrivare a parlare per ore, con tono di voce alto, a ritmi elevati, usando un linguaggio ricercato, ampolloso, retorico, ricco di giochi di parole, battute divertenti, scherzi. Talvolta il linguaggio può farsi aggressivo, offensivo, data l’incapacità del soggetto di prestare attenzione al proprio interlocutore. Nei casi estremi la logorrea riflette un’estrema ideorrea, un affollamento di pensieri, idee, che il soggetto non

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riesce ad esprimere per intero, così il suo linguaggio si fa frammentato, incompleto e senza senso. Sul piano cognitivo caratteristico è l’aumento dell’autostima, della fiducia in sé, nelle proprie capacità, nei propri poteri con una scarsa consapevolezza dei propri limiti. Il pensiero si fa accelerato e frammentato, si trasforma nelle fasi più avanzate in fuga delle idee. Il contenuto del pensiero, nelle forme più lievi, è rappresentato da idee di grandezza con ipervalutazione di se stessi da un punto di vista fisico e intellettuale. Il vissuto temporale è alterato con la perdita della soluzione di continuo fra ieri oggi e domani, il paziente vive solo nel presente, i cui confini vengono però dilatati al punto da comprendere sia il passato che il futuro. Le capacità mnemoniche sono anch’esse alterate: il paziente ha una capacità di rievocazione molto efficiente, con un’ invasione di ricordi relativi ad episodi lontani nel tempo; la capacità di fissazione del presente è, però, molto ridotta a causa anche di una marcata distraibilità. La presenza di deliri è stata documentata in oltre il 50% dei casi, con un contenuto congruo o incongruo all’umore. Nel primo caso si tratta di deliri di grandezza a tema genealogico, storico, politico, culturale, finanziario, sessuale e sono strettamente correlati con i sentimenti di aumentata autostima, potenza fisica ed intellettiva. Talvolta però le manifestazioni psicotiche sono incongrue con l’umore e i deliri sono di persecuzione, non collegati alle idee di grandezza, di influenzamento corporeo e del pensiero. Non sono rari anche i disturbi psicosensoriali come le allucinazioni di tipo uditivo e visivo. Come nella depressione, anche nella mania si ha un’alterazione delle funzioni

neurovegetative: si riduce il bisogno di dormire, l’appetito è aumentato senza

che però vi sia un aumento di peso a causa dell’iperattività, l’attività sessuale risulta esaltata.

Risoluzione. L’episodio maniacale ha una durata che va da almeno una

settimana (o qualsiasi durata se è necessaria l’ospedalizzazione) fino a 4-6 mesi; raramente ha un’evoluzione cronica. Si risolve bruscamente nell’arco di qualche giorno con il ritorno all’eutimia o con il passaggio in depressione o in uno stato misto. In caso di recidiva, la sintomatologia tende a ripresentarsi con le stesse caratteristiche degli episodi precedenti.

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Ipomania. Per ipomania si intende una varietà di mania, che dura ininterrottamente per almeno 4 giorni, la cui sintomatologia è meno grave e meno intensa, mancano i deliri, non è richiesta l’ospedalizzazione, è ridotto il grado di sofferenza soggettivo ed è minore la compromissione sul piano familiare, sociale e lavorativo.

Stati misti. Con il termine stati misti si indicano quei quadri clinici in cui la

sintomatologia depressiva e quella maniacale sono contemporaneamente presenti senza, però, che vi sia un chiaro orientamento polare.

d) Decorso

La caratteristica principale della malattia maniaco-depressiva è rappresentata dal suo decorso, con la ripetizione o l’alternanza in vario modo di episodi depressivi, maniacali o misti, intervallati o meno da periodi di benessere completo o parziale. Questo aspetto è fondamentale ai fini della diagnosi, della prognosi e della terapia.

In base alla polarità degli episodi, i disturbi dell’umore vengono distinti in due grandi categorie diagnostiche: i disturbi unipolari e quelli bipolari.

Disturbi unipolari. Comprendono quelle forme le cui manifestazioni cliniche

sono rappresentate esclusivamente dalla depressione. Il DSM IV-TR riporta quattro forme principali di disturbo unipolare: il disturbo depressivo maggiore, l’episodio singolo e ricorrente, il disturbo distimico e la categoria del disturbo

depressivo non altrimenti specificato, in cui sono compresi il disturbo

depressivo minore e il disturbo depressivo breve ricorrente.

Disturbi bipolari. Comprendono le forme in cui sono presenti entrambe le

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Disturbo bipolare I. Si caratterizza per l’alternarsi di episodi depressivi e

maniacali o misti, con o senza manifestazioni psicotiche. E’ la forma più grave, anche per la forte familiarità, l’insorgenza precoce, le frequenti ospedalizzazioni, la frequenza dei suicidi e dei tentativi di suicidio, l’elevato numero di ricadute, le ripercussioni sul piano familiare, sociale e lavorativo.

Disturbo bipolare II. Comprende quelle forme caratterizzate da uno o più

episodi depressivi maggiori alternati ad almeno un episodio ipomaniacale spontaneo. Presenta gravità intermedia tra il disturbo bipolare I e la depressione maggiore ricorrente: la sintomatologia espansiva è più sfumata, ma la fase depressiva può essere particolarmente intensa.

Disturbo ciclotimico. E’ un disturbo a esordio precoce, che si caratterizza per

la presenza, per almeno 2 anni, di numerosi episodi ipomaniacali e periodi depressivi che non soddisfano i criteri per l’episodio depressivo maggiore.

e) Complicanze

I disturbi dell’umore possono condizionare pesantemente l’esistenza del paziente, deteriorandone la vita affettiva, sociale e lavorativa. E’importante che vengano messe in atto tempestive misure terapeutiche per evitare l’aggravarsi di eventuali altre patologie organiche e il verificarsi di condotte autolesive e l’abuso di alcool e sostanze.

f) Disturbo dell’umore indotto da sostanze

Secondo i criteri diagnostici del DSM-IV TR, la caratteristica fondamentale di un disturbo dell’umore indotto da sostanze (di cui è un chiaro esempio la depressione IFN-indotta) è di essere un’alterazione dell’umore rilevante e persistente che si ritiene dovuta agli effetti fisiologici diretti di una sostanza. A seconda della natura della sostanza e del contesto nel quale si manifestano i sintomi (durante l’intossicazione o l’astinenza), il disturbo può comprendere

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umore depresso o marcata riduzione degli interessi o del piacere, oppure umore elevato, espanso o irritabile.

