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Ovariectomia laparoscopica nella cagna: tre tecniche a confronto.

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Academic year: 2021

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1 INDICE

RIASSUNTO...4

INTRODUZIONE...5

CAPITOLO 1 Anatomia, fisiologia dell’apparato riproduttore femminile ...7

1.1 Anatomia ovarica...8

1.2 Vascolarizzazione...9

1.3 Struttura dell’ovaio...10

1.3 Funzione endocrina dell’ovaio...12

1.5 Pubertà...13

1.6 Stadi del ciclo estrale...13

CAPITOLO 2 Ovariectomia laparoscopica ...16

2.1 Concetti generali sulla laparoscopia...17

2.2 Storia della laparoscopia...18

2.3 Strumentario...20

2.3.1 Sistema video...20

2.3.2 Fonte luminosa...21

2.3.3 Cavi e fibre ottiche...22

2.3.4 Laparoscopio...23

2.3.5 Insufflatore...24

2.3.6 Ago di Veress...25

2.3.7 Trocars...25

2.3.8 Strumenti da presa ...27

2.3.9 Strumenti da dissezione e coagulazione ...28

2.3.10 Strumenti da sutura...29

2.3.11 Strumenti di aspirazione e irrigazione...30

2.3.12 Strumentario addizionale...30

2.4 Sala operatoria...31

2.5 Esame clinico e valutazione preoperatoria del paziente...32

2.6 Preparazione del paziente...33

2.7 Controindicazioni...34

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2.8.1 Premedicazione ...35

2.8.2 Induzione dell’anestesia...36

2.8.3 Mantenimento dell’anestesia...36

2.8.4 Monitoraggio del paziente...37

2.9 Pneumoperitoneo...39

2.9.1 Scelta dei gas...40

2.9.2 Metodi per la realizzazione dello pneumoperitoneo...41

2.10 Ovariectomia laparoscopica...43

CAPITOLO 3 Tecnica chirurgica...46

3.1 Elettrochirurgia...47

3.1.1 Cenni storici sull’elettrochirurgia...47

3.1.2 Concetti generali...48

3.1.3 Fondamenti di elettricità...49

3.1.4 Elettricità e tessuti biologici...49

3.1.5 Effetti della corrente elettrica sui tessuti e sulle membrane cellulari ...50

3.1.6 Circuito...51

3.1.7 Effetti della temperatura sul tessuto...52

3.1.8 Effetti dell’elettrochirurgia...53

3.2 Tecnica chirurgica con elettrochirurgia bipolare...55

3.2.1 Vantaggi e rischi associati all’elettrochirurgia...59

3.3 Ultrasuonochirurgia...61

3.3.1 Effetti dell’ultrasuonochirurgia sul tessuto...63

3.4 Tecnica chirurgica con Ultracision Harmoninc® ...66

3.4.1 Vantaggi e svantaggi associati all’ultrasuonochirurgia ...68

3.5 Bipolare avanzato: Enseal®...70

3.5.1 Effetti di Enseal® sui tessuti...72

3.6 Tecnica chirurgica con Enseal®...73

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CAPITOLO 4: Casistica personale……….…….76

4.1 Materiali e metodi……….……..77

4.2 Risultati………...….81

4.3 Tempi……….……..83

4.3.1 Risultati ovariectomia laparoscopica con elettrochirurgia bipolare…………...83

4.3.2 Risultati ovariectomia laparoscopica con Ultracision Harmonic®…………...85

3.3.3 Risultati ovariectomia laparoscopica con Enseal®………....86

4.4 Media tempi chirurgici a confronto……….…88

4.5 Considerazioni……….…90

4.6 Conclusioni………..95

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4 Riassunto

Parole chiave: laparoscopia, ovariectomia, elettrochirurgia, ultrasuonochirurgia, cagne

La finalità di questo lavoro è stata quella di valutare due forme diverse di energia applicate all’intervento di ovariectomia laparoscopica nelle cagne. In particolare è stato valutato l’utilizzo dell’energia elettromagnetica per quanto riguarda le pinze bipolari e il dispositivo bipolare avanzato Enseal® e l’energia meccanica con l’impiego del bisturi Ultracision Harmonic®. Le tre tecniche chirurgiche sono state messe a confronto descrivendone i rispettivi vantaggi e svantaggi, i tempi necessari per la chirurgia in relazione alla taglia e alla forma fisica dell’animale e le possibili complicanze che potevano insorgere. Nello studio sono stati inclusi 73 cani di sesso femminile di varie razze, di età compresa tra i 4 mesi e gli 11 anni e con un peso compreso tra 2,3 Kg e 44 Kg, sottoposti ad intervento di ovariectomia laparoscopica. 43 interventi sono stati eseguiti con utilizzo di pinza bipolare, 17 con utilizzo di Harmonic Ultacision ® e 13 con utilizzo di Enseal®. I risultati del nostro lavoro hanno evidenziato una differenza statisticamente significativa dei tempi medi chirurgici tra gli interventi con utilizzo di pinza bipolare e gli interventi con il dispositivo bipolare avanzato Enseal®. Dai nostri dati è emerso che anche la taglia e la forma fisica influenzano i tempi chirurgici, in particolare è stato registrato un aumento dei tempi nei soggetti di taglia grande e nei soggetti sovrappeso in tutte e tre le tecniche.

Abstract

Keywords: laparoscopic surgery,ovariectomy,electrosurgery,ultrasoundsurgery,female dog. This work has to aim to evaluate two form of energy applied in laparoscopic ovariectomy in female dog. We have evaluate electromagnetic energy with bipolar forceps and bipolar device Enseal® and mechanical energy with Ultracision Harmonic ACE®. The three techniques have been compared and we described advantages and disadvantages, the surgery times in relation to the size and the physical form and intraoperative complications. For the study 73 female dog of various breeds were included , aged between 4 months and 11 years old and weigh between 2.3 kg and 44 kg , underwent surgery to laparoscopic ovariectomy . 43 operations were performed with use of bipolar forceps , 17 with use of Ultacision Harmonic ACE® and 13 with use of Enseal® . The results of our work have shown a statistically significant difference in the average time between surgical interventions with use of bipolar forceps and interventions with the bipolar device advanced Enseal® . Our data also showed that the size and physical fitness affect the surgical times , in particular there has been an increase in the time in those large in size and in overweight in all three techniques .

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Introduzione

Oggi l’ovariectomia è considerata una pratica di routine. La ragione più comune per cui si esegue questo tipo di intervento è la prevenzione dell’estro e della gravidanza indesiderata. Altri motivi sono la profilassi dei tumori mammari e della trasmissione delle malattie congenite, la prevenzione della piometra, di metriti e delle neoplasie ovariche.

Negli ultimi decenni con la diffusione della laparoscopia anche in Medicina Veterinaria, l’ovariectomia laparoscopica è stata considerata una valida alternativa alla chirurgia convenzionale. Questo è legato ai molteplici vantaggi che essa offre, quali il minor trauma tissutale, la minor incidenza di complicazioni post-operatorie (infezioni della ferita, deiscenza, formazione di ernie), minor rischio di sviluppare aderenze e la marcata riduzione del dolore post operatorio e della durata del ricovero.

In chirurgia mini-invasiva la maggior preoccupazione del chirurgo laparoscopista è quella di riuscire ad ottenere un’emostasi rapida ed efficiente, soprattutto nella delicata fase di dissezione dei tessuti. Grazie alla bioingegneria, la moderna chirurgia dispone di nuovi strumenti che sfruttano le reazioni e gli effetti di differenti forme di energia sul tessuto biologico.

L’uso di strumenti basati sull’energia sono particolarmente diffusi in chirurgia laparoscopica perché le tradizionali tecniche di emostasi chirurgica non possono essere applicate con la stessa facilità con cui vengono applicate in un intervento laparotomico. Per cui la moderna chirurgia può disporre di fonti energetiche sofisticate per la dissezione e l’emostasi in grado di facilitare notevolmente il lavoro del chirurgo laparoscopista. I tradizionali dispositivi di cauterizzazione monopolare e bipolare a causa della loro modalità di azione generano calore con una sostanziale diffusione termica laterale e carbonizzazione. Questi inconvenienti hanno indotto a sviluppare strumenti più avanzati come il bisturi ad ultasuoni (Ultracision Harmonic®) o il dispositivo bipolare avanzato Enseal®; che hanno l’azione di taglio e coagulo in un unico strumento garantendo un sigillo dei vasi sicuro con il minimo danno termico laterale.

