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Determinazione della massa e relazione tra massa e proprietà non termiche in ammassi di galassie

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Academic year: 2021

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(1)

A

LMA

M

ATER

S

TUDIORUM

U

NIVERSITÀ DI

B

OLOGNA

Scuola di Scienze Corso di Laurea in Fisica

DETERMINAZIONE DELLA MASSA E RELAZIONE

TRA MASSA E PROPRIETÁ NON TERMICHE IN

AMMASSI DI GALASSIE

Relatore:

Presentata da:

Prof. Gabriele Giovannini

Massimo Cau

Sessione I

(2)
(3)

iii

Abstract

Nella presente tesi, di argomento astrofisico, sono esaminati gli ammassi di galassie (galaxy clusters), ovvero gli oggetti virializzati più grandi dell’Universo. Attraverso una introduttiva analisi

morfologica vengono descritte le proprietà di luminosità in banda X e radio dovute alle galassie che li compongono ed al caldo gas intergalattico (ICM IntraCluster Medium) tra queste interposto.

In particolare è presa in esame l’emissione radio diffusa di natura non termica di sottostrutture del gas, note con il nome di Aloni, relitti e mini-aloni.

Nei capitoli II e III l’attenzione si concentra sul non facile problema della determinazione della massa di un ammasso, proprietà che costituisce il principale oggetto di studio del presente lavoro, passando in rassegna e descrivendo i metodi più utilizzati: analisi dinamica delle galassie (equazione di Jeans ed equazione del viriale), osservazioni in banda X dell’ICM, weak lensing (WL), strong lensing (SL) ed infine WL e SL accoppiati.

Una analisi critica ed un confronto tra questi metodi sono sviluppati nel capitolo IV, prendendo in considerazione l’ammasso RCS2327.

Il conclusivo capitolo V racchiude e collega gli argomenti delle sezioni precedenti cercando una possibile correlazione tra le proprietà emissive non termiche (in banda radio) e le masse di un campione di 28 ammassi, determinate mediante tecniche di weak lensing e strong lensing accoppiate.

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iv

(5)

v

Indice

Abstract iii

1 Ammassi di galassie 1

1.1 Generalità e classificazione . . . 1

1.2 La funzione di luminosità delle galassie negli ammassi . . . 4

1.3 Osservazione nella banda X: introduzione . . . 7

1.3.1 Origine della emissione X: meccanismi proposti . . . 7

1.3.2 Intra Cluster Medium (ICM): il caldo gas intergalattico . . . 8

1.3.3 Relazione massa − luminosità X . . . 11

1.4 Emissioni non termiche: gli ammassi come radiosorgenti . . . 12

1.4.1 Emissione radio discreta: galassie attive e radiogalassie . . . 12

1.4.2 Emissione radio diffusa . . . 15

1.4.2.1 Emissione radio: interazione tra campi elettromagnetici ed e− relat. . . 15

1.4.2.2 Sorgenti ed emissione radio diffusa: aloni, relitti e mini aloni . . . 16

2 Determinazione della massa nei cluster di galassie I: metodi dinamici 19 2.1 Introduzione: metodi per determinare la massa di un cluster . . . 19

2.2 Masse di un cluster basate sulla dinamica delle galassie . . . 20

2.2.1 Massa derivata dalla equazione di Jeans . . . 20

2.2.2 Massa derivata dal teorema del viriale . . . 21

2.2.2.1 Teorema del viriale: forma classica per un sistema a N corpi . . . 21

2.2.2.2 Teorema del viriale: derivazione dell’equazione di Jeans . . . 23

2.2.2.3 Teorema del viriale: calcolo semplificato della massa di un cluster . . 24

2.2.3 Limiti del metodo e confronto tra massa viriale e massa di Jeans . . . 26

2.3 Determinazione della massa da osservazioni in banda X dell’ICM . . . 27

3 Determinazione della massa nei cluster di galassie II: lensing gravitazionale 29 3.1 Lesing gravitazionale: introduzione . . . 29

3.2 Lensing gravitazionale: generalità . . . 30

3.3 Lensing gravitazionale: approssimazione di lente sottile . . . 31

3.4 Lensing gravitazionale: lente massiva puntiforme . . . 34

3.5 Regimi di lensing gravitazionale. Strong, weak e microlensing: aspetti generali . . . 35

3.6 Lensing gravitazionale applicato agli ammassi di galassie . . . 37

3.7 Il modello di lente isoterma singolare (SIS) . . . 38

3.8 Il modello di lente NWF . . . 39

3.9 Strong e weak lensing accoppiati . . . 41

4 Confronto tra metodi di misura della massa di un cluster: l’ammasso RCS2327 45 4.1 Introduzione . . . 45

4.2 Stima dinamica dalla dispersione di velocità . . . 45

4.3 Stima della massa dagli spettri X . . . 47

4.4 Stima della massa dal weak lensing . . . 48

4.5 Stima della massa dallo strong lensing . . . 48

4.6 Confronto metodi . . . 49

(6)

vi

5 Correlazione massa e fenomeni non termici: raccolta e analisi dei dati 51

5.1 Scopo della tesi . . . 51

5.2 Il campione di 28 ammassi . . . 51

5.3 Estrazione dai dati di archivio delle mappe radio dei 28 cluster . . . 52

5.3.1 Il database NED . . . 53

5.3.2 L’NVSS . . . 53

5.4 Elaborazione dei flussi radio degli ammassi mediante AIPS . . . 53

5.5 Analisi e fit dei dati . . . 54

5.5.1 Relazione massa – potenza . . . 57

Conclusioni 60 A Meccanismi di emissione I 62 A1 Bremsstrhalung termica . . . 62

B Meccanismi di emissione II 65 B1 Effetto Compton inverso . . . 65

C Meccanismi di emissione III 67 C1 Radiazione di sincrotrone . . . 67

(7)

1

Capitolo 1

Gli ammassi di galassie

1.1 Generalità e classificazione

La distribuzione della massa nell’universo non è omogenea. Essa è composta da materia stellare e non stellare condensata in varie forme. Le strutture più grandi che abbiano raggiunto l’equilibrio gravitazionale in un tempo inferiore all’età dell’universo sono classificate con il nome di ammassi di galassie (galaxy cluster), formati generalmente da un numero di galassie di

alta luminosità superiore a 50.

Possiedono una estensione spaziale di ca. 1025 𝑐𝑐 ovvero compresa tra 1 – 10 𝑀𝑀𝑐* ed una

luminosità dell’ordine di 1013 L con L luminosità solare pari a 33

10 83 .

3 ⋅ 𝑒𝑒𝑒/𝑠. La massa

totale è dell’ordine dei 1048 𝑒 cioè circa 1015 M con M= 33

10 989 .

1 ⋅ 𝑒, massa solare.

Il potenziale gravitazionale degli ammassi di galassie è determinato, oltre che dalle galassie stesse, anche da una grande quantità di gas (ICM), comparabile e spesso maggiore dell’intera massa delle galassie. Tuttavia la componente di massa percentualmente più significativa è quella dovuta alla materia oscura.

Particolarmente difficile è riuscire a definire quando un insieme di galassie formi una struttura aggregata. Si possono seguire diversi criteri. Tra questi particolarmente importanti sono il criterio osservativo e il criterio fisico. Secondo il criterio osservativo un ammasso può

essere circoscritto considerando una regione nella quale, seguendo una legge di distribuzione di luminosità tipo di De Vaucoleurs†, è concentrato un numero minimo di galassie per un raggio fissato; in tal modo si ottiene che il raggio tipico di un ammasso è dell’ordine dei 2 ÷ 5 𝑀𝑀𝑐. Il criterio fisico invece definisce un cluster come un gruppo di galassie in equilibrio viriale, tali cioè che soddisfino l’equazione:

* Un parsec (pc), parallasse al secondo, corrisponde a circa 3.26 anni luce. Un megaparsec (Mpc) corrisponde quindi a

3.26 × 106 anni luce

Per una galassia ellittica normale la distribuzione di brillanza superficiale

) (r

µ , in magnitudini per arcosecondo quadrato,

misurata rispetto alla distanza dal nucleo lungo l’asse maggiore, segue la legge di de Vacouleurs: 𝜇𝐵(𝑒) = 𝜇𝑒+ 8.3268��𝑒𝑒

𝑒� 1/4

(8)

2

2𝑇 + 𝑈 = 0 (1.1)

dove 𝑇 è l’energia cinetica e 𝑈 l’energia potenziale gravitazionale negativa.

Storicamente la prima classificazione ottica degli ammassi risale all’astronomo George Abell che nel 1958, in un catalogo di oltre 2000 ammassi (oggi comprendente 5250 oggetti) propose alcuni parametri caratterizzanti:

parametro di ricchezza: rappresenta il numero di galassie con valore di magnitudine compreso tra quello della terza galassia più luminosa, indicato con 𝑐3, e quella più debole di due magnitudini a sua volta indicata con 𝑐3+2. Si ottengono in questo modo sei gruppi di ricchezza numerati da 0 a 5:

§ Gruppo 0 con 30 ÷ 49 galassie; § Gruppo 1 con 50 ÷ 79 galassie; § Gruppo 2 con 80 ÷ 129 galassie; § Gruppo 3 con 130 ÷ 199 galassie; § Gruppo 4 con 200 ÷ 299 galassie; § Gruppo 5 con più di 300 galassie;

parametro di compattezza: un ammasso deve contenere almeno 50 membri entro il cosiddetto raggio di Abell, 𝑅𝐴𝐴𝑒𝐴𝐴 = 1.72 𝑧 𝑎𝑒𝑐𝑐𝑎𝑎⁄ = 1.5ℎ−1𝑀𝑀𝑐, con 𝑧 redshift e

ℎ = 𝐻0⁄100 e 𝐻0 valore attuale della costante di Hubble. Un raggio tipico, come indicato sopra è stimato in 2-3 𝑀𝑀𝑐;

parametro di distanza: sono considerati ammassi insiemi di galassie con redshift compreso tra 0.02 e 0.2 corrispondenti a distanze di 30 e 900 𝑀𝑀𝑐 rispettivamente. Si osservano attualmente ammassi con 𝑧=0.4 ad una distanza quindi fino a 1700 𝑀𝑀𝑐. Importanti sono anche le classificazioni basate sui tipi morfologici che distinguono gli ammassi in:

ammassi regolari: caratterizzati da una forma simmetrica e dalla presenza di un nucleo con una elevata concentrazione di galassie al centro. Il numero di galassie presenti è dell’ordine del migliaio con densità crescente verso il nucleo dove prevale la presenza di galassie ellittiche e lenticolari S0. Scarsa o nulla è la presenza di sottostrutture (subclustering);

ammassi irregolari: presentano forma irregolare senza una specifica simmetria, hanno bassa densità e sono privi di un nucleo centrale ma si osserva l’esistenza di sottostrutture (subclustering). Il numero di galassie varia da una decina a un migliaio circa e sono dominanti le galassie a spirale e irregolari.