Sebbene la presentazione clinica dell’alterazione dell’umore possa assomigliare a quella di un episodio depressivo maggiore, maniacale, misto o ipomaniacale, non è necessario che vengano soddisfatti i criteri per uno di questi episodi

(American Psychiatric Association, 2000). Non viene posta diagnosi se

l’alterazione dell’umore si manifesta soltanto durante il decorso di un delirium, pur potendo concomitare lievi deficit cognitivi. Possono comunque associarsi deliri congrui o incongrui all’umore, soprattutto nelle forme espansive (Perugi e

coll, 1994).

Va considerata la presenza di caratteristiche atipiche rispetto a quelle dei disturbi dell’umore primari, per esempio l’età di esordio di un episodio maniacale dopo i 45 anni suggerisce un’eziologia da sostanze (American

Psychiatric Association, 2000). Il quadro clinico appare povero di sintomi

affettivi, con prevalenza di uno stato astenico-apatico o iperestesico-disforico, un malumore insistente e monotono e lamentosità. Manca la profondità del sentimento di colpa, così come la sconvolgente disperazione esistenziale, propri della depressione endogena (Weitbrecht). Non di rado sono presenti componenti ipocondriache, vissute peraltro con scarsa risonanza affettiva, correlate a disturbi somatici e della cenestesi. Possono talora affiorare componenti paranoidi, a tematica centrata sul quotidiano e sul contingente

(Sarteschi e Maggini, 1982).

Molto importante ai fini di escludere un disturbo dell’umore primario è un’attenta valutazione della storia familiare e personale del soggetto, nonché l’esecuzione di esami ematochimici e di laboratorio atti ad evidenziare un’eventuale malattia fisica (Perugi e coll, 1994).

Tra le varie sostanze implicate nell’eziopatogenesi di questi disturbi sono da ricordare molti farmaci: anestetici, analgesici, anticolinergici, anticolvusivanti, antiipertensivi, antiparkinsoniani, farmaci antiulcera, farmaci cardiologici, contraccettivi orali, farmaci psicotropi (per esempio antidepressivi, benzodiazepine, antipsicotici, disulfiram), miorilassanti, steroidi, sulfamidici. Alcuni farmaci hanno una probabilità particolarmente elevata di determinare manifestazioni depressive, ad esempio alti dosaggi di reserpina, corticosteroidi, steroidi anabolizzanti.

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Fondamentale è cercare sempre di stabilire un rapporto causale diretto tra sostanza e disturbo e a tal fine può non essere sufficiente l’esistenza di un semplice rapporto cronologico tra le due condizioni. Ad esempio, i sintomi maniacali che si sviluppano in un individuo che sta assumendo litio non andrebbero diagnosticati come disturbo dell’umore indotto da sostanze perché non è probabile che il litio induca episodi simil-maniacali. In alcuni casi può ripresentarsi una condizione precedentemente diagnosticata, per esempio un disturbo depressivo maggiore, mentre la persona sta assumendo un farmaco che ha la capacità di indurre sintomi depressivi. In tali casi il clinico è tenuto ad esprimere un giudizio sull’eventuale causalità del farmaco in questa particolare situazione (American Psychiatric Association, 2000).

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2) IL CONCETTO DI SPETTRO

Caratterizzare i fenomeni della vita come fisiologici o patologici, definendo nettamente una linea di demarcazione tra “normalità” e “patologia”, in medicina e ancor più in psichiatria è tutt’altro che agevole.

Già Kraepelin (1921) percepiva che “dovunque noi cerchiamo di porre il confine tra sanità e malattia mentale, lì troveremo un territorio neutrale, nel quale ha luogo l’impercettibile passaggio dal regno della vita normale allo sconquasso patologico”.

Lo scopo della ricerca psichiatrica è stato fino ad oggi quello di costituire criteri diagnostici condivisibili e, soprattutto, soglie per individuare forme sicuramente patologiche, suscettibili di trattamento. I cosiddetti sistemi classificativi

categoriali come il DSM rispondono a questa esigenza operativa e tendono a

valutare le condizioni di malattia con distinzioni dicotomiche del tipo “tutto-nulla”. In questo modo si vengono a trascurare tutte quelle forme definite

sottosoglia, indicando con questo termine tutti quei quadri patologici che non

soddisfano i criteri del DSM-IV per la diagnosi di disturbo conclamato, ma che tuttavia rivestono una grande importanza clinica. Tali condizioni psicopatologiche possono influenzare le scelte professionali, le relazioni interpersonali, e talvolta determinare una marcata e persistente sofferenza soggettiva per la quale potrebbe essere opportuno un trattamento specifico. Infatti l’influenza delle manifestazioni subcliniche sul funzionamento socio-lavorativo, se spesso è trascurabile, può costituire un fattore super-adattativo (vedi rapporto ipertimia e leadership) e non di rado può essere francamente invalidante.

Del notevole potenziale evolutivo di queste forme psicopatologiche, apparentemente non degne di nota, già si era accorto A. Lewis (1936) quando affermava che “un grave stato di eccitamento maniacale, con deliri e allucinazioni, incoerenze ed eccitamento ed altre forme di allarme ansioso può avere meno effetti nel corso della vita di una persona rispetto a certe forme di malattia affettiva che decorrono in modo insidioso ma attenuato, durando tuttavia così a lungo nel tempo da divenire inveterate. L’uno giunge come una catastrofe e quando è passato il paziente riprende nuovamente la sua vita, con

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le altre invece non riesce mai a liberarsi dal fardello della sua malattia”. Queste forme possono essere efficacemente studiate con approcci dimensionali, più adatti a riconoscere e descrivere variabili appartenenti ad un “continuum”, evidenziando così le sfumature sintomatologiche in individui diversi o in fasi diverse della storia clinica di uno stesso soggetto.