Nel mio studio analizzerò questi strumenti applicati all’intervento di ovariectomia laparoscopica nelle cagne; andando a valutare gli effetti che hanno sui tessuti biologici, i vantaggi e i rischi associati all’utilizzo di questi dispositivi in laparoscopia ed infine analizzerò i dati raccolti in corso di intervento di ovariectomia laparoscopica presso

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l’Ospedale didattico Mario Modenato nell’arco di tempo compreso tra il 19 marzo 2012 e il 4 novembre 2015. In particolare metterò a confronto i tempi chirurgici e se vi sono relazioni tra la durata dell’intervento e la taglia e la forma fisica dell’animale.

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CAPITOLO 1

ANATOMIA E FISIOLOGIA DELL’APPARATO

RIPRODUTTORE FEMMINILE

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8 1.1 Anatomia ovarica

L’apparato riproduttore femminile comprende le ovaie, le tube, l’utero, la vagina, la vulva e le ghiandole mammarie (Fossum,2008).

L’ovaio è un organo pari che deriva dalla cresta germinale e si sviluppa su entrambi i lati nella regione lombare, in posizione mediale rispetto al mesonefro. Nell’ovaio migrano le cellule germinali primordiali provenienti dal sacco vitellino, che formano successivamente i cosiddetti cordoni sessuali primitivi. Da questi hanno origine attraverso vari stadi di maturazione, le cellule germinali e le loro cellule accessorie (cellule follicolari) che costituiscono complessivamente il follicolo di Graaf, pronto a scoppiare in occasione dell’ovulazione ( H.E. Konig, H.G. Liebich, 2006).

Nella Cagna adulta, le gonadi sono molto più lunghe che larghe e sono un po’ appiattite da un lato all’altro. Riferendoci a soggetti di media taglia ogni ovaio è lungo da 15 a 20 mm, alto 10-15 mm e spesso 8-10 mm; il suo peso può variare da 1 a 3 g. E’ grigio-rosa, quasi liscio nei periodi di riposo sessuale, irregolare e bozzellato per la presenza di numerosi follicoli nella stagione di attività. L’ilo è poco pronunciato e non viene oltrepassato dal peritoneo (Barone, 2003).

Le ovaie sono situate in una sacca peritoneale dalla parete sottile, la borsa ovarica, posta appena dietro il polo caudale di ogni rene (Fossum,2008).

L’ovaio sinistro si trova generalmente ad appena 1 cm dal rene, mentre la gonade destra, di solito un po’ più craniale, ne dista 2-3 cm. Entrambe le ovaie sono situate 6-8 cm caudalmente all’ultima costa e ad appena 1 cm dall’estremità corrispondente del corno uterino. Ogni ovaio è situato, a causa della pressione degli altri visceri, contro la parete lombare, vicino al margine laterale di questa e qui si imprime contro il peritoneo parietale infiltrato di grasso. A destra, la gonade è situata dorsalmente al pancreas e alla parte discendente del duodeno; a sinistra, è dorso-laterale rispetto al colon discendente e, in genere, un po’ più profonda, cioè più allontanata dalla parete del fianco. Il mesovario prossimale è alto solo 3-4 cm, ma la sua inserzione parietale si prolunga lateralmente al rene fino al diaframma, sotto l’ultima o le ultime due coste; ne risulta che il legamento sospensore dell’ovaio, cilindroide e che occupa il suo margine libero cranialmente alla borsa ovarica, è lungo e quasi orizzontale. Il mesovario distale al contrario è cortissimo, ispessito e ricco di cellule muscolari lisce; è quasi ridotto ad una semplice aderenza dell’ovaio nella volta della borsa ovarica. Quest’ultima è relativamente vasta, lunga 2-3 cm ed alta 3-4 cm, ma è quasi completamente chiusa; la

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sua parete è formata da un mesosalpinge molto esteso, che si ribalta ventralmente alla gonade e a ciascuna delle estremità di questa, per andarsi ad inserire dorsalmente alla faccia mediale del mesovario, lasciando persistere soltanto una strettissima apertura, lunga in media 8-9 mm appena. Quest’orificio non consente mai l’esteriorizzazione dell’ovaio e, per avere accesso alla gonade, è necessario allargarlo. Lo spessore del mesosalpinge è occupato da abbondante tessuto adiposo, di modo che l’ovaio non è mai visibile attraverso la sua borsa, tranne che nei soggetti giovani per una piccola parte della sua parete laterale.

Il legamento proprio dell’ovaio è in gran parte contenuto nella borsa ovarica; solamente la sua parte caudale, molto breve e ispessita, è visibile tra quest’ultima e l’estremità adiacente del corno dell’utero. Infine, la fimbria ovarica è breve, larga e ispessita e l’epitelio tubarico si prolunga fin sull’ovaio, dove si unisce per transizione all’epitelio superficiale (Barone, 2003).

Figura 1.1 Schema dell’apparato genitale femminile. “Miller's anatomy of the dog", 2013

1.2 Vascolarizzazione

L’arteria ovarica, poco flessuosa, termina triforcandosi un po’ dorsalmente alla borsa ovarica. Un ramo craniale accompagna il legamento sospensore dell’ovaio e si perde nell’estremità corrispondente del mesovario. Un ramo uterino, più grosso, si porta caudalmente nel legamento largo. Il ramo intermedio è la continuazione diretta dell’arteria ovarica; raggiunge l’ilo fornendo delle divisioni esili e numerose, che si fanno assai flessuose nella zona vascolare. Le vene ovariche confluiscono assai presto di modo che il plesso venoso ovarico è molto breve.

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10 1.3 Struttura dell’ovaio

L’ovaio è rivestito, per un tratto più o meno ampio, da un epitelio cubico semplice, l’epitelio ovarico, sotto il quale si trova una sottile lamina di connettivo denso, l’albuginea. A una sezione che ne interessi i margini, l’ovario risulta formato da due componenti: uno centrale e profondo, la midollare, e uno periferico e più ampio, la corticale. La zona midollare è in stretto rapporto con l’ilo e consta di connettivo piuttosto lasso tra le cui maglie trovano posto ampi spazi linfatici, reti di vasi sanguigni, nervi e piccoli gruppi di cellule a funzione endocrina (cellule ilari). In questa zona le arterie assumono un caratteristico andamento tortuoso.

La zona corticale o parenchima è occupata da un gran numero di follicoli ovarici a vario stadio di sviluppo, da corpi lutei, dallo stroma e dal tessuto interstiziale. I follicoli costituiscono la componente preponderante del parenchima; tra essi si dispone lo stroma lungo le cui maglie decorrono vasi e nervi. Lo stroma stabilisce altresì stretti rapporti con i follicoli ai quali fornisce le teche, membrane lei cui cellule in certe fasi esplicano importanti attività endocrine. Il tessuto interstiziale è costituito da piccoli gruppo sparsi di cellule, derivate in buona parte, dai follicoli atresici.

I follicoli ovarici si presentano come formazioni di volume molto diverso a seconda dello stadio di sviluppo. Ciascuno di essi accoglie un ovocita attorno al quale si pongono le cellule follicolari, a loro volta circondate, a partire da un determinato stadio di sviluppo, dalle membrane tecali. Si distinguono follicoli primari, secondari e terziari e maturi, nonché follicoli deiscenti e atresici. I follicoli primari del diametro di 30-40 micron, sono molto numerosi. Sono costituiti da un ovocita, fermo alla profase della prima divisione meiotica (ovogonio) e da un unico strato di cellule follicolari che poggia su una netta membrana basale.