Altra importante classificazione morfologica è quella di Zwicky, proposta negli anni ’60,

secondo la quale il confine del cluster è individuato dall’isopleta (curva che unisce zone formate da un uguale numero di elementi per unità di superficie) che racchiude una densità di galassie maggiore di due volte le galassie di fondo. L’isopleta deve inoltre contenere almeno 50 galassie aventi magnitudine compresa entro due unità rispetto alla galassie più brillante. Si distinguono:

(9)

3

ammassi compatti (early): presentano una singola concentrazione formata da almeno 10 tra le galassie più luminose parzialmente sovrapposte;

ammassi medio compatti (mid compact): sono presenti una o anche più

concentrazioni la cui distanza è dello stesso ordine di grandezza del loro diametro (non si ha sovrapposizione);

ammassi aperti: non appare nessuna concentrazione evidente.

Anche le classificazioni di Bautz & Morgan (BM, 1970) e di Rood & Sastry (RS, 1971)

seguono un criterio morfologico utilizzando come parametro di riferimento le proprietà ottiche di emissione.

In particolare quella BM si basa su una gradazione che tiene conto della tipologia delle galassie che dominano l’ammasso in luminosità, distinguendo pertanto:

- ammassi BM I (Tipo I): domina una unica galassia centrale cD (central Dominant ),

caratterizzata da un nucleo molto luminoso circondato da un esteso alone di gas;

- ammassi BM II (Tipo II) le galassie più luminose sono di tipo intermedio tra le cD e

quelle gE (giant Elliptical);

- ammassi BM III (Tipo III) nessuna tipologia di galassia risulta dominante;

mentre la classificazione RS si basa sulla natura e la distribuzione delle galassie più luminose dell’ammasso, distinguendo a sua volta:

- ammassi cD (supergiant): caratterizzati da una unica galassia cD, tre volte maggiore di

ogni altra galassia dell’ammasso;

- ammassi B (binary): è presente una coppia di galassie supergiganti che condividono il

centro dell’ammasso;

- ammassi L (line): sono presenti almeno tre galassie tra le dieci più luminose disposte

in linea retta;

- ammassi F (flat): le galassie più luminose hanno una disposizione planare;

- ammassi C (core-halo): quattro o più tra le galassie dominanti in luminosità sono

posizionate al centro a formare un cluster core;

- ammassi I (irregular): i membri dell’ammasso sono distribuiti irregolarmente.

E’ stato notato che tra i diversi sistemi di classificazione esiste una correlazione, così come c’è una correlazione tra le classificazioni morfologiche e il grado di evoluzione dell’ammasso. Infatti gli ammassi regolari tendono ad essere di tipo BM I o II, di tipo RS cD o B e sono poveri di galassie a spirali e ricchi di galassie ellittiche. Questi elementi fanno ritenere che gli ammassi regolari siano evoluti e dinamicamente rilassati. Gli ammassi irregolari al contrario sono dinamicamente meno evoluti e contengono un numero maggiore di galassie a spirale.

(10)

4

1.2 La funzione di luminosità delle galassie negli ammassi

Abbiamo visto come i criteri di classificazione introdotti nel precedente paragrafo si basino sulle proprietà di luminosità delle galassie di un cluster. In tali raggruppamenti esse presentano differenze in magnitudine rilevanti la cui distribuzione non è casuale, come dimostrano i grafici luminosità-abbondanza, ma seguono una relazione statistica analitica detta funzione di luminosità. Quest’ultima esprime il numero di galassie più luminose di una certa magnitudine‡ assoluta N(>L) in funzione della magnitudine assoluta stessa. Esistono numerose relazioni funzionali con cui essa può essere rappresentata. Abell (1975) ha proposto la seguente forma:

𝑁𝐴𝐴𝑒𝐴𝐴(≥ 𝐿) = 𝑁∗∙ �𝐿𝐿� −𝛼

(1.2) con α indice della legge di potenza tale che 𝛼 = 5 8 ⁄ per 𝐿 < 𝐿∗ e 𝛼 = 15 8 per 𝐿 > 𝐿. Le due leggi di potenza che si ottengono si intersecano sul valore 𝐿∗. 𝑁 è il numero atteso di galassie per 𝐿 ≥ 𝐿∗. In forma logaritmica si esplicita la dipendenza dalla magnitudine:

𝐿𝐿𝑒𝑁(≤ 𝑐) = �𝐾𝐾1+ 𝑠1𝑐 𝑀𝑒𝑒 𝑐 ≤ 𝑐∗

2+ 𝑠2𝑐 𝑀𝑒𝑒 𝑐 ≥ 𝑐∗ (1.3)

in cui 𝐾1 e 𝐾2 sono costanti. Le pendenze sono 𝑠1 ≈ 0.75 e 𝑠2 ≈ 0.25. Confrontando la funzione di Abell (vedi grafico di Fig. 1) con la distribuzione sperimentale si osserva un buon accordo in corrispondenza della fascia di debole luminosità e meno buono per la fascia più brillante. Questa forma della funzione di luminosità è comunque un adattamento matematico: infatti la funzione reale ha derivata continua, ciò che la (1.3) non possiede.

In precedenza (1957) Zwicky propose la forma:

𝑁(≤ 𝑐) = 𝐾�100.2(𝑚−𝑚1)− 1� (1.4)

con K una costante e 𝑐1 la magnitudine della galassia più brillante. Sfortunatamente la funzione di Zwicky si adegua bene alla fascia delle luminosità più deboli (vedi grafico fig. 1.1) ma non si abbassa abbastanza rapidamente per fittare l’andamento delle galassie più luminose. Nel 1976, infine, Schecter ha proposto la seguente relazione per esprimere la funzione di luminosità differenziale: Φ(𝐿)𝑑𝐿 = Φ∗𝐿 𝐿∗� −𝛼 𝑒−� 𝐿𝐿∗�𝑑 �𝐿 𝐿∗� (1.5)

Se ℓ è la luminosità di un oggetto, si definisce magnitudine apparente 𝓶 la relazione: 𝑐 = −2.5log

10ℓ + 𝑐𝐿𝑠𝑐.

Si definisce invece magnitudine assoluta 𝓜 la magnitudine apparente di una sorgente portata alla distanza di 10 pc

ovvero: ℳ = −2.5 log10ℓ10+ 𝑐𝐿𝑠𝑐 con ℓ10 luminosità alla distanza di 10 pc.

La relazione tra 𝑐 e ℳ è data da: ℳ − 𝓂 = −2.5 log10ℓ10⁄ con ℓℓ𝑑 10 luminosità alla distanza di 10 pc e ℓ𝑑

luminosità alla distanza 𝑑 (in parsec). La relazione che lega infine magnitudine assoluta, apparente e distanza in parsec è data da:

(11)

5

con 𝐿∗ luminosità caratteristica, indipendente dalla ricchezza dell’ammasso. Il corrispondente valore Φ∗ è il numero di galassie con 𝐿 >𝐿. Schecter derivò per la pendenza della fascia debole i seguenti valori dei parametri 𝛼 e Φ∗:

𝛼 ≅54 ; Φ= 0.005 �𝐻0

50�

3

𝑀𝑀𝑐−3

Rispetto alle equazioni (1.2), (1.3) e (1.4), la funzione (1.5) ha il vantaggio di essere analitica, continua e soprattutto di essere una reale distribuzione statistica che non richiede la conoscenza della magnitudine della galassia più brillante. Nella figura seguente è riportato l’andamento delle 3 funzioni rispetto ai dati sperimentali.

Figura 1.1 Confronto tra funzioni di luminosità

1.2.1 La distribuzione spaziale delle velocità delle galassie in un cluster

I modelli che, a partire dall’immagine ottica di un ammasso, ne descrivono la distribuzione in galassie, utilizzano i seguenti 5 parametri:

» due relativi alle coordinate del baricentro del cluster;

» uno relativo alla densità superficiale di galassie al centro dell’ammasso;

» uno relativo al raggio del nocciolo o “core” R𝑐, definito come il raggio entro il quale la

(12)

6

» uno relativo al raggio dell’alone R𝐴 che misura la massima estensione radiale dell’ammasso

ed è la distanza dal centro per cui la densità di galassie è il doppio della densità di galassie di sfondo.

Nell’ipotesi di una simmetria sferica, la densità superficiale proiettata sulla sfera celeste in funzione di 𝑏, distanza proiettata dal centro dell’ammasso, è data da:

ρ(b) = 2 �𝑅𝐴(𝑒𝑎(𝑒)𝑒𝑑𝑒2 − 𝑏2)1/2

𝐴 (1.6)

con 𝑎(𝑒) densità di galassie alla distanza 𝑒 dal centro. Nel caso invece di forma ellittica si devono considerare altri due parametri: il rapporto tra semiasse maggiore e semiasse minore e l’orientazione del semiasse maggiore.