Partendo da questi presupposti, ricercatori dell’Università di Pisa, in collaborazione con i colleghi delle Università di Pittsburgh, San Diego e New York, hanno elaborato il concetto di spettro, ovvero un insieme di caratteristiche psicopatologiche che fanno da alone alle manifestazioni conclamate di un disturbo (Cassano e coll, 1997; Frank e coll, 1998).

Il termine “spettro”, mutuato dalla fisica, indica infatti una serie di fenomeni di origine comune, filtrati e modulati da un’interfaccia, che si associano nuovamente con diversa modalità. Lo stesso concetto, applicato alla psichiatria, postula l’esistenza di singole entità psicopatologiche che tenderanno all’associazione in un singolo disturbo ad espressività clinica maggiore, oppure in diversi disturbi in comorbidità (la quale può essere intraepisodica o nel corso della vita). Viene dunque messo in discussione il principio kraepeliniano delle patologie mentali, intese come entità definite e separate (Klerman, 1990).

Lo spettro non risulta dunque essere un semplice insieme di sintomi o disturbi con caratteristiche distintive e stereotipate, costituisce invece una “summa” psicopatologica, che dà luogo ad un risultato diverso della sommatoria delle singole entità proprie, permettendo il superamento dei limiti dei sistemi categoriali.

Una particolare modalità di pensiero, unita a comportamenti ripetitivi in risposta ad uno stimolo ansioso, potranno evolvere in un disturbo ossessivo-compulsivo, ma anche costituire la base del disturbo di panico o di una forma anoressica o bulimica. Alcuni comportamenti, inoltre, potranno essere vissuti con varia consapevolezza ed egodistonia nel compulsivo o nell’impulsivo. La sensitività interpersonale si potrà indirizzare verso una franca fobia sociale, con inibizione comportamentale, oppure sfociare in un’ideazione delirante con comportamenti psicotici incongrui. Alcuni sintomi, cosiddetti attenuati o parziali, potranno dunque progredire verso il disturbo conclamato, altri potranno rimanere isolati, altri ancora potranno confluire in disturbi diversi.

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Secondo Cassano e collaboratori (1997, 1998, 1999) la definizione di “spettro di un disturbo psichiatrico” comprende:

sintomi tipici e atipici del disturbo principale di Asse I ;

segni, sintomi e modelli comportamentali, comunemente associati con i sintomi fondamentali, che possono rappresentare sia i precursori di una condizione non ancora completamente espressa sia i residui di un disturbo presente in passato ;

il temperamento e/o i tratti di personalità che possono costituire un fattore di vulnerabilità per il disturbo.

Un’indagine di spettro consente quindi di descrivere, accanto ai sintomi tipici di ciascun disturbo, anche i cosiddetti sintomi atipici, la cui atipicità consiste nel fatto di essere di comune riscontro nella pratica clinica, ma di non essere menzionati tra i criteri diagnostici dei sistemi categoriali.

Il modello di spettro è in grado di estendere e completare (ma non di sostituire) l’attuale classificazione delle categorie diagnostiche, inoltre presenta una serie

di implicazioni pratiche e teoriche degne di nota: basandosi principalmente su osservazioni cliniche ed essendo, come il

DSM, essenzialmente ateoretico, può costituire un “sistema operativo” per indagare la comorbidità sottosoglia e per la descrizione di fenomeni che rappresentano “l’espressione di un sottostante processo psicopatologico unitario” (Frank e coll, 1998), aprendo quindi spunti interessanti nell’ambito della patogenesi e conseguentemente della terapia dei disturbi mentali; la recente evoluzione in campo psicofarmacologico, che ha portato alla disponibilità di un’ampia gamma di farmaci caratterizzati da una maggiore maneggevolezza e da una miglior tollerabilità, ha permesso di abbassare la soglia di gravità in cui iniziare il trattamento farmacologico, estendendolo ai disturbi subclinici, alle manifestazioni isolate, ai tratti temperamentali, ben rilevabili con un approccio di spettro;

riconoscere questi fenomeni, in grado di interferire con la presentazione tipica del disturbo, con il suo decorso e con il risultato del trattamento, potrebbe aiutare a definire meglio ed in modo più specifico il quadro clinico

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del paziente, nonché facilitare la prevenzione del primo episodio e delle ricadute.

a) Lo spettro dell’umore

Fin dalle prime descrizioni dei disturbi affettivi, è stata ipotizzata una natura dimensionale del disturbo bipolare espressa attraverso un continuum di gravità delle manifestazioni psicopatologiche. I progressi terapeutici delle ultime due decadi hanno portato ad un ampliamento dei confini diagnostici del disturbo bipolare e della sua varietà fenomenologica ed epidemiologica. Nello stesso periodo diversi autori hanno cominciato ad interessarsi della fenomenica subclinica o sottosoglia (Akiskal e coll, 1983). I numerosi tentativi di dare una più precisa definizione dei fenotipi clinici si basano sull’evidenza che non tutti i pazienti depressi rispondono in modo simile ai trattamenti farmacologici o psicoterapici oggi a disposizione.

Fin dalla descrizione di Kraepelin, in realtà i disturbi dell’umore sono stati considerati come un’unica malattia, distinta dalla demenza precoce per il decorso e per alcune caratteristiche cliniche, all’interno della quale potevano essere riconosciute forme con e senza “circolarità”. Bumke, agli inizi del secolo, ipotizzava che i disturbi dell’umore non dovessero essere distinti in diverse categorie, ma che le forme depressive, quelle maniaco-depressive ed alcuni tipi di personalità disturbate fossero da considerare come appartenenti ad un unico gruppo psicopatologico.