La membrana dell’ovogonio è fornita da microvilli che stabiliscono contatti con le cellule follicolari vicine. Buona parte di questi follicoli è destinata a degenerare nel corso della vita, ma, nell’età feconda, a ogni ciclo un certo numero si trasforma in follicoli secondari. In questi, l’ovogonio si accresce divenendo ovocita primario e le cellule follicolari, moltiplicandosi, si pongono in più piani formando lo strato granuloso (cellule della granulosa). E’ a questo stadio che tra l’ovocita e le circostanti cellule della granulosa si interpone una spessa lamina glicoproteica, la membrana pellucida. Un certo numero di follicoli secondari si evolve nei follicoli di Graaf nei quali tra le cellule della granulosa compaiono spazi pieni di liquido (liquor folliculi) che progressivamente

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confluiscono in un’ampia cavità, l’antro. Nel follicoli di Graaf, l’ovocita con la sua corona radiata fa rilievo sulla parete interna dell’antro (cumulo ooforo). All’esterno della granulosa, lo stroma organizza presto il rivestimento tecale che è distinto in due piani. Nel più profondo, teca interna, molte cellule assumono aspetto epitelio ide e le caratteristiche di elementi secernenti. Esse si trovano associate spesso in gruppi e stabiliscono rapporti con le reti vasali. Il piano più superficiale, teca esterna, tende invece a conservare le caratteristiche del connettivo stromale. A ogni ciclo estrale, i follicoli terziari, in numero variabile a seconda delle specie, completano lo sviluppo fino a giungere all’ovulazione. In questo caso, il diametro del follicolo aumenta enormemente e anche l’ovocita nel cumulo ooforo si accresce. Si giunge così ai follicoli maturi nei quali l’ovocita riprende la meiosi dando un ovocita secondario e un globulo polare. La successiva divisione avviene dopo l’ovulazione. I follicoli maturi fanno rilievo sulla superficie dell’ovario ed è a questo livello che, in una zona chiamata stigma la parete del follicolo si rompe e lascia uscire la cellula uovo con la sua corona radiata e il liquor follicoli. Dopo l’ovulazione la parete residua del follicolo collassa (follicolo deiscente). Un gran numero di follicoli ovarici, ad ogni stadio di sviluppo degenera. Nel follicolo collassato dopo l’ovulazione, la cavità è inizialmente occupata da un coagulo sanguigno (corpo emorragico), ma ben presto intervengono delle modificazioni che portano alla formazione del corpo luteo. La persistenza del corpo luteo nell’ovario è legata all’instaurarsi o meno della gravidanza. In caso di mancata fecondazione della cellula uovo il corpo luteo regredisce per consentire un nuovo ciclo (corpo luteo progestativo). Nella femmina gravida invece il corpo luteo persiste (corpo luteo gravidico). La sua involuzione comporta la degenerazione delle cellule secernenti e, soprattutto, la proliferazione del suo stroma con la formazione terminale di un corpo fibroso che evolve per ialinosi del collagene in un corpo albicante, talora di colore nero (corpo nigro) per la persistenza di tracce della iniziale emorragia cavitaria

(Pelagalli,1999).

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12 1.4 Funzione endocrina dell’ovaio

Il principale sistema di controllo della funzione riproduttiva è costituito dall’interazione dell’ambiente e del cervello con l’ipotalamo e l’ipofisi. La sintesi e la liberazione dell’ormone rilasciante le gonadotropine (GnRH) sono controllati da un complicato sistema che coinvolge una serie di neurostasmettitori, oppiacei, melatonina (associata al numero di ore di luce) e numerosi meccanismi di feedbak ormonale e neurologici. Il GnRH è sintetizzato nei neuroni dell’ipotalamo e liberato dalle terminazioni nervose nell’eminenza media. Attraverso il sistema portale ipofisario viene trasportato all’ipofisi anteriore. Qui il GnRH stimola il rilascio di gonadotropine: l’ormone follicolo stimolante (FSH) e l’ormone luteinizzante (LH). Le gonadotropine agiscono sulle ovaie che, durante la crescita del follicolo, l’ovulazione e la fase luteinica producono, in ordine sequenziale, estrogeni e progesterone. Tali ormoni steroidei agiscono su tessuti specifici, tra cui la porzione tubulare dell’apparato riproduttore e i centri cerebrali del comportamento (England, Von Heimendahl, 2013).

Fig.1.3. Interazioni ormonali tra Ipofisi e Apparato Genitale Femminile

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13 1.5 Pubertà

Perché le femmine possano iniziare ad avere i cicli riproduttivi devono superare un processo chiamato pubertà (Cunningham, 2006). La comparsa del primo estro (puberale) è molto variabile, e benché si verifichi a un’età media di circa 9 mesi, in molte cagne può avvenire tra i 6 e i 14 mesi. In alcuni casi la pubertà può non insorgere sino ai 24-30 mesi. Si ritiene che la comparsa della pubertà sia correlata al raggiungimento dell’80% circa del peso corporeo dell’adulto, e può quindi essere correlata alla razza, dato che i cani di grossa taglia raggiungono il peso corporeo adulto a un’età maggiore rispetto a quelli di piccola taglia. Nella femmina, poiché durante l’ovulazione di ciascun estro viene rilasciato solo un basso numero di ovociti, non è necessaria la stessa proliferazione mitotica di cellule germinali che avviene nel maschio. Lo sviluppo delle cellule germinali termina infatti quando queste ultime raggiungono lo stadio di cellule germinali primordiali. Essenzialmente gli oogoni vanno incontro a divisione mitotica e al primo stadio di divisione meiotica, dopodiché si arrestano all’interno del follicolo primordiale. Il regolare reclutamento di follicoli primordiali a formare un pool di follicoli in accrescimento inizia con il primo estro (pubertà) e poi continua in ciascun estro.

Il picco di fertilità sembra essere raggiunto a circa 2 anni di età e viene generalmente mantenuto fino a 6-7 anni. Durante questo periodo la cagna può generare una cucciolata in occasione di ciascun estro, ma si raccomanda di accoppiare la cagna soltanto a cicli estrali alternati.

1.6 Stadi del ciclo estrale

Il ciclo estrale è suddiviso in stadi, che rappresentano modificazioni sia gonadali che comportamentali (Cunningham, 2006). L’intervallo medio tra i periodi proestrali successivi è di circa 7 mesi ed è approssimativamente suddiviso in proestro (10 giorni), estro (10 giorni), fase luteinica (gravidica o non gravidica, 2 mesi) e anestro (4-5 mesi). Nelle singole cagne la ciclicità può differire ed essere molto variabile oppure piuttosto regolare.

L’anestro è il periodo tra la fine della fase luteinica e l’inizio del successivo ritorno in proestro. Quando nel ciclo precedente si è avuta una gravidanza, la prima parte dell’anestro include la lattazione. La durata dell’anestro supera quella del periodo di

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lattazione, in modo che la cagna non si trovi in proestro o estro durante l’allattamento. Il periodo di anestro è considerato obbligatorio; dura in genere un minimo di 7 settimane e in media 18-20 settimane. Durante l’anestro l’apparato riproduttore è quiescente e i genitali interni ed esterni, incluse le ghiandole mammarie, raggiungono le minori dimensioni osservabili. La parete della vagina è relativamente sottile e può essere facilmente traumatizzata durante l’esplorazione digitale o il prelievo di cellule epiteliali. Circa 60 giorni prima dell’ovulazione successiva si possono identificare follicoli all’interno delle ovaie. Nella fase tardiva dell’anestro, a partire da circa 10-20 giorni prima dell’inizio del proestro, possono essere rilevate concentrazioni relativamente elevate di estrogeni. Il proestro è caratterizzato dalla stimolazione dello sviluppo follicolare da parte di FSH e LH e dalla successiva secrezione di estrogeni dalle cellule della granulosa del follicolo. In ciascun ovaio crescono circa da 2 a 8 follicoli. Questi ultimi protrudono dal margine dell’ovaio circa 10 giorni prima dell’ovulazione, quando sono di circa 4 mm di diametro. Il diametro dei follicoli aumenta fino a 8-9 mm subito prima dell’ondata preovulatoria di LH. Gli estrogeni follicolari promuovono l’aumento della vascolarizzazione e l’edema dell’apparato riproduttore così come un aumento dell’attività dell’epitelio ghiandolare. Ciò conduce a una tumefazione delle vie genitali esterne ed interne, mentre all’interno dell’utero i capillari mucosali gemono in corrispondenza delle giunzioni endoteliali determinando il passaggio di sangue e di plasmacellule nel lume uterino.