Tra i vari modelli sviluppati, particolarmente semplice è il modello di King (1972) che si

applica nelle regioni centrali degli ammassi ricchi e che utilizza le seguenti due funzioni analitiche: 𝑎(𝑒) = 𝑎0�1 + �𝑅𝑒 𝑐� 2 � −3/2 (1.7) 𝜌(𝑒) = 𝜌0�1 + �𝑅𝑏 𝑐� 2 � −1 (1.8) in cui 𝜌0 = 2𝑎0𝑅𝑐. A distanze molto grandi (ovvero per 𝑒 ≫ 𝑅𝑐), risulta 𝑎(𝑒) ≅ 𝑎0(𝑅𝑐/𝑒)3; ciò comporta che la massa del cluster e il numero delle galassie divergano come 𝑙𝐿𝑒(𝑒/𝑅𝑐). Sebbene questa sia una lenta divergenza, il modello analitico di King deve essere troncato ad un raggio finito R𝐴.

Per quanto riguarda la distribuzione di velocità delle galassie in un cluster, secondo il modello della sfera isoterma di un gas autogravitante in equilibrio idrostatico, queste si muovono indipendentemente all’interno di una buca di potenziale, ciascuna con una propria velocità radiale 𝑣𝑟. Le velocità sono distribuite attorno al loro valore medio con dispersione radiale σ𝑟 data da:

σ𝑟 = 〈(𝑣𝑟− 〈𝑣𝑟〉)2〉1/2 (1.9)

Indicando con 𝑀(𝑣𝑟)𝑑𝑣𝑟 la probabilità che una singola galassia dell’ammasso abbia una velocità radiale compresa tra 𝑣𝑟 e 𝑣𝑟+ 𝑑𝑣𝑟 quando la dispersione ha andamento gaussiano essa caratterizza completamente la funzione di distribuzione di velocità.

(13)

7

1.3 Osservazioni nella banda X: introduzione

I primi telescopi operanti nei raggi X hanno mostrato che gli ammassi di galassie sono sorgenti intense in questa banda spettrale. Le prime sorgenti ad essere rivelate furono in direzione dell’ammasso della Vergine (1966), Perseo e Coma (1971). L’ipotesi che la emissione X fosse una caratteristica comune degli ammassi di galassie fu confermata dalle misure del satellite Uhuru (Giacconi et al. 1972) che permise di ottenere un primo catalogo completo in X del cielo. Le misure compiute da Uhuru stabilirono che gli ammassi di galassie sono le sorgenti X più comuni tra quelle extragalattiche con valori di energia di emissione molto elevata

𝐿𝑋~1043− 1045𝑒𝑒𝑒 ∙ 𝑠−1. Tali sorgenti possiedono estese dimensioni, comprese tra 200 e 3000

𝑘𝑀𝑐, e non sono quindi associate ai singoli componenti dell’ammasso e non presentano variabilità. Migliore sensibilità e risoluzione angolare delle misure sono state ottenute successivamente con strumenti come Einstein, ROSAT, ASCA, Chandra e XMM-Newton.

Figura 1.2 Emissioni X, visibile e radio di un ammasso

1.3.1 Origine della emissione X: meccanismi proposti

Una questione fondamentale è quella riguardante l’origine dell’emissione X osservata: le prime misure, a causa delle incertezze sui dati che non consentivano un’analisi spettrale dettagliata, non permettevano di discriminare tra i vari meccanismi proposti:

(14)

8

a) emissione termica da bremsstrahlung (vedi appendice A) da parte di un caldo e diffuso gas intergalattico;

b) emissione non termica per effetto Compton inverso (vedi appendice B) dovuto allo scattering da parte di elettroni relativistici su fotoni della radiazione di fondo;

c) emissione da popolazione di stelle individuali.

I dati osservativi hanno dato sostegno al modello di bremsstrahlung termico a discapito degli altri due: infatti la conferma dell’andamento esponenziale dell’intensità della radiazione e la presenza di elementi pesanti nel gas (linea emissione 𝐾 del ferro a 6.7 𝑘𝑒𝑘) hanno confermato l’origine termica della emissione X. L’interpretazione dell’emissione X come emissione termica implica che lo spazio compreso tra le galassie in un ammasso deve essere riempito da un gas caldo (𝑇~108 °𝐾) e di bassa densità 𝑎 ≅ 10−3𝑐𝑐−3 con una massa complessiva superiore a quella della materia luminosa contenuta nelle galassie. Questo gas è quello che viene comunemente chiamato Intra Cluster Medium (ICM).

1.3.2 Intra Cluster Medium (ICM): il caldo gas intergalattico

L’ICM è principalmente costituito da un gas distribuito più o meno omogeneamente che occupa lo spazio tra le galassie, riempiendo la buca di potenziale gravitazionale dell’ammasso. Se è in equilibrio idrostatico in tale potenziale, la sua temperatura deve essere:

𝑘𝑇 ≈𝐺𝑀2𝑅𝑡𝑡𝑡𝑐𝑝 𝑣 ≈ 7 � 𝑀𝑡𝑡𝑡 3 ∙ 1014𝑀� � 𝑅𝑣 𝑀𝑀𝑐� −1 𝑘𝑒𝑘 (1.10)

L’origine del gas è incerta. La presenza di metalli richiede che il gas non sia primordiale: si può supporre infatti che sia stato iniettato nello spazio intra-cluster da esplosioni di supernova di una primitiva popolazione di stelle, oppure che sia stato strappato alle galassie durante la formazione dell’ammasso. Esso è costituito da plasma, quindi da atomi ionizzati, composto per lo più da idrogeno ed elio, ma anche da elementi pesanti, la cui abbondanza è definita

metalliticità. Gli atomi sono quasi completamente ionizzati a causa delle altissime temperature

che raggiungono decine di milioni di gradi Kelvin, generate dal collasso gravitazionale dell’ammasso.

Le osservazioni X permettono di circoscrivere le proprietà dell’ICM. L’emissività di bremsstrahlung da parte di un plasma alla temperatura 𝑇 con densità 𝑎 è proporzionale all’espressione:

𝑗(𝜈, 𝑒) ∝ 𝑇−1/2𝑎2(𝑒)𝑒(𝜈, 𝑇)𝑒−ℎ𝜈𝑘𝑘 (1.11)

in cui la quantità 𝑒(𝜈, 𝑇) è un fattore di correzione detto fattore di Gaunt. La misura della forma spettrale dell’emissione X permette di ricavare la temperatura dell’ICM, mentre la normalizzazione dell’emissione misurata fornisce la densità del gas. Da misure spazialmente risolte dell’emissione X è inoltre possibile ricavare il profilo di densità del gas caldo.

(15)

9

Le misure della morfologia X in ammassi regolari evidenziano che l’emissione ha una distribuzione regolare con un picco nel centro, piatta all’interno di una regione centrale (core) e decrescente verso le regioni esterne. Un modello che ha mostrato di approssimare bene l’andamento di gas caldo è il modello β isotermo (Cavaliere e Fusco Fermiano − 1976) nel

quale si assume che la temperatura del gas sia costante e che la densità del gas abbia un profilo radiale con simmetria sferica data da:

𝑎𝑔𝑔𝑔(𝑒) = 𝑎𝑔𝑔𝑔(0) �1 + �𝑒𝑒 𝑐� 2 � −3𝛽 2⁄ (1.12) in cui 𝑎𝑔𝑔𝑔(0) è la densità al centro dell’ammasso, 𝑒𝑐 è il raggio del core e 𝛽 è il parametro che esprime la pendenza nella discesa del profilo radiale del gas per 𝑒 >𝑒𝑐. Assumendo che le galassie dell’ammasso siano in equilibrio con il gas caldo, il parametro 𝛽, che in corrispondenza di uguali raggi di core correla la distribuzione di gas a quella delle galassie tramite la relazione

𝑎𝑔𝑔𝑔(𝑒) ∝ 𝑎𝑔𝑔𝐴𝑔𝑔𝑔𝑔𝑒𝛽 (𝑒), è legato alla dispersione delle velocità delle galassie 𝜎𝑣 ed alla temperatura del gas dalla relazione:

𝛽 =𝜇𝑐𝑘𝑇𝑝𝜎𝑟2 (1.13)

nella quale 𝜇 è il peso molecolare medio e 𝑐𝑝 la massa del protone.

Jones e Forman (1984), applicando l’equazione della densità del gas ad un campione di 46 ammassi di galassie, hanno ricavato che in circa 2/3 dei casi considerati il profilo angolare di brillanza superficiale X del gas caldo, dato dall’integrale lungo la linea di vista dell’emissività, è espresso dalla seguente relazione:

𝑆(𝜃) = 𝑆0�1 + �𝜃𝜃 𝑐� 2 � −3𝛽+1 2⁄ (1.14) nella quale 𝜃𝑐 = 𝑒𝑐⁄ con 𝐷 distanza dell’ammasso e 𝜃𝐷 𝑐 espresso in radianti.

Jones e Forman hanno poi mostrato che nei casi rimanenti, circa 1/3 di quelli considerati, la forma del profilo di brillanza dell’emissione X può essere ben rappresentata da una espressione come l’eq. 1.11 solo all’esterno di una regione centrale, all’interno della quale il profilo della brillanza appare invece deviare da quella distribuzione. Questa discrepanza può essere bene interpretata assumendo la presenza di un cooling flow, cioè un flusso di gas in raffreddamento

spinto verso le regioni centrali dell’ammasso. Per effetto dell’attrazione gravitazionale infatti il mezzo intergalattico tende a collassare verso il centro del cluster con conseguente aumento della densità e della emissione X per bremsstrahlung. La perdita di energia provoca un raffreddamento e quindi un ulteriore addensamento di gas nel nucleo, che prende ora il nome di cooling core, con richiamo, per mantenere l’equilibrio idrostatico, di ulteriore plasma dalle

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10

raffreddamento dell’ICM è uguale alla velocità con cui lo stesso cade nel centro gravitazionale dell’ammasso ed è espressa dalla relazione:

𝑑𝑀 𝑑𝑐 = 2 5 𝐿𝜇𝑐𝑝 𝑘𝑇 (1.15)

dove 𝐿 è la luminosità bolometrica (cioè riferita all’intero spettro elettromagnetico) del cluster core ed 𝜇𝑐𝑝 la massa molecolare media. La variazione di massa dell’ICM causata dal cooling può variare da 10 a 500 𝑀⨀ogni anno. Il tempo di raffreddamento per il gas racchiuso dentro il nucleo dell’ammasso è dato dal rapporto tra l’energia termica interna e l’energia irradiata per bremsstrahlung 𝐽:

𝑐 ≅3 2⁄ (𝑎𝐽𝑒+ 𝑎𝑧) (1.16)

Poiché 𝑐 ∝ (𝑎, 𝑇), più ci si avvicina al centro dell’ammasso o, equivalentemente, verso temperature più basse più il tempo necessario al gas per raffreddarsi diminuisce.