Gli attuali sistemi categoriali nascono dalla necessità di creare dei chiari cut-off fra i singoli disturbi mentali, per questo il loro approccio ai disturbi dell’umore ha previsto una chiara suddivisione delle forme bipolari da quelle unipolari. La dicotomia unipolare-bipolare proposta dal DSM si è dimostrata di grande utilità dal punto di vista descrittivo, per cui la maggior parte dei clinici ancora oggi rimane convinta della necessità della distinzione fra le due diagnosi. Inoltre, lo stesso manuale non esclude a priori la possibile presenza di caratteristiche maniacali nei pazienti con depressione unipolare. Tuttavia, la presenza di ambiguità riguardo l’identificazione di ben definiti confini diagnostici fra il

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disturbo bipolare e quello unipolare e nella definizione della relazione tra polarità e ciclicità comporta problemi pratici per la ricerca e per la scelta farmacologica. Dal punto di vista clinico, poi, non risultano a tutt’oggi ben delineati i confini diagnostici dei disturbi dell’umore nei confronti della schizofrenia, dei disturbi schizoaffettivi e dei disturbi schizofreniformi. L’uso delle sostanze psicoattive maschera spesso la presenza di un disturbo dell’umore sottostante, così come un esordio precoce può essere diagnosticato erroneamente come disturbo da deficit dell’attenzione o come un disturbo di personalità antisociale o borderline. In tutti questi casi l’approccio categoriale è spesso insufficiente.

Il contributo di Fieve e Dunner nei primi anni ’70, che differenziavano le condizioni dei Bipolari I dai Bipolari II, permise di includere nello spettro bipolare anche quei pazienti che, pur presentando fasi depressive ricorrenti, manifestavano fasi ipomaniacali, che non richiedevano l’ospedalizzazione e che avevano un limitato impatto sul funzionamento psicosociale (Dunner e Fieve,

1974). Successivamente, Cassano e collaboratori hanno notato che circa il 30%

delle persone con depressione maggiore in realtà appartenevano allo spettro bipolare (Cassano e coll, 1999). Questo ampliamento del concetto di bipolarità è stato recentemente confermato da Angst e Gamma (2002) che, con studi epidemiologici, hanno dimostrato che il 5% della popolazione generale è affetto da una condizione psicopatologica appartenente allo spettro bipolare. Questo modello ha messo in evidenza la reale prevalenza del disturbo bipolare, facendo sì che le percentuali di incidenza precedentemente ipotizzate fossero modificate.

Nel 1999, Akiskal e Pinto hanno formulato una lista di prototipi (Bipolare I, II, II½, III, III½, IV), che rappresentano un continuum lungo il quale si dispongono i diversi sottotipi di disregolazione dell’umore, da quelli in cui si manifestano sintomi tipici della mania fino a quelli in cui si ha una continua oscillazione del tono affettivo che non raggiunge mai la gravità né della depressione né della mania (Akiskal e Pinto, 1999). Fra le implicazioni dell’approccio di Akiskal e Pinto spicca la necessità di utilizzare farmaci stabilizzatori dell’umore anche in pazienti con diagnosi di depressione maggiore per evitare loro sia uno switch in fase maniacale durante il trattamento con antidepressivi, sia di essere etichettati, per la scarsa risposta al trattamento o per l’insorgenza di fasi miste,

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come pazienti borderline o con personalità antisociale. Tuttavia, ancora non è chiaro se i pazienti possano realmente trarre beneficio da questo approccio farmacologico e queste ipotesi non sono a tutt’oggi state valutate con un approccio empirico. Lo stesso Akiskal ammette che la validazione del suo concetto è resa ardua soprattutto dall’assenza di una metodologia adeguata che consenta l’individuazione delle condizioni maniacali sottosoglia.

Cassano e collaboratori (1999), nella loro concettualizzazione dello spettro dell’umore, ipotizzano che la dicotomia unipolare-bipolare possa essere considerata un artefatto dell’attuale sistema nosografico e che le esperienze di vita dei pazienti con disturbo dell’umore siano caratterizzate da alcuni tratti, spesso lievi, di bipolarità.

I diversi tentativi di classificare i disturbi bipolari in base alla gravità dei sintomi maniacali hanno dato luogo a suddivisioni infinite del disturbo laddove anche nei soggetti con depressione ricorrente è possibile riconoscere tratti e segni della dimensione maniacale, la cui intensità è direttamente proporzionale ai sintomi depressivi. Partendo dalle osservazioni di Kraepelin e Kretschmer, che indicavano nella costituzione del paziente il background da cui si sviluppavano i disturbi dell’umore, gli autori del concetto di spettro ipotizzano che disregolazioni dell’umore sottosoglia, presenti sin dall’infanzia, possano costituire il precursore da cui si organizzano successivamente i disturbi conclamati. Lo spettro dell’umore viene visto come un continuum, che include diverse dimensioni che legano fra loro le caratteristiche depressive e maniacali. Le manifestazioni sottosoglia delle due componenti (mania e depressione) possono apparire durante il corso della vita con diversa intensità anche nello stesso individuo.

All’interno del continuum si può individuare un ampio alone sintomatologico che comprende sintomi, segni, tratti, temperamenti e caratteristiche personologiche che possono rappresentare sia le caratteristiche tipiche del disturbo affettivo, sia quelle manifestazioni sottosoglia, atipiche, isolate che possono accompagnare la fenomenica conclamata, precederla o farne seguito. Questo approccio, oltre a fornire una migliore definizione dei disturbi dell’umore e a dare una risposta al dibattito dicotomia/unitarietà dei disturbi affettivi, si propone di dare significatività clinica anche ad aspetti psicopatologici tipicamente non

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riconosciuti, valorizzando la loro importanza come specificatori di decorso e di risposta al trattamento, predittori di un primo episodio o di ricadute, indicatori di coorti più specifiche e “pure” per la ricerca biologica e genetica.

Allo scopo di facilitare il riconoscimento di queste caratteristiche è stata costruita e validata l’Intervista Clinica Strutturata per lo Spettro dell’Umore

(Fagiolini e coll, 1999). Attraverso questo strumento Cassano e collaboratori (2004) hanno studiato pazienti unipolari e bipolari da cui è emerso che i pazienti

unipolari presentavano un numero significativo di items maniacali. Questo risultato mette in dubbio la tradizionale dicotomia unipolare-bipolare e crea un ponte tra queste due categorie di disturbo dell’umore.

b) La mania sottosoglia

Utilizzando l’Intervista Clinica Strutturata per lo Spettro dell’Umore (SCI-MOODS) o il MOODS-SR (vedi strumenti), sono state rilevate caratteristiche tipiche dello spettro dell’umore anche in individui con disturbi mentali diversi da quelli affettivi e in individui senza pregressa storia psichiatrica.