I segni clinici associati al proestro includono un aumento di volume e un arrossamento delle labbra vulvari e la comparsa di uno scolo vulvare siero ematico. Compaiono inoltre alcuni cambiamenti comportamentali, quali una maggior attrazione del maschio, l’aumento della marcatura urinaria e una tendenza al vagabondaggio. Per definizione, il proestro è caratterizzato dall’attrazione sessuale e dal rifiuto all’accoppiamento. L’esame endoscopico della cagna può mostrare l’aumento di volume e la tumefazione delle pliche epiteliali vaginali e l’esame ecografico può evidenziare l’edema uterino. Si verifica inoltre una sostanziale proliferazione delle cellule epiteliali indotta dagli estrogeni, molto significativa nella vagina, dove la mucosa si modifica da epitelio cubico a epitelio pluristratificato cheratinizzato. Questo è molto utile al fine di monitorare gli stadi del ciclo estrale. L’aumento di LH e FSH è cruciale per la stimolazione della crescita follicolare. Tuttavia con la maturazione i follicoli producono l’ormone inibina, un inibitore selettivo della secrezione di FSH, cosicchè nella fase tardiva del proestro la concentrazione di FSH non aumenta ulteriormente e può anzi

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declinare. Comunque l’FSH gioca un ruolo importante nella maturazione del follicolo e nella preparazione delle cellule per la conversione in corpi lutei dopo l’ovulazione. Durante la fase dell’estro o calore, la femmina accetta l’accoppiamento; il suo comportamento è di invito al maschio all’accoppiamento con presentazione del posteriore, movimenti della coda per scoprire la vulva e lordosi spinale. Questa fase è caratterizzata inizialmente dall’alta concentrazione degli estrogeni, che in seguito si riducono prima dell’ovulazione. Nel periodo di secrezione degli estrogeni i follicoli aumentano di volume fino a 9-12 mm di diametro. Insieme all’aumento degli estrogeni si verifica la soppressione della secrezione di LH e FSH dovuta a feedback negativo da parte rispettivamente dell’estradiolo e dell’inibina. Successivamente la concentrazione di estrogeni si riduce e un giorno più tardi inizia l’aumento preovulatorio di LH la cui concentrazione è elevata per 1-3 giorni. La luteinizzazione della parete follicolare avviene prima dell’ovulazione, momento in cui è presente anche un aumento significativo del progesterone plasmatico. Infatti il declino degli estrogeni e l’aumento del progesterone sembrano stimolare il picco di LH così come essere responsabili della significativa modificazione del comportamento sessuale. Il picco di LH oltre a stimolare l’ovulazione, modifica la produzione di steroidi nelle cellule della granulosa da estrogeni a progesterone e aiuta il follicolo a trasformarsi in corpo luteo. La cagna normalmente ha ovulazioni multiple e l’esame istologico e laparoscopico mostrano che, benché la maggior parte delle ovulazioni avvenga 48-60 ore dopo il picco di LH, alcuni follicoli possono ovulare anche 96 ore dopo quest’ultima. Esiste una notevole variazione in relazione al giorno in cui si verifica l’ovulazione. Benché in media l’ovulazione si verifichi 12 giorni dopo l’inizio del proestro, in alcuni casi può verificarsi anche 5 o 25 giorni dopo.

La fase luteinica comincia dopo l’ovulazione e durante questo periodo il progesterone continua ad aumentare. Il progesterone altera le caratteristiche delle secrezioni mucosali e riduce l’eccitabilità della muscolatura liscia. Inoltre “chiude” la cervice e prepara l’ambiente uterino a ricevere gli embrioni. L’aumento del progesterone inizia poche ore prima o durante l’aumento preovulatorio di LH e continua ad aumentare fino a raggiungere 10-25 ng/ml entro il termine dell’estro conclamato (England, Von

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CAPITOLO 2

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17 2.1 Concetti generali sulla laparoscopia

Con il termine laparoscopia (dal greco lapara-skopein=fianco, guardare) si indica una metodica che consente di osservare la parete della cavità addominale e le strutture in essa contenute, mediante l'introduzione attraverso la parete addominale stessa di un endoscopio, chiamato laparoscopio (Muttini, 2000). Si tratta di una tecnica chirurgica mini-invasiva che permette di compiere molte delle manovre che possono essere compiute anche con la tecnica laparotomica. Grazie ad un endoscopio e ad una piccola breccia operatoria è possibile intervenire all'interno della cavità addominale con grande facilità. La tecnica laparoscopica prevede di utilizzare lo spazio ottico prodotto in seguito all'insufflazione di anidride carbonica in cavità addominale. L'insufflazione viene eseguita attraverso l'uso dell'ago di Veress o attraverso un catetere inserito attraverso una incisione minilaparotomica (Rawlings, 2011).

I vantaggi della chirurgia mini-invasiva sono diversi. Si ha la possibilità di eseguire diagnosi ed interventi chirurgici attraverso piccole incisioni e quindi di limitare al massimo il trauma dei tessuti molli e di conseguenza limitare lo stress intra e post-operatorio. Ciò sarebbe da ricollegare ad una minima produzione di interleuchina-6 e di C-reactive protein in corso di laparoscopia (Ueo, Honda, Adachi, 1994). Si riducono inoltre i rischi legati alla dieresi, quali infezione della ferita, laparocele, formazione di seroma e deiscenza della sutura diminuendo, nel contempo, l'incidenza della formazione di aderenze (Schafel, 1998). Si ha inoltre minore dolore post-operatorio, una minore ospedalizzazione e una più precoce ripresa dell'attività. Ancora tra i vantaggi offerti dalla laparoscopia c'è la possibilità di visualizzare organi difficilmente ispezionabili con la tecnica laparotomica.

Gli svantaggi che presenta questa tecnica sono legati alla necessità di disporre di attrezzature specialistiche spesso assai sofisticate e costose. Inoltre per eseguire questo tipo di chirurgia è necessario un buon livello di tecnica laparoscopica. Infatti il gesto chirurgico, eseguito tramite gli strumenti ed osservato su un monitor, viene privato della percezione tattile diretta e del senso esatto delle dimensioni della struttura visualizzata. L'immagine laparoscopica è infatti bidimensionale e quindi non consente di apprezzare con precisione lo spessore delle strutture. Per ottenere i massimi risultati è comunque importante curare alcuni particolari che non devono essere trascurati. Ad esempio al fine di ottenere una massima visualizzazione delle strutture endoaddominali è necessario rispettare il periodo di digiuno, affinchè le anse intestinali rigonfie non

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ostacolino la visuale e le manovre. Un altro rischio associato a questa tecnica è la non corretta infissione dei trocars che può provocare l'involontaria perforazione o lacerazione di strutture importanti. Altri rischi che devono essere segnalati sono quelli legati alle ustioni dei visceri che possono inavvertitamente verificarsi durante le manovre di elettrocoaugulazione e alle emorragie dovute alla rottura dei grossi vasi. Al contrario, se le manovre laparoscopiche vengono condotte correttamente, l'emostasi che può essere ottenuta durante interventi di chirurgia laparoscopica viene considerata migliore rispetto a quella della chirurgia tradizionale soprattutto quando, come ad esempio per l'ovariectomia, vengano impiegate tecniche che non prevedono la legatura diretta dei vasi. Meno grave è senza dubbio il possibile verificarsi di enfisema sottocutaneo o retroperitoneale, evenienza che può verificarsi per il posizionamento non corretto o l'insufficiente introduzione dell'ago di Veress. E' noto che la procedura laparoscopica provoca uno stato di irritazione del peritoneo dovuto all'effetto dell'anidride carbonica. Ciò è dovuto al fatto che l'anidride carbonica si combina al liquido peritoneale formando acido carbonico che irrita la sierosa (Muttini, 2000).

2.2 Storia della laparoscopia

Lo sviluppo della tecnica laparoscopica e la sua diffusione sono fatti abbastanza recenti, ma il primo tentativo documentato di laparoscopia in un essere umano vivente è da riferirsi a Philipp Bozzini che nel 1806 a Francoforte riuscì ad ispezionare l’ uretra utilizzando uno specchio concavo con il quale riuscì a convergere la luce prodotta da una candela all'interno di un tubo rigido di latta. L’innovazione però non trovò utilizzo in campo umano, per quanto l’apparecchio potesse essere usato per esaminare il nasofaringe, il retto, la vagina, la vescica e l’uretra. Sempre nel XIX secolo (nel 1853) fu il chirurgo francese, Antonin Jean Dèsormeaux, ad utilizzare per la prima volta su un suo malato lo strumento di Bozzini. Egli, considerato il padre dell’endoscopia, sfruttò l’intensa e più bianca luce prodotta da una miscela di alcool e trementina, raggiungendo risultati clinicamente accettabili con un primitivo cistoscopio. Fu in questo momento che in letteratura comparve per la prima volta il termine “endoscopia”. Nel 1877 Max Nitze usò per la prima volta un cistoscopio che attraverso un sistema di lenti permetteva un ingrandimento dell’immagine di interesse ed una posizione di osservazione decisamente più comoda rispetto a quella offerta dallo strumento precedentemente descritto.

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Per tutto l'Ottocento le tecniche endoscopiche furono esclusivamente endoluminali. La vera e propria nascita della laparoscopia è considerata da molti relativamente più recente ed in particolare è legata a studi e metodiche sperimentali condotti nel 1901 a Dresdan in Germania da Georg Kellin, un chirurgo che, insufflando l’addome di cani vivi, visionò gli organi in esso contenuti attraverso il cistoscopio di Nietze e li descrisse. Qualche anno dopo in Svezia (1910) Jacobaeus esaminò le grandi cavità sierose nell'uomo, senza però utilizzare la tecnica dello pneumoperitoneo, ma ciò gli permise comunque di descrivere alcune patologie attraverso l'osservazione di organi endoaddominali, in particolare vennero descritte la tubercolosi peritoneale, la cirrosi epatica ed un cancro metastatico (Gunning,1974).