Le osservazioni X permettono infine di evidenziare fenomeni importanti ai quali sono interessati gli ammassi di galassie ovvero i fenomeni di merger. Possiamo tradurre il verbo

inglese “to merge” con fusione o collasso riferendoci allo scontro tra galassie o altro materiale cosmico e anche alla fusione tra ammassi di galassie. Sarazin (2002) ha definito i cluster mergers come gli eventi più energetici dell’universo dopo il Big Bang.

(17)

11

I subcluster collidono a velocità di ca. 2000 𝑘𝑐 𝑠−1, rilasciando una energia di legame gravitazionale ≥ 1064𝑒𝑒𝑒 e producendo onde d’urto (shock) che si propagano attraverso l’ICM dissipando energie dell’ordine di grandezza di 3 ∙ 1063𝑒𝑒𝑒. Tali onde d’urto sono la principale fonte di riscaldamento e compressione del gas intergalattico e sono dunque responsabili di una parte della sua emissione X e dell’aumento della entropia. I merger hanno l’effetto di distruggere i cooling flow, come è dimostrato dal fatto che esiste una anticorrelazione tra presenza di cooling flow ed evidenza di merger in corso.

Simulazioni numeriche (Ricker & Sarazin 2001; Randall, Sarazin & Ricker 2002) mostrano che nel corso di un merger tra due ammassi il riscaldamento causato dalla compressione adiabatica può produrre, nella zona in cui le regioni centrali dei due ammassi vengono in contatto, un innalzamento della luminosità X di un fattore ~10 e della temperatura di un fattore ~3 ed una successiva discesa di queste due quantità in un tempo scala dell’ordine di quello necessario ad attraversare l’ammasso alla velocità del suono (𝑐~1 − 2 𝐺𝐺𝑒), quando le regioni centrali dei due ammassi si allontanano. Un altro effetto degli shock prodotti nei merger è quello di accelerare particelle relativistiche, di provocare turbolenze in grado di scaldare l’ICM e di accelerare ulteriormente le particelle relativistiche su scala diffusa. Questi fenomeni conducono a considerare la possibilità di un’abbondante presenza nell’ICM di componenti che non sono in equilibrio termico con il gas caldo: le cosiddette componenti non termiche che

esamineremo in dettaglio nei prossimi paragrafi.

1.3.3 Relazione massa – luminosità X

La luminosità X degli ammassi di galassie presenta forti correlazioni con alcune proprietà dell’ammasso quali: la ricchezza di galassie, la temperatura del gas ICM e la dispersione di velocità. In particolare la quantità definita emissione integrale EI, data da:

𝐸. 𝐼 = � 𝑎𝑝𝑎𝑒𝑑𝑘 (1.17)

con 𝑎𝑝 densità di protoni e 𝑎𝑒 densità di elettroni, è proporzionale alla luminosità 𝐿𝑋 la quale a sua volta è fortemente correlata alla temperatura del gas 𝑇𝑔𝑔𝑔:

𝐿𝑋~𝑇𝑔𝑔𝑔3

Forte correlazione è stata dimostrata esistere anche tra la luminosità 𝐿𝑋 e la dispersione di velocità lungo la linea di vista 𝜎𝑟 nella fascia tra 1 e 10 𝑘𝑒𝑘:

𝐿𝑋(1 − 10 𝑘𝑒𝑘) ≅ 4.2 × 1044𝑒𝑒𝑒 𝑠−1× �103𝑘𝑐 𝑠𝜎𝑟 −1� (1.18) (per valori di energia più bassi la potenza dell’equazione è vicina a 3).

(18)

12

La luminosità X degli ammassi è correlata anche al tipo di contenuto galattico: nei cluster più luminosi in X è presente una frazione piccola di galassie a spirale. Queste ultime aumentano all’aumentare del raggio dell’ammasso ed il loro numero è inversamente proporzionale alla dispersione di velocità. Ciò è coerente con la teoria secondo la quale le galassie a spirale formate nei cluster vengono impoverite di gas per effetto della interazione con il gas ICM trasformandosi in galassie S0, anche se ciò non costituisce prova che ciò sia effettivamente avvenuto. Diagrammando la frazione 𝑓𝑆𝑝 delle galassie a spirale in funzione della luminosità X, la correlazione può essere espressa dalla seguente relazione:

𝑓𝑆𝑝 ≈ 0.37 − 0.26𝑙𝑎 �1044𝑒𝑒𝑒 𝑠𝐿𝑋 −1� (1.19) Infine, considerando i meccanismi di riscaldamento del gas, la sua temperatura è legata alla velocità di dispersione:

𝑇𝑔 ≈ 7 ∙ 107°𝐾 �103𝑘𝑐 𝑠𝜎𝑟 −1� 2

(1.20) In definitiva, nell’ipotesi di equilibrio idrostatico ed assumendo valida l’equazione di stato dei gas perfetti, la massa totale di un cluster entro un dato raggio r risulta:

𝑀(𝑒) = −𝜇𝑐𝑘𝑇 𝑝𝐺 𝑒 � 𝜕 log 𝜌 𝜕 log 𝑒 + 𝜕 log 𝑇 𝜕 log 𝑒� (1.21)

dove le quantità al secondo membro sono osservabili dall’emissione X (intensità e spettro).

1.4 Emissioni non termiche: gli ammassi come radiosorgenti

Oltre che nel visibile e in X, gli ammassi di galassie emettono anche in banda radio. L’origine di tale emissione è dovuta alla interazione tra elettroni relativistici, principalmente di origine non termica, con campi magnetici su larga scala ed è costituita dalla cosiddetta radiazione di sincrotrone (vedi appendice C). Possiamo distinguere principalmente due componenti radio

negli ammassi: una discreta, legata a singoli oggetti ed una diffusa associata a vaste aree

intergalattiche che esaminiamo nel dettaglio nei paragrafi che seguono.

1.4.1 Emissione radio discreta: galassie attive e radiogalassie

Una galassia attiva è una galassia il cui nucleo è caratterizzato da una luminosità molto

maggiore rispetto alle altre galassie. Circa il 10% di tali oggetti emette in banda radio. Sono tra gli oggetti più brillanti del cosmo in grado di generare ingenti quantità di radiazione associata, secondo certi modelli teorici, alla presenza nel core di un buco nero supermassivo che attira materiale interstellare formando un disco di accrescimento la cui elevata energia causa

(19)

13

espulsione di materia con formazione di getti caratteristici perpendicolari al piano della galassia (vedi Fig. 1.3).

Figura 1.4 Getti radio-galassia FRII

Tale materia si trova ad elevatissima temperatura (maggiore di quella dell’ICM) ed essendo ionizzata produce una intensa radiazione sia in radio che in X dovuta ai forti attriti che si realizzano nella zona del disco di accrescimento. Tali oggetti sono spesso indicati e con il termine di AGN (Active Galactic Nuclei) e rappresentano una stadio a vita breve del processo

evolutivo di galassie aventi particolari strutture che si trasformano in poco tempo in oggetti più freddi. A seconda dell’angolo di visuale e della potenza emessa si distinguono le seguenti tipologie di oggetti AGN:

a) galassie di Seyfert b) quasar

c) radiogalassie

Le galassie di Seyfert, che devono il nome al loro scopritore (1943), sono galassie

caratterizzate da un nucleo centrale molto compatto, molto luminoso e con spettro ricco di righe di emissione da atomi ad alta eccitazione, eccezionalmente larghe ed interpretabili come prodotte da nuvole di gas dense ad alto grado di ionizzazione in moto a grandi velocità. Sulla base degli spettri sono classificate di tipo 1 e di tipo 2: le Seyfert 1 presentano larghezza di riga

cui si associa velocità tipiche dell’ordine di 104𝑘𝑐 𝑠−1 mentre le Seyfert 2 possiedono righe relativamente strette con velocità < 103𝑘𝑐 𝑠−1. Le Seyfert risolte angolarmente mostrano una struttura a spirale, sono forti sorgenti IR e X ma deboli sorgenti radio se confrontate con gli altri tipi di AGN.

(20)

14

I quasar, acronimo di QUASi stellAR radio source, sono oggetti scoperti alla fine degli anni

’50 come sorgenti radio compatte e molto potenti. In banda ottica appaiono fortemente luminosi e puntiformi tanto che si è creduto per un certo periodo che fossero stelle. Dalle misure di redshift si è compreso invece che la natura puntiforme, rilevata utilizzando telescopi terrestri, dipende dalla loro estrema lontananza di ordine cosmologico. Inoltre, se confrontata alla stessa distanza, la luminosità risulta circa 1000 volte maggiore di quella delle normali galassie. Il picco di emissione caratteristico si trova nell’ultravioletto e solo una frazione delle quasar conosciute emette in radio; di queste alcune presentano una attività radio molto ridotta e sono pertanto denominati con l’acronimo di QSO ovvero di Quasi Stellar Object.