Comunemente viene riscontrata, nei soggetti con altri disturbi di Asse I, la presenza di sintomi depressivi, spesso descritta come secondaria al disturbo primario. I sintomi appartenenti alla sfera maniacale-ipomaniacale vengono invece spesso sottovalutati poiché, se lievi, non comportano alcun disagio al paziente, anzi risultano piacevoli ed egosintonici, traducendosi frequentemente in un miglioramento della produttività; inoltre talvolta è difficoltoso riconoscere queste manifestazioni a causa della loro ciclicità (la quale è una tipica caratteristica dello spettro bipolare).

Per queste ragioni alla mania sottosoglia può venire attribuita un’importanza marginale ma, vari studi recenti, ci suggeriscono di considerare tutt’altro che trascurabili queste particolari manifestazioni subcliniche.

Nello studio di Cassano e collaboratori (2004), già precedentemente ricordato, che prevede l’utilizzo dello SCI-MOODS in soggetti affetti da disturbo unipolare e bipolare, il numero di items maniacali/ipomaniacali positivi cresce, in entrambi i gruppi, con l’aumentare degli items depressivi soddisfatti. Nello studio emerge

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inoltre come, un più alto numero di items maniacali/ipomaniacali, si correli con un maggior rischio di intenzione suicidaria e con altri indicatori di gravità della depressione, quali sintomi psicotici, ideazione paranoide ed esordio precoce del primo episodio depressivo. Questi dati stanno a corroborare un’osservazione precedente secondo la quale la presenza di anche lievi sintomi maniacali può trasformare un episodio depressivo in uno misto, ed aumentare la probabilità di sintomi psicotici (Dell’Osso e coll, 1991). La mania sottosoglia viene dunque a porsi come indicatore di gravità e prognosi nell’ambito dei disturbi dell’umore. L’importanza della sintomatologia maniacale sottosoglia nella popolazione generale emerge invece dallo studio di Judd e Akiskal (2003), in cui si parla di sintomi maniacali subsindromici (SSM), definiti come due o più sintomi maniacali lifetime che non rispondono ai criteri completi per la diagnosi di un episodio maniacale o ipomaniacale.

Il 5,1% della popolazione americana soddisfa SSM, andando a costituire la porzione maggiore dello spettro bipolare, che presenta, in questo studio, un totale di prevalenza lifetime del 6,4%.

Gli individui con sintomi maniacali subsindromici, rispetto ai soggetti senza disturbi mentali, presentano un maggior utilizzo dei servizi sanitari, una necessità più elevata di pubblica assistenza ed un rischio quattro volte maggiore di comportamento suicidario.

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3) L’EPATITE C

Il virus dell’epatite C (HCV) è un virus ad RNA appartenente alla famiglia Flaviviridae, con il solo genere Hepacivirus (Alter M e coll, 1999).

La singola catena di RNA codifica per una proteina di circa 3000 amminoacidi e, in base a variazioni nella sequenza nucleotidica (Lauer e Walker, 2001), l’HCV è stato suddiviso in sei genotipi (tipi 1-6) e più di 50 sottotipi (Takada e

coll, 1993; Simmonds e coll, 1994). I genotipi 1a e 1b sono responsabili della

maggior parte delle infezioni da HCV in Europa, Stati Uniti e Sud America (Alter

M, 1995; Davidson, 1995).

Nei singoli individui infettati si hanno, a partire dall’ inizio dell’infezione, modificazioni nella sequenza nucleotidica del virus che portano alla realizzazione di un’ulteriore eterogeneità genetica, rappresentata dalle quasi-specie (Alter H, 1995). Tale variabilità di sequenza consente all’ HCV di esistere simultaneamente sotto forma di varianti correlate ma immunologicamente distinte (Alter H, 1995). È probabile che la presenza di quasi-specie contribuisca alla capacità del virus di instaurare un’infezione cronica, e sia responsabile degli ostacoli alla creazione di un vaccino (Crone e Gabriel, 2003).

a) Epidemiologia e modalità di trasmissione

La prevalenza di anticorpi sierici contro l’HCV negli Stati Uniti è dell’1%-2%, (quindi superiore a quella degli individui infettati dall’HIV) (Rall e Dienstag,

1994; Crone e Gabriel, 2003), simile a quella degli altri paesi industrializzati, ma

le percentuali variano altrove, con una prevalenza massima compresa tra il 9,6% e il 13,6% in Nord Africa (Rall e Dienstag, 1994).

Anche se il numero di nuovi casi di infezione è calato significativamente negli ultimi 10 anni, l’ HCV rimane un importante problema di salute pubblica per la sua elevata tendenza alla cronicizzazione e per la sua associazione con insufficienza epatica terminale (Iwarson, 1994; Wasley e Alter M, 2000).

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La principale modalità di trasmissione dell’HCV è per via parenterale (Crone e

Gabriel, 2003). Prima del 1990 (cioè dell’introduzione di modalità di screening

più efficaci per il sangue donato), le trasfusioni rappresentavano il 15%-20% dei nuovi casi di infezione (Schreiber e coll, 1996). Oggi il rischio è pari allo 0,06% per unità di sangue (Alter M, 1995; Alter M e coll, 1999; Lauer e Walker, 2001). L’uso di droghe per via endovenosa è attualmente il maggior fattore di rischio per l’infezione da HCV ed è responsabile del 60% delle trasmissioni negli Stati Uniti (Lam, 1999; Williams, 1999).

Altri fattori di rischio sono rappresentati da: dialisi (Conlon e coll,1993; el Gohari

e coll, 1995), partners sessuali multipli (Williams e coll, 1998), tatuaggi (Ko e coll, 1992; Thompson e coll, 1996), convivenza con individuo infetto (Honda e coll, 1993; Oshita e coll, 1993; Kim e coll, 1994), esposizione occupazionale (Williams e coll, 1998).

Negli Stati Uniti la maggior parte degli individui infetti presenta il genotipo 1a ed ha un’età compresa tra i 30 e i 49 anni (Alter M e coll, 1999).

b) Quadro clinico e storia naturale

Nella maggior parte dei casi, l’infezione acuta da HCV ha una presentazione sfumata o asintomatica.