Nel 1924 Kalk ebbe l’intuizione di praticare un secondo accesso alla cavità peritoneale in modo da poter eseguire in sicurezza le biopsie del fegato e visionare, oltre ai visceri, anche gli strumenti introdotti in cavità peritoneale. Nacque dalla sua esperienza nel 1935 il primo atlante a colori di immagini laparoscopiche. Nel 1934 lo svizzero Zollikofer introdusse la CO2 come gas utile a realizzare lo pneumoperitoneo, in sostituzione dell’aria filtrata usata fino a quel momento, col vantaggio di ridurre fortemente i rischi di embolia gassosa. Maggior sicurezza nell’introduzione dello pneumoperitoneo la si raggiunse applicando alla laparoscopia l’ago ideato, nel 1938, dall’ungherese Janas Verres, un ago caricato a molla utilizzato per creare pneumotorace terapeutico in patologie come la tubercolosi polmonare. L’ago di Verres, è tutt’oggi largamente utilizzato nell’induzione dello pneumoperitoneo nelle chirurgie addominali fino a quel momento usate solo ed esclusivamente per scopi diagnostici.

La laparoscopia inizialmente interessò in modo prevalente i gastroenterologi ed i ginecologi. Proprio ad uno di questi ultimi, il Professor Kurt Semm di Kiel in Germania, spetta un giusto riconoscimento per l’ideazione di numerosi e importantissimi strumenti che ancora oggi trovano applicazione. In particolare all’ideazione di un insufflatore automatico di CO2 con monitor atto alla visualizzazione della pressione intra addominale ed il flusso di gas per minuto. Ancora Semm introdusse le tecniche di termo coagulazione, l’applicatore di punti di sutura, i sistemi di irrigazione e di aspirazione. Nel 1974 il ginecologo Hasson creò la cannula che porta il suo nome, consentendo l’esecuzione della cosiddetta “Open-coelioscopy”.

Nel 1980, per la prima volta, Patrick Steptoe in Inghilterra, eseguì tutte le procedure laparoscopiche in una sala operatoria ed in completa sterilità, come in un qualsiasi altro intervento chirurgico.

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Nel 1982 per la prima volta l’ottica laparoscopica venne collegata ad una telecamera. Nacque così la “video-laparoscopia”, presupposto indispensabile alla nascita della chirurgia laparoscopica che oggi conosciamo (Croce, 2007.)

Successivamente grande impulso allo sviluppo delle moderne tecniche mini invasive fu dato dal successo ottenuto da Mouret che in Francia eseguì per primo l’ intervento di colecistectomia completamente per via laparoscopica. Da allora sono fiorite numerose applicazioni e tecniche in tutte le discipline chirurgiche (Ferguson,1996).

2.3 Strumentario

2.3.1 Sistema video

Fig. 2.1 Sistema video

Il sistema video è costituito da monitor e telecamera. Molti limiti incontrati dalla chirurgia laparoscopica in passato oggi sono stati superati grazie alla tecnologia, soprattutto per quanto riguarda la miniaturizzazione delle telecamere annesse agli strumenti laparoscopici. Un tempo erano costituite da un obiettivo che veniva connesso all'oculare dell'ottica laparoscopica, attualmente la tendenza è quella di monitorare gli elementi sensibili della telecamera direttamente sulla punta dello strumento. La qualità dell'immagine è detta risoluzione e varia tra 450 e 1080 linee per pollici, ma la visione è sempre bidimensionale. Le più moderne telecamere sono dotate di un particolare controllo automatico dell'esposizione e di lenti a zoom.

E' presente un adattatore per connettere la videocamera all'oculare del laparoscopio e trasmettere l'immagine al monitor che deve essere ad uso medicale in modo da non risentire delle interferenze di altri generatori presenti nella sala chirurgica. Il monitor deve essere posizionato in maniera tale da consentire la visione ottimale sia al chirurgo che al video operatore. L'ideale sarebbe avere a disposizione due monitor: uno per l'operatore e uno per gli aiuti. La posizione migliore del monitor è di fronte al chirurgo, per aumentare la coordinazione occhi-mano che raggiunge il massimo quando la linea

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occhi-mano-strumento è retta. Poichè questo tipo di allineamento non è sempre possibile si cercherà quello più ergonomico. L'ergonomia degli strumenti, la tecnologia a disposizione e il materiale utilizzato condiziona la performance chirurgica, quindi sono elementi di cui tenere conto. Nelle strutture più nuove i vecchi monitor a tubo catodico sono stati sostituiti dai più moderni schermi a cristalli liquidi (LCD) i quali, oltre a garantire elevata qualità delle immagini, possono essere installati su bracci snodati orientabili in base alle necessità (Pievaroli, 2011; Benini, 2003; De Hoyos,

2004)).

2.3.2 Fonte luminosa

Fig.2.2 Fonte luminosa

La fonte luminosa è lo strumento che genera e veicola, attraverso le fibre ottiche, la luce attraverso il laparoscopio nella cavità nella quale si sta operando. In commercio sono disponibili tre tipologie diverse di fonti di luce: alogene, a vapori di metallo ed allo xenon. Si differenziano per spettro cromatico e il rendimento.

Le luci alogene producono una luce giallastra mentre quelle a vapori di metallo una luce bianca e sono accomunate dal basso rendimento, mentre quelle a xenon hanno la caratteristica di avere una luce più bianca ed una costanza di rendimento migliore. Le luci bianche hanno il vantaggio di trasmettere un calore minimo al laparoscopio evitando così lesioni termiche viscerali. La maggior parte delle fonti di luce in commercio sono dotate di un sistema di regolazione di intensità sia manuale che automatico, permettendo una corretta esposizione dell'immagine a qualsiasi distanza dal soggetto. Maggiore è il volume della cavità da illuminare maggiore è la potenza della lampada da usare. Le lampade hanno una durata limitata nel tempo e devono essere sostituite non appena l'indicatore od il display posto sulla fonte luminosa stessa lo indichi.

La presenza di sangue abbassa la luminosità perchè il colore rosso assorbe più luce rispetto alle superfici bianche, che al contrario tendono a riflettere completamente. Un

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altro fattore che influenza la visibilità è l'annebbiamento del fronte del laparoscopio. Infatti entrando in addome si ha un'escursione termica tale da causare annebbiamento e ridurre la nitidezza della visione. Per ovviare a questo inconveniente è possibile preriscaldare l'ottica in soluzione fisiologica tiepida o passando l'estremità con soluzione specifica (FRED® Anti-Fog Solution, Dexide, Inc, Fort Worth, Texas)

(Freeman, 1999). Se durante l’intervento l’inconveniente continua a presentarsi

possiamo provare a pulire l’ottica passandola delicatamente sulla superficie di un tratto intestinale, altrimenti è necessario estrarla e pulirla con una garza sterile imbevuta di soluzione fisiologica tiepida o con una specifica soluzione antiappannamento (Ultrastop® Antifog). Anche il contatto con alcune superfici interne, come ad esempio quelle ricoperte da materiale lipidico, può sporcare l’ottica alterando la visione.

2.3.3 Cavi e fibre ottiche

Le dimensioni del cavo a fibre ottiche rappresentano un fattore importante nella trasmissione dell’irradiazione luminosa. Maggiori solo le dimensioni del cavo, maggiore sarà la quantità di fibre ottiche in esso contenute e quindi la quantità di luce trasportata. Nella chirurgia laparoscopica del cane si utilizzano cavi con un diametro di 5 mm, sufficienti ad ottenere una buona illuminazione della cavità addominale. E’ opportuno adottare estrema attenzione nel maneggiare i cavi a fibre ottiche, vista la loro delicatezza. Il cavo a fibre ottiche può essere sterilizzato con soluzioni detergenti o gas ma non autoclavato. In ogni modo prima di connettere il cavo al laparoscopio ed alla testata della fonte luminosa, occorre sempre verificare che le due estremità siano pulite

(Pievaroli, 2011). Le fibre ottiche sono soggette ad usura e si rompono. Quando la

percentuale di fibre rotte raggiunge il 35% della totalità del cavo, questo deve essere sostituito affinchè si ottenga una qualità della visione sufficiente (Benini, 2003).