Le radiogalassie sono sorgenti caratterizzate da una forte emissione in radio che ne rivela la

peculiare morfologia: si tratta di galassie ellittiche che hanno in comune i seguenti elementi strutturali:

§ nucleo (o core) costituito dalla regione centrale della radiosorgente la cui emissione è dovuta alla attività del buco nero che si trova nel centro della galassia secondo la teoria del modello unificato che generalizza e accomuna la descrizione degli AGN. Il contributo all’emissione radio totale è minoritario rispetto a quello delle altre componenti;

§ lobi formati da 2 estese strutture radio, simmetriche ed opposte rispetto al nucleo la cui brillanza superficiale varia dalla periferia al centro;

§ hot spots sono aree di piccole dimensioni angolari, estremamente brillanti, collocate nelle zone periferiche all’interno dei lobi. Sono dovute ai fenomeni di decelerazione per effetto dell’urto tra il materiale trasportato dai getti e il mezzo intergalattico circostante; § getti (jets) rappresentano i canali di collegamento tra il corpo centrale ed i lobi

attraverso i quali il materiale espulso dal core è immesso nelle zone radio periferiche. Nel 1974 Fanaroff e Riley classificarono le radiogalassie in due categorie distinguendole, a

seconda della potenza radio, delle dimensioni e della morfologia, in:

» radiogalassie FR I: hanno bassa potenza radio emissiva (𝑃1.4𝐺𝐺𝑧 < 1042 𝑒𝑒𝑒 𝑠−1) visibile essenzialmente nei getti, senza hot-spots. I lobi sono irregolari e molto estesi rispetto alle dimensioni totali della sorgente. La brillanza è maggiore verso il centro e diminuisce gradualmente allontanandosi da questo;

» radiogalassie FR II: la potenza radio emissiva di questi oggetti è più elevata delle FRI (𝑃1.4𝐺𝐺𝑧 > 1042 𝑒𝑒𝑒 𝑠−1). I lobi son ben separati, di forma ellissoidale con dimensioni longitudinali maggiori di quelle trasverse. Le emissioni sono concentrate nei lobi, sono presenti hot-spots e spesso è presente un solo getto.

Esiste anche una sottoclasse delle galassie radio attive: le cosiddette radiogalassie testa-coda HT (Head Tail) a loro volta suddivise in WAT (Wide Angle Tail) e NAT (Narrow Angle Tail). In esse i getti radio sono curvati indietro in modo da sembrare una sorta di coda con

brillanza radio che diminuisce in modo irregolare, mentre la galassia ottica appare come la testa. Tale forma peculiare è associata ad una forte interazione di questi oggetti con il mezzo intergalattico e la loro presenza è particolarmente significativa in ammassi non rilassati in

(21)

15

direzione del centro della buca di potenziale o nelle regioni ad alta emissione X. In particolare le HT-WAT hanno morfologia intermedia tra FR I e FR II e sono associate a galassie cD poste nel centro del cluster: i getti sono efficienti con lunghe code ricurve formanti angoli ampi tra loro. Le HT-NAT hanno luminosità simili alle FR I e sono associate a galassie anche in posizione non centrale. La coda è fortemente curvata e, in caso sia presente una doppia coda, il loro sviluppo è parallelo.

1.4.2 Emissione radio diffusa

L’emissione radio diffusa, cioè non legata a sorgenti singole, degli ammassi di galassie è strettamente correlata all’esistenza del mezzo intergalattico (ICM vedi par. 1.3.2). La sua esistenza dimostra che il plasma del mezzo intergalattico possiede anche componenti emissive non termiche. Tali componenti, come già anticipato, si ritiene siano dovute alla interazione tra

campi magnetici a larga scala ed elettroni relativistici che permeano il volume del cluster.

L’emissione radio è essenzialmente radiazione di sincrotrone (vedi appendice C).

1.4.2.1 Emissione radio: interazione tra campi magnetici ed elettroni relativistici

Il campo magnetico presente nello spazio intergalattico viene analizzato mediante la

cosiddetta misura della rotazione di Faraday (o effetto Faraday) che consiste nell’esaminare la radiazione di sincrotrone delle sorgenti radio poste sullo sfondo dei cluster o negli ammassi stessi. Tale radiazione risulta essere polarizzata linearmente per cui un’onda di lunghezza λ che viaggia proveniente da una radiosorgente attraverso un mezzo magnetizzato subisce uno sfasamento del fronte d’onda con rotazione del piano di polarizzazione dato da:

Δχ = RMλ2 (1.22)

in cui RM è la misura della rotazione di Faraday definita come:

𝑅𝑀 =2𝜋𝑐𝑒3

𝑒

2𝑐4� 𝑎𝑒𝐵�⃗𝑑𝑙⃗ 𝐿

0 (1.23)

Il valore medio e la distribuzione di RM e quindi del campo magnetico si ottengono misurando l’angolo di polarizzazione in funzione della lunghezza d’onda. Tenendo conto di altri effetti (struttura filamentosa campo magnetico, effetto Compton inverso, teorema di equipartizione) l’ordine di grandezza per 𝐵�⃗ è di qualche 𝜇𝐺. L’intensità dei campi magnetici nell’ICM non è uniforme ma decresce con la distanza dal centro del cluster a causa del fatto che il moto del plasma verso il centro dell’ammasso trascina le linee del campo comprimendole. Per la conservazione del flusso si ha 𝐵 ∝ 𝜌2/3.

Varie sono le ipotesi circa l’origine del campi magnetici nell’ICM, ma principalmente si sviluppano lungo due linee principali: la prima considera i campi generati dai forti getti relativistici, costituiti da particelle cariche in movimento, provenienti dagli AGN (vedi par. 1.4.1), mentre la seconda identifica nelle fasi di formazione dei cluster la genesi dei campi che,

(22)

16

nel corso della evoluzione dell’ammasso, subiscono un processo di amplificazione legati a fenomeni di merger e di collasso che coinvolgono l’ICM.

Per quanto riguarda gli elettroni relativistici, diffusi in tutto l’ICM, possiamo distinguere

due diverse tipologie: elettroni primari ed elettroni secondari:

- gli elettroni primari sono stati iniettati nel volume dell’ammasso dall’attività degli AGN

(quasar, radiogalassie, ecc.) o durante la formazione stellare in galassie normali (supernove, venti galattici, ecc.) nelle fasi della storia dinamica del cluster. Tale popolazione subisce forti perdite di energia principalmente a causa delle emissioni di sincrotrone e di Compton inverso cosicché è necessaria una ri-accelerazione per mantenere la loro energia ad un livello necessario per continuare la generazione di una emissione radio. Dallo studio delle proprietà degli aloni radio (vedi paragrafo che segue) sembra che nella ri-energizzazione degli elettroni giochino un ruolo fondamentale fenomeni di merger recenti. L’energia prodotta viene trasferita dalle componenti termiche dell’ICM a quelle non termica attraverso due meccanismi: 1) accelerazione degli elettroni da parte di onde d’urto; 2) interazione risonante o non risonante con turbolenze magnetoidrodinamiche (MHD);

- Gli elettroni secondari sono invece prodotti da collisioni nucleari anelastiche tra protoni

relativistici e gli ioni termici presenti nell’ambiente del mezzo intergalattico. I protoni che diffondono su larga scala a causa della trascurabile perdita di energia (l’emissione di sincrotrone è inversamente proporzionale alla massa della particella, vedi appendice C) generano in situ elettroni che risultano così distribuiti per tutto il volume del cluster. Non ci si aspetta correlazione tra questi elettroni e i fenomeni di merger che coinvolgono gli elettroni primari a causa del fatto che i protoni da cui sono generati si sono accumulati durante la storia evolutiva del cluster.

La differenza tra questi due tipi di elettroni può essere evidenziata dalla diverse componenti spettrali degli aloni radio (vedi oltre).

1.4.2.2 Sorgenti della emissione radio diffusa: aloni, relitti e mini-aloni

Le sorgenti della emissione radio diffusa sono generalmente distinte in tre gruppi: aloni, relitti e mini aloni. Tutti e tre hanno caratteristiche simili ma si distinguono principalmente

per posizione all’interno dei cluster, conformazione ed altri fattori. Hanno spettri di emissione ripidi con valore dell’indice spettrale 𝛼 ≥ 1.

§ Gli aloni sono radiosorgenti diffuse caratterizzate da bassa brillanza superficiale (~1𝜇𝐽𝐺 𝑎𝑒𝑐𝑠𝑒𝑐−2 a 1.4 𝐺𝐻𝑧) che permeano il volume centrale degli ammassi. Le loro dimensioni sono superiori a 1 𝑀𝑀𝑐, presentano una morfologia regolare, non appaiono polarizzati e subiscono tutti processi di merger. Sono oggetti piuttosto rari da osservare: la probabilità di rilevarne la presenza cresce con la luminosità X dell’ammasso ed è pari al 25 ÷ 30 % nei cluster con luminosità 𝐿𝑋> 5 ∙ 1044 𝑒𝑒𝑒 𝑠−1. I parametri fisici degli aloni possono essere stimati assumendo condizioni di equipartizione di energia tra protoni ed elettroni relativistici, un coefficiente di

(23)

17

riempimento pari a 1, un cut-off a bassa frequenza di 10 𝑀𝐻𝑧 ed un cut-off ad alta frequenza di 10 𝐺𝐻𝑧. La densità di energia è dell’ordine di 10−14 − 10−13 𝑒𝑒𝑒 𝑐𝑐−3 mentre l’intensità del campo magnetico varia tra 0.1 − 1 𝜇𝐺. I modelli che spiegano l’origine degli elettroni responsabili dell’emissione di sincrotrone negli aloni coinvolgono elettroni primari ed elettroni secondari (vedi par. 1.4.2.1) con processi di riaccelerazioni locali. I valori degli indici spettrali 𝛼, ammettendo un andamento della intensità in funzione della frequenza 𝐼𝜈 ∝ 𝜈−𝛼, risultano maggiori di 1 e sono tipici di sorgenti non recenti. La correlazione tra l’indice spettrale e la temperatura degli ammassi, nel range 0.3 − 1.4 𝐺𝐻𝑧, segue l’andamento:

𝑇𝑐𝐴𝑐𝑔𝑡𝑒𝑟 < 8 𝑘𝑒𝑘  𝛼 = 1.7 ± 0.2

𝑇𝑐𝐴𝑐𝑔𝑡𝑒𝑟 = 8 − 10 𝑘𝑒𝑘  𝛼 = 1.4 ± 0.4

𝑇𝑐𝐴𝑐𝑔𝑡𝑒𝑟 > 10 𝑘𝑒𝑘  𝛼 = 1.2 ± 0.2

che evidenzia come ammassi più caldi ospitino aloni con spettri più piatti cioè con maggiori guadagni di energia. Altra importante correlazione si ha tra potenza radio di un alone e la luminosità X dell’ammasso. Poiché quest’ultima dipende dalla massa, si può dimostrare una dipendenza tra l’emissione radio e massa secondo la relazione:

𝑃1.4𝐺𝐺𝑧 ∝ 𝑀𝛼 (1.24)

dove 𝛼 ≅ 2.3, il che indicherebbe che la massa dei cluster sia un parametro cruciale nella formazione di aloni suggerendo che le distribuzioni dei campi magnetici e degli elettroni relativistici mutano in relazione ad essa.