Nei casi sintomatici possono essere presenti sintomi aspecifici come malessere, perdita di appetito, nausea, febbricola e ittero (National Institutes of

Health Consensus Development Conference Panel statement: management of hepatitis C, 1997; Centers for Disease Control, 1998). Anche la depressione

può essere un sintomo di presentazione, non solo nella forma acuta, ma anche nell’infezione cronica (Dieperink e coll, 2000).

Dopo la fase acuta, le percentuali di progressione verso l’infezione cronica da HCV variano dal 50% all’85% dei pazienti (Alter M e coll, 1999; Sarbah e

Younossi, 2000). La cronicità è definita come l’evidenza di infezione persistente

per almeno 6 mesi dall’esposizione al virus. Nella fase cronica il 20% dei pazienti ha malattia epatica clinicamente evidente e lamenta astenia e malessere, il 50% è asintomatico ma con alterazioni degli enzimi epatici, il 30%

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è asintomatico con enzimi epatici nella norma (National Institutes of Health

Consensus Development Conference Panel Statement: mangement of hepatitis C, 1997). La progressione dell’epatite cronica da HCV è lenta e spesso i primi

segni clinici sono l’insufficienza epatica, l’encefalopatia, l’ittero o l’ascite

(Dieperink e coll, 2000).

Negli Stati Uniti l’epatite C è attualmente la causa principale di malattia cronica del fegato e l’indicazione più comune per il trapianto di fegato (Detre e coll,

1996).

Lo sviluppo di cirrosi si ha in circa il 20% dei portatori cronici, e da essa può derivare insufficienza epatica, ipertensione portale e carcinoma epatocellulare. L’HCV può causare epatocarcinoma attraverso l’induzione della cirrosi, con un rischio pari all’ 1%-4% per anno (Di Bisceglie, 1997) .

L’epatite C si può associare anche a manifestazioni extraepatiche quali crioglobulinemia mista, glomerulonefriti, porfiria cutanea tarda, sindrome di Sjogren, tiroiditi (da cui ipo – o ipertiroidismo), sintomi reumatologici quali mialgie, artralgie e stanchezza generalizzata (Seigel e coll, 1993; Ueno e coll,

1994; Gumber e Chopra, 1995; Di Bisceglie, 1998).

c) Epatite C e disturbi psichiatrici

La figura dello psichiatra tende ad occupare un posto sempre più rilevante nella gestione del paziente con epatite cronica da HCV, infatti sintomi psichiatrici sono spesso associati, per varie ragioni, a questa condizione. Tali complicanze sono da ricondursi all’infezione stessa, alle sue sequele e al suo trattamento, ma anche al fatto che tale virus tende ad infettare una popolazione ad elevata incidenza di disturbi mentali (Dieperink e coll, 2000; Crone e Gabriel, 2003). Come i pazienti con altre malattie croniche, ad esempio il diabete mellito, i soggetti con epatite C mostrano soprattutto un’aumentata prevalenza di depressione (Bayliss e coll, 1998; Yates e Gleason, 1998). La presenza di sintomi depressivi è importante perché essi hanno un effetto negativo sul

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decorso della malattia, con amplificazione dei sintomi fisici, compromissione funzionale, ridotta compliance al trattamento e ridotta qualità di vita (Dwight e

coll, 2000).

La depressione è talvolta proprio uno dei sintomi del quadro clinico d’esordio dell’epatite acuta o cronica da HCV, insieme a stanchezza e compromissione cognitiva (Foster e coll, 1998; Dwight e coll, 2000; Forton e coll, 2001). L’origine di questi sintomi non risulta chiara (Foster e coll,1998). Data la mancanza di un’eziologia ben definita e il fatto che l’epatite C appartiene ad una famiglia di virus neurotropici (come ad esempio il virus dengue) i ricercatori hanno pensato che l’ HCV potesse avere effetti diretti sul sistema nervoso centrale (SNC)

(Radkowski e coll, 2002).

Vi sono evidenze indirette di ciò emerse da studi su pazienti con epatite C senza segni di encefalopatia epatica (Forton e coll, 2002; Kramer e coll, 2002). Si tratta di lievi disfunzioni cognitive evidenziate da anormalità del potenziale P300 evento-correlato, le quali riflettono una compromissione nella velocità di elaborazione, nel tempo di reazione e nell’attenzione allo stimolo (Kramer e coll,

2002). Sono stati inoltre riscontrati alterati livelli di alcuni metaboliti cerebrali nei

pazienti con l’HCV, e più precisamente un rapporto colina/creatina più elevato nei gangli della base e nella sostanza bianca (Forton e coll, 2001; Forton e coll,

2002). Questi riscontri sono simili a quelli rilevati nei pazienti con infezione

cerebrale da HIV e sono associati con la proliferazione cellulare (Forton e coll,

2001; Forton e coll, 2002). Un’ulteriore evidenza che ci suggerisce che l’HCV

possa infettare direttamente il SNC è rappresentata dal fatto che il suo RNA è stato ritrovato anche in campioni di liquido cerebrospinale e di tessuto cerebrale

(Bolay e coll, 1996; Morsica e coll, 1997; Maggi e coll, 1999; Radkowski e coll, 2002). Laskus e collaboratori hanno ipotizzato che l’HCV possa superare la

barriera ematoencefalica infettando i monociti con conseguente infezione microgliale (Laskus e coll, 2002).

Un altro meccanismo con cui tale virus può determinare disturbi mentali è attraverso l’induzione di un fenomeno autoimmune chiamato crioglobulinemia, che si verifica nel 30%-40% dei soggetti con infezione cronica da HCV (Origgi e

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ma l’1%-2% presenta un processo vasculitico che si può riscontrare anche a livello del SNC (Mendez e coll, 2001), dovuto alla deposizione di complessi immuni sull’endotelio dei vasi sanguigni di piccolo e medio calibro (Ferri e coll,

2002). In questo processo possono essere coinvolti la carotide ed i vasi

cerebrali, dando così luogo a lesioni ischemiche e sintomi neurologici quali vertigini, disartria, paralisi, parestesia, confusione (Petty e coll, 1996; Origgi e

coll, 1998; Dawson e Starkebaum, 1999; Heckmann e coll, 1999; Mendez e coll, 2001).