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23 2.3.4 Laparoscopio

Fig.2.3 Laparoscopio

Chiamato anche “ottica” è costituito da un tubo metallico dotato di una fonte luminosa ed al suo interno è ospitato un sistema di lenti ottiche. Nel 1966 il Prof. Harald Hopkins insieme al Dott. Karl Storz svilupparono il primo sistema di lenti ad asta. Esso è formato da una serie di lenti cilindriche separate da camere aeree dove avviene la filtrazione della luce. Il mezzo aereo agisce come lente negativa permettendo di ridurre il calo della luminosità e la distorsione dell'immagine, mantenendo al contempo il fuoco e l'ampiezza del campo visivo. La porzione del laparoscopio che trasporta la luce consta di numerose fibre ottiche avvolte intorno al sistema di lenti. La luce proveniente dalla sorgente entra in queste fibre ed esce dalla porzione distale del laparoscopio illuminando l’oggetto. I laparoscopi con lente ad asta di Hopkins devono essere maneggiati con particolare cura poiché anche il minimo urto può causare il distacco delle lenti o delle fibre ottiche.

Le ottiche laparoscopiche hanno un diametro che va da 3 a 12 mm. Il diametro esterno del laparoscopio ha un ruolo importante nella qualità dell’immagine prodotta; infatti un videoscopio più piccolo veicola una minore quantità di luce fornendo un’immagine meno brillante ed imponendo la necessità di posizionare l’ottica in prossimità del campo di operazione, riducendo così la possibilità di avere un quadro d’insieme della cavità addominale. Le ottiche di maggiori dimensioni invece, pur avendo il vantaggio di garantire una luminosità superiore ed un campo visivo più ampio, forniscono immagini parzialmente deformate e sicuramente meno nitide di quelle ottenute con le ottiche di diametro inferiore.

Per quando riguarda la lente dell'obiettivo essa può essere angolata da 0 a 45 gradi; le lenti con angolatura superiore od addirittura a retroversione sono ormai in disuso. Quelle con angolo a 0° o dirette sono le più semplici da utilizzare ed orientare e forniscono l'immagine di ciò che si trova direttamente di fronte al laparoscopio. Le

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ottiche con angolo di 30° o 45° sono quelle a visione obliqua e permettono una triangolazione più semplice rendendo meno probabile l’interferenza con la manipolazione degli altri strumenti.

Anche la lunghezza può variare, in genere i più utilizzati sono quelli con diametro di 5 mm e lunghezza di 35 cm. In linea di massima la trasmissione della luce aumenta all'aumentare dei diametro e al diminuire della lunghezza dell'ottica (Benini 2003;

Muttini 2000).

2.3.5 Insufflatore

Fig.2.4 Insufflatore

Gli insufflatori sono regolatori di pressione che permettono la creazione della camera di lavoro ed il suo mantenimento, oltre a provvedere al controllo della pressione del gas insufflato ed al rinnovo dello stesso. Sono collegati con tubi ad alta pressione ad una bombola di CO2. L'insufflatore controlla in modo dinamico la pressione, immettendo o meno il gas nella cavità, al fine di mantenere la pressione stabilita; una volta effettuato lo pneumoperitoneo, si attiva fornendo nuova CO2 quando la pressione endoaddominale del gas scende al di sotto del limite stabilito. La pressione endoaddominale può variare da 0 a 30 mmHg. Comunque nella maggior parte degli interventi il limite pressorio deve essere regolato tra i 12-15 mmHg. Gli apparecchi più moderni sono anche dotati di allarme acustico che segnala quando la pressione per qualche motivo diviene eccessiva; superato un certo limite interrompono automaticamente l’erogazione. Il flusso di gas può essere stabilito dall'operatore in un range variabile tra 0-30 l/min (Benini, 2003.) Sul mercato esistono insufflatori meccanici o elettronici. I primi risultano più economici ma meno pratici e sicuri.

L'induzione dello pneumoperitoneo attraverso accesso “open” all'addome è ormai considerato la tecnica di scelta, in quanto presenta un esiguo numero di complicanze

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perforative viscerali. In alternativa è possibile realizzare lo pneumoperitoneo insufflando gas all'interno dell'addome attraverso un ago di Veress infisso nella parete (“tecnica chiusa”) ( Muttini, 2000).

2.3.6 Ago di Veress

La realizzazione del pneumoperitoneo, indispensabile per qualsiasi procedura laparoscopica di tipo diagnostico od operativo, è possibile insufflando gas all’interno dell’addome attraverso un ago di Verres infisso nella parete. L’Ago di Verres è formato da una cannula affilata di piccolo diametro contenente un otturatore interno che viene spinto fuori dalla cannula grazie ad una molla. L’estremità smussa dell’otturatore trova la resistenza della parete addominale che lo blocca mettendo a nudo la cannula affilata che scontinua i tessuti. Appena penetrato viene a mancare la resistenza della parete per cui l’otturatore scatta nuovamente in avanti con un “clic” impedendo che la punta affilata della cannula possa danneggiare gli organi addominali. E’ comunque opportuno introdurlo con attenzione e lontano da zone dove possano essere presenti aderenze peritoneali.

L’ago di Veress è dotato di un dispositivo per la connessione con il tubo proveniente dall’insufflatore e di un rubinetto che consente di aprire e chiudere il lume dello strumento. Quando il rubinetto è aperto l’ago ha una resistenza di 5 mmHg ad un flusso di 11/min. L’efficienza della resistenza deve essere sempre verificata prima dell’uso. L’ago di Veress è disponibile sul mercato sia in forma sterilizzabile, con il vantaggio di essere più economico, che monouso, con il vantaggio di avere sempre un’ottima affilatura oltre ad essere più leggero (Freeman, 1999).

2.3.7 Trocars

Per trocar si intende uno strumento appuntito (otturatore) inserito all’interno di una cannula (Freeman, 1999). Rappresenta la via d’accesso all’addome dell’ottica e di una varietà di strumenti manuali.

I trocars sono disponibili in diverse dimensioni sia per quanto riguarda la lunghezza che per quanto riguarda il diametro. La scelta in tal senso si basa sia sulla tipologia di strumenti che devono esservi introdotti, sia sul tipo di procedura da eseguire ma anche sulla regione anatomica in questione, nonché dalle preferenze individuali del chirurgo. La maggior parte degli strumenti ha diametro di 5 o 10 mm per cui queste rappresentano anche le misure di trocar più utilizzate. La lunghezza è variabile tra i 5 ed i 10 cm. In

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commercio esistono degli adattatori che permettono il passaggio di un piccolo strumento all’interno di una cannula grande senza perdere lo pneumoperitoneo.

I modelli più diffusi sono cannule a superficie esterna liscia e trocar a punta smussa o tagliente, trocarcannule monouso in materiale plastico con o senza lama retrattile, cannule con filettature esterne prive di trocar (Pievaroli, 2011). I trocars a punta conica sono poco traumatici ma richiedono una certa pressione per essere inseriti. Quelli a punta piramidale richiedono meno pressione per l’accesso ma è maggiore il potenziale traumatico sulla parete addominale e sui visceri. I trocars a punta smussa sono totalmente traumatici e richiedono quindi un accesso chirurgico. Vi sono infine quelli a punta eccentrica, di più recente introduzione, i quali richiedono minor forza di penetrazione perpendicolare e riducono la profondità della penetrazione stessa, accorciando la punta del trocar di più del 70%. Una volta perforata la parete addominale, peritoneo compreso, l’otturatore provvisto di lama viene estratto lasciando la cannula come via d’accesso. La cannula laparoscopica tradizionale è dotata di una valvola a senso unico che permette l’ingresso di uno strumento o del laparoscopio chiudendosi a scatto nel momento in cui questi vengono estratti. Questo meccanismo consente di mantenere lo pneumoperitoneo. Le valvole automatiche permettono l’inserimento rapido e semplice degli strumenti senza significative perdite di gas ma possono danneggiare gli strumenti appuntiti smussandoli quando vengono a contatto con la cerniera della valvola. Questo inconveniente non si verifica con le valvole multifunzionali che possono essere aperte manualmente prima dell’introduzione degli strumenti. Possono infine essere utilizzate valvole di silicone che sono quelle più efficaci per la salvaguardia degli strumenti ed essendo usa e getta, garantiscono tenuta, igiene e pulizia. La maggior parte della cannule è dotata di connettore a chiusura di Luter laterale per l’attacco del tubo di insufflazione.