§ I relitti sono estese radiosorgenti diffuse che, come gli aloni, presentano una bassa brillanza superficiale, uno spettro ripido, una forma allungata o comunque irregolare e si estendono su scale del 𝑀𝑀𝑐. Le principali differenze tra aloni e relitti consistono nel fatto che mentre i primi sono posizionati nella parte centrale, i secondi si trovano sempre nelle regioni periferiche degli ammassi e che contrariamente agli aloni, i relitti hanno emissione radio polarizzata. E’ possibile classificare i relitti in base alla loro morfologia. Si distinguono pertanto: relitti allungati e relitti arrotondati.

I relitti allungati sono oggetti estesi siti nelle parti periferiche dei cluster con

forma allungata perpendicolare alla direzione del raggio dell’ammasso. Non mostrano sottostrutture evidenti e, in alcuni casi, le dimensioni trasversali sono molto ridotte. La morfologia conferma l’ipotesi di una origine derivante da onde d’urto su larga scala prodotte durante fenomeni di merger, le quali propagandosi con velocità molto elevate possono accelerare elettroni ad alte energie e comprimere i campi magnetici dando origine a gradi regioni che emettono in sincrotrone. Le particelle accelerate hanno distribuzione di energia e campo magnetico parallelo al fronte d’onda. L’indice spettrale ha valori compresi tra 1 e 1.6.

I relitti arrotondati hanno struttura più regolare ma presentano una

(24)

18

spiegazione della loro presenza è che si tratti di vecchi lobi radio originati dall’attività precedente di una AGN non più visibile a causa di forti perdite di energia e successivamente riaccesi per effetto di onde d’urto generate da fenomeni di merging. Analogamente agli aloni sono state evidenziate anche per i relitti correlazioni tra la potenza radio a 1.4 𝐺𝐻𝑧 e la luminosità X. Per i relitti allungati e quelli arrotondati si trova che 𝑃1𝐺𝐺𝑧 ∝ 𝐿1.2𝑋 . A differenza degli aloni i relitti si trovano anche in cluster caratterizzati da una bassa brillanza X.

§ I mini-aloni sono sorgenti diffuse di piccole dimensioni (~500 𝑘𝑀𝑐), situate al centro del nucleo di raffreddamento degli ammassi, che circondano di solito una potente radiogalassia. Presentano uno spettro di emissione ripido, paragonabile a quello di aloni e relitti, e bassa brillanza superficiale. Esiste una importante anticorrelazione tra la presenza di un nucleo di raffreddamento (cooling flow) ed eventi di merger: i mini-aloni sono le uniche sorgenti diffuse non associate a merger tra ammassi. La correlazione invece tra potenza radio e potenza del flusso di raffreddamento dimostrerebbe come gli elettroni che danno emissione radio, forniti dalla radiogalassia centrale o da origine secondaria, vengano riaccelerati da turblenze MHD connesse con i fenomeni di cooling flow.

Figura 1.5 Collezione di clusters con numerosi tipi di emissioni radio. Da destra a sinistra e dall’alto al basso: alone (A2219), alone+relitto (A2744), relitto (A115), alone+relitto (A754), relitto (A1664), relitto (A584b), alone (A520), mini-alone (A2029), alone+doppio relitto (RXCJ1314.4-2515)

(25)

19

Capitolo 2

Determinazione della massa nei cluster di

galassie I: metodi dinamici

2.1 Introduzione: metodi per determinare la massa di un cluster

La conoscenza delle proprietà degli ammassi di galassie gioca un ruolo importante nello studio della formazione delle strutture a larga scala. In particolare l’osservazione della distribuzione dell’abbondanza di ammassi in funzione della massa permette di introdurre delle forti limitazioni nei modelli cosmologici come la determinazione della massa barionica e la conseguente stima del valore di Ω0§. Tuttavia la stima delle masse dei cluster non è un compito facile nonostante esistano svariati metodi. Tra questi i più importanti e confrontabili sono:

1) analisi dinamica basata sulla equazione di Jeans o sue derivazioni, come il teorema

del viriale. Mediante spettroscopia ottica si misurano i redshift, la dispersione di velocità delle galassie del cluster 𝜎𝑟2 = 〈𝑣2〉 e da questa, assumendo l’ipotesi che i cluster siano sistemi in equilibrio dinamico, la cosiddetta massa viriale 𝑀 ≅ 𝑅𝜎𝑟2⁄𝐺;

2) analisi dinamica di gas caldi che emettono in X, dalla quale, mediante spettroscopia

X, si ricavano informazioni sulla temperatura e la distribuzione del gas intergalattico (l’emissione X è proporzionale alla densità al quadrato del gas 𝜌𝑔𝑔𝑔2 ) e quindi sulla massa totale sempre nell’ipotesi di equilibrio idrostatico (vedi eq. 1.21);

3) studio delle lenti gravitazionali ed in particolare delle distorsioni delle immagini

ottiche delle galassie di fondo;

Le stime di massa fatte utilizzando il moto degli ammassi di galassie richiede la formulazione di ipotesi circa la loro struttura orbitale e la geometria. Inoltre è fondamentale assumere la condizione di equilibrio viriale. Anche per la valutazione della massa totale attraverso misure in banda X è richiesta la condizione di equilibrio idrostatico. Purtroppo i modelli e le ipotesi necessarie non sempre sono validi e ciò causa complicazioni nello studio sistematico delle proprietà dei cluster.

§

Ω0 è detto parametro di densità attuale. E’ espresso dal rapporto tra la densità della materia e la densità critica 𝜌𝑐 =

3𝐻0⁄8𝜋𝐺. Il suo valore attuale è pari a 0.27: tenendo conto di vari fattori e della massa di materia oscura si può

(26)

20

Nel presente capitolo esamineremo i primi due metodi mentre lo studio del lensing gravitazionale, dal quale sono ottenute le masse dei cluster utilizzate per la ricerca delle correlazioni nei capitoli di analisi ed elaborazione dei dati di questa tesi di laurea, sarà affrontato in dettaglio nel capitolo III.

2.2 Masse dei cluster basate sulla dinamica delle galassie

Come già sottolineato nel paragrafo introduttivo, il metodo standard per stimare la massa dei cluster, prendendo in considerazione le galassie membro, richiede che tali galassie siano in equilibrio all’interno del potenziale dell’ammasso. La massa del cluster è quindi ricavata dalla conoscenza delle posizioni e delle velocità della stessa popolazione di galassie utilizzate come traccianti del potenziale del cluster.

2.2.1 Massa derivata dalla equazione di Jeans

L’equazione di Jeans, ottenibile dalla rielaborazione dell’equazione di Boltzamann non collisionale**, mette in relazione la densità ed il potenziale gravitazionale (e quindi la massa) con la dispersione di velocità.

In prima approssimazione si può stimare la massa di un cluster entro un certo raggio 𝑒, che

indichiamo con 𝑀𝐽𝑒𝑔𝐽𝑔(< 𝑒), utilizzando l’equazione di Jeans accoppiata all’equazione che lega due quantità osservabili che sono il profilo radiale della densità proiettata di galassie Σ(𝑅) e

dispersione di velocità proiettata σ𝑃(𝑅), entrambi funzioni del raggio proiettato 𝑅:

𝑑[𝜌(𝑒)𝜎𝑟2(𝑒)] 𝑑𝑒 + 2𝜌(𝑒)𝛽𝜎𝑟2(𝑒) 𝑒 = − 𝐺𝜌(𝑒)𝑀𝐽𝑒𝑔𝐽𝑔(< 𝑒) 𝑒2 (2.1) σ𝑃2(𝑅)Σ(𝑅) = 2 � 𝜌(𝑒)𝜎𝑟2(𝑒) �1 − 𝛽𝑅 2 𝑒2� ∞ 𝑅 𝑒 √𝑒2− 𝑅2𝑑𝑒 (2.2) con 𝑒 la distanza dal centro dell’ammasso, 𝜌(𝑒) la densità spaziale delle galassie correlata a Σ(𝑅)

mediante l’integrale di Abel, 𝜎𝑟(𝑒) è la componente radiale della velocità di dispersione 𝜎(𝑒) mentre 𝛽 = 1 − 𝜎𝜃2⁄𝜎𝑟2 è il parametro che misura l’anisotropia della velocità orbitali degli oggetti. Esplicitando il termine di massa si ottiene:

**Detta 𝑓(𝑒⃗, 𝑣⃗, 𝑐) la funzione di distribuzione o densità nello spazio delle fasi è soddisfatta la seguente all’equazione di

evoluzione temporale detta equazione di Boltzmann non collisionale: ∇𝑓 ∙ 𝑣⃗ −𝜕𝑓

𝜕𝑣⃗ ∙ ∇Φ + 𝜕𝑓 𝜕𝑐 = 0 Φ(𝑒⃗, 𝑐) è il potenziale gravitazionale.