I pazienti con epatite C presentano un’ elevata comorbidità psichiatrica in anamnesi. Ci sono numerosi studi in letteratura anche se i dati riportati sono talora discordanti.

Secondo Nguyen e collaboratori il 60% dei pazienti ricoverati in una clinica per malattie epatiche aveva una o più diagnosi di disturbi mentali al momento della biopsia epatica (Nguyen e coll, 2002). L’uso di alcool era documentato nell’80% dei soggetti, una storia di uso di sostanze per via endovenosa o cocaina nel 78%, la depressione si riscontrava nel 62% dei casi, il disturbo post-traumatico da stress nel 20%, la schizofrenia nel 5% (Nguyen e coll, 2002).

Cheung e Ahmed riportano i disturbi correlati all’abuso di sostanze come i più frequenti disturbi mentali in una coorte di veterani HCV positivi, seguiti dai disturbi psicotici e dell’umore (Cheung e Ahmed, 2001).

El-Serag e collaboratori hanno notato come, nei pazienti HCV positivi, sia con che senza storia di abuso di sostanze, la depressione sia il più comune disturbo mentale (85% e 69% rispettivamente), seguito dai disturbi d’ansia (47% in entrambi i gruppi) (El-Serag e coll, 2002).

Golden e collaboratori hanno evidenziato come depressione e ansia abbiano non solo un’elevata prevalenza nell’epatite C (28% e 24%) ma siano anche ampiamente sottostimate e non trattate. Tali autori hanno anche individuato alcuni fattori di rischio per lo sviluppo di depressione: sesso femminile, età avanzata, trattamento con metadone (aumento del rischio di 5 volte), epatite clinicamente sintomatica, scarso adattamento sociale e lavorativo, compromissione della memoria e della concentrazione, scarsa accettazione della malattia. Gli stessi autori non hanno invece rilevato fattori di rischio

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significativamente associati con lo sviluppo dei disturbi d’ansia (Golden e coll,

2005).

Yovtcheva e collaboratori hanno riscontrato che in una popolazione di veterani HCV positivi il 30% soddisfaceva i criteri per un disturbo di personalità, con prevalenza dei tipi borderline e antisociale (Yovtcheva e coll, 2001). Questi risultati non sorprendono data l’associazione tra entrambi i tipi di disturbo di personalità e abuso o dipendenza da sostanze (Hesselbrock e coll, 1985;

Kessler e coll, 1997). La presenza di un disturbo di personalità può avere anche

un effetto significativo sulla compliance alla terapia (Crone e Gabriel, 2003).

La natura fortemente stigmatizzante della diagnosi di epatite è un altro elemento da prendere in considerazione (Golden e coll, 2005). A tale proposito Coughlan e collaboratori hanno notato come le percentuali di depressione siano simili in coloro che hanno epatite C cronica e in coloro che hanno solo evidenza di una precedente infezione acuta, a suggerire l’importanza dell’impatto diagnostico (Coughlan e coll, 2002).

Rodger e collaboratori, inoltre, hanno riscontrato che i pazienti consapevoli della loro sieropositività per HCV riportano più depressione rispetto agli individui con la stessa malattia ma non consapevoli della loro diagnosi (Rodger e coll,

1999).

Il trattamento per l’epatite C, che coinvolge l’utilizzo dell’IFN- da solo o in associazione con la ribavirina, ha un’elevata incidenza di effetti collaterali psichiatrici. L’insorgenza di un disturbo mentale, soprattutto depressione, è infatti la ragione principale di abbandono del trattamento (Renault e coll, 1987;

Maddrey, 1999; Trask e coll, 2000; Zdilar e coll, 2000), perciò il successo dello

stesso richiede l’individuazione e la gestione della depressione sia prima che durante la terapia.

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d) Lo psichiatra e il paziente con epatite C

Lo psichiatra è spesso il primo medico che viene a contatto con i pazienti a maggior rischio di contrarre epatite C (Crone e Gabriel, 2003), pensiamo a coloro che abusano di sostanze per via endovenosa, i quali, in molti casi, sono soggetti con doppia diagnosi (cioè presenza di anche un altro disturbo psichiatrico).

È quindi necessaria una stretta collaborazione tra psichiatra ed epatologo

(Constant e coll, 2005a; Golden e coll, 2005) già nella fase di diagnosi ma,

anche e soprattutto, nella gestione della malattia epatica e del suo trattamento. Molto spesso i soggetti con anamnesi positiva per disturbi mentali vengono esclusi dalla terapia con l’IFN- perché ritenuti ad elevato rischio di effetti collaterali (Falck-Ytter e coll, 2002; Muir e Provenzale, 2002) anche se gli studi in proposito sono scarsi (Van Thiel e coll, 1995; Pariante e coll, 1999; Dobmeier

e coll, 2000; Gallucci e Smolinski, 2001; Ho SB e coll, 2001; Pariante e coll, 2002). Perciò è importante un assiduo monitoraggio da parte dello psichiatra, e

non solo durante la terapia con l’IFN per migliorarne la compliance, ma anche durante le varie fasi della malattia epatica, data la frequente comparsa di sintomi psichiatrici.

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4)

IL TRATTAMENTO CON L’IFN-

Gli interferoni sono proteine appartenenti alla classe delle citochine, prodotte dalle cellule umane come mediatori solubili, che stimolano la proliferazione e la differenziazione delle cellule immunocompetenti (Scalori e coll, 2004).

Vi sono tre sottospecie di IFN ( , e ), ognuna delle quali viene anche somministrata per via esogena nel trattamento di diverse patologie associate con alterazioni del sistema immune (Scalori e coll, 2004), come l’epatite virale cronica, il melanoma e il carcinoma a cellule renali (IFN- ), la sclerosi multipla (IFN- ), la malattia granulomatosa cronica e lesioni della cute (IFN- ) (Baron e

coll, 1991; Goodkin DE, 1996; Borden e Parkinson, 1998; Loftis e Hauser, 2004).