L’inserimento del primo trocar può essere considerato un momento critico degli interventi laparoscopici a causa del rischio di danneggiare gli organi addominali, in particolare la milza. Viste queste considerazioni sono stati ideati ed immessi sul mercato dei trocars che permettono un controllo visivo dell’operazione di inserimento. Uno di questi è il trocar ottico che permette di osservare le strutture sottostanti al momento dell’inserimento che avviene per pressione. Si tratta di uno strumento monouso ben poco utilizzato in medicina veterinaria visti gli elevati costi. In alternativa al trocar ottico esiste l’Endotip (endoscopic threaded imaging port) che consente un controllo visivo all’atto del suo inserimento. E’ necessario adottare delicati movimenti rotatori

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nell’inserimento, divaricando i tessuti e rendendo l’azione dello strumento decisamente meno traumatica rispetto a quella esercitata dal trocar ottico. All’interno non vi è l’otturatore per cui è possibile inserirvi l’ottica per controllare visivamente l’operazione

(Clarence, 2011).

2.3.8 Strumenti da presa

Le pinze da laparoscopia si compongono di tre parti: un manipolo, un’asta e due ganasce. Per quanto riguarda l’impugnatura, è composta da due anelli di cui uno, generalmente il più piccolo che serve per adagiare il pollice mentre l’altro, un po’più grande, per inserire due o più dita. E’ presente di solito un meccanismo di arresto che consente la chiusura delle ganasce a diverse posizioni senza che l'operatore eserciti alcuna pressione, in alcune pinze è possibile connettere gli elettrocoagulatori per indurre l'emostasi.

Le aste hanno lunghezza variabile, sono talora intercambiabili ed hanno in genere diametro di poco inferiore ai 5 o 10 mm. La lunghezza dell’asta condiziona la lunghezza di lavoro della pinza che abitualmente è compresa tra i 35 cm ed i 45 cm. Può essere dotata di materiale isolante che la rende idonea a condurre elettricità per l’elettrocoagulazione.

Le ganasce sono la componente delle pinze caratterizzata da maggiore variabilità per forma e dimensione. Possono essere appuntite, affusolate, curve, fenestrate e con dentatura multipla per presa atraumatica e precisa, ad angolo retto per passare dietro e isolare meglio le diverse strutture. Altro carattere distintivo importante che condiziona l’apertura delle ganasce è la loro mobilità, si può avere infatti mobilità di una sola od entrambe le ganasce (Petrizzi, 2000).

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28 2.3.9 Strumenti da dissezione e coaugulazione

Per il taglio e la dissezione gli strumenti laparoscopici altro non sono che omologhi modificati di quelli utilizzati per la chirurgia open. Esistono forbici con punta acuta o smussa, con ganasce fini o robuste, rette o curve.

Hanno un manipolo ed un’asta con caratteristiche sovrapponibili a quelle delle pinze da laparoscopia, mentre le lame hanno dimensioni variabili e possono essere una od entrambe mobili (Petrizzi, 2000).

Le forbici curve Metzembaum, disponibili con diametro di 5 o 10 mm, sono le più usate. Molto utili anche forbici a gancio soprattutto per tagliare le strutture tubulari o per asportare eventuali punti di sutura.

Per quanto riguarda le pinze da dissezione possono essere rette o curve da 5 mm, pinze di Kelly da 10 mm e pinze ad angolo retto, sempre da 10 mm.

Al fine di rendere più agevoli le manovre intraddominali migliorando anche la visione è stato ideato e commercializzato il dissettore ottico con palloncino che, proprio grazie all’insufflazione del palloncino crea una cavità tra un tessuto e l’altro nella quale poter lavorare.

Strumento di taglio e contemporanea coagulazione è l’ Ultracision® (ultrasuonochirurgia). Esso è un dispositivo chirurgico ad ultrasuoni che consente la dissezione e l’emostasi mediante applicazione diretta degli ultrasuoni. Il suo meccanismo verrà trattato nel paragrafo 3.3. Altro strumento è il Ligasure, un sistema per la sintesi e coagulazione vasale che utilizza una combinazione di pressione, fornita dal manipolo (pinza) e radiofrequenza applicata sui tessuti target. L’emostasi non viene affidata alla formazione del trombo nel vaso prossimale, ma è raggiunta attraverso la funzione del collagene e dell’elastina della parte intimale del vaso, creando una sintesi permanente. Ligasure confina il suo effetto al tessuto target o al vaso, senza carbonizzare, e con una minima diffusione termica ai tessuti adiacenti. E’ dotato di sistema di sicurezza che interrompe il tutto quando la sintesi è stata ottenuta, ed avvisa l’operatore con un segnale acustico (www.ligasure.com, 2012).

Altro strumento per la coagulazione e la dissezione è il Laser che ha una buona efficacia ma anche svantaggi non trascurabili; oltre ad essere molto costoso, infatti, può essere molto pericoloso se non utilizzato con estrema precisione e può provocare gravi lesioni sugli organi addominali (Sebastian, Nimwegan et al., 2005).

Anche il dispositivo bipolare avanzato (Enseal®) è un valido strumento per la dissezione e l’emostasi. Il suo meccanismo verrà trattato nel paragrafo 3.5.

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Una rapida soluzione per l’emostasi o la chiusura di dotti linfatici o biliari sono le clips, di dimensioni large o medium, possono essere in titanio o riassorbibili. Le clippatrici si distinguono in pluriuso (mono o multicarica) o monouso. Queste ultime e le pluriuso multicarica, avendo un caricatore con varie clips, permettono una riduzione dei tempi operatori in quanto evitano la ripetuta estrazione dello strumento per la carica di ogni singola clip (Longoni et al., 2007).

2.3.10 Strumenti da sutura

L’applicazione di punti e legature nella chirurgia laparoscopica risulta sicuramente più complessa e difficoltosa rispetto alla chirurgia open ed è quindi necessaria particolare abilità e manualità da parte del chirurgo laparascopista. Sono disponibili strumenti che possono essere considerati degli omologhi modificati di quelli disponibili per la chirurgia open. E’ possibile utilizzare la tecnica classica della chirurgia open sia per le suture che per applicare legature. Tra i vari fili disponibili, riassorbibili o no, sono particolarmente indicati il Polyglactin 910 (Vicryl®), il Polidioxanone (PDS®) ed il Poliglecaprone 25 (Monocryl®), muniti di aghi inastati retti, da ½ cerchio, 3/8 di cerchio, semicurvi o “a canoa”. Per quanto riguarda il porta-aghi può essere utilizzato quello classico, a coccodrillo, dotato di meccanismo autobloccante che assicuri una presa sicura sull’ago. In alternativa c’è il porta-aghi curvo di Cook: si tratta di un tubo dotato di una fenditura nella quale è posizionato l’ago. E’ munito di un pistone caricato a molla che garantisce una presa solida. In ogni caso si tratta di strumenti da 5 mm di diametro, con impugnatura ergonomica autostatica e stelo rotante a 360°. Per eseguire le manualità necessarie si ricorre alla tecnica della triangolazione, aiutandoci anche con le pinze da presa. In alternativa si può optare per una legatura extracorporea estraendo entrambi i capi del filo dallo stesso trocar. Si procede con l’esecuzione di un classico nodo chirurgico oppure possiamo riversare su una tipologia di nodo tipicamente laparoscopico come quello di Roeder o Roeder modificato o il nodo di Fisherman. Che però ha la tendenza a sciogliersi se eseguito utilizzando fili monofilamento. Una volta eseguita la legatura viene spinta all’interno mediante un knot-pusher; generalmente viene usata una Babcock monouso. La tecnica appena descritta risulta sicuramente laboriosa ed in alternativa ad essa esistono altre metodiche, di più immediata esecuzione, per l’applicazione di suture e legature. Il Suture Assistant è un applicatore di suture monouso del diametro di 5 mm. E’ costituito da un ago curvo, un porta-aghi ed

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un nodo preconfezionato. Con il porta-aghi, introdotto con il primo trocar, si passa la sutura attraverso il tessuto per poi andare ad inserire l’ago nell’ansa preconfezionata inserita nel secondo trocar. Premendo un pulsante presente sul manico dello strumento il nodo viene tirato. Ne risulta una legatura equivalente a cinque nodi semplici sovrapposti. Anche in chirurgia laparoscopica, come nella laparotomica, esistono suturatrici meccaniche lineari e circolari. Le suturatrici lineari posizionano tre doppie file di agraffes, sfasate tra loro, separando il tessuto compreso tra le due suture con un tagliente. Possono essere utilizzate più volte nello stesso intervento. Sono dotate di caricatori per tessuti parenchimali e vascolari, diversi per spessore di chiusura delle agraffes; la lunghezza di sutura-sezione varia da 30 a 60 mm. Le suturatrici circolari si distinguono per calibro; esse posizionano una doppia fila circolare di agraffes in titanio e sezionano il tessuto in eccesso, creando un’anastomosi circolare.