(27)

21 𝑀𝐽𝑒𝑔𝐽𝑔(𝑒) = −𝜎𝑟 2𝑒 𝐺 � 𝑑 log 𝜌(𝑒) 𝑑 log 𝑒 + 𝑑 log 𝜎𝑟2 𝑑 log 𝑒 + 2𝛽� (2.3)

Sfortunatamente sono presenti tre incognite (𝑀𝐽𝑒𝑔𝐽𝑔(< 𝑒), 𝜎(𝑒), 𝛽(𝑒)) e soltanto due equazioni. Per risolvere le equazioni (2.1) e (2.2) è necessario conoscere a priori o 𝛽(𝑒) o 𝑀(𝑒) e valutare le altre due grandezze in modo che siano consistenti con il profilo dispersione della velocità, osservato dai dati spettroscopici. Può accadere però che diverse combinazioni di 𝛽(𝑒) e 𝑀(𝑒)

possano dar luogo allo stesso profilo radiale di dispersione di velocità lungo la linea di vista

σ𝑃(𝑅). Assumendo un certo profilo di massa 𝑀(𝑒), i diversi profili radiali relativi a diversi 𝛽(𝑒) (es. 𝛽 = 0, 𝛽 = 𝛼 (𝑒 2+ 𝛼2) e 𝛽 = 𝛼 𝑒 con 𝛼 costante positiva o negativa) convergono, a grandi distanze radiali proiettate, verso un unico valore che è la dispersione di velocità globale lungo la linea di vista come media spaziale fatta su tutto il sistema. Questo valore globale è quello che viene usato nella determinazione della massa viriale del sistema.

2.2.2 Massa derivata dal teorema del viriale

Il teorema del viriale è utilizzato per descrivere sistemi in equilibrio legati gravitazionalmente. Esso stabilisce che l’energia gravitazionale 𝑈 è pari a meno due volte l’energia cinetica 𝑇, relazione che può essere dedotta in vari modi. Ne esaminiamo due.

2.2.2.1 Teorema del viriale: forma classica per un sistema di N corpi

Si consideri un sistema di masse puntiformi. Siano 𝑐𝑔, 𝑒⃗𝑔 e 𝑓⃗𝑔 rispettivamente la massa, il vettore posizione e la forza relative all’elemento 𝑎-esimo del sistema. Le equazioni Newtoniane

del moto risultano:

𝑀̇⃗𝑔 =𝑑(𝑐𝑑𝑐𝑔𝑣𝑔)= 𝑓⃗𝑔 (2.4) Si introduce ora la seguente grandezza:

� 𝑀⃗𝑔 ∙ 𝑒⃗𝑔 𝑔 = � 𝑐𝑔𝑑𝑒⃗𝑑𝑐 ∙ 𝑒⃗𝑔 𝑔 𝑔 =12 � 𝑐𝑔𝑑(𝑒⃗𝑑𝑐𝑔 ∙ 𝑒⃗𝑔) 𝑔 =12𝑑𝑐𝑑 �� 𝑐𝑔𝑒𝑔2 𝑔 � = 12𝑑𝐼𝑑𝑐 (2.5) Il termine ∑ 𝑐𝑔 𝑔𝑒𝑔2 è il momento di inerzia 𝐼 rispetto all’origine del sistema di coordinate. Calcoliamo ora la derivata dell’espressione (2.5)

1 2 𝑑2𝐼 𝑑𝑐2 = � 𝑒⃗𝑔∙ 𝑀⃗𝑔 𝑔 + � 𝑀⃗𝑔∙ 𝑒⃗𝑔 𝑔 (2.6)

(28)

22 in cui: � 𝑒⃗𝑔∙ 𝑀⃗𝑔 𝑔 = � 𝑐𝑔𝑒̇⃗𝑔∙ 𝑒̇⃗𝑔 𝑔 = � 𝑐𝑔𝑣𝑔2 𝑔 = 2𝑇 (2.7)

con 𝑇 energia cinetica totale del sistema rispetto all’origine del sistema di coordinate. Combinando la (2.4) e la (2.7) nella (2.6) si ottiene:

𝑑2𝐼

𝑑𝑐2 = 2𝑇 + � 𝑓⃗𝑔 ∙ 𝑒⃗𝑔 𝑔

(2.8)

Il termine ∑𝑔𝑓�⃗𝑎∙ 𝑒⃗𝑎 è chiamato viriale di Clausius e, mettendolo in relazione diretta con le forze gravitazionali newtoniane per coppie di corpi massivi, può essere riscritto nel modo seguente:

� 𝑓⃗𝑔∙ 𝑒⃗𝑔 𝑔 = � 𝑒⃗𝑔 𝑔 ∙ � 𝑓⃗𝑔𝑖 𝑔≠𝑖 = � 𝑒⃗𝑔 𝑔 ∙ � 𝐺𝑐𝑔𝑐𝑖𝑒⃗𝑖𝑒− 𝑒⃗𝑔 𝑔𝑖3 𝑔≠𝑖 = �𝐺𝑐𝑒𝑔𝑐𝑖 𝑔𝑖3 �𝑒⃗𝑔 ∙ �𝑒⃗𝑖− 𝑒⃗𝑔� + 𝑒⃗𝑖∙ �𝑒⃗𝑔− 𝑒⃗𝑖�� 𝑔>𝑖 = �𝐺𝑐𝑒𝑔𝑐𝑖 𝑔𝑖3 ��𝑒⃗𝑖− 𝑒⃗𝑔� ∙ �𝑒⃗𝑔 − 𝑒⃗𝑖�� 𝑔>𝑖 = − �𝐺𝑐𝑔𝑐𝑖 𝑒𝑔𝑖3 𝑔>𝑖 = 𝑈 (2.9)

con 𝑈 energia potenziale gravitazionale totale del sistema di masse. Possiamo quindi scrivere l’identità di Lagrange:

1 2

𝑑2𝐼

𝑑𝑐2 = 2𝑇 + 𝑈 (2.10)

Mediando nel tempo ed ipotizzando la limitatezza dei moti, la media del primo membro è nulla:

�12𝑑𝑑𝑐2𝐼2� = 0 (2.11)

e da qui si ottiene la espressione finale del teorema:

(29)

23

con 〈2𝑇〉 e 〈𝑈〉 medie temporali dell’energia cinetica e potenziale rispettivamente. Se il sistema è stazionario, ovvero ha già raggiunto l’equilibrio viriale, è possibile togliere le medie temporali e scrivere semplicemente:

2𝑇 + 𝑈 = 0 (2.14)

Nell’applicare questo teorema a galassie e sistemi di galassie, si prendono i valori istantanei di 𝑇

e 𝑈, il che equivale ad assumere che questi sistemi siano stazionari.

2.2.2.2 Teorema del viriale: derivazione dall’equazione di Jeans

Il teorema del viriale scalare può essere ottenuto dalla equazione di Jeans (2.1) che possiamo riscrivere nella seguente forma:

−𝜌𝐺𝑀(𝑒)𝑒2 =2𝜌𝑒 �𝜎𝑟2 − 𝜎𝜃2� +𝑑𝑒𝑑 (𝜌𝜎𝑟2) (2.15) moltiplicando per 4𝜋𝑒3 ed integrando da 𝑒 = 0 fino al raggio 𝑒

𝑘 del sistema, valutando i singoli termini, si ottiene: − � 𝜌𝑟𝑇 𝐺𝑀(𝑒)𝑒2 4𝜋𝑒3𝑑𝑒 0 = − � 𝑀 4 3𝜋𝑒 3 𝐺𝑀(𝑒) 𝑒2 4𝜋𝑒3𝑑𝑒 𝑟𝑇 0 = −3 � 𝐺𝑀(𝑒) 𝑒2 𝑀𝑑𝑒 𝑟𝑇 0 = i) = −3 �−1𝑒 𝐺𝑀(𝑒)𝑀� 0 𝑟𝑇 = 3 �𝐺𝑀(𝑒)𝑒 � 𝑀 �𝑟𝑇2𝜌𝑒 ( 0 𝜎𝑟 2 − 𝜎 𝜃2)4𝜋𝑒3𝑑𝑒 = � 𝜌( 𝑟𝑇 0 𝜎𝑟 2− 𝜎 𝜃2)4𝜋𝑒2𝑑𝑒 = 2 �4 3⁄ 𝜋𝑒𝑀 34 3⁄ 𝜋𝑒3(𝜎𝑟2− 𝜎𝜃2)� 0 𝑟𝑇 = ii) = 2[⟨𝜎𝑟2⟩ − ⟨𝜎𝑘2⟩]𝑀

per valutare il terzo termine si ricorre all’integrazione per parti ed al teorema della divergenza††:

††Sia 𝑘 un volume chiuso e 𝑆 = 𝜕𝑘; per il teorema della divergenza

� ∇ ∙ 𝐹⃗𝑑𝑘

𝑉 = � 𝐹⃗ ∙ 𝑎�𝑑𝑑𝑆

dove 𝑎� è un versore ortogonale all’elemento di superficie 𝑑𝑑 diretto verso l’esterno, per cui indicato con 𝑒 è uno scalare e 𝐹⃗ un vettore:

(30)

24 �𝑟𝑇𝑑𝑒 (𝑑 0 𝜌𝜎𝑟 2)4𝜋𝑒3𝑑𝑒 = � 𝑑 𝑑𝑒(𝜌𝜎𝑟2)𝑒 ∙ 4𝜋𝑒2𝑑𝑒 = 𝑟𝑇 0 − 4𝜋𝑒𝑘 3𝜌(𝑒 𝑘)𝜎𝑟2(𝑒𝑘) + � 3 𝑟𝑇 0 𝜌𝜎𝑟 24𝜋𝑒2𝑑𝑒 iii) = −4𝜋𝑒𝑘3𝜌(𝑒 𝑘)𝜎𝑟2(𝑒𝑘) + 3⟨𝜎𝑟2⟩𝑀 Mettendo assieme i tre termini si ottiene:

�𝐺𝑀(𝑒)𝑒 � 𝑀 = −4𝜋𝑒𝑘3𝜌(𝑒𝑘)𝜎𝑟2(𝑒𝑘) + 𝑀𝜎𝑉2 (2.16) con 𝜎𝑉2 dispersione di velocità risultante dalla media spaziale su tutto il sistema, media estesa anche alle altre grandezze della (2.16). In maniera compatta la relazione può essere scritta come:

2𝑇 + 𝑈 + 𝐶 = 0 (2.17)

con 𝐶 = −4𝜋𝑒𝑇3𝜌(𝑒

𝑇)𝜎𝑒2(𝑒𝑇) piccolo termine correttivo (detto termine di superficie) che risulta nullo se viene osservata solo una piccola parte del sistema ovvero nel caso in cui 𝜌(𝑒𝑘) ≠ 0 e

𝜎𝑟2(𝑒𝑘) ≠ 0. Tale termine implica in genere una piccola riduzione della massa del sistema rispetto al caso 𝐶 = 0.