L’attività antivirale dell’IFN è dovuta alla sua capacità di indurre la sintesi di particolari proteine legandosi a specifici recettori e di prevenire la replicazione virale (Pestka e coll, 1987; Samuel, 1988). L’attività antitumorale dipende dal rallentamento della crescita delle cellule neoplastiche, attraverso la riduzione di metaboliti essenziali e il potenziamento della lisi cellulare (Baron e coll, 1991). Il potere antiproliferativo e antifibrotico può, inoltre, essere un altro dei meccanismi alla base del rallentamento della progressione della malattia epatica nei soggetti con epatite virale cronica (Bernstein, 2002; Scott e Perry,

2002).

L’IFN può anche incrementare la funzione dei macrofagi e delle cellule natural killer, la citotossicità delle cellule T, nonché determinare un’aumentata espressione di geni per le citochine (Baron e coll, 1991).

Gli interferoni pegilati sono forme farmacologiche di più recente introduzione, presentano una molecola di polietilenglicole che ne aumenta l’emivita, consentendo somministrazioni più distanziate, una maggior efficacia del trattamento e una minor incidenza di effetti collaterali (Safrin, 2003).

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a) Effetti collaterali generali

Gli effetti collaterali del trattamento con i vari tipi di IFN, ma soprattutto con l’ IFN- , ricadono in due categorie principali: reazioni costituzionali all’inizio della terapia, che sono quelle che si realizzano nella maggior parte dei pazienti, e reazioni dopo somministrazione ripetuta di alte dosi (Trask e coll, 2000) oppure dopo modificazioni o interruzione della terapia (Greenberg e coll, 2000), che si verificano solo in alcuni soggetti. Gli effetti avversi iniziali, che includono brividi, febbre, astenia, nausea, vomito e malessere (Quesada e coll, 1986) ma anche mialgie, artralgie, tachicardia, anoressia (Dieperink e coll, 2000), iniziano da 30 a 120 minuti (Quesada e coll, 1986), o da 6 a 8 ore (Dieperink e coll, 2000), dopo la somministrazione dell’IFN e persistono per diverse ore (Quesada e coll,

1986) o settimane (Dieperink e coll, 2000). La continuazione del trattamento

comporta un miglioramento di questa sindrome simil-influenzale (Kirkwood e

Ernstoff, 1991), inoltre essa non richiede riduzione della dose e può essere

alleviata dalla somministrazione di acetaminofene o altri farmaci antinfiammatori

(Borden e Parkinson, 1998). Nel 90% dei casi tali sintomi si realizzano nei primi

tre mesi dall’inizio del trattamento (il 60% entro un mese, il 40% entro due e il 20% entro una settimana) (Yokoyama e coll, 1996). I soggetti più giovani, con miglior stato generale di salute e che necessitano di dosi più basse di IFN sperimentano meno questi effetti collaterali (Borden e Parkinson, 1998).

Dopo diverse settimane dall’inizio della terapia i pazienti possono invece lamentare perdita di memoria, depressione, rallentamento cognitivo, compromissione nel comportamento diretto ad uno scopo (Valentine e coll,

1998). Possono inoltre presentare, in vari momenti, tossicità gastrointestinale e

cardiaca, neuropatia periferica, alterazioni metaboliche ed ematologiche e sintomi neurologici (Rohatiner e coll, 1983; Smedley e coll, 1983; Adams S e

coll, 1984; Mannering e Deloria, 1986; Quesada e coll, 1986; Kirkwood e Ernstoff, 1991; Weiss, 1998). Questi effetti collaterali sono più frequenti negli

anziani e sembrano essere dose-correlati (Quesada e coll, 1986; Kirkwood e

Ernstoff, 1991; Dusheiko, 1997; Weiss, 1998; Merimsky e Chaitchik, 1992). La

depressione o sintomi isolati quali astenia, insonnia e irritabilità costituiscono i principali effetti dose-limitanti (Renault e coll, 1987; Borden e Parkinson, 1998).

(32)

Per la maggior parte dei pazienti, al termine della terapia, si ha una remissione degli effetti collaterali, sebbene alcuni di essi possano persistere fino a tre anni dopo il trattamento (Bocci, 1988; Meyers e coll, 1991a).

Gli effetti collaterali richiedono riduzione della dose o interruzione del trattamento con l’IFN- nel 2%-10% dei casi (Dusheiko, 1997) e, nella maggior parte, sono correlate allo sviluppo della depressione IFN-indotta (Renault e coll,

1987; Maddrey, 1999).

La maggior parte dei pazienti trattati con l’IFN- sviluppa la sindrome acuta simil-influenzale (Bailly e coll, 1997; Dieperink e coll, 2000). Le alterazioni ematologiche, soprattutto neutropenia e trombocitopenia, si verificano in circa la metà dei soggetti, ma sono solitamente lievi (Dusheiko, 1997; Fontaine e Pol,

2001; Gervais e coll, 2001). Bisogna però tener presente che possono essere

più marcate se c’è trattamento di combinazione con la ribavirina, la quale induce anemia emolitica dose-correlata in un terzo dei pazienti (Fontaine e Pol,

2001; Gervais e coll, 2001). Gli effetti collaterali gastrointestinali e dermatologici

sono abbastanza frequenti ma raramente richiedono una riduzione delle dosi. Iper- o ipotiroidismo si sviluppano nel 5%-10% dei pazienti e sono tra i pochi sintomi che non sempre si risolvono dopo l’interruzione del trattamento (Bailly e

coll, 1997; Fontaine e Pol, 2001).

L’IFN- pone limitati rischi per ciò che riguarda le interazioni farmacologiche, tuttavia inibisce un enzima epatico appartenente alla famiglia dei citocromi, CYP1A2, portando ad una riduzione della clearance della teofillina (Perry e

Jarvis, 2001), il cui uso concomitante deve essere valutato con particolare

attenzione.

Figura

Figura  1 :  CRH=  ormone  di  rilascio  della  corticotropina,  DA=  dopamina,  5-HT=    5- 5-idrossitriptofano  (serotonina),  NE=noradrenalina,  TH=triptofano  idrossilasi  (Loftis  e  Hauser,
Figura 2 : Loftis e Hauser, Journal of Affective Disorders, 2004, 82.

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