2.3.11 Strumenti da aspirazione e irrigazione

Si tratta di dispositivi utilizzati per aspirare i fumi, i liquidi e i coaguli di sangue presenti nella cavità addominale, consentendo anche un’azione di lavaggio attraverso l’infusione di soluzione fisiologica. Lo strumento irrigatore/aspiratore è provvisto di un’unica cannula metallica, di lunghezza variabile dai 27 ai 34 cm e con diametro compreso da 5 a 10 mm. La cannula è raccordata ad un’impugnatura, sul cui manico sono presenti due leve o pulsanti, una per la funzione aspirante e l’altra per la funzione irrigante. L’impugnatura è provvista nella parte inferiore di due terminali a cui si raccordano i tubi di aspirazione e di irrigazione (Ruggiero, 2006).

2.3.12 Strumentario addizionale

Oltre agli strumenti laparoscopici citati, per una chirurgia laparoscopica sono necessari anche strumenti utilizzati nella chirurgia tradizionale, quali:

 Teli per coprire il campo operatorio

 Quattro/sei pinze fissateli (Backhaus o Doyen)

 Un bisturi per incisione cutanea con lama e manico di dimensioni opportune  Una forbice chirurgica per un’eventuale dieresi

 Tamponi sterili

 Un porta-aghi per le suture delle brecce laparotomiche  Una pinza chirurgica.

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31 2.4 Sala operatoria

La sala operatoria utilizzata per la chirurgia laparoscopica deve essere di dimensioni sufficientemente grandi e deve possedere un adeguato numero di prese elettriche affinchè possano essere attaccati tutti i vari componenti della colonna laparoscopica (monitor, insufflatore, elettrobisturi, videoregistratore etc.) I movimenti del chirurgo e dell’aiuto chirurgo non devono essere intralciati né ostacolati da carrelli o apparecchiature in modo da evitare il contatto del camice sterile con superfici non sterili. La soluzione ottimale sarebbe quella di porre tutte le apparecchiature necessarie su un unico carrello che viene posizionato in modo da consentire una visione ottimale del monitor da parte del chirurgo, del video-operatore e dell’equipe. Normalmente viene posto ai piedi del paziente e la macchina anestesiologica in prossimità della testa del paziente. Il monitor dovrà essere ad alta risoluzione per permettere al chirurgo di apprezzare anche i minimi dettagli del campo operatorio con una alterazione minima dei colori. Durante l’intervento il chirurgo si posiziona al lato del tavolo operatorio, avendo modo così di effettuare la maggior parte delle manualità utilizzando la mano dominante, il video-operatore può posizionarsi o sul lato opposto, insieme all’eventuale assistente, oppure sullo stesso lato del chirurgo, a seconda delle esigenze. La posizione dei carrelli servitori sarà stabilita in base alla maggiore funzionalità. Il tavolo operatorio rappresenta un elemento di estrema importanza negli interventi eseguiti in tecnica laparoscopica. Esso deve permettere un basculamento in posizione laterale ed in posizione Trendelenburg (inclinazione in senso cranio-dorsale di 15°). Ciò permette la visualizzazione corretta dell’area chirurgica, necessaria per poter eseguire interventi mini-invasivi (Pazzaglia et al., 2012). Tali movimenti sono possibili tramite ingranaggi meccanici attivabili con una leva; oggi i tavoli più moderni hanno anche un controllo elettronico a riguardo. La bombola contenente il gas per la formazione dello pneumoperitoneo sarà assicurata ad una parete. E’ importante che la sala sia dotata di una fonte di luce offuscabile in modo da poterne ridurre l’intensità e ottenere una visione ottimale attraverso il monitor. Come per qualsiasi altro intervento chirurgico devono essere scrupolosamente rispettate tutte le procedure di asepsi per la preparazione della sala operatoria, dello strumentario, del chirurgo e personale e del paziente. Alla sala operatoria devono essere connesse una sala d’induzione e una di risveglio che possono anche coincidere, a patto che il locale sia di dimensioni sufficienti da permettere il transito delle barelle nei due sensi oltre che del personale (Fossum, 2008).

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2.5 Esame clinico e valutazione preoperatoria del paziente

La valutazione preoperatoria è un momento molto importante dell’atto anestesiologico. Prima di ogni intervento il paziente deve essere sottoposto ad un esame obiettivo generale e particolare al fine di definire la condizione fisica e classificarlo secondo lo standard ASA. L’acronimo ASA deriva da American Society of Anesthesiologists. L’obiettivo è quello di stabilire in modo rapido e facile il grado di patologia presente nel paziente prima di sottoporlo ad anestesia e successiva chirurgia.

ASA I Animale in perfette condizioni cliniche; nessuna malattia sistemica

ASA II Malattia localizzata con minima o assente ripercussione sistemica

ASA III Malattia sistemica grave, compensata; con gravi ripercussioni sistemiche

ASA IV Malattia sistemica grave non compensata

ASA V Paziente moribondo la cui aspettativa di vita, con o senza chirurgia, non supera le 24 ore

+ E Chirurgia d’urgenza

Tabella 1.Classi ASA

In base alle condizioni cliniche, all’anamnesi, alla patologia e al tipo di intervento è possibile programmare la strategia anestesiologica intra e postoperatoria.

La visita preanestesiologica ricalca le normali procedure di base che governano qualsiasi procedimento clinico-diagnostico e comprende l’esame anamnestico accurato; l’esame obiettivo generale comprendente in particolar modo la palpazione addominale allo scopo di rilevare eventuali organomegalie, masse, ascite o versamenti di qualsiasi natura ed algie addominali che possono essere indice di patologie in atto; l’esame

emocromocitometrico per la valutazione dei parametri plasmatici (con particolare

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in atto. In caso di infezione è in genere riscontrabile neutrofilia assoluta mentre se il soggetto è disidratato si rileva iperproteinemia e iperglobulinemia. L’esame emocromocitometrico è indicato ogni qualvolta sussistano segni di malattia sistemica, così come il profilo biochimico e l’esame delle urine; esami biochimici soprattutto in animali non più giovanissimi per controllare la funzionalità epatica e renale. Se sono presenti disidratazione ed uremia prerenale aumenta il livello dell’azoto ureico ematico (azotemia, BUN). Occasionalmente è alterata l’attività degli enzimi epatici a livello sierico come risultato di un danno causato dalla setticemia e/o dalla diminuzione della circolazione epatica e dell’ipossia cellulare secondaria alla disidratazione. E’ possibile accertare eventuali patologie cardiache sottoponendo il soggetto ad esame ecocardiografico.

Il fine della visita anestesiologica è quello di ridurre i rischi associati a chirurgia e anestesia, e le relative complicanze postoperatorie mediante cure preventive o modifiche della tecnica chirurgica e/o anestesiologica (Bufalari,2012).

2.6 Preparazione del paziente

Poiché la procedura anestetica sopprime il riflesso di deglutizione e un eventuale vomito o rigurgito può essere seguito da aspirazione di materiale gastrico, è necessario che il paziente prima della chirurgia sia sottoposto ad un digiuno di almeno 12 ore, mentre il tempo necessario di astensione dall’acqua è di 2 ore. Per una corretta anestesia è necessaria la fluido terapia, La velocità raccomandata durante l’anestesia è di 10 mL/Kg/h. Per poter somministrare i fluidi, sarà necessario collocare un catetere venoso, che inoltre ci permetterà la somministrazione dei farmaci necessari per tranquillizzare l’animale, per effettuare l’analgesia, l’induzione anestetica, e, se si rendesse necessario, i farmaci necessari in caso di un’emergenza. Il paziente poi verrà intubato per poter somministrare i gas anestetici, per avere un monitoraggio continuo degli scambi respiratori e per poter intervenire manualmente o tramite macchinari qualora l’animale cessasse di respirare durante l’intervento. Si procede dunque alla tricotomia dell’addome partendo dall’apofisi xifoidea dello sterno per arrivare alla regione inguinale allargandosi lateralmente fino al limite inferiore della regione dorsale. Con un aspiratore si asportano i peli recisi rimasti sul soggetto.

Il paziente viene inoltre sottoposto a cateterismo vescicale per evitare che la vescica piena interferisca con le manualità operatorie.

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