2.2.2.3 Teorema del viriale: calcolo semplificato della massa di un cluster

Le galassie in un cluster sono distribuite nello spazio in modo tale da apparire in equilibrio stabile. Le masse delle galassie costituenti possono essere misurate a partire dalla loro luminosità mentre le dispersioni di velocità sono ricavate dalla misura spettroscopica dei redshift. Tali grandezze forniscono insieme una stima dell’energia cinetica totale ∑ 𝑇𝑔 dell’ammasso, mentre le stesse masse e le posizioni forniscono l’energia potenziale ∑ 𝑈𝑔 di tutte le galassie rispettivamente. In generale i valori calcolati non soddisfano il teorema del viriale, ma presentano un eccesso di energia cinetica per cui le galassie non dovrebbero essere gravitazionalmente legate. Purtuttavia esse appaiono come se lo fossero il che ha portato ad ipotizzare che esista la presenza di ulteriore massa non visibile che è stata chiamata materia oscura (dark matter) che superi di 10 ÷ 50 volte la quantità di materia visibile.

(31)

25

Partendo dal teorema del viriale per un gruppo di punti massivi che interagiscono gravitazionalmente possiamo scrivere l’equazione (2.17) come somma sulle particelle singole e sulle coppie nel modo seguente:

2 �12 𝑐𝑔𝑣𝑔2 𝑔 − �𝐺𝑐𝑒𝑔𝑐𝑖 𝑔𝑖 𝑔≠𝑖 = 0 (2.18)

in cui 𝑣𝑔 è la velocità della particella 𝑎-esima e 𝑒𝑔𝑖 è la distanza tra la 𝑎-esima e la 𝑗-esima particella. Si può semplificare la trattazione considerando il caso di 𝑁 galassie identiche in un ammasso, in cui ogni elemento ha massa 𝑐. Moltiplicando il primo termine della (2.18) per

𝑁 𝑁⁄ ed il secondo per 𝑁2𝑁2 si ottiene:

𝑁𝑐 𝑁 � 𝑣𝑔2 𝑔 − 𝐺(𝑁𝑐)2𝑁22� �𝑒1 𝑔𝑖 𝑖≠𝑔 𝑔 (2.19) dove il fattore 1 2⁄ evita il doppio conteggio delle coppie. La prima sommatoria contiene 𝑁

termini, mentre la doppia sommatoria ha 𝑁(𝑁 − 1) elementi escludendo i termini con 𝑎 = 𝑗. Per 𝑁 molto grande è possibile approssimare 𝑁(𝑁 − 1) ≈ 𝑁2. Considerando la definizione di dispersione di velocità 𝜎𝑟2 = ⟨𝑣2⟩ − ⟨𝑣⟩2 e che, per il tipo di sistema considerato, ∑ 𝑣𝑔 = 0 possiamo scrivere:

� 𝑣𝑔2 𝑔

= ⟨𝑣2⟩ = 𝜎

𝑟2 (2.20)

dove il simbolo 〈 〉 rappresenta il valore medio. Indicando la massa totale con 𝑀 = 𝑁𝑐

riscriviamo la (2.19) come segue:

𝑀𝜎𝑟2− 𝐺𝑀 2 2 �𝑒𝑔𝑖−1� = 0 (2.21) Ricavando la massa: 𝑀 = 2𝜎𝑟2 𝐺�𝑒𝑔𝑖−1� (2.22)

si giunge alla forma canonica della massa viriale:

𝑀 ≈𝑅𝜎𝐺𝑟2 (2.23)

(32)

26

L’applicazione del teorema viriale per stimare la massa di un sistema si basa su tre assunzioni concettuali importanti che riassumiamo di seguito:

» Il sistema viene considerato virializzato (in equilibrio viriale): tale assunzione è valida nelle singole galassie e nelle regioni centrali degli ammassi mentre è meno buona nelle regioni periferiche in quanto queste ultime risultano spesso essere ancora in fase di collasso gravitazionale. Gli effetti della non virializzazione possono essere stimati se si conosce, attraverso simulazioni ad 𝑁,a corpi la tipica evoluzione del sistema. Tali effetti possono poi essere utilizzati per correggere la massa viriale;

» i moti dei corpi osservati sono buoni indicatori della energia cinetica 𝑇: in generale tale assunzione è quasi sempre ragionevole;

» le posizioni dei corpi osservati sono buoni indicatori della distribuzione di tutte le masse del cluster (galassie+gas+materia oscura): assunzione valida per gli ammassi ma meno valida per le singole galassie nelle cui regione esterne sembra dominare un alone di materia oscura.

2.2.3 Limiti del metodo e confronto tra massa viriale e massa di Jeans

Abbiamo accennato nel paragrafo precedente che la stima delle masse ottenute dall’analisi dinamica dei gas o delle galassie membro di un ammasso basate sulla equazione di Jeans o sul teorema del viriale richiede l’assunzione che i cluster siano sistemi in equilibrio dinamico. Questa ipotesi però non è strettamente valida: infatti sebbene gli ammassi siano sistemi di galassie legate gravitazionalmente, il loro collasso risulta relativamente recente o addirittura in alcuni casi può essere appena all’inizio, come dimostra la presenza di sottostrutture. Tuttavia diversi studi hanno evidenziato come la stima viriale della massa risulti migliore nel caso in cui vi sia una piccola presenza di sottostrutture.

Dal punto di vista matematico abbiamo visto che la soluzione della equazione di Jeans dipende dal valore del parametro 𝛽, legato alla anisotropia della dispersione di velocità. Il teorema del viriale invece presenta il grande vantaggio che la dispersione globale della velocità proiettata 𝜎𝑃 e quindi la massa totale sono indipendenti da ogni possibile anisotropia della velocità delle galassie, essendo sempre verificato per sistemi sferici che 𝜎2 = 3𝜎

𝑃2. Inoltre come già evidenziato la presenza di 3 incognite e solo 2 equazioni, che compongono l’equazione di Jeans, rende necessario fare assunzioni ad hoc su 𝛽 o su 𝑀(𝑒), ipotesi non richieste dal teorema viriale. Dal punto di vista osservazionale il teorema viriale ha inoltre il grande vantaggio rispetto all’equazione di Jeans di utilizzare valori più consistenti di 𝜎𝑃, piuttosto che valori differenziali. Poiché il calcolo del profilo di dispersione 𝜎𝑃(𝑅) richiede un elevato numero di galassie, questo si può ottenere soltanto combinando i dati di numerosi cluster, senza preservare l’individualità di ciascun cluster. Il modo di procedere consiste quindi nell’utilizzare il teorema viriale per calcolare la massa di ciascun cluster e di utilizzare poi l’equazione di Jeans per verificare i risultati ottenuti sulla media dei cluster.

(33)

27

2.3 Determinazione della massa da osservazioni in banda X

dell’ICM

Abbiamo accennato nel I capitolo che lo spazio tra le galassie di un ammasso è riempito da un plasma formato da un gas fortemente ionizzato. Le osservazioni di tale gas in banda X permettono di ricavare la massa gravitazionale dell’ammasso direttamente dalla densità del gas e dal suo profilo di temperatura. Anche in tal caso è fondamentale assumere che il gas sia in equilibrio idrostatico: in tal modo la distribuzione di massa e la massa totale possono essere misurate. Nel caldo gas intergalattico il cammino libero medio di un elettrone è minore delle dimensioni della regione che emette in banda X e la velocità del suono è maggiore di quella del collasso dinamico, ragione per cui il gas può essere considerato in equilibrio idrostatico. Possiamo scrivere: 𝑑𝑃 𝑑𝑒 = −𝜌𝑔𝑔𝑔 𝐺𝑀(𝑒) 𝑒2 (2.24) 𝑃𝑔𝑔𝑔 =𝜌𝑒𝑎𝑠𝜇𝑐𝑘𝑇 𝑀 (2.25)

dove 𝑐𝑝 è la massa del protone, 𝜇~0.6 è il peso molecolare medio per le abbondanze cosmiche, 𝑘 la costante di Boltzmann ed 𝑀(𝑒) è la massa dell’ammasso entro il raggio 𝑒. Differenziando la seconda equazione si ottiene:

𝑑𝑃𝑔𝑔𝑔 𝑑𝑒 = 𝑘 𝜇𝑐𝑝�𝑇 𝑑𝜌 𝑑𝑒 + 𝜌 𝑑𝑇 𝑑𝑒� (2.26)

e combinando le due equazioni si ha che:

𝑘 𝜇𝑐𝑝�𝑇 𝑑𝜌𝑔𝑔𝑔 𝑑𝑒 + 𝜌𝑔𝑔𝑔 𝑑𝑇 𝑑𝑒� = −𝜌𝑔𝑔𝑔 𝐺𝑀(𝑒) 𝑒2 (2.27) da cui: 𝑀(𝑒) = −𝜇𝑐𝑘𝑇 𝑝𝐺 � 𝑑 log 𝜌𝑔𝑔𝑔 𝑑 log 𝑒 + 𝑑 log 𝑇 𝑑 log 𝑒� (2.28)

Determinando 𝑇 e 𝜌 come funzione di 𝑒, si può ottenere una determinazione della massa 𝑀(𝑒). Sfortunatamente fino a poco tempo fa non era facile misurare 𝑇 come una funzione del raggio per cui si assumeva una temperatura media per il gas e si derivava 𝜌(𝑒) in una opportuna forma analitica dalla misura del profilo di brillanza superficiale. Tali metodi sono ancor oggi usati in mancanza di dati nuovi.

Figura

Figura 1.1 Confronto tra funzioni di luminosità
Figura 1.2 Emissioni X, visibile e radio di un ammasso
Figura 1.3 Ammassi di galassie in fase di merging
Figura 1.4 Getti radio-galassia FRII
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Riferimenti

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